noblogo.org

Reader

Leggi gli ultimi post dagli utenti di noblogo.org.

from 📖Un capitolo al giorno📚

CAPITOLO VII

MODO DI LAVORARE

1 Le suore alle quali il Signore ha dato la grazia di lavorare, dopo l’ora di terza lavorino, in un lavoro onesto e di utilità comune, con fedeltà e devozione, 2 in modo che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, «non spengano lo spirito» (1Ts 5,19) della santa orazione e di devozione, a cui tutte le altre cose temporali devono servire. 3 E l’abbadessa o la sua vicaria sia tenuta ad assegnare in capitolo davanti a tutte ciò che ognuna dovrà fare con le sue mani. 4 Altrettanto si faccia se fosse inviata da qualcuno qualche elemosina per necessità delle suore, perché in comune ne venga fatta memoria. 5 E queste cose siano distribuite dall’abbadessa o dalla vicaria per utilità comune, con il consiglio delle discrete.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Lavorare con le proprie mani, manibus suis, ha nella forma di vita clariana una dimensione vocazionale, nel contesto di quella “conversione alla povertà” anche dal punto di vista sociale che caratterizzò il movimento evangelico nei secoli XII-XIV. Il lavoro manuale, anche quello più faticoso nei campi e nei boschi, era il sostentamento dei primi monasteri femminili affiliati all’Ordine cisterciense, ed è ben noto che il rapporto povertà-lavoro caratterizzò fin dagli inizi il movimento degli Umiliati. Questo tema è centrale nello svolgimento della Forma vitae e non a caso segue direttamente il capitolo 6, poiché della scelta di povertà il lavoro manuale è conseguenza diretta e importante. Una tematica difficile, al centro di gravi controversie nella vita dell’Ordine francescano mentre questo testo viene redatto: lavorare «con le proprie mani» era una parola di Francesco, uno dei distintivi delle origini, ed era per tutti i frati, senza distinzione. «E quelli che non sanno, imparino»: le parole del Testamento sono eco di un travaglio in atto e di una volontà precisa di Francesco. Con la Quo elongati di Gregorio IX, di fatto il Testamento veniva dichiarato non vincolante per i Frati minori e ritenuto un ostacolo alla crescita dell’Ordine. Ebbene, in questo clima, quando deve dire la sua parola sul lavoro, Chiara riprende quasi del tutto il testo parallelo della Regola bollata, ma nei punti più decisivi inserisce proprio le parole del Testamento. Dalla Regola bollata riprende la definizione del lavoro come “grazia”, che apre un orizzonte più vasto rispetto alla concezione tradizionale che vedeva il lavoro solo quale mezzo di sostentamento o impegno ascetico; a questo Chiara aggiunge l’orario del tempo di lavoro, necessario in una struttura monastica come la sua: post horam tertiae, dopo l’ora di terza. La fonte con cui è d’obbligo un confronto è il capitolo 48 della Regola di Benedetto: la Forma vitae clariana tralascia le numerose specificazioni dell’ora della fine del lavoro, dei vari tempi dell’anno liturgico in cui gli orari dei monaci cambiavano, e si distingue per l’assenza completa del tempo dedicato alla lectio divina, così importante nel testo benedettino. L’impressione è che Chiara si appoggi sulla struttura monastica esistente per costruirvi la sua forma, la lineare forma della sua vita povera. Ciò su cui si ferma con molta precisione è invece la descrizione della qualità, del modo di lavorare: il lavoro è grazia, prima di tutto, capacità, forza e salute sono dono gratuito di Dio.

Coscienza della grazia, honestas, comune utilità, fedeltà e devozione: questi gli atteggiamenti che Chiara ritiene importanti nell’andare incontro al quotidiano impegno del lavoro. E tra questi, emerge la sua tenacia nell’affermare che anche in questo campo lei è d’accordo con la posizione di Francesco: già dal tempo della composizione della Regola non bollata esistevano nell’Ordine tre categorie di frati, predicatores, laboratores, oratores, che via via porterà alla distinzione più netta tra chierici e laici, e il lavoro manuale non era più per tutti, dato che i frati stavano cominciando ad affrontare le esigenze della pastorale determinate dal Concilio Lateranense IV. Nel ribadire, nel Testamento, l’esigenza del lavoro manuale per tutti Francesco si mostrava contrario alla strada presa dai suoi frati, e Chiara, che con molta facilità poteva riconoscersi – all’interno della tripartizione della società medioevale in oratores, bellatores e laboratores – nella categoria degli oratores, con questo appropriarsi dell’espressione del Testamento si mette decisamente in linea col gruppo delle origini, in quelle intuizioni radicali. Non si tratta di nostalgia, ma di una scelta ben concreta di identità: lei sta dalla parte della minorità, questo è al cuore della sua vocazione e non ci sono motivi o mutamenti storici che possano farla deviare da essa, perché così era per Francesco, per il quale tutto ciò che allontanava da questa condizione di minori, soggetti ad ogni creatura (il guadagno, i ruoli, gli incarichi), non era conforme alla vocazione ricevuta. Importante anche l’aggiunta communem, communem utilitatem: nessuna sorella operi come fosse da sola, né per se stessa, ma all’interno del corpo della comunità e per la sua edificazione. È una parola fondante, che scorrendo il testo della Regola riemerge continuamente: l’appartenenza reciproca e quindi la responsabilità di ognuna nei confronti della comunità.

A San Damiano si praticava il lavoro della filatura, il più comune per le donne dell’epoca, largamente impiegate nell’industria tessile, e anche quello della tessitura, per lo più riservato alla manodopera maschile. Una piccola produzione artigianale finalizzata in parte alla carità verso le chiese povere, in parte – lo possiamo pensare – al sostentamento della comunità, che veniva completato dalla coltivazione dell’orto e dalle elemosine spontanee dei benefattori e di chi si affidava alla preghiera delle sorelle. Una scelta, quella del lavoro manuale, che le immetteva nella realtà quotidiana di tanta gente, di tante donne povere “involontarie”, la cui vita quotidiana ben conosceva sia la fatica di un lavoro scarsamente retribuito, sia l’umiliazione della mendicità. Tutto questo senza che le sorelle entrassero in quella forma di commercio in cui si trovarono coinvolti gli Umiliati e, in campo agricolo, i Cisterciensi, o in quella specializzazione che rese famosi i tessuti confezionati dalle beghine delle Fiandre. Il fine era sostentarsi, da povere, guardandosi da ogni forma di guadagno o di accumulo di beni: una scelta controcorrente sia nei confronti della nobiltà, a cui la gran parte delle sorelle di San Damiano proveniva, sia nei confronti della borghesia in crescente ascesa, per la quale l’economia era sempre più in funzione del massimo guadagno e dell’accumulo illimitato di denaro.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


🔝C A L E N D A R I OHomepage

 
Continua...

from Il navigatore solitario

Il karma ci farà il culo Lo ammetto, è una frase espressa in un linguaggio colloquiale e diretto ma può essere analizzata con serietà come un'affermazione che riflette il senso di responsabilità individuale e collettiva nei confronti delle proprie azioni. Il concetto di karma, di origine induista e buddista, si basa sull’idea che ogni azione, pensiero o parola generi conseguenze inevitabili, positive o negative, in base alla sua natura. È un sistema morale universale che trascende religioni e culture, spesso inteso come una sorta di giustizia cosmica. Tradotta in termini più filosofici, la frase suggerisce che le azioni, soprattutto quelle egoistiche, distruttive o irresponsabili, non restano prive di conseguenze e che, in un modo o nell'altro, l'universo tende a ristabilire un equilibrio. L’uso del termine “farà il culo” esprime l’idea che queste conseguenze potrebbero essere particolarmente dure, quasi come una punizione inevitabile per errori o comportamenti scorretti. Interpretandola in un contesto collettivo, la frase potrebbe riferirsi alle problematiche globali come il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali o le crisi ambientali, ricordandoci che le azioni umane, se non guidate da consapevolezza e responsabilità, porteranno a conseguenze disastrose. In un contesto personale, invece, può servire come monito a vivere in modo più etico, attento e rispettoso, sapendo che ciò che seminiamo, prima o poi, lo raccoglieremo. Pur nella sua crudezza espressiva, la frase invita a una riflessione profonda: ogni scelta ha un peso, e il karma, metaforicamente inteso come l’effetto delle nostre azioni, può diventare un maestro severo se non impariamo a vivere con consapevolezza e rispetto verso noi stessi, gli altri e il mondo.

 
Continua...

from Il navigatore solitario

Provocatoria ma non troppo. “Se la TV spazzatura ha riempito il cervello di tanti, è perché l'ha trovato vuoto” L'idea di fondo è che una mente priva di stimoli, curiosità o strumenti per analizzare ciò che vede e ascolta sia terreno fertile per accogliere passivamente contenuti di scarsa qualità. Questa frase, tuttavia, non si limita a criticare il consumo di massa, ma solleva una questione più ampia: il “vuoto” delle menti è una condizione preesistente o il risultato di un sistema sociale ed educativo che non promuove il pensiero critico? La responsabilità, quindi, non ricade solo sullo spettatore, ma anche sui media che alimentano il mercato della superficialità e su una società che spesso non fornisce alternative culturali accessibili e stimolanti. In questa prospettiva, il vuoto non è solo una metafora di ignoranza, ma una mancanza di consapevolezza e partecipazione attiva, un invito a riempire il proprio spazio mentale con contenuti di valore e a non lasciare che l’abitudine e la pigrizia decidano per noi.

 
Continua...

from Linux Italia Gaming

Immagine da AsahiLinux.org Nata dalla stretta collaborazione dei progetti Fedora e Asahi Linux, Fedora Asahi Remix è una distribuzione Linux per Apple Silicon Mac che ha continuato a sorprendere molte persone.

Offre un'esperienza di installazione accessibile anche agli gli utenti meno tecnici, portando a un desktop Linux completamente a tutti gli effetti alimentato da Fedora, rendendolo un'ottima scelta per un'ampia varietà di casi d'uso.

Ieri, in un annuncio, gli sviluppatori hanno rilasciato una nuova release con alcune fantastiche funzionalità sia per gli utenti regolari che per i giocatori.

Fedora Asahi Remix 41: Cosa c'è di nuovo?

Basata su Fedora 41, Fedora Asahi Remix 41 è arrivata con molti miglioramenti su tutta la linea, come il kernel Linux 6.11, il gestore di pacchetti CLI DNF5 e varie modifiche per supportare le fotocamere MIPI.

Per quanto riguarda gli ambienti desktop di questa versione, la prima scelta è KDE Plasma 6.2, dove troviamo nuove aggiunte come i colori degli accenti modificati, un vassoio di sistema migliorato, un Widget Explorer rielaborato, una migliore gestione della potenza e una migliore gestione del colore.

Inoltre, c'è una nuova procedura guidata di configurazione iniziale basata su Calamares per questa variante.

Allo stesso modo, per la variante GNOME, Fedora Asahi Remix 41 viene fornito con GNOME 47, che introduce molti cambiamenti come il supporto per i colori degli accenti, un file manager Nautilus migliorato, finestre di dialogo modernizzate e molti aggiornamenti significativi per l'interfaccia utente.

Buone notizie anche sul fronte gaming, Fedora Asahi Remix ora può eseguire giochi AAA su Apple Silicon grazie all'implementazione di un nuovo driver Vulkan 1.4 conforme, consentendo così anche a titoli più esigenti di risorse di funzionare senza problemi sull'hardware Apple.

Inoltre, c'è l'emulazione x86/x86-64 che consente agli utenti di eseguire ancora più applicazioni incentrate su PC, espandendo la compatibilità in grande misura.

Come al solito, questa versione è disponibile in due varianti aggiuntive: un'immagine minimale che fornisce un sistema leggero per personalizzare la propria esperienza e un'immagine Fedora Server progettata per le operazioni senza testa e i carichi di lavoro incentrati sul server.

fonti: https://fedoramagazine.org/fedora-asahi-remix-41-is-now-available/ https://news.itsfoss.com/fedora-asahi-remix-41-release/

Vieni a trovarci su Mastodon, Matrix, Telegram, Revolt

 
Continua...

from Il navigatore solitario

Lo disse Shakespeare “L'aspettativa è la radice di ogni angoscia” L’aspettativa, come afferma Shakespeare, è la radice di ogni angoscia perché nasce dal desiderio umano di prevedere, controllare o plasmare il futuro secondo i propri bisogni e speranze. Ogni volta che ci aspettiamo qualcosa – un successo, un risultato, o un comportamento altrui – creiamo nella nostra mente un'immagine idealizzata di ciò che dovrebbe accadere. Tuttavia, la realtà, spesso imprevedibile e indipendente dai nostri desideri, difficilmente coincide con quelle aspettative, generando un senso di delusione, frustrazione o persino sofferenza. Questa riflessione ci invita a chiederci: è possibile vivere senza aspettative? Forse non del tutto, perché sognare e progettare fa parte della natura umana. Tuttavia, possiamo lavorare per coltivare un’attitudine diversa, meno legata all’attaccamento al risultato e più aperta all’accettazione di ciò che accade. Non si tratta di abbandonare i propri desideri o obiettivi, ma di riconoscere che la felicità non può dipendere unicamente dalla realizzazione di ciò che immaginiamo. L’angoscia nasce dal confronto tra il “dovrebbe essere” e ciò che realmente è: più il divario è ampio, maggiore è la nostra sofferenza. Accettare che la vita si svolge in un equilibrio tra ciò che possiamo controllare e ciò che sfugge alla nostra volontà è una forma di saggezza. Imparare a vivere con meno aspettative non significa vivere senza scopo, ma, al contrario, abbracciare ogni momento con maggiore autenticità, evitando di proiettare su di esso pesi inutili. Shakespeare ci ricorda, dunque, che spesso la nostra angoscia è una creazione della mente e che, per quanto difficile, la via della serenità passa attraverso il lasciar andare, accogliendo la realtà per quella che è.

 
Continua...

from Recensioni giochi PC, PlayStation e Xbox

Devo ammetterlo, è da un po' che non mi immergo in un vero e proprio Soulslike. Dopo ore e ore spese a esplorare mari sconfinati su Sea of Thieves, con la sua atmosfera rilassata e pirata, mi sono trovato a desiderare qualcosa di diverso. Qualcosa di più intenso. Quando ho visto i trailer di Black Myth: Wukong, mi è sembrato di tornare ai vecchi tempi, quelli in cui affrontare un boss gigantesco in un universo oscuro e mitologico era una sfida che non potevo ignorare.

Villaggio abbandonato: Un piccolo villaggio diroccato immerso in un ambiente oscuro, con case distrutte e una strana figura che si intravede tra le ombre.

Un Ombra dei Soulslike

La prima cosa che mi ha colpito di Black Myth: Wukong è quanto sembri prendere a cuore l’eredità dei giochi Soulslike. Dai movimenti del protagonista ai colpi devastanti dei boss, ogni frame trasuda una familiarità che ti fa sentire a casa. Eppure, non è una copia carbone. Wukong prende il DNA di giochi come Dark Souls o Sekiro: Shadow Die Twice e lo infonde di una mitologia orientale che, almeno per me, è come una ventata d’aria fresca.

Prendi i combattimenti, ad esempio. Non è solo una questione di difficoltà. I Soulslike sono famosi per il loro approccio metodico: osserva, impara, colpisci. In Black Myth: Wukong, sembra che ogni boss abbia una personalità propria, uno stile unico che ti costringe a ripensare continuamente alla tua strategia. È come danzare con un partner imprevedibile, dove ogni passo sbagliato ti costa caro. E, onestamente, non è proprio questo che rende un Soulslike così speciale?

Paesaggio montano nebbioso: Una vista mozzafiato di montagne avvolte nella nebbia, con un tempio antico visibile in lontananza, incorniciato da un cielo grigio.

Una Mitologia Che Parla

Se c’è una cosa che differenzia Black Myth: Wukong dagli altri giochi del genere, è il suo legame profondo con la mitologia cinese. Il protagonista, Sun Wukong, è una figura leggendaria che risale al classico della letteratura “Il Viaggio in Occidente”. Ma non è solo la storia di Wukong a rendere il gioco affascinante; è tutto il mondo che gli ruota attorno. Déi, demoni e creature bizzarre sembrano usciti direttamente da antiche pergamene e storie tramandate di generazione in generazione.

Guardando le creature nei trailer, non potevo fare a meno di pensare a quanto fossero vive. Non erano solo nemici da abbattere, ma veri e propri personaggi, ognuno con una storia da raccontare. Ed è qui che Wukong supera molti Soulslike: non ti lancia contro un mondo solo per il gusto della difficoltà. Ti invita a esplorarlo, a scoprirlo, come un vecchio racconto attorno a un falò.

Sun Wukong in una foresta mitica: Il protagonista, Sun Wukong, brandisce il suo bastone dorato in una foresta avvolta da una luce eterea, circondato da alberi antichi e radici contorte.

L’Impatto del Combattimento

Se sei come me, un appassionato di giochi che premiano la precisione, saprai quanto sia importante sentire ogni colpo. Ogni attacco deve avere peso, ogni schivata deve sembrare guadagnata. Black Myth: Wukong sembra capire questa dinamica alla perfezione. C'è qualcosa di incredibilmente soddisfacente nel vedere Wukong usare il suo bastone in modi sempre diversi, trasformandosi e adattandosi alle situazioni. E non parliamo solo delle animazioni: è il ritmo del combattimento, quella danza tra attacco e difesa che rende ogni scontro un evento memorabile.

Mi ricorda i miei primi passi su Dark Souls, quando affrontare il Gargoyle sul tetto era una questione di vita o di morte. Ogni movimento contava, e l'adrenalina scorreva come mai prima. Con Wukong, sembra di rivivere quelle sensazioni, ma con un tocco di spettacolo in più. Non mi sorprende che tanti stiano aspettando il gioco proprio per i suoi combattimenti spettacolari.

Wukong in trasformazione: Sun Wukong si trasforma in una creatura mitologica durante un combattimento intenso, con il suo bastone che si allunga verso il nemico.

Un Mondo Da Scoprire

Non è solo il combattimento, però. I Soulslike hanno sempre avuto mondi che sembrano vivi, pieni di segreti da scoprire e di storie da interpretare. Black Myth: Wukong sembra spingere ancora oltre questa idea. La varietà degli ambienti mostrati nei trailer è incredibile: foreste lussureggianti, montagne nebbiose, templi abbandonati. Ogni luogo sembra raccontare una storia, ogni dettaglio sembra mormorare segreti antichi.

Mi ha ricordato quando per la prima volta ho messo piede a Lordran in Dark Souls. C'era questa sensazione di meraviglia e terrore, come se ogni passo potesse rivelare qualcosa di straordinario o portarmi alla rovina. Con Wukong, quella stessa sensazione sembra tornare, ma con un filtro mitologico che aggiunge profondità e mistero.

Creatura demoniaca in primo piano: Un demone con corna contorte e occhi fiammeggianti emerge dall’oscurità, pronto ad attaccare, con dettagli intricati e una pelle rugosa e spettrale.

Perché Amiamo i Soulslike?

A questo punto, mi sono chiesto: perché giochi come Black Myth: Wukong attirano così tanto? Certo, c’è la sfida, ma c'è di più. Credo che sia la sensazione di superare qualcosa di impossibile. Quando finalmente abbatti quel boss che sembrava invincibile, quando scopri quel segreto nascosto che ti fa vedere il mondo sotto una nuova luce, è una vittoria che va oltre il gioco.

E poi c'è la comunità. Parlare delle proprie sconfitte, delle vittorie sudate, dei piccoli dettagli che altri potrebbero aver perso. Ricordo ancora i lunghi dibattiti su quale fosse la build migliore per affrontare Artorias o come trovare ogni pezzo della storia di Bloodborne. Con Wukong, immagino già quelle conversazioni, quei momenti di condivisione che rendono questi giochi un’esperienza collettiva, oltre che personale.

Scontro epico contro un boss: Wukong affronta una creatura gigantesca e mostruosa in una radura tempestosa, con fulmini che illuminano la scena.

Aspettando Wukong

Mentre aspetto l'uscita di Black Myth: Wukong, mi rendo conto che la mia pausa dai Soulslike potrebbe finalmente finire. C'è qualcosa di magico in questo gioco, qualcosa che mi chiama. Forse è la nostalgia, forse è la curiosità di vedere come questa formula possa evolversi con un tocco di mitologia orientale. Per ora, mi accontento di sognare, di immaginare quelle battaglie epiche e quei momenti di pura adrenalina. E quando finalmente il gioco arriverà, sarò pronto, bastone alla mano, pronto a immergermi in un’avventura che promette di essere indimenticabile.

 
Read more...

from GRIDO muto (podcast)

La Vista 👁️: perché fibromialgia 🤕 e artrite 🦴 possono comprometterla!

In questo episodio ti parlerò della vista, di come sia difficile il mio rapporto con questo senso fondamentale e di come abbia influenzato la mia vita anche in passato.

Se vuoi ascoltare anziché leggere, puoi ascoltare o seguire qui l'episodio di questo podcast (il n. 4):

[...]

Non so tu, ma una delle applicazioni che io uso più spesso sullo smartphone si chiama lente di ingrandimento. L'applicazione non fa altro che usare la fotocamera dello smartphone per ingrandire quello che si inquadra. Sembra una piccola cosa, ma a 50 anni e con le mie patologie è una cosa fondamentale. Ho due paia d'occhiali, come tutte le talpe dei fumetti e molti dei cinquantenni: uno per vedere da vicino, che mi serve per leggere o guardare gli ingredienti di un prodotto, e l'altro per tutto il resto, incluso il mio lavoro al computer. Gli ottici insistono sempre per farmi dei progressivi, ma per il momento sono riuscito a non cedere. Mi sembrerebbe un segno di sconfitta.

Ci sono però dei giorni in cui il mio malessere è così importante da coinvolgere anche la vista, e lì non ci sono occhiali, app o progressivi che tengano. Sono stati fatti mille controlli, ma le lenti che utilizzo sono già le migliori possibili per me. Quando sto davvero male, la mia vista si offusca, le prestazioni dell'occhio calano e non riesco a leggere niente che non sia scritto molto, molto grande, neppure con gli occhiali giusti. Se dimentico a casa gli occhiali per leggere da vicino, sono menomato. In effetti, certe cose non le posso proprio fare.

All'inizio non lo capivo; non capivo perché la mia vista calasse così all'improvviso e poi, il giorno dopo, magari andasse benissimo. Pensavo che il calo fosse dovuto all'età, anche se era stato improvviso. Solo che poi la vista tornava e mi dicevo: “Ma porco cane, com'è che ci vedo di nuovo così bene? E ieri che è successo?” Ieri non riuscivo a capire quale fosse l'evento che scatenava questo calo della vista. Mi ci è voluto un po' a capire che il calo della vista coincideva con quei giorni maledetti, quelli in cui il dolore non è facilmente gestibile. E ti dirò di più: in quei giorni anche le immagini in movimento e le luci forti aumentano il mio malessere, mi danno un fastidio tremendo, come d'altra parte anche i suoni e i rumori che non cerco volontariamente. Mi ci vuole il silenzio, lo cerco come un naufrago cerca la terra.

Altre volte la vista non cala, ma all'improvviso delle fitte terribili colpiscono gli occhi, partendo dalla base del collo posteriormente e risalendo tutto il cranio, oppure come una scarica che arriva dall'interno attraverso lo zigomo. Anche il calo della vista è una forma di degrado invisibile che non riguarda soltanto me. Una delle più comuni, forse, di cui in generale si tende a non tenere conto. Paradossalmente, il calo della vista è una cosa che non si vede, non se ne tiene conto sul lavoro, ad esempio, e non si immagina che una persona con questi problemi possa impiegare più tempo per svolgere una mansione, specialmente in ufficio o in un laboratorio in cui si lavora sui piccoli dettagli. Non ne teniamo conto neanche guidando, quando l'automobile che ci sta davanti fa una velocità che non è quella che vorremmo noi. “Dai, muoviti!” Non capiamo che quell'autista può fare quella velocità per un motivo ben preciso.

La mia vista non è mai stata al top, per dire così, anche prima che i miei problemi iniziassero. Ricordo che in seconda elementare mi portarono dall'oculista perché dalla prima fila dei banchi non vedevo bene la lavagna. L'oculista mi appioppò un paio di occhiali spessi dalla montatura scura che in varie versioni porto ancora oggi: miopia e astigmatismo, non ci facciamo mancare niente. Però, dopo, era stato molto più facile leggere le parole delle canzoni.

Nel 1985 il mio nonno materno morì. Anche lui aveva avuto problemi di vista, ma gravi. La cecità lo aveva costretto su quel divano antico troppo a lungo e, alla fine, dopo tanti anni, aveva preso a muoversi sempre meno, anche per colpa delle viuzze del paesello che erano fatte interamente di sassi. Gli mettevano molta paura di cadere e così il suo corpo era andato prima del normale, non muovendosi più. Era un uomo che aveva visto la guerra da vicino (la seconda Guerra Mondiale) e ne aveva sopportate tutte le difficoltà, dopo. Con la scomparsa della sua generazione, tutti noi avevamo perso tantissimo, ma io non me ne rendevo conto allora; avevo solo 8 anni.

Questo evento tragico cambiò radicalmente anche la mia vita.

La nonna si era anche lei consumata per l'età e per aver accudito il nonno per molti anni nella sua infermità, fino a rallentare anche lei e a fermarsi senza più riprendere la sua capacità di movimento. Nel frattempo lamentava dolori in tutto il corpo. Si sa come sono i vecchi, mi dicevano un po' tutti. Più tardi avrei capito molto meglio come si sentiva la nonna.

Ora comunque non la si poteva più lasciare sola, specialmente in una casa antica che si sviluppava su tre piani, con scale strette e scalini traballanti. Mio padre pensò a come poter fare, chiese quando sarebbe potuto andare in pensione e, con nostra sorpresa, scoprì che gli mancava poco. Fu così che lasciammo la casa di Livorno nel 1986 per trasferirci nel paesino sulle montagne insieme alla nonna.

A differenza dei miei fratelli più grandi, io ero molto felice in un primo momento, perché per me quel paesello rappresentava il posto in cui potevo giocare liberamente. Nei fine settimana ci trovavo i miei amici speciali: Danilo, Marco, Lorenzo e tutti gli altri. Come me, avevano i loro nonni o altri parenti in paese e tornavano regolarmente a trovarli. L'abbandono della casa di Livorno, però, mi mise addosso comunque un senso di pesantezza. A qualche livello capivo che stavo lasciando per sempre quella casa e tutta la mia vita ne avrebbe risentito. Stava succedendo davvero, e la scelta che avevano fatto i miei genitori sarebbe stata determinante per spingermi a fondo nel mondo della musica, anche se in quel momento non potevo ancora saperlo. Sapevo però che tra tutte le cose più care che non volevo perdere, c'era il mitico mangiadischi e per fortuna lo portai con me.

Come se non fossero abbastanza il cambio di casa, di scuola, di abitudini, la vita in un piccolo paese era molto diversa da quella che conoscevo in città. Pontremoli, già piccola, era a 20 km dal paese e gli amici che conoscevo non c'erano tutti i giorni. Non era come mi ricordavo: loro non erano lì ogni volta che c'ero io. Giustamente, avevano le loro vite da un'altra parte e iniziai a rendermene conto.

Le settimane sembravano interminabili, scandite com'erano soltanto da giorni di scuola, compiti e catechismo. Aspettavo i fine settimana con ansia. A ottobre venne a vivere con noi Jacqueline, un cucciolo di pastore tedesco dai modi aristocratici, che ci avrebbe tenuto compagnia per diversi anni. I compiti e l'amore per il mio cagnolino mi tenevano occupato, ma naturalmente anche la musica. Ascoltavo quello che passava il convento, cioè ancora sigle di cartoni, fiabe registrate su cassette che avevamo portato con noi da Livorno, e tanta, tantissima radio. A volte nei programmi radio si parlava di paesi lontani, di equilibri mondiali, di cose che non capivo bene, ma su cui passavo ore e ore a fantasticare. Ricorda che internet non c'era allora e nei giorni migliori si riusciva al massimo a sintonizzarsi su Italia 1 o a telefonare a qualche amico dal telefono fisso, quello grigio, enorme e pesante, con la ghiera che ruotava per comporre tutti i numeri.

Ogni tanto passava in tv o in radio qualche programma musicale e allora era festa grande, soprattutto quando davano qualcosa degli Europe e i loro assoli di chitarra caotica e acida trattenevano la mia attenzione. Chi non ha mai ascoltato “The Final Countdown” alzi la mano! E poi c'era anche Madonna, il mio idolo pop del momento, insieme a Michael Jackson. In breve tempo, i ritmi delle sue canzoni diventarono una parte della routine quotidiana. Nella mia testa, come ti dicevo, riuscivo e riesco ancora a riprodurre con la mente qualsiasi brano che mi piaccia, e quindi televisione o no, anche Madonna era sempre con me, con i suoi testi scabrosi per l'epoca, come la canzone “Like a Virgin”. Ero ancora nell'età dell'innocenza, ma capivo benissimo che non era una canzone per bambini.

Dopo tanti vocalizzi di Madonna e un disastro di Cernobyl, mi ritrovai alla fine della quinta elementare, come per magia.

Nei giorni successivi al disastro nucleare, ero a giocare nei campi prima che la radio ci avvertisse di non farlo. Ancora oggi mi chiedo se essermi preso la pioggia radioattiva abbia influenzato in qualche modo la mia storia clinica. Ne parlammo anche durante l'esame di quinta nel tema, ma senza capire bene la portata dell'evento. Per noi bambini, era stato poco più di un momento in cui non potevamo stare all'aria aperta nei prati e in cui certe cose non si potevano mangiare, nemmeno se erano quelle dell'orto della nonna.

Fu un'estate speciale e spensierata, tra le gite al fiume e i vari giochi con gli amici, ma come diceva De André nelle sue canzoni:

Come tutte le più belle cose, durasti solo un giorno, come le rose.

Alle medie, all'inizio, tutti mi sembravano più grandi di me, anche se avevamo la medesima età e io stesso cominciavo a irrobustirmi. Non raggiungevo più le tonalità di prima e da quell'evento mi resi conto che ormai ero grandicello. Notavo con un misto di eccitazione e stupore i cambiamenti del mio corpo: diventavo più alto, più robusto, più forte. Senza avvisare, spuntarono anche i primi peli della barba e mi dava fastidio pensare che per tutta la vita avrei dovuto raderla. Per fortuna, successivamente presi la decisione di non farlo mai più.

Le medie furono un momento molto difficile, allo stesso tempo molto importante per me. Ci voleva più sforzo per fare i compiti ed ero impegnato per molto più tempo rispetto a prima. Mio fratello continuava a mettere su dischi, anche nei lunghi pomeriggi d'inverno in cui la luce del sole spariva prestissimo.

Un giorno, tra le cose che faceva passare sul giradischi, notai che c'era qualcosa di estremamente diverso da tutto quello che avevo ascoltato fino a quel momento: un gruppo che suonava quasi esclusivamente le canzoni che piacevano a me. Atmosfere sospese, tristi, minacciose, sognanti e spirituali che si intonavano benissimo con quelle che vedevo fuori, dove le giornate nebbiose e piovose si somigliavano così tanto da sembrare tutte uguali. All'inizio, quella musica era stata qualcosa di disturbante, ma con il tempo mi parve sempre più normale. Era quella che si intonava meglio ai miei pensieri.

Il chitarrista del gruppo mi sembrava qualcosa di divino e ho questa sensazione ancora oggi. Riusciva a far produrre suoni completamente diversi tra di loro. Quella chitarra la faceva sussurrare, urlare; la faceva piangere. Riusciva a farle fare il suono di un animale e a piegare il suono per fare in modo che le transizioni da una nota all'altra fossero più dolci e armoniose. Anche quando la canzone aveva un tono imponente e la chitarra doveva farsi sentire molto bene, il suo nome era David Gilmour e me lo sarei ricordato per sempre. I Pink Floyd iniziarono così a entrare prepotentemente nel flusso dei miei pensieri musicali.

A differenza degli altri gruppi, però, era molto più difficile suonare le loro canzoni, nella mia testa, solo con il mio pensiero. Avevo scoperto una musica molto più complessa, ricca, piena di suoni che non erano neanche musica, ma che inseriti in quei brani li rendevano del tutto interessanti. Non avrei mai immaginato che la musica potesse essere così e in tutto questo, il mio orecchio poté risultare ancora più allenato a riconoscere i suoni, ricordarli e a cercare di riprodurli a piacimento.

Quando ripenso a quegli anni, la musica è l'unica cosa che ricordo con passione. Mi ha letteralmente salvato dalla noia mortale di un luogo in cui l'estate durava solo due mesi e il resto era tutto inverno.

I Pink Floyd li ascolto ancora oggi, a distanza di tanto tempo. Fanno parte del mio terreno musicale, li trovo ancora attuali sia nelle musiche che hanno prodotto che nei testi brillanti e poetici che sono riusciti a trasporre in musica. Quando sono particolarmente giù, sono tra i pochi gruppi che mi piace ancora ascoltare. Le loro note sono confortanti, non tanto perché mi riportano agli anni nel paesello, ma perché mi suonano ancora dentro nell'animo.

Oggi, anzi, è ancora più facile trovarsi in sintonia con le atmosfere cupe e decadenti delle loro armonie. È così che ti senti quando la tua vita e il tuo corpo sono sempre più decadenti, e in tempi rapidi. La rabbia che trasmettono alcuni dei loro brani è del tutto appropriata al momento.

Ci si sente arrabbiati, vittima di un'ingiustizia che non ha un colpevole. Ci si chiede: “Perché a me?”, che poi è la classica domanda senza un senso. Quello che sto passando io, purtroppo, non conosce bontà o cattiveria, ricchezza o povertà. È forse l'unica cosa davvero democratica a questo mondo.

Tranne un'altra, a pensarci bene.

C'è un'altra cosa ancora che mi piacerebbe fosse democratica nel mondo di oggi: la possibilità che, se sei malato, tu possa essere visto, riconosciuto. Come dicevo, le patologie che mi affliggono non si vedono dall'esterno. Ed è proprio questo uno dei grandi problemi miei e delle persone che si trovano in una condizione simile alla mia. Ci sono tante patologie che non si vedono e per le quali la vista non è d'aiuto per riconoscerle. Oltre alle mie, di cui ti parlerò meglio più avanti, ce ne sono tante: la depressione, la cefalea a grappolo, l'endometriosi, il morbo di Crohn, la celiachia. Sono tantissime. Chi ne soffre, all'esterno, appare sanissimo perché la sua malattia non provoca segni visibili. Ed ecco perché io e altri pazienti condividiamo tutti la stessa ingiustizia. Come si fa a capire come stai se chi ti vede non può vederlo e non può capirlo al volo? Sia la vista che l'udito non sono abbastanza. Anzi, sono fuorvianti.

Una persona depressa molto spesso va al lavoro come tutte le altre, può addirittura apparire allegra. Chi soffre di cefalea a grappolo può assumere dei farmaci che attenuano il dolore e può svolgere le sue normali attività con un dolore ridotto, ma pur sempre presente. E chi lo vede non capirà che sta soffrendo. Soprattutto quello che non si può capire è che la stessa sofferenza, anche se non è estrema, lo diventa quando si protrae all'infinito.

Ecco allora uno dei perché di questo podcast che prende forma più chiaramente: noi malati invisibili dobbiamo farci sentire, dobbiamo far sapere agli altri che la nostra sofferenza è reale, perché purtroppo fanno fatica a capire e non ne hanno neanche colpa, diciamocelo. Non è per nulla facile. Però quello che dobbiamo chiedere loro è uno sforzo di immaginazione e se questo podcast può aiutare persone sane a capire come stiamo noi invisibili, beh, allora non dobbiamo perdere questa occasione. Se pensi che il mio messaggio sia importante, allora ti chiedo di condividere questo podcast, di farlo conoscere il più possibile. Facciamo in modo insieme che i miei pensieri possano diffondersi e stimolare un cambiamento di prospettiva nelle persone che ancora non sanno quanto può essere profonda la nostra sofferenza e magari potranno aiutarci a vivere meglio. Te ne sarò davvero molto grato, ed è importante questa presa di coscienza, terribilmente importante per una sana convivenza in questa strana società che ci chiede e, anzi, ci impone che tutti siamo sempre perfetti e performanti, anche se non possiamo più. E già che ci siamo, magari anche sorridenti.

Nel prossimo episodio ti racconterò le prime fasi dell'insorgenza di una delle mie patologie e di come ho iniziato a suonare uno strumento, lo scopo della mia vita. Nel frattempo, stammi bene, ci sentiamo martedì.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

#artrite #artritepsoriasica #fibromialgia #podcast #podcastitaliano #podcastitaliani #musica #pinkfloyd #davidgilmour #madonna #MichaelJackson #anni80 #pontremoli #malatiinvisibili #malattiecroniche #dolorecronico #gridomuto

 
Continua...

from cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

Attività in quarta, due ore per rifare gli Stati Generali. Un gioco di ruolo, la classe divisa in tre parti, clero, nobiltà, terzo stato, più il re e i suoi funzionari. Attività che avevo già fatto in passato con due altre classi.

Due ore di divertimento, in alcuni momenti avevo le lacrime agli occhi. Il re che aveva ricevuto via mail nei giorni precedenti i cahier de doleances di tutti i suoi compagni, si è preparato un discorso scritto di sette pagine.

Fa uscire i nobili dalla sala e poi fa un discorso a clero e terzo stato e propone loro un sistema per fare giustizia in Francia, senza però perdere il potere. Piccole riforme sociali, sgravi fiscali da una parte, ma poi altre incombenze dall'altra. Offre soldi a tutti (si è portato da casa delle monete di cioccolata) poi li fa uscire e fa entrare i nobili.

Ai nobili spiega che al terzo stato e al clero ha proposto un piano farlocco che dà pochissimi benefici e non toglie nessun privilegio reale alla nobilità. Solo, nella discussione che seguirà, dovranno stare zitti e supportarlo. Ai nobili dà il doppio di monete al cioccolato che aveva dato agli altri.

Poi fa rientrare tutti e inizia il dibattito, dove tutti interpretano il loro personaggio: un commerciante che tratta male il re viene sbattuto fuori dalla classe, i ragazzi si sfottono a seconda della classe sociale a cui appartengono. Fanno domande, contestano. Alla fine si vota: il terzo stato e il clero vengono fregati dal re che vede approvato il suo piano fiscale. Niente rivoluzione. Il tutto in clima di attenzione, libertà e interazione impensabile in una lezione tradizionale.

Fine gioco, il re rivela di aver fregato terzo stato e clero. Poi tutti autovalutano l'attività, loro stessi e i loro compagni con un modulo che andiamo a vedere subito e commentare.

Io, in tutto questo, non ho fatto letteralmente niente se non ascoltare e segnarmi i nomi di chi ha fatto gli interventi migliori.

La differenza – quando possono – la fanno gli studenti.

 
Continua...

from CASERTA24ore

La paella è un po’ napoletana. La ricetta dei convittori dell’alberghiero “Celletti” al convitto di Formia

La paella è valenciana. Lo è soprattutto dal 1957 quando in seguito a un’alluvione il fiume Turia fu deviato fuori dalle mura dalla città, alimentando le risaie nelle campagne circostanti. L’origine però è dell’antica Roma quando l’esercito romano veniva fornito del rancio nelle patelle (in spagnolo paellera) un contenitore di ferro largo e basso sul quale il cibo poteva essere riscaldato a lungo. Furono poi gli aragonesi fino al 1700 a diffondere nel Regno di Napoli la paella. Esistono varie forma di paella, quella marinara arricchita con frutti di mare e crostacei, quella di terra dove al posto del pesce si adoperano le lumache e quella tradizionale fatta con gli avanzi di carne di pollo. La paella è un piatto povero, non lo dobbiamo dimenticare. Un viaggio in Spagna da parte di una classe di studenti del Convitto Celletti di Formia è stata l'occasione per proporre ai propri professori dell'alberghiero la ricetta originale della paella. In realtà l'iniziativa è stata del convittore Loris Chavez di origini argentine, che non frequenta l'alberghiero, ma l'istituto Nautico di Gaeta. Loris ha interpretato la ricetta insieme ai compagni di stanza. Ricordiamo che gli studenti delle scuole superiori del territorio di Formia e di Gaeta possono usufruire dei servizi convittuali pubblici del Ministero della Pubblica Istruzione previo pagamento di una retta. In pratica alloggiano durante la settimana scolastica nel convitto e il fine settimana tornano alle famiglia.
Ma torniamo a Loris che ha tradotto la ricetta, l'ha consegnata ai propri compagni (in prevalenza provenienti dalle province napoletane) che consultate le proprie nonne hanno riproposto la paella in versione napoletana. L'intenzione – fa sapere Loris – è quella di proporla ai professori di cucina per prepararla un giorno nel menù della mensa del convitto.
Ingredienti Fagiolini verdi in pezzettini piccoli, striscioline di peperoni, frullato di pomodori in acqua (il doppio del contenuto della padella), pezzetti di pollo e/o coniglio. Al posto della carne si possono usare molluschi marini o lumache.
Preparazione Mettere 10 cucchiai di olio in padella per soffriggere a fuoco medio al centro della padella peperoni, uno spicchio d’aglio, pomodori e altro vegetale come ceci o fagioli. Spostare i vegetali sui bordi della padella. Soffriggere al centro della padella pezzetti di pollo, coniglio (va bene anche solo il pollo), fino a quando non divengono rosolati, prima di spostarlo ai bordi della padella. Aggiungere il riso a forma di croce, nella padella. Nelle quattro parti della croce aggiungere il brodo di pomodori e aspettare a fuoco medio che arrivi a ebollizione. A questo punto mischiare tutto e cuocere: all’inizio a fuoco medio-alto, poi abbassare a fuoco lento e durante gli ultimi 15 – 20 minuti alzare a fuoco medio fino a quando non si asciuga il tutto. Quando il brodo si è quasi completamente assorbito aggiungete altri vegetali a piacere a forma decorativa. Lasciar riposare un paio di minuti prima di servire. In sintesi
400g di riso – frutti di mare a piacere: 4 gamberi e 100 gr di cozze, 100g di vongole, 100g di calamari tritati e 150g di tonno tritato – 3 pomodori maturi grattugiati – 1 peperoncino rosso piccolo tagliato a fette – 1 spicchio d’aglio – 10 cucchiai di olio di oliva, sale. Scalda l’olio di oliva e soffriggi le fette di peperoncino e lo spicchio d’aglio metti da parte -soffriggi i gamberi e metti da parte – soffriggi i calamari e il tonno e metti da parte. Soffriggi il pomodoro e metti da parte – aggiungere 6 bicchieri d’acqua -aggiungi tutto il marisco, il pomodoro soffritto, il pepe e lo spicchio d’aglio spalmandolo bene -mettere a bollire a fuoco medio per 15 -20 minuti fino alla completa evaporazione del brodo – lascia riposare 1 minuto prima di servire. (Nella foto un contenitore per preparare la paella moderna).

 
Continua...

from ᗩᐯᗩIᒪᗩᗷᒪᗴ

immagine

Kimono My House è il terzo album della rock band Sparks. Il disco è stato pubblicato nel maggio 1974 ed è considerato la loro svolta commerciale. È stato accolto con grande successo. Preceduto dal singolo “This Town Ain't Big Enough for Both of Us”, Kimono My House ha raggiunto il numero 4 nel Regno Unito e il numero 101 negli Stati Uniti. Retrospettivamente, Kimono My House è considerato uno dei migliori lavori degli Sparks e uno dei migliori album glam rock.


Ascolta: https://album.link/i/1443750483


 
Continua...

from 📖Un capitolo al giorno📚

CAPITOLO VI

LE PROMESSE DEL BEATO FRANCESCO E IL RIFIUTO DEI POSSEDIMENTI

1 Dopo che l’altissimo Padre celeste si degnò per sua grazia di illuminare il mio cuore, perché facessi penitenza dietro l’esempio e l’ammaestramento del beatissimo padre nostro san Francesco, poco dopo la mia conversione, io promisi a lui obbedienza volontariamente insieme alle mie sorelle. 2 Il beato padre, constatando che non temevamo alcuna povertà, lavoro, tribolazione, viltà e disprezzo del mondo, e anzi che tutto ciò ritenevamo come grande delizia, mosso a pietà scrisse per noi questa forma di vita: 3 «Poiché per ispirazione divina vi siete rese figlie ed ancelle dell’altissimo sommo Re, Padre celeste, e vi siete sposate allo Spirito Santo, eleggendo di vivere secondo la perfezione del Vangelo*, 4 voglio e prometto personalmente e con i miei frati di avere per voi cura diligente e speciale sollecitudine come per loro»; 5 cosa che mantenne diligentemente finché visse e volle che fosse mantenuto dai suoi frati. 6 Perché mai ci allontanassimo dalla santissima povertà che avevamo iniziato, né noi né le successive suore, poco prima della sua morte ci scrisse la sua ultima volontà, dicendo: 7 «Io piccolo frate Francesco voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima Madre, ed in essa perseverare sino alla fine. 8 E supplico voi, mie signore, e ve ne dò consiglio, di vivere sempre in questa santissima vita e povertà. 9 E guardatevi bene di non allontanarvene in alcun modo, per la dottrina o il consiglio di chicchessia**». 10 Come io fui sempre sollecita di custodire con le mie suore la santa povertà che promettemmo al Signore Iddio e al beato Francesco: 11 così le abbadesse che mi succederanno nel governo e tutte le suore siano tenute ad osservarla inviolabilmente sino alla fine: 12 non ricevendo né ritenendo possessioni o proprietà né personalmente né per mezzo di altri, 13 e nemmeno quanto ragionevolmente può esser detto proprietà, 14 se non quel poco di terra sufficiente per l’onestà e l’isolamento del monastero; 15 né quella terra venga lavorata, se non come orto per loro necessità. _________________ Note al CAP. VI In questo capitolo si avverte una preoccupazione di san Francesco: considerare il Secondo Ordine come parte essenziale di un unico impegno di vita evangelica; l’impegno di Chiara sarà quello di rispondere a tale vocazione.

*Questo versetto contiene il programma di vita dato da Francesco a Chiara e alla sorelle (Da notare che il Santo di Assisi quando parla – qui e altrove – lo fa al plurale, perché si rivolge all’intero gruppo delle Damianite; Chiara, poi, non è mai nominata col termine “sorella”, ma con espressioni di tono biblico, quali “cristiana”, “domina” o “poverella”): si tratta di un programma, detto “forma vivendi”, che Chiara considera la base e il nucleo spirituale della sua famiglia religiosa; tutto il suo cammino, dall’inizio alla morte, è segnato dal desiderio di realizzare la “forma vivendi”. I termini “figlie ed ancelle”, “fatte spose”, “Padre celeste”, “Spirito Santo”, “Santo Vangelo = Gesù Cristo”, sono gli stessi usati da Francesco per invocare Maria vergine, sedici volte al giorno, come riportato nell’antifona dell’Ufficio della Passione. Anche Chiara si specchierà sul volto della Vergine. L’unica differenza da lei apportata sta in questo: la proposta di Francesco è trinitaria, la realizzazione vissuta da Chiara è cristocentrica.

**La richiesta di Francesco di non dare ascolto a chi consiglia di abbandonare la povertà, viene ripetuta, dodici anni dopo, da Chiara nei confronti di Agnese di Praga (2ECla 15-17: FC 17). Viene ripresa, in qualche modo, anche da papa Gregorio IX, sebbene in senso contrario (6Gre: Angelis Gaudium: BF, I, p. 243, col. II, B).

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

Accanto alla dimensione della fraternità, la forma di altissima povertà, personale e comunitaria, è la principale conseguenza della scelta evangelica che caratterizza la comunità di Chiara all’interno del panorama monastico femminile medievale. Nel capitolo 6, dalla memoria della primitiva forma vivendi di Francesco, Chiara passa a quella di un testo carismatico di non minore importanza. Nella cosiddetta ultima volontà Francesco, riconfermando fino alla morte la sua scelta di seguire Gesù povero, consegna alle sorelle di San Damiano la sua più profonda ed essenziale esperienza di vita. L’ultima volontà per se stesso è anche l’ultima volontà per Chiara e le sorelle. Vedendo quale evoluzione stava avendo la sua fraternitas, Francesco sembra affidare alle sorelle l’eredità della sua intuizione. A più di vent’anni dalla ultima voluntas e dalla morte di Francesco, Chiara si sente investita della sua “eredità difficile”. Chiara su questo punto è inflessibile: le abbadesse e le sorelle future sono tenute a osservare la povertà inviolabiliter, avverbio usato solo per un altro legame imprescindibile per le Sorelle povere, quello dell’obbedienza ai successori di Francesco (RsC 1,4).

I versetti 12-15, introdotti da videlicet, sono esplicativi di 10-11: in modo assai dettagliato precisano in che cosa consiste concretamente «la santa povertà promessa a Dio e al beato Francesco», segnano i confini entro i quali un monastero potrà dirsi di Sorelle povere oppure no. Per Chiara la povertà materiale è la “forma” esterna del suo vivere il vangelo, il banco di prova umile e quotidiano della fede nel Padre celeste.

Rispetto alle Regole di Francesco varia il contenuto della povertà: non è il divieto di ricevere denaro, che la Forma vitae legittima per il sostentamento, ma il divieto di avere proprietà terriere. I passi paralleli del Testamento (53-55) sono a questo riguardo molto espliciti. Non siamo nel contesto di una fraternità apostolica e itinerante, ma in quello di una comunità penitenziale-monastica che per molti anni si è trovata inserita, suo malgrado, nell’alveo tradizionale con la professione della Regola benedettina. È la mancanza di proprietà terriere che qualifica l’identità clariana all’interno dell’istituzione monastica. Tuttavia il divieto non è assoluto: Chiara ammette che si possieda quel tanto di terra necessario per l’honestas e la remotio del monastero. Bellissimo l’equilibrio di questa donna, davvero cristiana, che non si fa un idolo neppure della povertà, che è per la sequela di Cristo, non fine a se stessa. Un monastero di stretta reclusione, come quello di San Damiano, ha bisogno di uno spazio vitale che garantisca il silenzio, l’equilibrio interno delle persone e della fraternità. E qui le due correnti, francescana e monastica, le due anime della Forma vitae si incontrano e si scontrano in ciò che hanno di apparentemente inconciliabile. Il sine proprio, il nihil habere sub caelo con il quantum terrae necessitas requirit, l’itineranza di Francesco con la stabilitas di Benedetto, l’insicurezza per la sequela con la sicurezza per la contemplazione... Chiara accorda queste antinomie con la sapienza del cuore che la caratterizza, ma siamo sul filo del rasoio: la precisione nel definire i termini della questione mostra che lei stessa si avvedeva di quanto fosse fragile quest’equilibrio, di quanto fosse insidiosa la tentazione di omologarsi agli altri monasteri. E San Damiano, negli anni 1250-53, si trovava sempre più solo a vivere questa follia della fede nella parola del vangelo.

Notiamo a questo proposito una differenza tra Forma vitae e Testamento: la Regola permette solo un terreno intorno al monastero con la duplice funzione di isolamento e di orto; il Testamento prevede la possibilità che oltre all’orto le sorelle abbiano un pezzo di terra per l’isolamento del monastero fuori dei confini dell’orto, terra che deve rimanere incolta. Il discernimento sulla reale necessitas è lasciato all’abbadessa e alle sorelle, responsabili in prima persona del carisma: extrema necessitas ribadisce per due volte il Testamento. Tra le righe Chiara mette in guardia le sorelle dall’avidità di possedere terre che facilmente, anche per fini legittimi, si poteva insinuare nel loro cuore. Oltre alle vicende dell’ordo sancti Damiani, aveva forse davanti agli occhi uno dei più eloquenti esempi della storia monastica, quello dei Cisterciensi, che poco dopo la morte di Bernardo di Chiaravalle (1153) si era progressivamente allontanato dai principi di stretta povertà su cui era fondato: a forza di acquistare terre intorno ai monasteri, per quel morbus aquirendi rilevato dai Capitoli generali, e di produrre in sovrappiù grazie alla manodopera gratuita dei conversi, i Cisterciensi si erano buttati nell’economia di profitto, divenendo una vera potenza rurale, ben maggiore di quella che contestavano alle abbazie benedettine tradizionali da cui, almeno nelle intenzioni originarie, avevano voluto discostarsi per un’osservanza più stretta della Regola.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


🔝C A L E N D A R I OHomepage

 
Continua...

from Cooperazione Internazionale di Polizia

DIFENDERE LE SPECIE IN VIA DI ESTINZIONE. LA CONVENZIONE CITES ED I CARABINIERI FORESTALI

La copertina del calendario CITES

La recente presentazione del Calendario CITES dei carabinieri Forestali che si occupano di tale materia, fornisce l'occasione per tornare a parlare di questo particolare servizio, non conosciuto da molti, che ha importanti ricadute in ambito di cooperazione internazionale tra forze di polizia. Nel 1973, nell'ambito delle attività dell'ONU per l'ambiente, 80 paesi firmarono a Washington la Convenzione CITES (Convention on International Trade of Endangered Species) per la tutela della biodiversità, attraverso il controllo del commercio di specie di flora e fauna, rischio di estinzione o particolarmente vulnerabili.

Leggi tutto qui https://poliverso.org/display/0477a01e-1167-612b-fd2f-c9c340919479

 
Continua...

from ᗩᐯᗩIᒪᗩᗷᒪᗴ

immagine

The Sounds of India è un album di Ravi Shankar che introduce e spiega la musica classica hindustani al pubblico occidentale. Pubblicato dalla Columbia Records nel 1957, è stato influenzato da The Sounds of India di Ali Akbar Khan, e registrato e prodotto da George Avakian nel 1957 presso lo studio di New York della Columbia. È considerato oggi di interesse storico per aver mostrato sia le capacità musicali di Shankar sia il suo interesse nell'insegnare all'Occidente la musica classica indiana. È stato rimasterizzato digitalmente e pubblicato in formato CD dalla Columbia Records nel 1989.


Ascolta: https://album.link/i/185644706


 
Continua...

from 📖Un capitolo al giorno📚

CAPITOLO V

IL SILENZIO, IL PARLATORIO, LE GRATE

1 Dall’ora di compieta fino a terza, le suore osservino il silenzio, eccetto le inservienti fuori del monastero. 2 Sempre in silenzio restino in chiesa, nel dormitorio, nel refettorio quando mangiano; 3 ma non nell’infermeria, dove sia lecito parlare con discrezione, per la ricreazione ed il servizio delle suore inferme. 4 Possano tuttavia sempre e dovunque scambiarsi sottovoce e brevemente quanto è necessario. 5 Al parlatorio e alla grata non sia lecito alle suore parlare se non con il permesso dell’abbadessa o della vicaria. 6 Inviate al parlatorio, non osino parlare se non in presenza di due suore che ascoltino. 7 Né presumano di accedere alla grata, se non alla presenza di almeno tre delle otto discrete assegnate dall’abbadessa o dalla vicaria, elette da tutte le suore per consigliare l’abbadessa. 8 Questa disposizione valga anche per l’abbadessa e per la vicaria. 9 La grata si usi raramente. Alla porta poi non si vada mai. 10 Alla grata si aggiunga dall’interno una tenda, che non sia tolta se non durante qualche conferenza spirituale o quando qualcuna parla ad altri. 11 Ci sia anche la porta con due diverse serrature di ferro, ben munita di due battenti e spranghe: 12 perché soprattutto di notte sia serrata con due chiavi, di cui una sia tenuta dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana; 13 e resti sempre chiusa, eccetto quando si ascolta l’ufficio divino e per le ragioni dette sopra. 14 Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole. 15 Al parlatorio resti sempre una tenda interna, che non deve essere rimossa. 16 Nella quaresima di san Martino e nella quaresima maggiore, nessuna acceda al parlatorio, 17 se non per il sacerdote a causa di confessione o per altra manifesta necessità, che viene riservata alla disposizione dell’abbadessa o della sua vicaria.

=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

La Forma vitae clariana_ coniuga assenza totale di possedimenti e stretta clausura, resa possibile dall’assistenza dei frati che risiedono accanto al monastero. La sua scelta religiosa evangelico-penitenziale da questo punto di vista va inquadrata nel più ampio fenomeno del “ritorno al deserto” che si diffuse in Europa dal secolo XI e che portò sia a nuove forme di vita regolare – come Camaldoli, Citeaux, la Chartreuse – sia a svariate espressioni di eremitismo e di reclusione maschile e soprattutto femminile nei pressi delle città. È una sete di solitudine, di silenzio, di penitenza, di libertà profonda per cercare Dio che anima queste forme di vita, tra cui quella delle sorelle di San Damiano, sebbene le sue origini strettamente legate alla fraternitas di Francesco le abbiano conferito un’impronta del tutto singolare rispetto agli altri insediamenti centro-italici delle pauperes moniales inclusae.

Nel capitolo 5 la triplice modalità di rapporti con l’esterno – apertura per parlare, grata della chiesa, porta – è affrontata da Chiara sempre in forma negativa. È sua la precauzione che le sorelle presenti ai colloqui alla grata siano tre discrete, come pure la limitazione di tempo_ «Nessuna può per nessuna ragione parlare alla grata prima della levata o dopo il tramonto del sole» (5,14) e la normativa sulle due chiavi, che di notte vanno custodite una dall’abbadessa e l’altra dalla sacrestana, come avviene per le chiavi della porta d’ingresso. Così come del tutto suo sarà il divieto che alcun estraneo entri in monastero prima della levata del sole o vi rimanga dopo il tramonto (11,8). Perché queste norme di tono restrittivo? Si può parlare anche in questo caso di inserzioni negative venute a rispondere a delle problematiche che nel corso degli anni si sono presentate a San Damiano? È difficile dirlo. Anche altrove nella Forma vitae vediamo Chiara assai diffidente verso tutto ciò che può mettere in pericolo l’honestas delle sorelle, la loro bona fama, l’integrità della loro consacrazione a Cristo.

Ci sono al contrario delle differenze di segno opposto, che mostrano come per Chiara le norme sulla clausura non sono mai esasperate, ma sono situate all’interno di una gerarchia di valori. Due di queste differenze riguardano la grata della chiesa, che doveva avere un rilievo particolare nella struttura del monastero, se le sono dedicati ben sette versetti. Mentre al _locutorium-– il panno che ricopre la lamina perforata non viene mai rimosso, alla grata la Forma vitae, diversamente dalle regole papali, ammette due eccezioni: per la predicazione della parola di Dio e quando una sorella parla a qualcuno (5,10), due motivazioni in se stesse così diverse, ma accomunate dalla “parola”. Nessun accenno esplicito, per il secondo caso, all’uso di coprirsi il volto, aggiunto da Innocenzo alle norme sulla grata della forma vivendi date dal cardinale Ugolino. Questa possibilità di contatto più diretto rispetto al parlatorio dove non c’era la minima visibilità può spiegare la serie di precauzioni notate sopra nei confronti dei colloqui alla grata – rarissimi del resto, come dice Chiara stessa più avanti – e forse nella maggioranza dei casi riguardanti gli incontri con i parenti. Un’altra differenza con le regole papali è l’omissione del motivo per cui l’abbadessa è tenuta ad osservare il modo di parlare pubblicamente richiesto a tutte le altre sorelle (notiamo qui il colpo di penna di Chiara, più che significativo di un modo di comprendere la realtà: legem loquendi è diventato formam loquendi). In Chiara la questione si pone su un altro piano: ciò che conta non è tanto l’evitare motivi di detrazione, ma la condivisione della vita comune, senza eccezioni neppure per l’abbadessa.

Il capitolo 5 si chiude con una di quelle delicatezze che fanno di Chiara la mater provida et discreta che lei stessa così bene descrive nel Testamento (TestsC 63). Al divieto di accedere al parlatorio durante le due quaresime, non previsto dalle regole papali, la madre può fare delle eccezioni. Il discernimento della necessità è affidato alla providentia dell’abbadessa o della sua vicaria. E qui la nuova trascrizione della Solet annuere ci ha restituito una sfumatura clariana tra le più belle: providentia al posto di prudentia come in 9,17. Provideo: videre pro. È un prendere coscienza delle situazioni, delle necessità in favore degli altri, discernendo dentro ad ogni situazione concreta, valutando ciò che è meglio per ogni persona.

Tratto da: Federazione S. Chiara di Assisi ● La Regola di Chiara di Assisi: il Vangelo come forma di vita


🔝C A L E N D A R I OHomepage

 
Continua...

from Cerco strade diverse

Mi chiedo come sia possibile che la nostra società, nonostante tutti i progressi della scienza e della tecnologia non sia riuscita ancora ad elevarsi un poco sopra il fango primordiale da cui è nata. Siamo ancora qui a farci la guerra, nazione contro nazione, città contro città quartiere contro quartiere persino casa contro casa. Gente che viene uccisa perché crede in un dio diverso, perché vive in un paese diverso, per invidia, gelosia, stupidità. Continuiamo a dare poteri illimitati a dei pazzi paranoici per le cui idee insensate tanti giovani vanno a combattere. Ma possibile che nessuno apra gli occhi e si renda conto della pochezza di tanti dittatori? O forse siamo pecore che in cambio della promessa di una protezione dai lupi veniamo poi sbranate proprio dal pastore. Ma un poco siamo migliorati, adesso mandiamo a combattere le macchine, però non per motivi umanitari, i vari tiranni si sono accorti che addestrare un soldato, un pilota magari, costa molto di più che costruire un drone in termini di tempo ma sopratutto di spesa. Tanto i civili che ci vanno di mezzo sono solo «danni collaterali» non importa quasi a nessuno, poi hai visto mai che qualcuno si sveglii e cominci a porsi qualche domanda del tipo perché sto combattendo? Ma a me che mi frega degli ordini del capo? Meglio far finta che ci tengano i tiranni alla pelle della carne da cannone. Siamo passati dalle clave ai droni ma se questa è la civiltà secondo me ci siamo imbarbariti. Sulla stupidità delle guerre di religione preferisco stendere un velo pietoso. Ma come si fa a voler imporre una religione a qualcuno se essa stessa è una questione di fede? Fede, credere senza prove; puoi anche costringere una persona a dire che hai ragione ma dentro di se penserà sempre che sei un cretino a credere a certe cose. Ci si uccide per la fede, è una cosa talmente assurda che solo gli uomini possono farlo. E così siamo ancora qui dopo migliaia di anni ad ucciderci a vicenda per futili motivi, da che con un po' di impegno riusciamo anche ad estinguerci, ho letto che dopo di noi il mondo potrebbe venir dominato dalle piovre, spero saranno un po' più sagge.

 
Continua...