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Politics

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Nota: Lo so, non è da me farla così lunga, ma in un mondo che impazzisce forse un pochino di squilibrio ce lo metto anche io. La verità è che la #Pace è davvero impossibile. Almeno così sembra. Il che rende, fondamentalmente, questo uno sfogo. Ci vuole pazienza.

La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 ha visto l'ennesima escalation del conflitto mediorientale, quando #Israele ha lanciato un massiccio attacco aereo contro l' #Iran, mirato principalmente alle strutture nucleari e militari di Teheran. Le forze israeliane hanno colpito siti sensibili, distruggendo laboratori e centri di ricerca, nonché eliminando alcuni tra i principali comandanti delle Guardie della Rivoluzione, l'élite militare iraniana. Un colpo che ha scatenato una serie di reazioni internazionali. L'Iran, come prevedibile, ha replicato con una serie di droni che hanno tentato di colpire obiettivi strategici in Israele, gettando il paese in una nuova spirale di violenza.

Le parole di #DonaldTrump, che ha immediatamente espresso un sostegno incondizionato all'azione israeliana, hanno ulteriormente polarizzato il dibattito internazionale. Trump ha minacciato l'Iran con nuove offensive se non avesse accettato un accordo sul nucleare, aggiungendo così un ulteriore strato di complessità alla già tesa situazione geopolitica. L’appoggio degli Stati Uniti alla politica aggressiva di Israele sembra segnare il punto di non ritorno di un conflitto che ha radici profonde, alimentato da ideologie contrapposte e da interessi strategici divergenti.

Politicamente, l'attacco israeliano ha reso evidente l'intensificarsi della guerra a bassa intensità tra le potenze regionali. Israele, con la sua operazione “Leone Ascendente”, ha voluto chiarire una volta per tutte che non tollererà il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Questo attacco ha avuto l'effetto di indebolire momentaneamente l'Iran, uccidendo alcuni dei suoi strateghi più esperti e decimando parte delle sue capacità operative. Tuttavia, la risposta dell'Iran non si è fatta attendere: il lancio di droni ha avuto il chiaro intento di far capire a Israele che ogni azione avrà una controparte, anche se le capacità belliche di Teheran, pur impressionanti, non possono in alcun modo paragonarsi alla potenza di fuoco israeliana.

Le implicazioni politiche per il Medio Oriente sono incalcolabili. L'Iran ha immediatamente mobilitato le sue milizie alleate in Siria, Libano e Iraq, preparando il terreno per una possibile guerra per procura che potrebbe estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti. In questo scenario, la comunità internazionale rischia di assistere a una polarizzazione crescente, con i paesi arabi che, pur condannando l’aggressione israeliana, non sembrano disposti a schierarsi apertamente a favore di Teheran, temendo le ripercussioni di un allineamento troppo esplicito.

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Moralmente, invece, l'attacco israeliano solleva interrogativi inquietanti sulla legittimità di un'azione preventiva, soprattutto quando si considera che l'Iran ha sempre sostenuto di non avere intenzioni belliche dirette contro Israele. Sebbene Israele possa giustificare il suo intervento come una misura di difesa preventiva, non si può ignorare la violazione della sovranità iraniana e il fatto che l’attacco possa generare un'ulteriore spirale di violenza e vendetta. La morte di alti ufficiali iraniani e scienziati nucleari potrebbe, inoltre, rafforzare la narrativa del martirio e alimentare il risentimento tra la popolazione iraniana, creando un ulteriore fossato tra l'Iran e l'Occidente.

Da un punto di vista etico, sorge anche la questione dell’equilibrio delle forze: mentre gli Stati Uniti e Israele vedono la sicurezza come una priorità assoluta, l'Iran non può fare a meno di difendere ciò che considera un diritto sovrano, ossia la propria capacità di autodefinirsi come potenza regionale. La domanda che sorge spontanea è quindi se la logica della deterrenza, che ha caratterizzato la guerra fredda, possa essere applicata efficacemente in un contesto così volatile e intrinsecamente pericoloso.

L'operazione ha accentuato le divisioni interne in Iran, dove il regime potrebbe trovarsi a fronteggiare un'ondata di proteste interne. La crisi economica che affligge Teheran, le sanzioni internazionali e il crescente malcontento popolare potrebbero minare ulteriormente la stabilità del governo. Tuttavia, un sentimento di orgoglio nazionale potrebbe temporaneamente consolidare il consenso interno contro l'invasore straniero, come spesso accade in contesti bellici.

In Europa, la situazione appare delicata. L'Unione Europea, da sempre promotrice di un approccio diplomatico e pacifico, si trova ora a dover navigare tra due fuochi: la necessità di mantenere relazioni economiche con l'Iran, e l'alleanza con Israele, che rappresenta uno dei suoi principali partner strategici. La Francia e la Germania hanno condannato l'escalation, chiedendo una de-escalation immediata, ma non sono riuscite a offrire una soluzione concreta. L'Italia, pur allineata in linea di principio con le posizioni europee, ha adottato un tono più cauto, sottolineando la necessità di una mediazione internazionale urgente per evitare che il conflitto degeneri in una guerra totale.

Il nostro stato si è trovato a giocare un ruolo delicato nel bilanciare il proprio supporto a Israele con l’esigenza di non alienarsi la cooperazione iraniana. Sebbene il governo italiano abbia espresso una condanna per l'aggressione israeliana, si è anche preoccupato delle implicazioni a lungo termine di una rottura totale tra l'Iran e l'Occidente. L'Italia, infatti, è da sempre favorevole a un approccio diplomatico per risolvere la crisi nucleare iraniana, e un’escalation militare potrebbe compromettere gli sforzi compiuti negli anni passati per stabilire un dialogo.

L’Unione Europea, nel suo insieme, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali invocando una “de-escalation immediata”, ma la divisione tra i membri più favorevoli a un duro confronto (come la Polonia) e quelli più favorevoli a un negoziato (come l’Italia e la Spagna) è ormai palese. Il rischio è che l'Europa, incapace di adottare una linea unitaria, finisca per essere marginalizzata in un conflitto che potrebbe ridisegnare gli equilibri di potere nell'intera regione mediorientale.

L'attacco israeliano all'Iran ha profondamente scosso gli assetti geopolitici internazionali, mettendo in luce non solo le fragilità politiche e sociali dei protagonisti del conflitto, ma anche la difficoltà di una comunità internazionale a trovare un punto di mediazione efficace. Le conseguenze politiche, morali e sociali di questa nuova escalation sono ancora in divenire, ma una cosa è certa: l'Europa e l'Italia dovranno affrontare con urgenza la necessità di rinnovare i propri approcci diplomatici, se vogliono evitare che il conflitto si trasformi in una guerra su scala globale. La strada verso una stabilizzazione del Medio Oriente sembra sempre più incerta e tortuosa, e l'unica speranza risiede nel ritorno al dialogo e alla cooperazione internazionale.

#Blog #Iran #Israele #Medioriente #War #Guerra #Opinioni #Politica #Politics

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(Kissinger & Allende)

Henry Kissinger, figura centrale nella politica estera degli Stati Uniti durante gli anni '70, è spesso associato al sostegno al golpe militare in Cile del 1973, che portò alla rovesciamento del governo democraticamente eletto di Salvador Allende. Questo evento complesso richiede una comprensione approfondita del contesto geopolitico dell'epoca e delle dinamiche interne del Cile.

All'inizio degli anni '70, il Cile era immerso in una serie di tensioni politiche ed economiche. Il presidente Salvador Allende, un socialista marxista, era stato eletto nel 1970, suscitando preoccupazioni negli Stati Uniti, che temevano un'influenza sovietica nella regione. Kissinger, all'epoca consigliere per la sicurezza nazionale del presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, condivideva queste preoccupazioni e riteneva che l'instaurazione di un governo socialista in Cile avrebbe potuto minacciare gli interessi statunitensi nella regione.

La politica estera di Kissinger era caratterizzata da una visione pragmatica e realpolitik, dove la sicurezza nazionale e gli interessi geopolitici assumevano una priorità elevata, anche a scapito della democrazia e dei diritti civili. Nel contesto della Guerra Fredda, l'America Latina era considerata un teatro cruciale per contrastare l'espansione del Comunismo. Kissinger era preoccupato che la politica di Allende potesse indebolire gli Stati Uniti nella loro lotta ideologica contro l'Unione Sovietica.

L'11 settembre 1973, il generale Augusto Pinochet guidò un colpo di stato militare che rovesciò il governo di Allende. Non ci sono prove dirette che dimostrino un coinvolgimento diretto di Kissinger nell'organizzazione del golpe, ma emergono dettagli che indicano il suo appoggio indiretto e la sua conoscenza delle azioni intraprese. Ad esempio, documenti desecretati suggeriscono che gli Stati Uniti, sotto la supervisione di Kissinger, avrebbero fornito sostegno finanziario e diplomatico a gruppi anti-Allende in Cile. In una conversazione registrata del 16 settembre 1973, solo cinque giorni dopo il colpo di stato, Kissinger parlò con Nixon della situazione in Cile. In questa conversazione, Nixon esprimeva preoccupazione per le reazioni internazionali alla caduta di Allende, ma Kissinger minimizzava tali preoccupazioni e sottolineava l'opportunità di spostare l'attenzione dell'opinione pubblica internazionale altrove.

Il ruolo di Kissinger nel sostenere il golpe in Cile è stato oggetto di dibattito e controversie per decenni. Alcuni critici sostengono che il suo coinvolgimento sia stato più diretto di quanto ammesso pubblicamente, e che gli Stati Uniti abbiano influenzato attivamente gli eventi che hanno portato al colpo di stato. È importante notare che il colpo di stato in Cile ebbe conseguenze devastanti per il paese. Il regime di Pinochet instaurò una dittatura militare caratterizzata da violazioni sistematiche dei diritti umani, con migliaia di persone imprigionate, torturate e uccise per motivi politici. La ferma posizione di Kissinger nei confronti del governo Allende ha contribuito a gettare un'ombra duratura sulla reputazione dell'ex segretario di stato americano.

Il coinvolgimento di Kissinger nel golpe cileno è stato oggetto di indagini giudiziarie e critiche internazionali. Nel 2001, il governo cileno chiese ufficialmente a Kissinger di testimoniare in relazione a un'inchiesta sulle violazioni dei diritti umani durante la dittatura di Pinochet. Tuttavia, Kissinger rifiutò l'invito, sostenendo che la sua testimonianza potesse compromettere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Questo interesse nel colpo di stato Cileno, è stato caratterizzato da un sostegno indiretto alla destituzione di Salvador Allende. Questo episodio continua a sollevare domande sulla moralità e l'eticità della politica estera degli Stati Uniti durante la Guerra Fredda e sull'influenza della realpolitik nella gestione degli affari internazionali che continua e si acuisce tuttora.

La morte di Kissinger, come già avvenuto per altri soggetti americani di grande portata, non chiude definitivamente con le conseguenze sociali e morali delle sue azioni. Semmai invita a schierarsi con coloro che chiedono un ridimensionamento dell’influenza USA a livello globale ed in quasi tutti gli ambiti.

#Blog #USA #Politics #Opinioni

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(Gaza)

Non esiste solo l'#antisemitismo. E' questo l'errore, marchiano, che la stampa e i social media stanno, al solito, veicolando. La questione Palestinese non è abbassabile ad un mero sdegno nei confronti di un popolo che ha subito l'odio più profondo e la persecuzione più sanguinosa della storia. Rimangono due binari separati e anche piuttosto nettamente. L' intrico eterno, purtroppo, del Medio Oriente merita un'attenzione così profonda che ridurre il tutto a questo non fa che portare confusione nella confusione.

Sarà banale, ma mai come dall'avvento delle Rete quasi ogni argomento è divenuto solo un chiassoso contrapporsi di urla, insulti e denigrazione. Complici per primo politicanti, mozzaorecchie e giornalisti proni che danno alle “menti semplici” (*) l'opportunità di mostrarsi, pavoneggiarsi sulle vicende mondiali. Quelle altrui ed intricate sono le migliori. Qui nessuno ha nulla da insegnare, se non i fatti, che sempre dovrebbero essere edulcorati dalle opinioni personali. I diritti umani sopra ogni cosa andrebbero incorniciati nella maniera più corretta e neutra possibile.

L' umanità è una, con tutte le variabili infinite della singola persona, del pensiero proprio ed unico di ognuno. Naturalmente la formazione e la cultura fanno la differenza, così come -purtroppo- i credo religiosi, l'ambiente circostante, tutto. Proprio per questo, dal 1948, non esiste solo lo Stato di Israele, ma anche la Palestina. Anzi, prima di Israele era la Palestina.

La via più semplice sarebbe il silenzio, ma chi ha voglia di tacere? Io (noi) per primo trovo le scorciatoie per veicolare il “mio” pensiero, che non può mai essere così arrogante da credere di essere quello corretto, quello che scopre una verità che nessuno ha in tasca. Tutti colpevoli? In un certo senso sì, ma anche con il diritto inviolabile di esprimersi. Un'espressione che dovrebbe far crescere, portare all'approfondimento, al confronto. Un'utopia disdegnata per la vacuità dell'esposizione, del riscontro, dei pollici all'insù.

Per cui no e no. Non c'è solo l'antisemitismo. C'è anche l'anti mussulmano, l'anti cristiano, l'anti ragionamento, l'anti intelligenza, l'anti umanità in senso lato. Tutto un universo di incomprensione e odio che conduce all'unico risultato di fare dell'unico mondo che abbiamo un disastro di eccellente auto distruzione. Con il benestare di coloro che, in un anfratto della loro testa, pensano di essere immortali, evidentemente. La storia non insegna, perchè non si ascolta, non si legge: si vuole cambiarla per la propria opportunità, per un fine supremo volatile come il pensiero univoco.

Il singolo esiste come parte di una comunità globale. Abbastanza lineare da esprimere, quasi impossibile da capire. (D.)

(*): “So simple-minded, he can't drive his module” – “The Jean Genie”, David Bowie, 1973.

#Blog #Opinioni #Palestina #Israele #World #Politics

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Dieci righe 47

#Israele non è una democrazia

#Israele scende in piazza (qui) contro una riforma della #Giustizia che ha il solo scopo di salvare uno come #Netanyahu. La marcia indietro che verrà attuata potrebbe costargli molto cara: l'estrema destra -toh!– lo tiene in scacco. Se ci saranno nuove #Elezioni non potrà farcela, mai. Quindi, se qualcuno non lo ricorda con esattezza, è il #Popolo che bisogna temere. Sempre. Non facciamo paragoni e ammettiamo, come deve essere, che solo una massa di persone realmente compatta sbatte fuori i tiranni o i delinquenti. Gioverebbe tenerlo a mente anche in #Italia. E no, Israele non è stato e non sarà una Democrazia. Se ne stanno accorgendo anche gli Israeliani. (D.)

#Blog #DieciRighe #Politica #Politics #Opinioni #Opinions

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Dieci righe 38

Qui, in #FriuliVeneziaGiulia, usiamo dire “Raccontare quella dell'orso”, ad indicare una narrazione lunga e spesso inutile. Sembra proprio il tipo di racconto da adattare ad uno come #Trump. L'uscita del suo prossimo arresto (qui) sembra la solita solfa made in #USA. Abituati, con il consenso di gran parte dell'Occidente “democratico” -virgolette volute- a costruire una narrazione che finisce sempre con un colpo di teatro, con una guerra, un assassinio, una imposizione della loro visione del mondo, gli #StatiUniti monopolizzano sempre e comunque tutto ciò che possono. C'è da sperare che questa cosa sia vera, almeno stavolta. In fondo un idiota del genere sembra proprio adatto ad una commedia tragica. Sarebbe importante che nessuno si facesse male a causa sua, ma quelli sono danni collaterali. Come sempre con loro. (D.)

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Dieci righe 4

Già da ora possiamo dire che le elezioni regionali nel #Lazio ed in #Lombardia raccontano una storia già nota. Tutte le analisi che verranno fatte sull'astensionismo, le solite peraltro, non tengono conto di un dato incontrovertibile: le persone sono rintanate nelle loro vite, tra i loro recinti, belli o brutti che siano. La politica è partecipazione. Non lo scrivo perchè ho quasi sessant'anni, ma è un dato storico. Il “popolo”, termine abusato in modo indicibile, dovrebbe essere l'unico che comprende appieno che una parvenza di democrazia passa dal suo impegno. Unico giudice ed unico imputato, questa massa di persone è diventata un unicum con il pensiero più in voga: me ne frego degli altri.

#Politica #Politics #Italia #ElezioniRegionali #Opinioni #Opinions #Blog

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Dieci righe 3

Mi dicono spesso che sono troppo serio, sempre incazzato. Una cosa la accetto: la serietà, soprattutto sul lavoro. D'altro canto preferisco l'ironia alla facile battuta da trivio, quella che ancora va per la maggiore. “Per far ridere bisogna essere seri”, diceva Sordi. Anche perchè sorridere è impegnativo, per me, e ci vuole qualcosa che non sia proprio diretto e benché meno stupido. Quindi una certa politica ridanciana, il cui supremo esempio è Berlusconi, fa battute, ma non fa affatto ridere. Se ne accorgono anche nella UE. Quando la #Meloni fa “gnè gnè” non la invitano a giocare, come all'asilo. Peccato che quel che c'è intorno a queste scaramucce infantili sia serio, molto serio. Mi sa che per milioni di persone queste stupidaggini no, non fanno ridere per nulla.

#GovernoMeloni #Blog #Me #Personal #Opinion #Opinions #Politica #Politics

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