Transit

Italia

(179)

(CA)

La “Colletta alimentare” si svolge ogni anno in #Italia perché, nonostante i proclami istituzionali, milioni di persone sono costrette a scegliere se tagliare sulle spese alimentari per sopravvivere, segno di un abbandono da parte dello Stato che dovrebbe garantire i diritti fondamentali. Nel 2024, oltre 5,9 milioni di residenti (quasi il 10% della popolazione) vivono una condizione di #povertà alimentare, mentre più di 4 milioni di famiglie sono a rischio, numeri che aumentano nelle regioni del Sud come Calabria (31,7%) e Sardegna (27,2%).​

L’iniziativa nasce dalla presa d’atto che un aiuto concreto non può più aspettare politiche pubbliche che spesso si rivelano insufficienti. Dal 1997, ogni novembre, decine di migliaia di volontari presidiano oltre 12.000 supermercati, invitando i cittadini a donare alimenti a lunga conservazione da destinare a chi non può permetterseli. Il banco alimentare distribuisce, poi, queste donazioni, integrandole con fondi e surplus europei, raggiungendo più di 1,7 milioni di persone ogni anno.​

Il vero problema è che la “Colletta alimentare” si è resa necessaria perché lo Stato appare incapace di rispondere a un bisogno primario: la sicurezza alimentare. Nel 2024 i prezzi dei beni alimentari sono aumentati dell' 11,8%, ma il welfare pubblico non è stato in grado di tutelare le fasce più vulnerabili. Così, la solidarietà privata si ritrova a coprire un vuoto creato da una politica che preferisce ignorare la realtà dei “nuovi poveri”, spesso invisibili alle statistiche ma quotidianamente in fila per un pacco di pasta o una scatola di legumi.​

Solo l'anno scorso, grazie a più di 155.000 volontari, sono state raccolte oltre 119.000 tonnellate di cibo, aiutate quasi 1,8 milioni di persone e coinvolti più di 5 milioni di donatori in tutta Italia. Questi numeri descrivono una società civile che prova a tappare falle lasciate aperte dal sistema pubblico, facendo del gesto solidale l’ultimo baluardo di dignità per chi è stato dimenticato.​

#CollettaAlimentare #Italia #Blog #Opinioni #Povertà #Diseguaglianze

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(178)

(Gio)

La recente affermazione del ministro Giancarlo Giorgetti secondo cui”...chi guadagna duemila euro al mese non è ricco” segna un punto di non ritorno nella distanza crescente tra la retorica economica del governo Meloni e la realtà materiale del Paese.

È una frase che, lungi dal voler interpretare la complessità sociale italiana, rivela una visione distorta e verticalista della società, nella quale la normalità economica viene definita dall’alto e mai dal vissuto reale dei cittadini. Gli indicatori ufficiali delineano un quadro desolante. L’ISTAT ha certificato nel 2024 un record di povertà assoluta che coinvolge oltre 9,8 per cento delle famiglie, un dato che traduce in cifre concrete il fallimento delle politiche redistributive degli ultimi anni.

La Banca d’Italia, nel suo più recente rapporto, evidenzia come la quota di reddito detenuta dal 10 per cento più ricco continui a crescere, mentre i salari medi, corretti per l’inflazione, hanno perso potere d’acquisto ininterrottamente dal 1990. L’OCSE conferma: l’Italia è uno dei pochi Paesi dell’area euro in cui i salari reali non solo ristagnano, ma arretrano.

(Gio2)

La comunicazione dell’esecutivo continua a insistere su un racconto trionfalistico, in cui i lievi aumenti lordi ottenuti grazie a misure temporanee vengono presentati come conquiste epocali. È una narrativa costruita più per compiacere gli elettori che per affrontare la sostanza del problema. Il lavoratore povero, colui che guadagna meno di mille euro al mese, rimane il simbolo di un’Italia abbandonata, priva di un salario minimo, sacrificata sull’altare dell’austerità e dell’ortodossia liberista.

A questa cecità strutturale si aggiunge l’opposizione ideologica alla patrimoniale, ribadita più volte dalla presidente Meloni: “Finché governerà la Destra, non ci sarà una tassa sui patrimoni.” Questa posizione, sotto le mentite spoglie della difesa del ceto medio, protegge in realtà la ricchezza accumulata e perpetua un modello fiscale regressivo, che spreme chi lavora e tutela chi possiede.

In nome di un’idea di libertà economica, si legittima l’ingiustizia.

Così il governo esibisce propagandisticamente successi inesistenti, mentre l’Italia reale affonda in una spirale di insicurezza, bassi redditi e disuguaglianze crescenti. La distanza tra la narrazione ufficiale e le condizioni concrete del Paese non è più un disallineamento etico, ma una frattura politica e morale profonda. Continuare a negarla significa non solo sbagliare analisi economica: significa schierarsi contro la dignità di chi lavora.

#Blog #Italia #Economia #GovernoMeloni #Diseguaglianze #Opinioni

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(177)

(Mam)

Nota: non voglio, e non ne ho facoltà, minimizzare la vittoria di Mamdani, nè pormi in contrasto con chi ne gioisce. Diciamo che non amo molto che le vittorie della sinistra all'estero siano prese come esempio in questo paese, che deve, comunque, fare i conti con la sua, di politica.

#ZohranMamdani, eletto sindaco di New York a soli 34 anni, rappresenta una svolta storica per la politica americana. Primo sindaco musulmano della città, Mamdani ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo con il 50,4% dei voti, conquistando consenso soprattutto tra giovani, immigrati e lavoratori grazie a una piattaforma basata su trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare e giustizia sociale.

Già nel suo discorso di vittoria, Mamdani ha lanciato una sfida diretta a #DonaldTrump, definendolo un “despota” e affermando che “...la città che lo ha creato può anche sconfiggerlo”.​ Da parte sua, Trump ha risposto con sarcasmo, minimizzando la sconfitta: «Io non ero sulla scheda elettorale» e accusando le tensioni a Washington di aver danneggiato il movimento repubblicano. A Mamdani ha rivolto l’epiteto di “Comunista” e ha minacciato tagli ai fondi federali: “Se vince un comunista, pronti a tagliare miliardi a New York”. Questa contrapposizione incarna uno scontro tra due visioni opposte, ma con un comune uso di retorica fortemente polarizzante.​

Le vittorie parallele di Abigail Spanberger in Virginia e Mikie Sherrill nel New Jersey consolidano il successo dei democratici in territori chiave, ponendo un ulteriore freno alla spinta trumpiana e segnando un chiaro avvertimento verso la leadership repubblicana.​

(Mam2)

In Italia, il successo di Mamdani è stato accolto con entusiasmo da settori della sinistra, ma la realtà politica appare ben diversa rispetto a quella statunitense. Qui la sinistra è dilaniata da una cronica divisione tra anime moderata e radicale, che impedisce la costruzione di un progetto unitario e coerente. L’assenza di una leadership convincente che sappia parlare ai bisogni concreti della società limita molto la capacità di mobilitazione e di creare un’alternativa credibile al governo Meloni.

L’opposizione italiana tende spesso a rifugiarsi in tentativi di emulazione di modelli esteri senza riuscire a tradurli nel contesto nazionale, rimanendo così frammentata e marginale. Manca, inoltre, un dialogo autentico con le nuove generazioni e con i settori più vulnerabili, fattori che in America invece hanno fatto la differenza per Mamdani.

Solo un’analisi critica e profonda di queste difficoltà interne potrà avviare un processo di rinnovamento e rilancio della sinistra in Italia, partendo dalla concretezza e non dall’astrazione.​

Mamdani e i successi democratici statunitensi mostrano dunque un modello efficace di politica progressista da cui trarre ispirazione, ma la sinistra italiana deve affrontare le proprie contraddizioni interne per poter davvero sognare una rinascita simile.

#Blog #USA #Mamdani #Trump #Politica #Italia #Sinistra #Opinioni

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(176)

(Rif)

Non è una riforma della giustizia. È un riassetto del potere, pensato per ridisegnare a vantaggio della politica l’equilibrio tra i poteri dello Stato. La riforma della magistratura voluta dal governo Meloni, dietro la facciata rassicurante della “modernizzazione” e della “separazione delle carriere”, nasconde un intento pericoloso: assoggettare i magistrati all’influenza del potere esecutivo e ridurre la loro autonomia costituzionale.

Il punto centrale è semplice e cruciale. Separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, creando due “Consigli superiori” distinti, significa permettere alla politica di mettere mano, anche indirettamente, alle nomine, alle valutazioni e alle carriere. Non si tratta di un rinnovamento neutro, ma di una rottura dell’equilibrio su cui poggia la democrazia italiana. Sotto il nuovo assetto, il pubblico ministero, che oggi può indagare senza dover rispondere a nessuno se non alla legge, rischierebbe di diventare parte di una catena di comando orientata dal Parlamento e dal Governo. È un passo che apre la porta a un controllo politico delle inchieste, dei processi, persino delle priorità investigative.

(Rif2)

Chi si attendeva un intervento per velocizzare i procedimenti, sfoltire l’arretrato o migliorare l’accesso dei cittadini alla giustizia resterà deluso. Qui non c’è nulla che riguardi la giustizia in senso stretto. Non un euro in più per i tribunali, nessuna riforma organizzativa, nessun piano per sbloccare l’ingolfamento delle procure. In compenso, vi è un disegno allarmante di ridefinizione del potere: la giustizia, da potere dello Stato, diventerebbe territorio di influenza del governo.

L' esecutivo la chiama riforma “costituzionale”, ma in realtà ne capovolge il senso. Perché toccare la Costituzione non significa migliorarla, se l’obiettivo è ridurre le garanzie di indipendenza nate proprio per evitare le ingerenze del potere politico. L’articolo 104, che definisce il “Consiglio superiore della magistratura” come organo autonomo e indipendente da ogni potere, verrebbe svuotato nella sostanza.

Se la riforma sarà approvata e confermata da un referendum, il risultato sarà una magistratura più debole, più esposta e meno libera. È il ritorno a un modello di giustizia controllata, in cui chi governa decide anche chi può giudicare.

La Costituzione aveva previsto esattamente il contrario: che la legge fosse lo scudo dei cittadini contro l’arbitrio del potere. Questa riforma abbatte quello scudo, lasciandoci disarmati contro lo strapotere della politica.

#Blog #RiformaDellaMagistratura #GovernoMeloni #Costituzione #Giustizia #Opinioni #Italia

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(174)

(PST)

Il dibattito sul ponte sullo stretto di Messina di questi giorni va oltre la politica. I rilievi della Corte dei conti non sono un atto di ostruzionismo, ma l’esercizio di una funzione di garanzia che tutela la legalità, la trasparenza e la corretta gestione delle risorse pubbliche. In un sistema democratico equilibrato, il controllo non è un freno, ma uno strumento di responsabilità.

Il progetto del ponte muove circa 14 miliardi di euro, coinvolge interessi strategici e incide sull’ambiente, sull’economia e sulla coesione territoriale. È naturale, e necessario, che la Corte chieda chiarezza su piani finanziari, sostenibilità economica e conformità giuridica degli atti, per assicurare che ogni fase rispetti le norme sui contratti pubblici e sulla spesa dello Stato.

Nel caso del governo Meloni, la spinta verso una realizzazione rapida dell’opera è ovvia: il ponte è diventato un simbolo politico, un progetto identitario che promette infrastrutture e sviluppo. Tuttavia, l’urgenza non può sostituire la trasparenza né giustificare forzature amministrative. Il ruolo della Corte è proprio quello di ricordare che una grande opera vive solo se fondata su basi legali solide e su una gestione finanziaria sostenibile.

(PST2)

Parlare di “attacco” o “ostacolo” da parte della Corte significa travisare la sua missione costituzionale. La funzione di controllo serve a rafforzare la credibilità dell’azione di governo, non a limitarla. In un periodo in cui il debito pubblico pesa e i margini di spesa sono stretti, è fondamentale che ogni euro investito sia tracciabile e coerente con i vincoli di legge.

La correttezza dei rilievi contabili sta nel richiamare l’attenzione su elementi tecnici che non possono essere ignorati: la revisione dei contratti con i concessionari, la copertura finanziaria pluriennale, la valutazione dei rischi ambientali e la trasparenza delle gare. Sono queste le condizioni per evitare arbitrio, sprechi o contenziosi futuri che rallenterebbero ulteriormente i lavori. La vera modernizzazione non è solo costruire infrastrutture, ma farlo rispettando le regole e garantendo che la spesa pubblica sia un investimento per tutti, non un rischio collettivo.

Ora serve che il governo Meloni abbandoni la retorica distrattiva. Se davvero la priorità è costruire il futuro dell’Italia, si dimostri di saperlo fare passando dal rispetto delle leggi e dall’ascolto delle istituzioni di controllo. Solo così questa opera potrà essere il simbolo di un paese credibile, non di una stagione di scorciatoie, e non divenire l’ennesimo fallimento di un esecutivo che, per ora, non ha portato a casa quasi nulla.

#Blog #PonteSulloStretto #GovernoMeloni #Opinioni #Italia #Politica

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(173)

(F)

Brevi e probabilmente banali considerazioni dopo l'ascolto di Emanuele Fiano oggi sui fatti accaduti a “Cà Foscari”.

Per chi segue il dibattito social, la posizione di Emanuele Fiano e “Sinistra per Israele” tende a sostenere che l’ #antisionismo sia una forma di #antisemitismo, cioè che l’opposizione al movimento sionista o alle politiche di Israele coincida sempre con l’odio verso gli ebrei. Questa visione semplifica e confonde due piani profondamente diversi.​

L’antisemitismo è ostilità verso gli ebrei in quanto persone, religione o popolo: pogrom, discriminazioni, teorie del complotto e “Shoah” ne sono espressioni drammatiche. L’antisionismo invece è la critica dell’ideologia sionista e delle politiche dello Stato di Israele: non nasce per definizione come discorso d’odio, ma come posizione politica, spesso alimentata da ragioni storiche, etiche o di difesa dei diritti dei palestinesi.​

Ci sono sempre stati ebrei antisionisti: gruppi religiosi o laici che non si riconoscono nello Stato di #Israele o ne criticano l’esistenza, a prescindere da ogni odio antiebraico. Anzi, la discussione critica tra ebrei su sionismo e Israele fa parte della storia stessa dell’ebraismo moderno. Equiparare ogni antisionismo all’antisemitismo cancella questa pluralità e nega il diritto a dissentire, dentro e fuori dalla comunità ebraica.​

Una critica anche aspra al governo israeliano, alla sua politica verso i palestinesi o al progetto sionista in sé non implica odio per gli ebrei. Così come criticare la Russia di Putin, la Cina di Xi o l’America di Biden non significa odiare russi, cinesi o americani. Dire il contrario è una forma di propaganda che soffoca il dibattito, bolla ogni dissenso come intolleranza e serve spesso a zittire movimenti per i diritti umani o campagne di solidarietà internazionale.​

Chi sostiene che antisionismo e antisemitismo siano la stessa cosa rischia di banalizzare davvero l’antisemitismo: se tutto è odio antiebraico, niente lo è più davvero. E si finisce per colpire chi magari lotta contro razzismi e colonalismi ma è a favore dei diritti di palestinesi, israeliani ed ebrei.​ Banalizzazione che fanno, alla luce del sole, Fiano e i componenti di “Sinistra per Israele.” Antisionismo e antisemitismo sono cose diverse e confonderle fa male sia alla lotta contro le discriminazioni, sia alla libertà di dibattito politico.

Non ho scritto cose nuove, me ne rendo conto, ma continuare a “tenere il punto”, in giorni disperanti come questi, mi aiuta a considerare le cose per come dovrebbero essere, non per come vogliamo che siano.

#Blog #Antisemitismo #Antisionismo #Opinioni #Italia #Politics #Politica

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(171)

(MF)

La manovra finanziaria 2026 varata dal #GovernoMeloni, per un totale di circa 18,7 miliardi di euro, si pone in un quadro europeo di regole sul bilancio pubblico che limitano fortemente lo spazio di manovra annuale. Le nuove regole europee, introdotte nell’aprile 2024, impongono un sentiero di contenimento e progressiva riduzione del debito pubblico tramite limiti molto stringenti alla spesa primaria netta. Nel confronto con le precedenti manovre, emerge come quella del 2026 sia particolarmente “formato mignon” (una pastarella), caratterizzata da misure marginali di aggiustamento che lasciano poco spazio a interventi strutturali di rilancio economico o sociale.

Nel dettaglio, le manovre del 2019 sotto il governo #Conte (comunemente indicate come “Conte bis”) si divisero tra la necessità di adeguarsi alle richieste europee di moderazione dei deficit e il mantenimento di prestazioni sociali come il reddito di cittadinanza e la quota 100 per le pensioni. Pur significando un moderato sostegno al welfare, la manovra del 2019 si caratterizzò però per un sottoinvestimento pubblico drammatico, stimato in oltre 100 miliardi di euro in meno rispetto alla media europea di investimenti pubblici nel periodo 2007-2018. Questa sottocapitalizzazione ha contribuito a una stagnazione economica con crescita quasi nulla e una progressiva perdita di competitività industriale e occupazionale.

La manovra del 2022, approvata sotto il governo #Draghi, fu invece nettamente espansiva, con oltre 23 miliardi di interventi destinati a sostenere pensioni, reddito di cittadinanza, imprese e servizi pubblici come sanità e scuola. Si puntò anche sul taglio di tasse per circa 12 miliardi, bilanciando una politica fiscale più favorevole alla crescita e ampliando la spesa sociale. Questa strategia ebbe l’intento di sostenere la domanda interna e di stare vicino soprattutto a categorie vulnerabili.

Al contrario, l’ultima manovra del Governo Meloni rinuncia in larga parte a questo approccio espansivo. Con una dotazione più contenuta, pari a circa 18,7 miliardi, essa taglia circa 10 miliardi alla spesa sociale e al contrasto della povertà, riducendo, per esempio, il fondo destinato a tali interventi di oltre 3 miliardi. L’intervento fiscale si concentra prevalentemente sulla fascia media dei redditi, con un beneficio modesto o nullo per i lavoratori più poveri, che vengono esclusi o penalizzati da meccanismi come le detrazioni e la composizione ISEE usata per determinare i contributi a sostegno delle famiglie.

Da un punto di vista macroeconomico, questa scelta ha ripercussioni pesanti: mentre la manovra Draghi del 2022 puntava a generare effetti espansivi concreti sul PIL e a contenere le disuguaglianze, quella del 2026 appare orientata a un mantenimento del rigore con un impatto restrittivo in termini di crescita, stimato intorno allo 0,1% nel 2027-2028. Inoltre, la prevista forte crescita della spesa militare, esclusa dal calcolo ufficiale dei vincoli europei, destabilizza l’equilibrio dei conti e sposta risorse lontano da settori chiave per la coesione sociale e lo sviluppo inclusivo.

Il confronto evidenzia una chiara regressione della manovra Meloni rispetto a quelle di Conte e Draghi, sia sul piano quantitativo che qualitativo. Da una parte il persistente sottoinvestimento pubblico storico che condiziona negativamente le prospettive di crescita e competitività, dall’altra una restrizione degli spazi di #welfare e un aumento delle #disuguaglianze sociali. In particolare, i #lavoratori più poveri escono perdenti da questa manovra, sia per i tagli diretti ai fondi di contrasto della povertà sia per l’orientamento fiscale che privilegia fasce di reddito già più tutelate. Tale scenario sottolinea la necessità di ripensare la strategia di bilancio con un focus maggiore su investimenti pubblici e politiche redistributive efficaci. Insomma, il Governo Meloni vuole premiare quello che ritiene il suo elettorato di riferimento, ghettizzando le fasce più deboli, quasi a volerne nascondere le difficoltà per restituire l’immagine di un paese che, tutto sommato, sta bene e guarda con fiducia al futuro. La realtà lo abbiamo visto, è ben diversa.

#Blog #LavoroPovero #Italia #Economia #Economics #Politica #Opinioni

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(169)

(PF)

Nota: questo sarà un post noioso, ma, a volte, le aride cifre fotografano nitidamente le situazioni, anche quelle molto grandi, anche quelle che dentro hanno milioni di persone. D’altro canto sono certo che chiunque vorrà leggere queste righe sa comprendere benissimo numeri e percentuali. Altrimenti sarebbe un guaio.

Nel corso del 2024, l’Italia ha registrato un aggravamento significativo sia della #povertà assoluta sia di quella relativa, alla luce di dati ufficiali e referti della società civile. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT e della “Caritas”, la quota di persone in condizione di povertà assoluta ha raggiunto il 9,7 %, pari a circa 5,6–5,7 milioni di individui, corrispondente a circa 2,2 milioni di famiglie. Lo stesso rapporto segnala come la povertà assoluta, benché stabile tra il 2022 e il 2023, risulti al livello più elevato dell’ultimo decennio, con una progressione costante dal 2014 (dal 6,9 % al 9,7 %) per quanto riguarda le persone.

Sul versante della povertà relativa, si evidenzia un ulteriore peggioramento: nel 2023 le famiglie colpite dal fenomeno superavano i 2,8 milioni (10,6 %) e le persone in difficoltà ammontavano a 8,4 milioni (14,5 %). Parallelamente, l’Eurostat stima che nel 2024 il 23,1 % degli italiani – circa 13,5 milioni – viva in condizioni di rischio di povertà o esclusione sociale, con aumenti particolarmente allarmanti per quanto riguarda i minori e le persone over 60.

A questi numeri drammatici si accompagna la crescita del fenomeno dei “Working poor”: in Italia il 21 % dei lavoratori percepisce un reddito insufficiente per condurre una vita dignitosa, con una situazione che colpisce in modo particolarmente intenso le classi operaie (tra le quali la povertà assoluta ha superato il 16,5 %) e i 35-54enni, oltre il 30 % dei quali non riesce a evitare uno stato di indigenza.

(PF2)

Tale contesto si dispiega in un quadro di politiche pubbliche inadeguate: le misure statali di contrasto alla povertà — dal “reddito di inclusione” alla spesa sociale — risultano insufficienti e, in molti casi, inefficaci. Nonostante il “Reddito di cittadinanza” abbia avuto un impatto importante, ben il 56 % delle persone povere non lo ha percepito, per cause che vanno dai problemi di residenza alla burocrazia. Le politiche di welfare restano lacunose e non affrontano adeguatamente la questione del “lavoro povero”, né investono in una rete di protezione robusta per le famiglie vulnerabili.

Questa fragilità sociale si inserisce in un contesto europeo che appare sempre più orientato verso la militarizzazione. Il “ReArm Europe – Readiness 2030”, lanciato a marzo 2025 dalla Commissione UE, punta a mobilitare fino a 800 miliardi di euro in spese per la difesa, tra aumenti delle spese nazionali, fondi comuni e prestiti SAFE da 150 miliardi, con la possibilità di dirottare risorse dai fondi di coesione e sostenibilità. Secondo le ultime stime, per colmare il gap militare si dovrebbe arrivare a investire fino al 5 % del PIL, una cifra che in Francia, Regno Unito e in molti altri Paesi corrisponde all’intero ammontare delle loro politiche di welfare e di protezione sociale. Analisti economici sottolineano che una simile quantità di risorse sarà sottratta a capitoli cruciali per combattere la povertà, rafforzare l’istruzione, la sanità e l’inclusione sociale, aumentando di conseguenza le disuguaglianze e l’emarginazione delle fasce più deboli.

La convergenza tra crisi del reddito, insufficienza delle politiche sociali e spinta europea verso spese militari aggressive aggrava la condizione dei più deboli. Se non si rivedono le priorità — affiancando politiche attive per il lavoro, la dignità universale del reddito e un welfare veramente inclusivo — il rischio è quello di lasciare milioni di cittadini italiani ed europei in una situazione di esclusione sempre più profonda.

Ma, forse, è proprio questo lo scopo ultimo di tutta questa sequela di mancanze, di tutti i soldi che non andranno ad aiutare le persone, soprattutto quelle povere, emarginate, fastidiose: la loro eliminazione. Se non fisica (almeno lo spero), almeno dalla vita pubblica, dalla società. Relegare coloro che non possono più permettersi la dignità sarebbe un ottimo viatico alla dittatura totale del liberismo, dell’effimero, del domani concesso solo a chi i soldi li ha e non viene disturbato da Governi sempre più distanti da una minima idea di democrazia. Se il futuro deve ancora essere scritto, non può diventare così. Non dovrebbe permetterlo nessuno, mai.

#Blog #Italia #ReArmEurope #UE #Società #Povertà #Society #Poverty #Opinioni #Opinions

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(166)

(S)

Un'espressione letta in un articolo mi ha colpito in modo particolare: “L'omertosa apatia del piccolo trambusto quotidiano.” Felicissima intuizione linguistica che riesce a racchiudere in sé uno dei crismi su cui poggia la fertile e vigorosa baldanza del liberismo nostrano, quello che toglie i diritti ai lavoratori e non solo abolendo leggi, ma riducendo il mondo del lavoro, anche quello operaio (ci sono, ci sono: non fate finta di niente) a mera paccottiglia senza valore, neanche umano.

E' quel sentire assai comune che porta alla coltivazione del famoso orticello, che con la staccionata lascia fuori tutti i ragionamenti non adatti alla crescita del proprio benessere, della propria fetta intoccabile di piccoli e spesso inutili “privilegi”. Che, di solito, si formano sulla cenere dei diritti negati ad altri. Ma stando al di là della staccionata, sono chiacchiericcio confuso. Una brezza leggera.

E' l'oltre, la pigrizia di chi sta con il sedere al caldo (o che pensa di averlo coperto) e che può, tranquillamente, silenziosamente, fregarsene di vertenze durissime e dei dannati che sperano in un esito che restituisca un po’ di fiato. Questo sono i lavoratori dei gioielli da preservare della “cultura” del lavoro, della tradizione più autentica e genuina della laboriosità illuminata della parte sana del Paese. Peccato che, come in ogni famiglia, le magagne ci sono, ed enormi.

(S1)

Questo è un corollario. L'Italia vive su questa “omertosa apatia“: possiamo dire che si regge sulle spallucce, quel gesto del corpo che sta a significare “Che me ne frega?”. Sì, ovviamente sono dalla parte di chi ha problemi, sono sinceramente preoccupato dalla condizione di milioni di concittadini costretti praticamente alla povertà pur lavorando e mi indigno fortemente (come se questo cambiasse qualcosa per qualcuno, ma non mi limito.)

Però, fermi: cinque minuti, in pausa caffè. Stasera apericena e c'è la partita in TV (a pagamento). Nessuno è innocente, in un gioco al massacro che vede soccombere giornalmente centinaia di famiglie: nella cosiddetta “società del benessere”, del “Ci sarà chi se ne preoccupa”, di coloro che sanno cosa devono fare gli altri, ma che personalmente ha le mani legate e lo sguardo basso da partecipazione emotiva spinta e sincera.

In piazza, davanti alle fabbriche, a mandare messaggi forti, mettendoci il corpo, la faccia, la pelle possono scendere sempre gli altri di cui sopra. Bravi, ma senza fare troppo casino, che ci si infastidisce. Ben attenti e ribadire che c'è chi deve risolvere le cose: a modino, con quella pragmatica calma che non dia noia al superiore, che certe discorsi non si fanno. Noi si sta bene, ce lo siamo guadagnato.

In Friulano si direbbe “Lasse stà” (lascia stare). E' la resa incondizionata al complice modus operandi di tutta quella genia imprenditoriale che scrive i “Codici etici” delle aziende e poi chiama la questura, che accorre prontamente, se ritiene che qualche manganellata al posto giusto sia un metodo meno aulico, ma più efficace di far filare le cose nella maniera corretta. Che, guarda caso, è sempre e solo la loro.

Tanto, parliamoci chiaro: sono molti di più quelli cui non frega nulla. E si sa che la maggioranza è ben salda e protetta. Dal 2022 poi...

#Lavoro #Diritti #Italia #Opinioni

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(Europee)

“La differenza tra una democrazia e una dittatura è che in una democrazia prima voti e poi prendi gli ordini; in una dittatura non devi perdere tempo a votare.” (Charles Bukowski)

E chi se ne fotte, se a votare non ci andate? E chi se ne sbatte se c'è una scusa per fare una cosa e mille per non farla? Ma chi se ne frega delle guerre nel mondo o di chi non ha né pranzo né cena? L' evoluzione ci ha dotati del “libero arbitrio”, anche se nessuno, soprattutto a scuola, non ci spiega che cosa sia e quanto è importante.

Nessuno mi paga (ad una certa età si mercenari su tante cose, sappiatelo) per convincere nemmeno un ubriacone a bere di più. Che le #ElezioniEuropee siano la scusa perfetta per tornare a togliere la polvere dall'ombelico che guardiamo ogni giorno e che si chiama #Italia è certo. E non mi pagano nemmeno per ascoltare tutti i difetti della #UE, tutte le notizie che ci vogliono fare guerra a destra ed a manca o quelle sull'immobilità nei confronti della #Palestina (tanto a leccare i piedi ad #Israele siamo maestri.)

So, come sanno tutti, Tutti sappiamo tutto (a parte tacere). So che io farò come sempre e me ne vado a fare due passi fino al seggio. Per mettere una, due o tre “X” non ci vuole un genio. Perciò ce la posso fare. Poi caffettino in qualche bar carino, che le anime belle che scrivono sui Blog fanno così. Quei segni andranno a favore di chi mi pare. Come ho già scritto (non siete stati attenti, nel passato, lo so) senza più alcuna bandiera, né tessera, né -tantomeno- qualcuno che mi fa sentire in colpa per questo o quel difettino che si ha in politica.

Se vi sembra l'enunciazione dell' “Edonismo Reaganiano” che fu (l'età di cui sopra fa scherzi) e della rinuncia per pigrizia, vi sbagliate, ma pure de brutto. E' una cosa molto più semplice. E' continuare nell'illusione di pensare un po' per i fatti miei. Stessi fatti che mi tengo, con manicale ossessione, per me e i miei cari. Quelli sono importanti. Altri molto meno, a questo livello, non umanamente.

Quella mezz'oretta, Sabato, la dedico a chi farà lo stesso. Agli altri auguro un fine settimana di sole e caldo, al mare o in montagna. Vorrei raccomandare, quando vi troverete intruppati sulla battigia o su qualche sentiero ormai circondato di immondizia, di ridere nei confronti di chi ancora crede in certe cose. Fatelo con gusto. Però io in coda non starò e sorriderò lo stesso. In faccia a un sacco di gente.

#ElezioniEuropee2024 #Opinioni #Blog

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