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Politica

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(Aut)

Il ritorno del concetto di #autocrazia nella politica internazionale rappresenta una tendenza sempre più evidente, alimentata anche dall’ascesa di figure come Donald Trump e Elon Musk. Questi personaggi incarnano un modello di leadership che privilegia la decisione rapida, l’efficienza apparente e la disintermediazione digitale, spesso a scapito della partecipazione democratica e dei diritti individuali. La rottura tra #Trump e #Musk, per esempio, non segna il tramonto del #trumpismo, ma piuttosto la sua evoluzione verso una governance più strutturata e meno personalizzata, ma sempre più autoritaria e meno trasparente.​

Negli ultimi anni, il potere politico ha mostrato una tendenza a concentrarsi nelle mani di pochi, spesso con il sostegno di una tecnocrazia privatizzata che utilizza strumenti digitali e algoritmi per governare. Questa convergenza tra potere esecutivo, tecnologia e capitalismo delle piattaforme ha portato a una forma di “autocrazia algoritmica”, in cui le decisioni vengono prese in modo rapido e apparentemente efficace, ma con una sostanziale riduzione della trasparenza e della partecipazione dei cittadini. Il modello è particolarmente visibile negli Stati Uniti, ma ha avuto ripercussioni anche in #Europa e in altri continenti.​

In #Italia, come in molti altri Paesi, si registra una crescente propensione a preferire governi “forti” rispetto a una democrazia più compiuta che richiede la partecipazione attiva di tutti, anche del singolo cittadino. Una ricerca recente ha evidenziato che circa il 24% dei giovani italiani si dichiara favorevole a un regime autoritario, mentre solo il 57% preferisce la democrazia a qualsiasi altra forma di governo. Questa percentuale è simile a quella di Spagna e Francia, ma inferiore rispetto alla Germania, dove la preferenza per la democrazia supera il 70%.

Questa differenza evidenzia come, in Italia, la fiducia nella democrazia sia meno radicata, soprattutto tra i giovani e tra chi si sente economicamente svantaggiato.​

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Una delle conseguenze più preoccupanti di questa tendenza è la disponibilità di molti cittadini a rinunciare a parte dei propri diritti in cambio di maggiore sicurezza o stabilità. Il desiderio di governi più radicali e “cattivi” si manifesta anche nella richiesta di misure più severe contro la criminalità, l’immigrazione o le proteste sociali. Questo fenomeno è alimentato da una percezione di crisi economica, sociale e culturale che porta molte persone a cercare soluzioni rapide e apparentemente efficaci, anche a costo di compromettere alcuni principi democratici.

La recessione della democrazia, come viene definita da molti analisti, è quindi legata non solo a scelte politiche, ma anche a una crescente insoddisfazione economica e sociale che spinge le persone a preferire governi autoritari.​

Il vero scandalo per la democrazia italiana è questa resa collettiva, incarnata dal governo Meloni che, nel discorso finale alla kermesse di “Atreyu”, ha dipinto un'Italia monolitica e “forte” dove la partecipazione si riduce a un applauso acritico, mentre si sacrificano diritti e uguaglianza in nome di una fermezza illusoria. Invece di mobilitare i cittadini contro disuguaglianze economiche sempre più abissali (con salari stagnanti e precarietà dilagante), la premier invita a delegare tutto a un esecutivo che si definisce “granitico” e che promette ordine con manganelli e retorica nazionalista, tradendo chi sogna una vera lotta per i diritti.

Questa propaganda autoritaria, che cavalca la stanchezza popolare, non risolve crisi, ma le amplifica, preferendo la stabilità fittizia di un leader onnipotente alla responsabilità condivisa di una democrazia viva e inclusiva. È una beffa: le persone rinunciano a battersi per più diritti, illudendosi che un pugno di ferro le protegga, mentre Meloni consolida un potere che erode le basi stesse della libertà.

#Blog #Opinioni #Politica #Autocrazia #Democrazia #GovernoMeloni

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(185)

(UI)

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i rapporti tra #Italia e Stati Uniti si sono rapidamente rafforzati, diventando uno dei pilastri della politica estera italiana e della sicurezza europea. L’Italia, uscita dal conflitto profondamente segnata e con un sistema politico in ricostruzione, ha trovato negli Stati Uniti un alleato strategico fondamentale per la propria ricostruzione economica e per la stabilità democratica.​ Nel 1949, l’Italia fu tra i fondatori della #NATO, alleanza militare occidentale nata per contrastare l’espansione del blocco sovietico. Questa scelta rifletteva la volontà italiana di allinearsi politicamente e militarmente all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti.

L’Italia divenne così un avamposto strategico per la NATO nel #Mediterraneo e un punto di riferimento per la sicurezza europea, ospitando basi militari statunitensi e partecipando a numerose operazioni internazionali.​ La cooperazione militare tra Italia e #USA si è consolidata negli anni attraverso accordi bilaterali e multilaterali, condividendo tecnologie, strategie e obiettivi di sicurezza. L’Italia ha partecipato a missioni #NATO nei Balcani, Afghanistan e Libia, dimostrando il proprio impegno nel sistema di difesa collettiva occidentale. Tuttavia, questa stretta alleanza ha anche sollevato critiche: va sottolineato come il nostro paese, soprattutto nell’ambito della difesa, abbia spesso seguito la linea statunitense, con una limitazione della propria autonomia strategica.​ Parallelamente a questa mansione, la cooperazione economica tra Italia e USA si è intensificata dopo la guerra, con il “Piano Marshall” che ha sostenuto la ricostruzione italiana e favorito la crescita industriale.

(UI2)

Negli ultimi decenni, si è consolidata una visione per cui l’Italia sarebbe “succube” degli Stati Uniti anche in ambito economico, dipendendo da scelte e pressioni statunitensi in settori come energia, tecnologia e politica monetaria.​ La guerra in #Ucraina ha riportato al centro il ruolo della NATO e la posizione dell’Italia. Roma, pur esprimendo solidarietà all’Ucraina, ha mostrato una certa prudenza nelle decisioni militari, preferendo seguire le iniziative europee e atlantiche piuttosto che prendere iniziative autonome.

Il nostro Stato sostiene le sanzioni contro la Russia e partecipa ai programmi di aiuto militare all’Ucraina, ma la sua posizione resta spesso condizionata dalle linee guida di Bruxelles e Washington.​ La crisi ucraina ha anche messo in evidenza le divisioni all’interno dell’UE, con l’Italia che cerca di bilanciare il sostegno all’Ucraina con la ricerca di una soluzione diplomatica, talvolta proponendosi come mediatore. La stretta dipendenza dall’asse transatlantico rende difficile una politica estera completamente autonoma, soprattutto in materia di sicurezza.​

Il governo Meloni ha confermato l’impegno atlantista e la stretta collaborazione con gli Stati Uniti. La Premier ha mantenuto una linea di sostegno agli aiuti occidentali all’Ucraina, pur dialogando con figure della destra globale come Donald Trump. In particolare, la reciproca stima tra Meloni e Trump ha suscitato interesse per le possibili implicazioni di un’alleanza tra la destra italiana e quella americana, anche in vista di nuove elezioni negli USA.​

Meloni ha ottenuto un canale privilegiato con ambienti conservatori statunitensi, mostrando una certa apertura verso il mondo della destra globale, pur mantenendo la linea europeista e atlantista. Questo atteggiamento riflette una strategia di bilanciamento tra autonomia nazionale e fedeltà agli alleati storici, in un contesto internazionale sempre più polarizzato.​

(UI3)

Il governo Meloni, pur presentandosi come promotore di una visione sovranista e nazionale, ha in realtà confermato e rafforzato una dipendenza strategica dagli Stati Uniti, soprattutto in ambito militare e diplomatico.

La scelta di mantenere un atteggiamento atlantista e di coltivare rapporti privilegiati con figure della destra americana sembra contraddire la retorica dell’autonomia nazionale, trasformando la politica estera italiana in un riflesso delle scelte statunitensi, anche quando ciò comporta una riduzione della capacità di mediazione e di proposta autonoma dell’Italia sul palcoscenico internazionale.

Questo atteggiamento fa comprendere che, dietro ai discorsi sul sovranismo ed il patriottismo (che spesso hanno una connotazione che rasenta l’apologia del fascismo), si celi in realtà una subordinazione agli interessi dell’alleato americano, con conseguenze non sempre trasparenti per la politica estera e la sicurezza del paese.​

E, di certo, l’attuale esecutivo non nasconde questa sua inclinazione. Anzi, la sbandiera come un punto di forza, quando in realtà i segnali che provengono dall’amministrazione Trump, tendono a rendere sempre più marginale il ruolo della UE e, di conseguenza, del nostro paese. C’è da chiedersi se il modo di operare del governo non sia, a questo punto, profondamente dilettantesco, con le conseguenze che vediamo ogni giorno. Non serve nemmeno un’analisi troppo professionale per evidenziarlo. Basta un minimo di buon senso.

#Blog #USA #Italia #UE #GovernoMeloni #Opinioni #Politica #Politics

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(184)

(K1)

I colloqui di pace tra #Ucraina e #Russia languono in un impasse totale, complicati da intercettazioni pubblicate dalla stampa che rivelano dettagli sensibili e dal recente vertice di cinque ore al Cremlino, il 2 Dicembre, tra #Putin, Steve Witkoff e Jared Kushner. “Bloomberg” ha diffuso un audio del 14 ottobre tra #Witkoff, inviato di #Trump, e Yuri Ushakov, consigliere di Putin, dove l'americano suggerisce a Mosca come approcciare Trump per una tregua, passando da #Gaza all' #Ucraina e lodando un cessate-il-fuoco rapido. #Ushakov ha bollato la fuga come “inaccettabile”, irritando Cremlino e repubblicani.

Il “New York Times”, in un'inchiesta su negoziati passati (2022) e attuali, evidenzia come i documenti esaminati mostrino compromessi territoriali ucraini (#Crimea esclusa, #Donbass ceduto) e rinunce #Nato, allarmando Washington per un “disarmo unilaterale” di #Kiev, pattern che persiste oggi con il piano Trump.​

L'incontro Putin-Witkoff-Kushner, con pranzi e passeggiate, ha esaminato il piano USA in 28 punti più quattro documenti extra: Mosca accetta “alcuni aspetti”, ma respinge concessioni territoriali, con Ushakov che nota versioni “confuse” trasmesse informalmente. Dmitriev e Peskov definiscono i talks “costruttivi”, ma senza compromessi su #Donetsk, #Luhansk, #Cherson e #Zaporizhia,

Putin accusa la #UE di “ostacolare la pace”, minacciando ritorsioni. L'appuntamento salta per #Zelensky, mentre #Rubio annuncia “progressi” cauti con garanzie sicurezza per Kiev.​

(K2)

Il “New York Times” e altre fonti sottolineano come il piano #Trump, ideato da businessman come Witkoff-Dmitriev (non diplomatici), sia più economico che politico: prevede gli #USA leader in “ricostruzione e investimenti” in Ucraina post-pace, con spartizione territori (Donbass/Luhansk russi, linea fronte per sud-est), neutralità Kiev (no alla #Nato, no basi occidentali, ma aerei in Polonia) e azzeramento delle sanzioni.

Intercettazioni confermano l'approccio “deal-making”: Witkoff propone a Putin un “modo migliore” per Trump, focalizzato su tregua rapida, eco di passati negoziati dove l’economia sovrastava la sovranità. Questo privilegia i profitti (investimenti post-bellici) rispetto alla giustizia politica, con Trump che definisce il conflitto un “casino” da chiudere presto.​ Le intercettazioni, uscite post-vertice Ginevra, acuiscono contraddizioni: gli USA dialogano bilateralmente con Mosca, ma Kiev e UE denunciano il loro isolamento.

#Zelensky invoca una “pace dignitosa” e il vice di Trump, #Rubio, si dice ottimista. Mosca, però, appare irremovibile. L' #UE, invece, oppone solo rigidità: La Kallas e la von der Leyen insistono su una parità tra Kiev e Bruxelles, con controproposte che eliminano concessioni territoriali e spingono sui missili a lungo raggio. Criticano il piano Trump e lo bollano come “isolazionista”. Intanto Putin accusa l’Europa di volere una guerra, ma la UE appare impotente senza alternative concrete al deal economico USA-Russia.​

Le intercettazioni Bloomberg e l'inchiesta NYT smascherano la farsa: Trump pedina Putin con emissari tycoon per un piano che puzza di affare immobiliare più che diplomazia, sacrificando territori ucraini per ricostruzione lucrativa e sanzioni azzerate, mentre UE pontifica e Zelensky implora. Questa “pace economica” non è salvezza, ma rapina geopolitica dove il business trumpiano trionfa sulla sovranità, lasciando macerie fisiche e morali sulle persone. Il tutto per profitti d'élite.

#Blog #Ucraina #Russia #UE #Politica #Pace #Opinioni

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(182)

(P1)

Il #governoMeloni spinge con decisione sulla riforma del #premierato, con l'intenzione di discuterla alla Camera già a gennaio 2026. L'idea centrale è introdurre l'elezione diretta del presidente del Consiglio, abbinata a un premio di maggioranza che assegni il 55% dei seggi alla coalizione vincitrice anche con quote di voto inferiori al 40%. Questo schema promette “stabilità”, ma rischia di alterare profondamente gli equilibri costituzionali, concentrando poteri nelle mani del capo del governo.​

Le modifiche agli articoli 92 e 94 della Costituzione prevedono un premier legittimato direttamente dal voto popolare, con fiducia parlamentare solo formale. Una “norma anti-ribaltone” che limiterebbe le crisi di governo a sostituzioni interne alla stessa coalizione, sotto pena di scioglimento delle Camere. Il “Presidente della Repubblica” perderebbe autonomia nella nomina del capo del governo e nelle fasi di stallo, diventando figura di ratifica piuttosto che garante. Molti costituzionalisti sottolineano come questo crei uno squilibrio tra poteri, con un esecutivo dominante e un Parlamento indebolito.​

La legge elettorale collegata adotterebbe un proporzionale con premio maggioritario, sul modello regionale, per blindare maggioranze artificiali. La Russa e Fazzolari ritengono i “tempi maturi”, ma il disegno solleva interrogativi sulla reale efficacia contro l'instabilità.​

Già oggi l’esecutivo Meloni ha usato il ricorso a decreti-legge (32 su 103 leggi nella prima fase) e voti di fiducia, comprimendo il dibattito parlamentare, limitando emendamenti e commissioni. Il premierato aggraverebbe questa tendenza: con maggioranza garantita e sfiducia impraticabile, le Camere diverrebbero sedi di approvazione automatica, private di controllo reale sull'esecutivo.

(P2)

Si passerebbe da una democrazia parlamentare a un sistema ibrido, dove il leader eletto prevale sul pluralismo rappresentativo.​ Non manca qualche dissenso o dubbio tra i partiti di governo, soprattutto in merito all’abbandono dei collegi uninominali proprio da parte di chi aveva fatto di quell’elemento uno dei pilastri elettorali. La “Lega” e “Forza Italia” manifestano riserve sulla forma della legge elettorale che accompagna il premierato e sull’effettiva possibilità di avere sulla scheda il nome del candidato premier.

Queste tensioni interne, seppure non in grado finora di fermare i piani di “Fratelli d’Italia”, indicano che la riforma non è un progetto unanimemente condiviso all’interno della stessa coalizione di governo.​ Le critiche di esperti evidenziano un “premier pigliatutto” che influenzerebbe nomine chiave (dal Quirinale alla Consulta) senza contrappesi adeguati. Non risolve i problemi di governabilità, ma li sposta verso una verticalizzazione del potere che riduce spazi per opposizioni e mediazioni. L'Italia ha bisogno di rafforzare il Parlamento, non di ridurlo a esecutore di un leader plebiscitario.

Una riforma così profonda merita un esame puntiglioso e per nulla ammiccante, ma i rischi per la democrazia parlamentare appaiono evidenti.

E’ la mossa decisamente più importante e pericolosa di un esecutivo che, finora, ha brillato solo per la sua scarsa qualità politica e morale. Un modo per avvicinarsi, con decisione, ad una idea di Stato inchiodato ad una donna (o uomo) forte. E, pur ammettendo che il paragone è trito, molti Italiani pensano, nella loro idea di storia al contrario, che questa sia ancora la soluzione migliore. Un allarme democratico che tutti coloro che si rispecchiano nella Costituzione e nella democrazia devono cogliere e combattere.

#Premierato #Italia #Politica #Costituzione #Opinioni #Blog

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(177)

(Mam)

Nota: non voglio, e non ne ho facoltà, minimizzare la vittoria di Mamdani, nè pormi in contrasto con chi ne gioisce. Diciamo che non amo molto che le vittorie della sinistra all'estero siano prese come esempio in questo paese, che deve, comunque, fare i conti con la sua, di politica.

#ZohranMamdani, eletto sindaco di New York a soli 34 anni, rappresenta una svolta storica per la politica americana. Primo sindaco musulmano della città, Mamdani ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo con il 50,4% dei voti, conquistando consenso soprattutto tra giovani, immigrati e lavoratori grazie a una piattaforma basata su trasporti pubblici gratuiti, edilizia popolare e giustizia sociale.

Già nel suo discorso di vittoria, Mamdani ha lanciato una sfida diretta a #DonaldTrump, definendolo un “despota” e affermando che “...la città che lo ha creato può anche sconfiggerlo”.​ Da parte sua, Trump ha risposto con sarcasmo, minimizzando la sconfitta: «Io non ero sulla scheda elettorale» e accusando le tensioni a Washington di aver danneggiato il movimento repubblicano. A Mamdani ha rivolto l’epiteto di “Comunista” e ha minacciato tagli ai fondi federali: “Se vince un comunista, pronti a tagliare miliardi a New York”. Questa contrapposizione incarna uno scontro tra due visioni opposte, ma con un comune uso di retorica fortemente polarizzante.​

Le vittorie parallele di Abigail Spanberger in Virginia e Mikie Sherrill nel New Jersey consolidano il successo dei democratici in territori chiave, ponendo un ulteriore freno alla spinta trumpiana e segnando un chiaro avvertimento verso la leadership repubblicana.​

(Mam2)

In Italia, il successo di Mamdani è stato accolto con entusiasmo da settori della sinistra, ma la realtà politica appare ben diversa rispetto a quella statunitense. Qui la sinistra è dilaniata da una cronica divisione tra anime moderata e radicale, che impedisce la costruzione di un progetto unitario e coerente. L’assenza di una leadership convincente che sappia parlare ai bisogni concreti della società limita molto la capacità di mobilitazione e di creare un’alternativa credibile al governo Meloni.

L’opposizione italiana tende spesso a rifugiarsi in tentativi di emulazione di modelli esteri senza riuscire a tradurli nel contesto nazionale, rimanendo così frammentata e marginale. Manca, inoltre, un dialogo autentico con le nuove generazioni e con i settori più vulnerabili, fattori che in America invece hanno fatto la differenza per Mamdani.

Solo un’analisi critica e profonda di queste difficoltà interne potrà avviare un processo di rinnovamento e rilancio della sinistra in Italia, partendo dalla concretezza e non dall’astrazione.​

Mamdani e i successi democratici statunitensi mostrano dunque un modello efficace di politica progressista da cui trarre ispirazione, ma la sinistra italiana deve affrontare le proprie contraddizioni interne per poter davvero sognare una rinascita simile.

#Blog #USA #Mamdani #Trump #Politica #Italia #Sinistra #Opinioni

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(174)

(PST)

Il dibattito sul ponte sullo stretto di Messina di questi giorni va oltre la politica. I rilievi della Corte dei conti non sono un atto di ostruzionismo, ma l’esercizio di una funzione di garanzia che tutela la legalità, la trasparenza e la corretta gestione delle risorse pubbliche. In un sistema democratico equilibrato, il controllo non è un freno, ma uno strumento di responsabilità.

Il progetto del ponte muove circa 14 miliardi di euro, coinvolge interessi strategici e incide sull’ambiente, sull’economia e sulla coesione territoriale. È naturale, e necessario, che la Corte chieda chiarezza su piani finanziari, sostenibilità economica e conformità giuridica degli atti, per assicurare che ogni fase rispetti le norme sui contratti pubblici e sulla spesa dello Stato.

Nel caso del governo Meloni, la spinta verso una realizzazione rapida dell’opera è ovvia: il ponte è diventato un simbolo politico, un progetto identitario che promette infrastrutture e sviluppo. Tuttavia, l’urgenza non può sostituire la trasparenza né giustificare forzature amministrative. Il ruolo della Corte è proprio quello di ricordare che una grande opera vive solo se fondata su basi legali solide e su una gestione finanziaria sostenibile.

(PST2)

Parlare di “attacco” o “ostacolo” da parte della Corte significa travisare la sua missione costituzionale. La funzione di controllo serve a rafforzare la credibilità dell’azione di governo, non a limitarla. In un periodo in cui il debito pubblico pesa e i margini di spesa sono stretti, è fondamentale che ogni euro investito sia tracciabile e coerente con i vincoli di legge.

La correttezza dei rilievi contabili sta nel richiamare l’attenzione su elementi tecnici che non possono essere ignorati: la revisione dei contratti con i concessionari, la copertura finanziaria pluriennale, la valutazione dei rischi ambientali e la trasparenza delle gare. Sono queste le condizioni per evitare arbitrio, sprechi o contenziosi futuri che rallenterebbero ulteriormente i lavori. La vera modernizzazione non è solo costruire infrastrutture, ma farlo rispettando le regole e garantendo che la spesa pubblica sia un investimento per tutti, non un rischio collettivo.

Ora serve che il governo Meloni abbandoni la retorica distrattiva. Se davvero la priorità è costruire il futuro dell’Italia, si dimostri di saperlo fare passando dal rispetto delle leggi e dall’ascolto delle istituzioni di controllo. Solo così questa opera potrà essere il simbolo di un paese credibile, non di una stagione di scorciatoie, e non divenire l’ennesimo fallimento di un esecutivo che, per ora, non ha portato a casa quasi nulla.

#Blog #PonteSulloStretto #GovernoMeloni #Opinioni #Italia #Politica

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(173)

(F)

Brevi e probabilmente banali considerazioni dopo l'ascolto di Emanuele Fiano oggi sui fatti accaduti a “Cà Foscari”.

Per chi segue il dibattito social, la posizione di Emanuele Fiano e “Sinistra per Israele” tende a sostenere che l’ #antisionismo sia una forma di #antisemitismo, cioè che l’opposizione al movimento sionista o alle politiche di Israele coincida sempre con l’odio verso gli ebrei. Questa visione semplifica e confonde due piani profondamente diversi.​

L’antisemitismo è ostilità verso gli ebrei in quanto persone, religione o popolo: pogrom, discriminazioni, teorie del complotto e “Shoah” ne sono espressioni drammatiche. L’antisionismo invece è la critica dell’ideologia sionista e delle politiche dello Stato di Israele: non nasce per definizione come discorso d’odio, ma come posizione politica, spesso alimentata da ragioni storiche, etiche o di difesa dei diritti dei palestinesi.​

Ci sono sempre stati ebrei antisionisti: gruppi religiosi o laici che non si riconoscono nello Stato di #Israele o ne criticano l’esistenza, a prescindere da ogni odio antiebraico. Anzi, la discussione critica tra ebrei su sionismo e Israele fa parte della storia stessa dell’ebraismo moderno. Equiparare ogni antisionismo all’antisemitismo cancella questa pluralità e nega il diritto a dissentire, dentro e fuori dalla comunità ebraica.​

Una critica anche aspra al governo israeliano, alla sua politica verso i palestinesi o al progetto sionista in sé non implica odio per gli ebrei. Così come criticare la Russia di Putin, la Cina di Xi o l’America di Biden non significa odiare russi, cinesi o americani. Dire il contrario è una forma di propaganda che soffoca il dibattito, bolla ogni dissenso come intolleranza e serve spesso a zittire movimenti per i diritti umani o campagne di solidarietà internazionale.​

Chi sostiene che antisionismo e antisemitismo siano la stessa cosa rischia di banalizzare davvero l’antisemitismo: se tutto è odio antiebraico, niente lo è più davvero. E si finisce per colpire chi magari lotta contro razzismi e colonalismi ma è a favore dei diritti di palestinesi, israeliani ed ebrei.​ Banalizzazione che fanno, alla luce del sole, Fiano e i componenti di “Sinistra per Israele.” Antisionismo e antisemitismo sono cose diverse e confonderle fa male sia alla lotta contro le discriminazioni, sia alla libertà di dibattito politico.

Non ho scritto cose nuove, me ne rendo conto, ma continuare a “tenere il punto”, in giorni disperanti come questi, mi aiuta a considerare le cose per come dovrebbero essere, non per come vogliamo che siano.

#Blog #Antisemitismo #Antisionismo #Opinioni #Italia #Politics #Politica

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(171)

(MF)

La manovra finanziaria 2026 varata dal #GovernoMeloni, per un totale di circa 18,7 miliardi di euro, si pone in un quadro europeo di regole sul bilancio pubblico che limitano fortemente lo spazio di manovra annuale. Le nuove regole europee, introdotte nell’aprile 2024, impongono un sentiero di contenimento e progressiva riduzione del debito pubblico tramite limiti molto stringenti alla spesa primaria netta. Nel confronto con le precedenti manovre, emerge come quella del 2026 sia particolarmente “formato mignon” (una pastarella), caratterizzata da misure marginali di aggiustamento che lasciano poco spazio a interventi strutturali di rilancio economico o sociale.

Nel dettaglio, le manovre del 2019 sotto il governo #Conte (comunemente indicate come “Conte bis”) si divisero tra la necessità di adeguarsi alle richieste europee di moderazione dei deficit e il mantenimento di prestazioni sociali come il reddito di cittadinanza e la quota 100 per le pensioni. Pur significando un moderato sostegno al welfare, la manovra del 2019 si caratterizzò però per un sottoinvestimento pubblico drammatico, stimato in oltre 100 miliardi di euro in meno rispetto alla media europea di investimenti pubblici nel periodo 2007-2018. Questa sottocapitalizzazione ha contribuito a una stagnazione economica con crescita quasi nulla e una progressiva perdita di competitività industriale e occupazionale.

La manovra del 2022, approvata sotto il governo #Draghi, fu invece nettamente espansiva, con oltre 23 miliardi di interventi destinati a sostenere pensioni, reddito di cittadinanza, imprese e servizi pubblici come sanità e scuola. Si puntò anche sul taglio di tasse per circa 12 miliardi, bilanciando una politica fiscale più favorevole alla crescita e ampliando la spesa sociale. Questa strategia ebbe l’intento di sostenere la domanda interna e di stare vicino soprattutto a categorie vulnerabili.

Al contrario, l’ultima manovra del Governo Meloni rinuncia in larga parte a questo approccio espansivo. Con una dotazione più contenuta, pari a circa 18,7 miliardi, essa taglia circa 10 miliardi alla spesa sociale e al contrasto della povertà, riducendo, per esempio, il fondo destinato a tali interventi di oltre 3 miliardi. L’intervento fiscale si concentra prevalentemente sulla fascia media dei redditi, con un beneficio modesto o nullo per i lavoratori più poveri, che vengono esclusi o penalizzati da meccanismi come le detrazioni e la composizione ISEE usata per determinare i contributi a sostegno delle famiglie.

Da un punto di vista macroeconomico, questa scelta ha ripercussioni pesanti: mentre la manovra Draghi del 2022 puntava a generare effetti espansivi concreti sul PIL e a contenere le disuguaglianze, quella del 2026 appare orientata a un mantenimento del rigore con un impatto restrittivo in termini di crescita, stimato intorno allo 0,1% nel 2027-2028. Inoltre, la prevista forte crescita della spesa militare, esclusa dal calcolo ufficiale dei vincoli europei, destabilizza l’equilibrio dei conti e sposta risorse lontano da settori chiave per la coesione sociale e lo sviluppo inclusivo.

Il confronto evidenzia una chiara regressione della manovra Meloni rispetto a quelle di Conte e Draghi, sia sul piano quantitativo che qualitativo. Da una parte il persistente sottoinvestimento pubblico storico che condiziona negativamente le prospettive di crescita e competitività, dall’altra una restrizione degli spazi di #welfare e un aumento delle #disuguaglianze sociali. In particolare, i #lavoratori più poveri escono perdenti da questa manovra, sia per i tagli diretti ai fondi di contrasto della povertà sia per l’orientamento fiscale che privilegia fasce di reddito già più tutelate. Tale scenario sottolinea la necessità di ripensare la strategia di bilancio con un focus maggiore su investimenti pubblici e politiche redistributive efficaci. Insomma, il Governo Meloni vuole premiare quello che ritiene il suo elettorato di riferimento, ghettizzando le fasce più deboli, quasi a volerne nascondere le difficoltà per restituire l’immagine di un paese che, tutto sommato, sta bene e guarda con fiducia al futuro. La realtà lo abbiamo visto, è ben diversa.

#Blog #LavoroPovero #Italia #Economia #Economics #Politica #Opinioni

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(168)

(IR)

Nota: Lo so, non è da me farla così lunga, ma in un mondo che impazzisce forse un pochino di squilibrio ce lo metto anche io. La verità è che la #Pace è davvero impossibile. Almeno così sembra. Il che rende, fondamentalmente, questo uno sfogo. Ci vuole pazienza.

La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 ha visto l'ennesima escalation del conflitto mediorientale, quando #Israele ha lanciato un massiccio attacco aereo contro l' #Iran, mirato principalmente alle strutture nucleari e militari di Teheran. Le forze israeliane hanno colpito siti sensibili, distruggendo laboratori e centri di ricerca, nonché eliminando alcuni tra i principali comandanti delle Guardie della Rivoluzione, l'élite militare iraniana. Un colpo che ha scatenato una serie di reazioni internazionali. L'Iran, come prevedibile, ha replicato con una serie di droni che hanno tentato di colpire obiettivi strategici in Israele, gettando il paese in una nuova spirale di violenza.

Le parole di #DonaldTrump, che ha immediatamente espresso un sostegno incondizionato all'azione israeliana, hanno ulteriormente polarizzato il dibattito internazionale. Trump ha minacciato l'Iran con nuove offensive se non avesse accettato un accordo sul nucleare, aggiungendo così un ulteriore strato di complessità alla già tesa situazione geopolitica. L’appoggio degli Stati Uniti alla politica aggressiva di Israele sembra segnare il punto di non ritorno di un conflitto che ha radici profonde, alimentato da ideologie contrapposte e da interessi strategici divergenti.

Politicamente, l'attacco israeliano ha reso evidente l'intensificarsi della guerra a bassa intensità tra le potenze regionali. Israele, con la sua operazione “Leone Ascendente”, ha voluto chiarire una volta per tutte che non tollererà il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Questo attacco ha avuto l'effetto di indebolire momentaneamente l'Iran, uccidendo alcuni dei suoi strateghi più esperti e decimando parte delle sue capacità operative. Tuttavia, la risposta dell'Iran non si è fatta attendere: il lancio di droni ha avuto il chiaro intento di far capire a Israele che ogni azione avrà una controparte, anche se le capacità belliche di Teheran, pur impressionanti, non possono in alcun modo paragonarsi alla potenza di fuoco israeliana.

Le implicazioni politiche per il Medio Oriente sono incalcolabili. L'Iran ha immediatamente mobilitato le sue milizie alleate in Siria, Libano e Iraq, preparando il terreno per una possibile guerra per procura che potrebbe estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti. In questo scenario, la comunità internazionale rischia di assistere a una polarizzazione crescente, con i paesi arabi che, pur condannando l’aggressione israeliana, non sembrano disposti a schierarsi apertamente a favore di Teheran, temendo le ripercussioni di un allineamento troppo esplicito.

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Moralmente, invece, l'attacco israeliano solleva interrogativi inquietanti sulla legittimità di un'azione preventiva, soprattutto quando si considera che l'Iran ha sempre sostenuto di non avere intenzioni belliche dirette contro Israele. Sebbene Israele possa giustificare il suo intervento come una misura di difesa preventiva, non si può ignorare la violazione della sovranità iraniana e il fatto che l’attacco possa generare un'ulteriore spirale di violenza e vendetta. La morte di alti ufficiali iraniani e scienziati nucleari potrebbe, inoltre, rafforzare la narrativa del martirio e alimentare il risentimento tra la popolazione iraniana, creando un ulteriore fossato tra l'Iran e l'Occidente.

Da un punto di vista etico, sorge anche la questione dell’equilibrio delle forze: mentre gli Stati Uniti e Israele vedono la sicurezza come una priorità assoluta, l'Iran non può fare a meno di difendere ciò che considera un diritto sovrano, ossia la propria capacità di autodefinirsi come potenza regionale. La domanda che sorge spontanea è quindi se la logica della deterrenza, che ha caratterizzato la guerra fredda, possa essere applicata efficacemente in un contesto così volatile e intrinsecamente pericoloso.

L'operazione ha accentuato le divisioni interne in Iran, dove il regime potrebbe trovarsi a fronteggiare un'ondata di proteste interne. La crisi economica che affligge Teheran, le sanzioni internazionali e il crescente malcontento popolare potrebbero minare ulteriormente la stabilità del governo. Tuttavia, un sentimento di orgoglio nazionale potrebbe temporaneamente consolidare il consenso interno contro l'invasore straniero, come spesso accade in contesti bellici.

In Europa, la situazione appare delicata. L'Unione Europea, da sempre promotrice di un approccio diplomatico e pacifico, si trova ora a dover navigare tra due fuochi: la necessità di mantenere relazioni economiche con l'Iran, e l'alleanza con Israele, che rappresenta uno dei suoi principali partner strategici. La Francia e la Germania hanno condannato l'escalation, chiedendo una de-escalation immediata, ma non sono riuscite a offrire una soluzione concreta. L'Italia, pur allineata in linea di principio con le posizioni europee, ha adottato un tono più cauto, sottolineando la necessità di una mediazione internazionale urgente per evitare che il conflitto degeneri in una guerra totale.

Il nostro stato si è trovato a giocare un ruolo delicato nel bilanciare il proprio supporto a Israele con l’esigenza di non alienarsi la cooperazione iraniana. Sebbene il governo italiano abbia espresso una condanna per l'aggressione israeliana, si è anche preoccupato delle implicazioni a lungo termine di una rottura totale tra l'Iran e l'Occidente. L'Italia, infatti, è da sempre favorevole a un approccio diplomatico per risolvere la crisi nucleare iraniana, e un’escalation militare potrebbe compromettere gli sforzi compiuti negli anni passati per stabilire un dialogo.

L’Unione Europea, nel suo insieme, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali invocando una “de-escalation immediata”, ma la divisione tra i membri più favorevoli a un duro confronto (come la Polonia) e quelli più favorevoli a un negoziato (come l’Italia e la Spagna) è ormai palese. Il rischio è che l'Europa, incapace di adottare una linea unitaria, finisca per essere marginalizzata in un conflitto che potrebbe ridisegnare gli equilibri di potere nell'intera regione mediorientale.

L'attacco israeliano all'Iran ha profondamente scosso gli assetti geopolitici internazionali, mettendo in luce non solo le fragilità politiche e sociali dei protagonisti del conflitto, ma anche la difficoltà di una comunità internazionale a trovare un punto di mediazione efficace. Le conseguenze politiche, morali e sociali di questa nuova escalation sono ancora in divenire, ma una cosa è certa: l'Europa e l'Italia dovranno affrontare con urgenza la necessità di rinnovare i propri approcci diplomatici, se vogliono evitare che il conflitto si trasformi in una guerra su scala globale. La strada verso una stabilizzazione del Medio Oriente sembra sempre più incerta e tortuosa, e l'unica speranza risiede nel ritorno al dialogo e alla cooperazione internazionale.

#Blog #Iran #Israele #Medioriente #War #Guerra #Opinioni #Politica #Politics

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Anteprima: lezioncina. Il Senato italiano ha approvato, in prima lettura, il disegno di legge (ddl) sull’autonomia differenziata, noto come “Ddl Calderoli.” Il ddl è stato approvato con 110 voti favorevoli, 64 contrari e 30 astenuti. Ora passa all’esame della Camera.

Il ddl sull’autonomia differenziata mira a dare attuazione a quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Secondo questa disposizione, possono essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, che ne facciano richiesta, forme e condizioni particolari di autonomia su 23 materie. Queste materie sono elencate nell’articolo 117 della Costituzione come materie di “legislazione concorrente più 3 di legislazione esclusiva dello Stato.” Le materie vanno dalla Salute all’Istruzione, passando per sport, istruzione, ambiente, energia, trasporti, cultura e commercio estero.

Il ddl definisce le procedure legislative e amministrative che servono per arrivare a un’intesa tra lo Stato e le Regioni, che chiedono di avere maggiori competenze su determinate materie.

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Questa mossa del Governo non poteva passare in silenzio, senza che almeno le opposizioni, in uno strano rigurgito unitario (tranne “Azione”, ma conta per quel che è), si oppongano. Quanto duramente è da vedere e da valutare: non appaiono dei leoni ruggenti, in questi mesi. Durante la votazione, dai banchi dell’opposizione sono stati esposti cartelli con il tricolore e alcuni senatori hanno intonato l’inno d’Italia. Quindi una farsetta italiota.

Nonostante le critiche, l’obiettivo del Governo è arrivare all’approvazione definitiva prima delle elezioni europee di Giugno. Anche un cieco appare limpido come una mattina d'inverno, il regalo che il Governo Meloni ha inteso mettere in un bel pacchetto per la Lega. Gli alleati vanno accontentati, non troppo spesso. Il tanto che basta per ricordargli di riportare l'osso la prossima volta che verrà lanciato. Senza sbavare, che si sta sulle spese.

Il ruolo del popolo, sempre ribadendo (la ripetizione è propria dei vecchi, ripeto -ndr-) che questa è una definizione vaga come discorso di Sgarbi, è messo in ghiaccio. Non se ne sente parlare, si leggono i social tramite addetti stampa ossequiosi, ma, in fondo, ci si può sbattere altamente della reale situazione Italiana. Che, anche questo scritto mille volte, è semplicemente disastrosa.

Forse la prossima riunione della Camera sull'argomento andrebbe fatta in un pronto soccorso (giorno feriale a piacere), o in una scuola non a norma. Oppure in un discount, dove le persone, felici perchè autonome su tante cose, devono contare anche i centesimi fuori posto per comprare il cibo (brutta storia quella che bisogna mangiare per sopravvivere, noiosa.)

Lo scollamento è totale, la politica scende gli ultimi gradini della propria ipocrisia per imboccare la scala della sopraffazione, come da copione di regime. E noi imbavagliati, legati alle difficoltà quotidiane, al disastro di un Paese che retrocede al rango più infimo della “civiltà” industriale, continuiamo a sperare nel “Superenalotto” per emigrare. Non capiremo la nuova lingua, ma saremo un attimo più sereni.

#Italia #Politica #AutonomiaDifferenziata #Opinioni

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