Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Negli anni passati, molti negozi hanno chiuso. Mi piaceva mesi fa passeggiare davanti a quei locali, le serrande ancora abbassate, con un senso di sollievo e di speranza. “Bene” pensavo “questa assurda fase economica è passata, adesso pian piano ne comincerà una nuova, una in cui saremo tutti più felici e consapevoli”. Non era il discorso di chi pregusta la fine del capitalismo dal volto disumano. Sapevo bene infatti che la GDO, la Grande Distribuzione Organizzata, con le sue catene e i suoi centri commerciali, aveva cannibalizzato tutti i piccoli negozietti, magari riciclando qua e là i soldi da ripulire della malavita, anch'essa Organizzata.

In tema d'aprire un negozio, pensavo sempre all'esperienza della figlia di alcuni nostri amici. Vari anni fa si reputava di sistemare la propria discendenza aprendo degli esercizi commerciali, solo che quando l'ha fatto la figlia dei nostri amici era già evidente che si trattava già di tutta un'altra fase storica: più che l'idea di “sistemare” c'era l'idea del “passatempo” e della “attività di copertura”, ovvero un'alternativa prestigiosa al lavorare, se non addirittura uno sciupio di risorse a mo' di status symbol.

“Che fa tua figlia?” “Ha un negozio.”

Oggi un negozio è troppo costoso come alternativa al lavorare e assorbe troppe risorse anche come status symbol. Meglio altri giochi di ruolo. Se tua figlia vuole aprire un esercizio occorre considerare il settore “estetista e parrucchiera”. Tuo figlio invece può rilevare un bar o comunque qualcosa nel settore “food” (anzi, poteva: aspettiamo come va questa faccenda dei coprifuochi). Insomma, oggi bisogna tenere sempre un occhio, se non due, al mercato. E anche tenendoceli non è detto che vada bene, perché la concorrenza è tosta e la crisi permanente. Dentro al negozio poi, ci devi lavorare e parecchio; niente spazio per boutique fai da te, tenute con la signorilità dello stilista di moda de noantri. Poi, certo, c'è chi ce la fa con un'idea nuova, un buon senso degli affari, un certo impegno, qualche spicciolo a fondo perduto... ma tristemente non si parla manco più di start-up con la frequenza di una volta.

Con queste penose considerazioni in testa passeggio pigramente, l'altro giorno per le strade del mio quartiere, quando vedo, quasi come un fungo comparso dalla sera alla mattina, un nuovo negozio.

Negozio E' una splendida giornata e nell'aria c'è un'atmosfera serena. Il cielo è limpido e sgombro di nubi. E' una delle classiche ottobrate piene di sole, dono gratuito che la natura ancora ci riserva, nonostante tutto. Sbircio oltre la vetrina: c'è una ragazza dai lunghi capelli neri dietro un bancone collocato al centro dell'esercizio, che è ampio e luminoso quasi quanto il cielo del mattino. Il negozio vende cialde per il caffè. Le mensole, non troppo stipate, mostrano questo tipo di merce declinato in una serie di marche diverse e colorate. Non so perché ma sento improvvisamente il bisogno di entrare. “Buongiorno!” mi dice la ragazza volgendosi completamente nella mia direzione. Mi sorride in modo aperto ed elegante. “Buongiorno.” rispondo io. La bellezza del suo sorriso non può che spingere anche me a mostrare lo stesso segno di cordialità. “Sono felice che sia entrato...” dice lei, la carnagione diafana e liscia come porcellana, il vestito di seta fiorata. E' gentile ma non affettata e sembra sinceramente contenta del mio ingresso. “La ringrazio...” faccio un po' imbarazzato. Mi guardo intorno. Valuto per un attimo l'idea di comprare qualche cialda per il caffè ma mi sentirei in imbarazzo a fare una cosa del genere solo per compiacerla. Non provo alcuna tensione sessuale ma solo uno strano, calmo benessere. Poi, anche se è bellissima, mi sembra quasi un sacrilegio abbozzare un flirt e rovinare quella sensazione. Decido allora di dirle cosa mi ha spinto ad entrare. “Vede, io passavo di qui. Questo è il mio quartiere... in realtà ho una moka e compro il caffè al supermercato e ne ho pure una grossa scorta e... ecco, sono passato di qui, ho visto questo negozio nuovo e m'è venuta la curiosità di visitarlo.” “Ha fatto benissimo” risponde lei senza abbandonare per un attimo l'atteggiamento amichevole “Capisco bene le sue intenzioni, lei desiderava accoglierci come nuovi ospiti.” “Sì, proprio così!” dico io, felice di essere stato ben interpretato “Accogliervi come nuovi ospiti. Ecco, vi do il benvenuto!” esclamo colto da un maldestro entusiasmo. “Grazie” replica lei divertita. A forza di sorridere e guardare il suo sorriso, mi porto improvvisamente la mano alla guancia. “Non ho la mascherina!” esclamo “Mi scusi ma stamattina avevo proprio dimenticato di indossarla però dovrei averla da qualche parte, qui, in una tasca...” Armeggio un po' affannosamente con le mani nelle varie tasche del giubbetto, prima di rendermi conto che neanche lei indossa una mascherina. La guardo in viso e scopro che non ha mai tolto dalla bocca il suo sorriso gentile. Mi osserva solo con l'aria di chi si chiede: 'Ma quanto ci mette ad accorgersene?' Quando legge nel mio sguardo che ho realizzato, riprende a parlare. “Potremmo sederci qui sotto, nascosti dal bancone. Ho due piccoli sgabelli, così nessuno ci vedrà da fuori.” “Ma così è come se lasciasse il negozio incustodito! E poi non ha altro da fare, non deve almeno mostrare di lavorare? Come le ho detto, io non intendo comprare cialde, quindi tecnicamente non sarei nemmeno un cliente...” “Il negozio non sarà incustodito. Posso percepire chi entra, anche da qui dietro. Se chiacchieriamo un po' sotto il bancone il tempo passerà, per me, in modo più piacevole.” Mi sento lusingato vedendola disporre due piccoli sgabelli pieghevoli molto bassi dietro il bancone. Mi invita con un gesto delicato della mano e si siede assieme a me con una grazia quasi ultraterrena. “Non ha altro modo di passare il tempo?” le chiedo, ancora un po' insicuro “Che so... uno smartphone?” Lei ridacchia allegra a quella domanda. “No.” mi risponde infine “Non ho smartphone. Ovviamente.” Cosa c'è di così ovvio? La guardo e per la prima volta colgo nei suoi occhi un guizzo strano, come una irridente compassione nei miei confronti. Dura un attimo. “Da quanto tempo avete aperto?” “Da stamattina.” “E non avete fatto una festa di inaugurazione? Ah, no, scusi... dimenticavo le restrizioni...” “Non è per quello” dice lei. “Per che cos'è allora?” “Lo sai bene.” scandisce calcando le parole e fissandomi negli occhi. Cosa dovrei sapere? Seduti io e lei su quei bassi sgabelli sembreremmo, ad una occhiata superficiale, come due bambini dell'asilo che fanno i loro giochi segreti. Siamo totalmente isolati dal mondo esterno, nessuno può guardarci e sentirci. Il suo tono improvvisamente assertivo mi mette addosso un inspiegabile imbarazzo. Nel suo sguardo sembra ora esserci una nuova consapevolezza e una inedita determinazione. “Smartphone... Non possiamo usare nessuna tecnologia che possa interfacciarsi con la loro” mi spiega “Dobbiamo ignorarli.” Le sue parole sono come uno schiaffo. Mi guardo attorno come per cercare una via di fuga ma quel bancone mi sembra enorme. “Guardami!” mi dice lei autoritaria riportando il mio sguardo sul suo viso. Le sue parole cominciano a farmi paura, una paura lontana e indefinita. Soprattutto perché mi pare di poter comprenderne, seppur molto vagamente, il senso. Lei si accorge del mio disagio e il suo viso si raddolcisce. Posa una sua mano sulla mia. “Abbiamo aperto questo negozio senza dichiararlo a nessuno” continua a spiegarmi pazientemente “Vediamo cialde di caffè ma non solo e non sempre. Se qualcuno dovesse denunciarci o segnalarci alla polizia municipale saremmo d'un tratto chiusi. Ma solo per un po'. Poi riapriremmo. E io sarei qualcun'altra. E il negozio non sarebbe più un negozio di cialde di caffè. Il punto è non esistere. Non interfacciarsi. L'acciaio, la plastica e il silicio sono materiali diabolici, l'unica via è di evitarli e usare qualcos'altro.” “Io... io non ti capisco.” “Dobbiamo nasconderci” continua imperterrita “Ci scoprono, ma cosa trovano? Un fantoccio. Un simulacro. Una scatola vuota. Però dobbiamo esserci, forse non sempre e non solo nello stesso posto, ma esserci. Poi sparire. E tornare di nuovo.” “Cosa...” “Dobbiamo preparare il futuro. Loro ormai hanno fallito. Ma questo è il momento più difficile. Non si tireranno indietro così facilmente. Sono disperati. Venderanno cara la pelle. Per questo dobbiamo esserci, preservare, presidiare, ma continuare a nasconderci e intanto costruire quello che verrà dopo...” “Ma... chi siete? E chi sono loro?” dico con la testa sempre più confusa per quell'incalzante successione di frasi sibilline. “Chi siamo, vorrai dire...” mi corregge includendo anche me nella sua misteriosa fazione. Il tono di voce si è fatto ora più basso e più caldo. La ragazza sposta la sua mano su, verso il mio braccio, con un gesto languido. Le sue labbra sono socchiuse e le sue pupille umide e dilatate. “Forse, uno di questi giorni, potremmo trascorrere insieme dei momenti di tenerezza” mi dice in un sussurro. In quel momento entra un uomo vestito di una strana tuta argentea (una tuta argentea?), il volto stravolto da un terribile senso d'urgenza, le movenze nervose e concitate. “Svelti, stanno arrivando! Dobbiamo sparire!” urla. “Sono già qui?” chiede lei con sguardo allarmato. Subito si gira verso di me. “Sono già qui!!!” grida “Fuggi! Non farti trovare!” “Eh?” dico. “Fuggi, svelto!” Mi spinge fuori dal negozio con una forza insospettabile e io comincio a correre al grido dei suoi “scappa! scappa!” con l'intenzione di non voltarmi. Ma non posso non farlo. La guardo, il vestito mosso dalla leggera brezza di ottobre, i lunghi capelli corvini che scivolano sul collo esile. “Che ne sarà di te?” chiedo ansioso. “Non preoccuparti per me” risponde lei “Riassorbiremo la sacca temporale. Ma adesso va via!” Stavolta corro, stranamente rassicurato, e non mi giro più indietro.

Il giorno successivo, torno dov'era il negozio di cialde. Più nulla. Chiuso. La sacca temporale si era riassorbita. Ma continuerò a passare di lì.

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In questo periodo sto leggendo due libri che dicono due cose diverse. Il primo, che chiameremo A, invita ad un estremo pragmatismo eliminando tutto ciò che è inutile e non necessario per andare dritti verso la meta. Il secondo, che chiameremo B, ci ricorda che per ottenere ciò che vogliamo veramente dobbiamo seguire vie oblique e indirette, esortandoci ad avere un approccio solo apparentemente velleitario. Per me ha ragione A. Ma capisco B. Il metodo B è infatti lo stragemma geniale, la soluzione che non appare a prima vista. Se non fosse per l'approccio descritto in B, non avrei mai imparato tante di quelle cose inutili che mi piacciono tanto. Purtroppo spesso mi dimentico di A. Voglio dire, certe volte devi solo infilare quel pallone in rete, non occorre un nuovo passaggio. Quindi bisognerebbe utilizzare di volta in volta i vari approcci.

E' un po' come quella storia di Gigi La Trottola, piccolo eroe cartoon della pallacanestro, in cui i giganti della squadra avversaria lo murano in continuazione. Lui allora usa il metodo B (è tutto un ricorso al metodo B con Gigi La Trottola), cioè salta e rimane sospeso in aria grazie ad una divisa troppo larga che fa da paracadute. Ma quando gli avversari smettono di saltare per non subire la trovata del piccolo Gigi, lui, semplicemente, fa canestro come faceva prima, cioè saltando normalmente. Il metodo A insomma.

Il metodo YMCA

Qualche tempo fa, m'ero messo a comprare i fumetti di Gigi La Trottola e c'era un'altra trovata geniale che mi ha fatto impazzire. Il metodo YMCA. Ecco la situazione. E' assolutamente necessario prender palla alla squadra avversaria al più presto e il piccolo Gigi, con la sua fama di inventore talentuoso di tecniche speciali, invita improvvisamente i suoi compagni a disporsi in formazione con le braccia in posa come le lettere della famosa canzone dei Village People. Gli avversari, sbigottiti, si fermano chiedendosi cosa bolla in pentola e... i secondi del loro possesso palla scadono! Palla all'altra squadra dunque.

Il metodo YMCA mi ha rovinato, letteralmente. Da allora mi chiedo sempre cosa possa trovare di abbastanza assurdo per poter risolvere le situazioni più ingarbugliate. Che, se vogliamo, potremmo definire il tutto molto semplicemente: “pensiero laterale”.

Riguardo al metodo B, non possiamo non citare il maestro Miaghi di Karate Kid (non so se si scrive Miaghi, che in effetti fa più Carate Brianza che Karate Kid). Il suo famoso “dai la cera, togli la cera” è l'apoteosi del metodo B. Tu sei lì che pensi di dare la cera e basta, invece stai imparando a parare e schivare colpi manco fossi Remo Williams. Sì, lo so, oltre che l'apoteosi del metodo B, è anche l'apoteosi degli anni 80. Che poi io ho praticato il karate per almeno tre anni, stile Shotokan. L'ho fatto in “tarda età”, quando Karate Kid era ormai un ricordo abbastanza lontano. Per questo vorrei aprire una breve parentesi.

Quello che Karate Kid non mi aveva rivelato sul karate e che io rivelo a voi

  • “Il colpo dell'airone nascente”, cioè quel calcio inferto tenendosi in equilibrio su una gamba sola e le braccia a mo' di airone al decollo, è l'esatto contrario delle tecniche del karate, che è un'arte marziale basata su un saldissimo rapporto col terreno, estremamente sobria, devota all'efficacia e al crudo risparmio nell'esecuzione delle mosse. Per una roba del genere dovete cercare dalle parti della arti marziali più tipicamene cinesi, in particolare il Bagua.

  • Il maestro Miaghi, che mi pareva veramente figo, visto all'opera dopo un paio di lezioni “reali”, sembra un vecchietto patetico e le sue mosse hanno tutto tranne che la violenza esplosiva delle mosse del karate.

  • Il mio maestro, a differenza del laconico Miaghi, non usava alcuna metafora o allenamento speciale se non il farmi fare ripetizioni e ripetizioni dei soliti gesti tecnici fino allo sfinimento e quando sbagliavo era un gran chiacchierone che continuava a ripetere la storia che il suo maestro giapponese non li richiamava affatto quando cannavano ma li buttava direttamente a tappeto, quindi dovevo essere grato. Però, per quanto la ripetizione dei gesti e delle correzioni tecniche degli stessi fosse un po' noiosa, pure la accoglievo con sollievo poiché il karate è uno sport faticoso che richiede molto fiato, un grande lavoro preliminare sulla “flessibilità” e un importante allenamento fisico, per cui quelle pause logorroiche ci volevano tutte.

  • Nel karate sembra che non ci sia niente di spirituale. Però attenzione. Ero un pessimo studente quando si trattava di fare le mosse con le braccia e, pur se discreto con le gambe, credo di potermi definire uno studente mediocre, tanto che il mio maestro, o sensei, passava il tempo a riprendermi. Tuttavia un giorno sono andato alla grande e ho ricevuto complimenti. Quel giorno ero molto triste. Questo ci ricorda il duello tra Ken e Raul in Ken il Guerriero (Okuto-no-Ken) in cui dicono a Raul che non potrà mai raggiungere il livello tecnico di Ken perché, essendo egli sempre incazzoso, non riescirà mai a provare il sentimento della tristezza che alberga in Ken Shiro. Ecco, questo ci ricorda anche che il karate è un'arte marziale e che “l'arte non nasce mai dalla felicità”, come scrive saggiamente Chuck Palaniuk in “Soffocare”.

Il karate è metodo A all'ennesima potenza. Credo che non esista arte marziale più brutale e diretta. Però non è un'arte marziale pragmatica come quella israeliana di cui mi sfugge il nome e che pratica Elisabetta Canalis. Ha una sua particolare eleganza che viene espressa nell'esplosività del colpo, effettuata dalla posizione più solida possibile. Questo fa sì che ci sia una sua particolare poetica che la allontana un po' dalla grettezza utilitaristica dell'autodifesa personale. Ecco, c'è un po' di metodo B nel Karate e forse in ogni cosa della vita.

Perché il metodo A e il metodo B possono vivere insieme in armonia perfetta (together in perfect harmony). Come “Ebony and ivory”.

Dagli anni 80 è tutto.

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Mi rendo conto che è passato un po' di tempo dall'ultima volta che questo blog è stato aggiornato. Per questo motivo mi sembra giusto scrivere un nuovo post per interrompere il silenzio, intitolando il tutto “Aggiornamenti”. In realtà c'è poco da aggiornare. Ci sarebbe da fare un bel tutorial su come superare i blocchi creativi ma ne avete visto uno implicito al momento di completare la Fattoria Mallory. Difatti in quell'occasione i trucchi che ho messo in atto sono stati: 1. Rinunciare alla qualifica e allo status di indie game developer e diventare veneto: questo trucco l'ho preso direttamente da Tin Cup con Kevin Costner, quando il suo caddy gli impone di fare cose stupide per non pensare troppo a se stesso e alla sua reputazione mentre sta per “golfare”. 2. Recuperare vecchio materiale e assemblarlo assieme: ovvero il ben noto metodo della “minestra coi sassi”.

Allora, parlando di aggiornamenti, vorrei scrivere che mi piacerebbe seguire una di queste vie alternative: 1) Recuperare TUTTI i giochini che ho fatto nel corso degli anni, metterci l'etichetta/logo di GIPPOplay e pubblicarli online su itch.io in un unico posto comodamente consultabile. 2) Fare un nuovo gioco, magari con un nuovo tool, sicuramente con un nuovo stato d'animo, ovviamente con un nuovo incontenibile entusiasmo. 3) Continuare così come va adesso, cioè non far nulla e cazzeggiare a vuoto. 4) Rivolgermi definitivamente ad un nuovo hobby, magari in un nuovo settore, sicuramente con un nuovo stato d'animo, ovviamente con un nuovo incontenibile entusiasmo.

Ad esempio, parlando dell'ultima via, avevo pensato di creare un partito. Volevo chiamarlo il Partito Termale. Pensavo di creare una specie di franchising della politica (che in fondo tutti i partiti sono franchising della politica) con un programma semplice e, a mio avviso, efficace da proporre agli elettori dei vari comuni. Cioè: una stazione termale in ogni comune. Costi quel che costi. Pensavo di specificare dove si sarebbe dovuto tagliare per realizzare questo obiettivo, definendo il seguente ordine tassativo: 1. Altre opere pubbliche; 2. Cultura; 3. Sociale; 4. Varie ed eventuali. Stazione termale Infine pensavo di creare un logo e un sito e una email con Tutanota dove raccogliere suggerimenti e adesioni. Poi pensavo di avere l'appoggio di qualche nome noto, tipo un tale cantante chiamato Dennis, autore dell'album “Buone sensazioni” di cui ho trovato un CD pirata vendutomi da un nero ad un centro commerciale qualche anno fa, quando si usavano i CD. Ma perché ho comparto quel CD? Nemmeno mi ricordo l'album nè il cantante... Dennis Poi scopro da rapida ricerca sul web che il nome completo del cantante è Dennis Fantina e ha participato ad un talent Mediaset chiamato “Saranno Famosi” che ricordo con certezza di non aver mai visto. Probabilmente il CD faceva parte di un'offerta 4 CD al prezzo di 1 e il buon nero me l'ha aggiunto al pacchetto di vendita di straforo. Voglio precisare che sono contrario alla pirateria e comunque si tratta di episodi di fantasia, narrati al solo scopo di intrattenere i lettori del mio blog.

Comunque, concludendo, fonderò un Partito Termale, ecco il logo: Logo Alla prossima.

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Qualche anno fa, quando ancora esistevano le riviste di videogiochi da comprare in edicola (e le edicole stesse), lessi una interessante riflessione sulla nostalgia e il ricordo legati ai luoghi virtuali dei videogiochi. In particolare mi sembra che l'autore rievocasse la memoria di alcune zone rappresentate nel noto MMORPG «World of Warcraft». Ebbene, confesso che la nostalgia nei videogiochi, a dispetto della grande vitalità del fenomeno del retrogaming, è un sentimento per me molto superficiale e trascurabile. Ci sono giochi che non invecchiano perché sono dotati di una fantastica giocabilità e hanno una profondità invidiabile. Tuttavia quando un gioco invecchia male, non c'è nostalgia che tenga nè può essere d'aiuto inforcare un bel paio di quei proverbiali occhiali rosa che la nostalgia stessa (Nostalgia Inc.) produce e distribuisce. Questo mi fa pensare che non esistono giochi belli per l'effetto di questo nobile (?) sentimento ma, semplicemente, giochi belli che rimangono al passo con i tempi. O almeno con le persone (visto che un «millennial» è difficile che possa ancora divertirsi a Sensible Soccer come me). Ciò non esclude che possiamo comunque aver ancorato (come si dice in gergo PNL) alcune specifiche sensazioni che provavamo quando giocavamo a quel videogame, aggirandoci per quei paesaggi poligonali abilmente addobbati di texture, ombreggiature, bump mapping, luci dinamiche e quant'altro adatto allo scopo.

Perché sostengo allora che, almeno per quanto mi riguarda, la nostalgia videoludica non esiste? Semplicemente perché la nostalgia, intesa come sensazione struggente e piacevole legata al passato, riesco a provarla nitidamente per i luoghi fisici, con i ricordi e le atmosfere che essi trasmettono, e per confronto percepisco fin troppo bene come le architetture o i paesaggi visti su uno schermo non riescano a raggiungere le stesse vette emotive. I luoghi fisici hanno una sorta di “aura”, quelli virtuali no. Questo mi fa pensare che un giorno, se mai Jena Plissken riuscirà davvero a far esplodere quella bomba che renderà inutili tutti i dispositivi elettronici riportandoci «nel regno della razza umana», non avremo affatto nostalgia di questi tempi dominati da calcolatori un po' troppo disumani nell'imporre il loro linguaggio, la loro organizzazione e il loro paesaggi. Niente nostalgia quindi, tranne che per tutte quelle foto salvate sul cloud e sull'hard disk che, fra l'altro, fanno riferimento a luoghi reali che abbiamo già visitato e persone reali che abbiamo conosciuto.

Eppure...

Eppure vi è mai capitato di abbandonarvi ad una qualche fantasia di ritorno al passato? Avete mai tentato un esperimento di ipnosi regressiva supportato da quel videogioco che amavate tanto che vi riporti a quel periodo in cui eravate giovani e felici? Si potrebbe prendere a prestito un anno e scaricare un paio di videogame proprio di quell'anno, quelli in cui ci cimentavamo dopo cena, che per noi sembravano tanto importanti. E poi si potrebbe far finta che abbiamo ancora quell'età. Confesso che a volte ci provo e che è difficile che il videogioco, da solo, faccia la sua magia. Però anche voi potete provarci, magari scoprendo che semplicemente sbaglio o ometto qualche altro reagente dell'incantesimo: sono sempre a favore della sperimentazione, a meno che non serva a infrangere quelle belle illusioni necessarie a sopravvirere. Quindi provate e fatemi sapere, magari potremmo scoprire insieme qualcosa, viaggiare addirittura nel tempo e sistemare tutto quello che è cominciato ad andar male da un certo punto in poi. Zuckerberg, ad esempio.

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Credo che non ci sia nulla di più noioso di qualcuno che ci racconta i suoi sogni notturni.

Sogno di una notte di inizio estate

Mi pare fosse agli inizi di giugno quando ho fatto il seguente sogno. Passavo per una stradina del mio quartiere che era stata pesantemente modificata dagli anni e dall'urbanistica. Un tempo era una strada senza uscita con molte erbe e sterpaglie ai lati della carreggiata che finiva dritta verso una zona piuttosto selvaggia, con vari edifici dismessi che ospitavano soltanto topi e altre bestiacce. Nel sogno invece quella stradina era completamente di campagna, ricoperta di erba e breccia, e conduceva verso un casolare dove si teneva una festa. Era uno di quei sogni che smuovono ricordi d'infanzia, vicende oniriche che si intrecciano anche non volendo alle vicende reali.

Casa di campagna

La casa in fondo alla stradina

Dopo quel sogno, quest'estate mi sono ritrovato molte volte a passare per quella stradina. Ho visto fin troppo bene com'era cambiata a seguito del percorso irresistibile del progresso: sì, era decisamente migliore e più comoda e non finiva più in un vicolo cieco ma proseguiva verso altre strade a loro volta più larghe e comode. Gli edifici dismessi erano stati recuperati e riqualificati, come si dice in gergo. E quella casa in fondo alla stradina? Ci ho riflettuto giungendo alla conclusione che si trattasse di quella del mio amico T. Il sogno voleva senz'altro dirmi qualcosa su T. o sulla sua famiglia. Per questo, di tanto in tanto, gettavo lo sguardo verso la sua abitazione. O meglio: la sua ex abitazione. T. infatti si era sposato vari anni fa ed era andato ad abitare più a nord. C'ero passato spesso per casa sua, ricordo che alle medie, durante le estati, trascorrevo praticamente tutto il pomeriggio girando con la bicicletta in lungo e in largo per il quartiere e spesso andavo da lui con altri due-tre amici per organizzare una partita a pallone o a tacchetto (o calcio all'olandese) cioè quel gioco con un unico portiere cui si doveva cercare di fare gol al volo sollevando il pallone e di piede valeva uno, di testa due, di tacco o di culo dieci e se ti paravano andavi tu a porta e si restava in gioco finché non finivano i punti, last man standing. Dicevo allora che T. se n'era andato e aveva litigato con il padre che aveva costruito o comprato (sicuramente sistemato) quell'enorme casa con l'orto e l'appartamento bello e pronto per lui quando si sposava ma lui quando si è sposato è andato al nord, ma non il nord profondo bensì quello a una trentina di chilometri da casa e non per esigenze di lavoro ma proprio perché anche i genitori di sua moglie avevano avuto la stessa idea di mettere da parte un appartamento. E così il padre di T. stava spesso a coltivare l'orto col suo fare burbero e deluso dalla vita e dalla prole e a volte lo salutavo, un cenno del capo e via, passando. Poi una mattina, lo vedo a coltivare l'orto e decido di parlargli.

Ritrovare la fede

Sì, gli voglio parlare. Due battute interlocutorie e poi dritti al punto. “Sai” dico “è un po' che non ti vedo a messa.” Lui abbassa lo sguardo. “E' passato un po' di tempo, é vero...” “Come mai?” gli chiedo “Hai forse perso la fede?” “Hai ragione, ho un po' perso la fede. E anche la speranza.” Inutile stare a spiegarci il perché, lo sappiamo entrambi e sappiamo anche che a volte le parole non servono a nulla, tantomeno le spiegazioni o le analisi psicologiche. Sono tentato per una attimo di lasciar cadere la questione ma dentro di me sento che non sarebbe giusto e che non posso farlo, né come cattolico e credente, né come uomo e membro di una comunità di persone che si riconoscono nei comuni valori per i quali Gesù è morto sulla croce, affinché potessimo conoscere e raggiungere la salvezza che Dio nostro Padre ci ha riservato come suoi figli e grazie a cui ci sentiamo tutti fratelli in Cristo. “Non voglio accusarti di nulla, né fare prediche” dico pesando bene le parole “perché non ne ho il diritto. Ma andare a messa è importante e se non frequentiamo le funzioni non facciamo certo un dispetto a Dio ma a noi stessi.” Il padre di T. rimane in silenzio mentre riflette sulle mie considerazioni. Abbassa ancora di più lo sguardo e vedo che vorrebbe piangere, sentendosi in colpa per il suo egoismo di uomo troppo preso dalle egoistiche questioni materiali che ci allontanano spesso dalla vera Fede. Vedendo la sua sincera contrizione, gli appoggio una mano sulla schiena, come a dirgli: 'Ti capisco, coraggio'. “Dai, vatti a cambiare” gli dico poi con sguardo e tono raddoliciti “Tra mezz'ora c'è la messa e oggi il vangelo è dedicato al tema del perdono...” Lui mi guarda e mi abbraccia. Un po' imbarazzato rifletto sul fatto che ho rischiato sì di apparire un moralista ma alla fine, forse anche grazie ad un aiuto superiore che ha ispirato la mia decisione e il mio parlare, questo intervento ha contribuito a salvare un'anima che si era smarrita.

Mezz'ora dopo avrei visto il padre di T. fra i banchi della chiesa e, sopra la mascherina, avrei riconosciuto i suoi occhi grati d'aver ritrovato il contatto e il dialogo con Dio e la comunità parrocchiale.

PURTROPPO

Purtroppo questo dialogo è tutto inventato. Ma sarebbe stato bello se fosse avvenuto, non trovate? Comunque oggi a messa ci sono stato e il tema era il perdono.

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Per evitare duplicazioni e spargimento di link, racchiudo in un unico post riepilogativo tutto quanto riguarda la Fattoria Mallory, per lo più a scopo di archiviazione.

La Fattoria Mallory è un gioco, una vecchia vicenda narrata attraverso vari post e un piccolo sito il cui contenuto viene riproposto di seguito.

Il gioco

Gioco Il link è il seguente: Link al gioco

Come indico in questo link il gioco verrà rivisto per renderlo un solitario di carte a tutti gli effetti. Tuttavia (questo l'unica comunicazione inedita di questo post) il gioco che originerà da questa revisione non si chiamarà più Fattoria Mallory: avrà infatti una ambientazione diversa.

Vecchi post che parlano della Fattoria Mallory

Di seguito tutti i post in ordine cronologico che parlano della Fattoria:

La barbara Fase 2 del mostro apocalittico Seguiti Fattoria Mallory game design: visual novel vs altra roba Fattoria Mallory Game Design: il solitario Errori da correggere in fattoria

Il sito

Di seguito ripropongo il materiale del sito.

Introduzione

Conoscete questa storia. Quindici anni fa, in una fattoria nel cuore dell’Illinois, un gruppo di persone vide stagliarsi in lontananza una figura enorme e silenziosa. Apparsa improvvisamente all’orizzonte del grande altopiano, arrivò a coprire addirittura il sole. A costui gli sventurati diedero un nome infantile: “mostro squamato”. La cute irregolare che ricopriva quell’immondo corpo ricordava infatti le squame di una creatura acquatica, pur nell’indefinitezza del mastodontico profilo.

Circondato da una nebbia innaturale, il suo avvento venne accompagnato da altri fenomeni tremendi e inspiegabili. Folli testimonianze narrano che le squame che perdeva, una volta giunte al suolo si trasformassero in disarticolati esseri, frenetici e rotolanti, chiamati sho-shep. Altre testimonianze sembrano evidenziare invece una strana, morbosa influenza sulle menti degli abitanti della fattoria. Il mostro era in grado di esercitare una irresistibile malia sugli esseri umani, diffondendo sentimenti di attrazione nei suoi confronti oltre ad un malsano, osceno effetto eccitante sulla libido maschile e femminile. Coloro che non impazzirono e non caddero vittime della soprannaturale fascinazione riuscirono in qualche modo a comunicare quanto stava accadendo in modo telepatico o, più probabilmente, onirico. Nella nascente blogsfera italiana dell’anno 2005, un manipolo di blogger raccolse senza motivo apparente questi messaggi incoerenti dei quali si fecero catalizzatori ed emittenti. Dal loro incongruo impulso creativo nacque un sito la cui genesi ha tutt’ora una nascita e un decorso misteriosi. Questa è l’unica immagine ad oggi esistente, rintracciabile sulla Wayback Machine di archive.org.

Schermata della fattoria

Questo è invece il logo che sembra essersi affermato in seguito per identificare il sito:

Logo della fattoria

E questo è il piccolo banner che molti blogger misero in bella mostra sui loro template:

Banner della fattoria

Come si può vedere, una interpretazione accreditata rispetto alla natura e alla funzione del mostro sembra essere legata alla fine dei tempi. Il mostro, cioè, sarebbe un messaggero, una sorta di cavaliere dell’Apocalisse. In tal senso sembra condurre, ad esempio, la storia del reverendo che soggiornava alla Fattoria Mallory.

Fattoria Mallory, storie dell’Apocalisse

Ma come sappiamo certe cose? Ad esempio, tutti conoscono la storia del reverendo, della sguattera, dell’ingenuo, del padrone. Nessuno però sa il motivo per il quale tali storie siano fra i ricordi di tutti noi. Nessuno sa perché non siano state più trascritte. Nessuno sa perché, da qualche anno a questa parte, il loro ricordo si affievolisca sempre più, i dettagli scompaiano, le vicende si facciano nebulose. Il mostro squamato e la sua apocalisse sembrano riguardare le nostre menti e, in qualche modo, ciò che certa psicologia ha chiamato “coscienza collettiva” e certa scienza di confine ha provato ad indagare attraverso il concetto di “campi morfici”. In altre parole, il mostro squamato parrebbe un fenomeno quasi esclusivamente mentale e l’apocalisse che porta con sè riguarderebbe le nostre coscienze.

La nebbia mostruosa

Nebuloso è il ruolo e il significato del mostro e nebuloso l’aspetto. Letteralmente. Una nebbia fittissima avvolge il suo corpo e i racconti dell’Apocalisse lasciano intendere che gli abitanti della Fattoria Mallory conoscano esattamente l’aspetto del mostro pur non avendolo visto. Il mostro potrebbe essere allora quella che molti chiamano “forma pensiero”, una presenza inconcepibile che una pietosa nebbia riesce a celare, allo scopo di preservare la sanità mentale di chi la osserva, abituando gradualmente la psiche a elaborarla e accettarla. Se questo è il significato e la funzione della nebbia, gli abitanti della Fattoria Mallory furono semplicemente coloro che raggiunsero l’illuminazione, che riuscirono cioè a dissipare la nebbia e a guardare il mostro in faccia. Allo stesso modo gli sho-shep, ovvero le squame viventi che si distaccano dall’immonda cute del mostro divenendo febbrili e scomposti grumi organici di energia cinetica allo stato caotico puro, potrebbero essere forme pensiero minori, scarti mentali che, come le idee folli vagano e si ripropongono in forma disarticolata e ossessiva.

L’enigma temporale

Il tempo è un elemento cruciale anche se spesso sottovalutato in questa vicenda. La prima domanda attiene agli eventi originari, ovvero: quando il mostro squamato fece la sua apparizione nel cielo della Fattoria Mallory? Le storie dell’Apocalisse sembrano raccontare una vicenda dalla collocazione storica indecifrabile. In questa fase a cavallo tra la precedente manifestazione esplicita (quella raccolta ed elaborata dai blogger del 2005) e la prossima ancora da comporsi, i ricordi affievoliti delle storie non ci aiutano a trovare elementi decisivi per una corretta e indubbia identificazione cronologica. Da vari elementi si può tuttavia desumere che le vicende della Fattoria Mallory siano avvenute in un’epoca indefinita prima del 1900. Una delle storie che molti ricordano più vividamente in questi recentissimi e confusi tempi (il racconto del c.d. “folle”) ci suggerisce che la propagazione della storia e della “forma pensiero” avvenga in un universo regolato da un tempo circolare e non lineare e avanzi rimbalzando come un sasso piatto sullo specchio d’acqua della nostra realtà, provocando increspature e distorsioni. Secondo una chiave di lettura ormai acclarata pare poi che nuove manifestazioni seguano intervalli regolari di un certo numero di anni. Quantificare il numero esatto è tuttavia difficile e complicato per l’assenza di altri episodi noti di manifestazione della “forma pensiero”. Ancora una volta dobbiamo quindi affidarci alle sensazioni e ai ricordi inconsci: molti ricordano o sembrano considerare come dato acquisito per queste ricorrenze arcane le frequenze a base del numero 19, altri del numero 15. Il fatto che tra i più giovani sia la frequenza dei 15 anni ad essere ritenuta quella valida, mentre tra i più anziani quella dei 19 anni, porta qualcuno a ritenere che stiamo assistendo ad una escalation degli eventi che è legata a doppio filo ad un fenomeno di velocizzazione del tempo, sempre più percepito, in generale, come accelerato. Questa accelerazione produce oggi in varie parti del mondo, ma senza un preciso pattern spaziale, l’esplicarsi di numerosi fenomeni visivi inspiegabili collegati all’appararizione degli sho-shep, fenomeni che, ovviamente, essendo riconducibili a forme pensiero, non possono in alcun modo essere ripresi dagli obiettivi fotografici o altro strumento elettronico di cattura delle immagini.

La prossima manifestazione

L’accelerazione delle manifestazioni e anche degli eventi storici dà credito alla sensazione che già in molti provano: quella che a breve possa aver luogo una nuova manifestazione del mostro squamato. In particolare prende forza, in coloro che tornano a ricordare le vicende della Fattoria Mallory, la componente apocalittica. Ancora il ruolo del mostro non viene percepito nitidamente come del tutto positivo o del tutto negativo. Acquista vigore però un’espressione, un concetto, un refrain ossessivo che risuona in testa: “si squarcerà un velo”. Non a caso, Apocalisse vuol dire Rivelazione. In qualcuno sta montando l’idea che la vicenda della Fattoria Mallory troverà piena compiutezza e si legherà indissolubilmente alla risposta alle grandi domande sulla nostra natura e sul segreto della vita. Tali testimonianze si stanno assommando lentamente dall’inizio del 2020 e vedranno forse, in futuro, la composizione di un disegno più coerente e intellegibile.

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Questo post è per definire quelli che saranno i prossimi interventi sul gioco della Fattoria Mallory.

La minestra coi sassi

Innanzitutto vorrei precisare che lo stadio attuale di sviluppo può essere denominato “Minestra coi sassi”. Conoscete la favola della “minestra coi sassi”? Un viandante arriva in una casa di campagna chiedendo qualcosa da mangiare. Si sente rispondere dagli abitanti che non hanno nulla. Allora il viandante replica che bastano un paiolo colmo d'acqua e un paio di grossi sassi saporiti che può fornire egli stesso. Incuriositi e sollevati dal fatto che se la possono cavare con poco, gli abitanti della casa acconsentono all'uso del loro paiolo colmo d'acqua. Così il viandante mette a bollire un paio di grossi sassi presi al fiume. Però ogni tanto chiede: “Non avreste un pizzichetto di sale? E' buono anche così, bastano solo i due sassi, ma sapete...” oppure “Non avreste una piccola cipolletta? Non è necessaria ma...”. Quelli della casa accettano di volta in volta. Alla fine viene fuori una minestra con tanti ingredienti e il viandante, prima di farla assaggiare anche agli altri, toglie i sassi e spiega che possono lavarli per farli tornare come nuovi e riutilizzarli in un'altra occasione.

La minestra coi sassi

Ecco, la Fattoria Mallory si trova nella fase in cui si devono togliere i sassi ma, mentre nella favola la minestra è buonissima per abbondanza di ingredienti, qui occorre essere un po' selettivi anche negli elementi apparentemente buoni, pure se non sono “sassi”.

Il problema della ridondanza

Il problema principale, a mio avviso, è proprio la ridondanza. Cioè, se si è scelto di renderlo un solitario di carte, bisogna dare al gioco i seguenti elementi che aiutano a renderlo un vero gioco di questo tipo e non un'esperienza casual ibridata con il genere visual novel. Questi elementi sono: – Standardizzare gli eventi (ovvero le carte del deck), sia graficamente, sia come meccanica; – Togliere la battaglia con gli Sho-Shep che spezza il ritmo troppo spesso; – Rendere ben chiari i valori numerici delle scelte: ad esempio un evento battaglia deve prevedere e segnalare al giocatore la possibilità di perdere a random x punti salute – oppure mostrare quante carte ci sono ancora nel mazzo degli eventi – o ancora quanti giorni mancano; – Creare più meccanismi di manipolazione del deck, ad esempio tutori, come si dice in gergo, cioè carte che cercano altre carte.

Questo della ridondanza è il “sasso” più grosso. Gli altri sono connessi a questo, cioè sono relativi all'intervento principale volto ad eliminarla, quindi, ad esempio, modificando opportunamente la grafica e l'interfaccia.

Gli interventi da effettuare

Per tutti questi motivi, vorrei procedere in questo modo: – Creare un sistema vero e proprio di carte da gioco con Nandeck, come se si trattasse di carte fisiche. L'obiettivo è rendere il testo di ogni carta autonomo ed esaustivo riguardo alle regole che le carte coinvolgono. Esempio: “Evento battaglia. Scegli se affrontare da 1 a 5 Sho-Shep. Puoi perdere 2 punti salute per ogni Sho-Shep e infliggere al mostro squamato 10 punti empatia”. – Rivedere l'interfaccia di gioco di conseguenza, rendendo il flusso di gioco più fluido. – Rivedere l'ambientazione in virtù del sistema di gioco ovvero, mentre nel primo caso era stata l'ambientazione a creare il sistema di gioco, adesso dovrebbe avvenire un movimento contrario.

Ok, per ora dalla Fattoria Mallory è tutto. A differenza della prima fase, conto di metterci moooolto più tempo per questi interventi e di tenere tutto nascosto per lavorare con più calma e tranquillità. Nei soliti ritagli di tempo, ovviamente.

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A seguito di un sondaggio sul mio Mastodon, posto una raccolta di aforismi del noto manager italiano scomparso nel 2018. Questa raccolta è presa dal sito di Millionaire che, a sua volta, ha attinto dal notissimo Dagospia. Al di là dell'opinione personale che si può avere su Sergio Marchionne, credo si tratti di un documento interessante, che può insegnarci qualcosa e – perché no? – essere di ispirazione. Buona lettura.

Immagine di Marchionne

Su leadership e motivazione

«Siate come i giardinieri, investite le vostre energie e i vostri talenti in modo tale che qualsiasi cosa facciate duri una vita intera o perfino più a lungo».

«La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste».

«I leader, i grandi leader, sono persone che hanno una capacità fenomenale di disegnare e ridisegnare relazioni di collaborazione creativa all’interno dei loro team».

«Il diritto a guidare l’azienda è un privilegio e come tale è concesso soltanto a coloro che hanno dimostrato o dimostrano il potenziale a essere leader e che producono risultati concreti di prestazioni di business».

Sulle auto e la Fiat

«Fiat ce la farà; il concetto di squadra è la base su cui creerò la nuova organizzazione; prometto che lavorerò duro, senza polemiche e interessi politici».

«Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti e poi, quando tornavo a Torino, il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?».

«Ai miei collaboratori, al gruppo di ragazzi che sta rilanciando la Fiat, raccomando sempre di non seguire linee prevedibili, perché al traguardo della prevedibilità arriveranno prevedibilmente anche i concorrenti. E magari arriveranno prima di noi».

«Voglio che la Fiat diventi la Apple dell’auto. E la 500 sarà il nostro iPod».

«Lavoriamo in un settore in cui il metodo e il processo sono fondamentali. Noi saremo sempre come la musica, improvviseremo, saremo agili, aperti al dibattito, umili, ma impavidi e non ci sarà mai posto per la mediocrità».

«Non lascio copioni: Fca è un insieme di culture e di manager nati dalle avversità».

«Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo dei sopravvissuti e l’onore dei sopravvissuti è sopravvivere».

«Non pensavo di poter arrivare al livello dei migliori concorrenti, mi sarei accontentato della metà classifica. Nessuno ci credeva, pensavano che avessi fumato qualcosa di strano. Oggi posso dire che non mi ha mai sfiorato la tentazione di rinunciare, piuttosto il pensiero che forse non avrei dovuto accettare. Ma era la Fiat, era un’istituzione del paese in cui sono cresciuto».

Su lavoro e impresa

«Dobbiamo evitare di essere arroganti. Il successo non è mai permanente, ma deve essere guadagnato giorno per giorno».

«Il carisma non è tutto. Come la bellezza nelle donne: alla lunga non basta».

«Quello che ho imparato da tutte le esperienze di amministratore delegato negli ultimi dieci anni è che la cultura aziendale non è solo un elemento della partita, ma è la partita stessa. Le organizzazioni, in sintesi, non sono null’altro che l’insieme della volontà collettiva e delle aspirazioni delle persone coinvolte».

«Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che abbiano trenta o sessant’anni».

«Concentrarsi su se stessi è una così piccola ambizione».

«Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze degli errori compiuti dai colletti bianchi».

«La prospettiva con cui ci si deve muovere non può essere quella assistenziale. La cultura dell’assistenzialismo produce dipendenza e spegne lo spirito di iniziativa e il senso di responsabilità».

Sull’Italia

«La tesi generale è che se la Fiat va bene, l’economia italiana tira, aumentano le esportazioni, aumenta il reddito, crescono i posti di lavoro. Insomma, ciò che è bene per la Fiat è bene anche per l’Italia. Credo sia vero, perlomeno in parte, e comunque ci impegneremo perché ciò accada. Ma credo sia ancora più vero il contrario: ciò che è bene per l’Italia è bene per la Fiat».

«L’Italia è un Paese che deve imparare a volersi bene, deve riconquistare un senso di nazione».

«L’Italia è un paese con una delle più grandi ma inespresse potenzialità che io conosca, è un Paese che non si vuole bene. Sulle prime quattro o cinque pagine dei giornali si legge solo di litigi e di discussioni che non hanno impatto sull’Italia e sul futuro dei giovani. Se non smettiamo di portare avanti questi dibattiti, non faremo molta strada».

«Noi italiani siamo da sempre il Paese dei Gattopardi. A parole vogliamo che tutto cambi, ma solo perché tutto rimanga com’è».

Sulla sua vita

«I miei maglioni hanno un piccolo tricolore sulla manica. E lo porto con orgoglio, io».

«Io non sono nato in una casta privilegiata, mi ricordo da dove vengo, so perfettamente che mio padre era un maresciallo dei carabinieri».

«Non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o mi renda un amministratore delegato migliore. Ma mi ha aperto gli occhi, ha aperto la mia mente ad altro».

«Dopo la prima laurea in filosofia mio padre aveva già scelto il colore del taxi che voleva farmi guidare perché diceva che non sarebbe servita a nulla».

«Io in politica? Scherziamo? Faccio il metalmeccanico, produco auto, camion e trattori».

La lettera che inviava ai nuovi dipendenti Fca

«Cara Collega, esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l’opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa. Le persone, là, sentono di appartenere a quel mondo eccezionale almeno quanto esso appartiene loro. Lo portano in vita con il loro lavoro, lo modellano con il loro talento. V’imprimono, in modo indelebile, i propri valori. Forse non sarò un mondo perfetto e di sicuro non è facile. Nessuno sta seduto in disparte e il ritmo può essere frenetico, perché questa gente è appassionata – intensamente appassionata – a quello che fa. Chi sceglie di abitare là è perché crede che assumersi delle responsabilità dia un significato più profondo al proprio lavoro e alla propria vita» 

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Benvenuti alla seconda parte del mio documento di game design sulla Fattoria Mallory. La prima parte è qui. Si tratta del primo riferimento incrociato del mio blog, segno che quest'ultimo sta diventando un'opera quasi professionale.

La prima cosa di cui dobbiamo parlare, con calma e tranquillità, è la natura del solitario. Difatti la Fattoria Mallory può essere intesa, a livello di struttura, come un solitario di carte. Scriverò quindi di seguito alcune riflessioni che non richiedono al lettore di conoscere o di aver giocato al mio videogame.

Dora la cuoca

Il concetto-base del solitario

Se diciamo “solitario” diciamo l'archetipo del videogioco single player, quindi l'archetipo del videogioco in generale, giacché il videogioco è nato come single player. Tuttavia, prima dei videogame esistevano altri solitari. Il concetto-base di un solitario è il seguente: Bisogna ottenere un certo scopo o risultato, più o meno difficile, da una prova o evento aletorio.

Il grado di difficoltà rappresenta il livello di sfida o, in termini matematici, la probabilità di conseguire lo scopo del gioco. Il solitario più semplice che mi viene in mente è il seguente: *Lancia una moneta e indovina quale faccia uscirà.” Questo è un gioco single player con tutti i crismi! La probabilità di riuscire nel gioco è il 50%, come ben sanno gli studenti di statistica e gli utilizzatori del comune buonsenso. Conosco tanti bambini che si dilettano ore e ore al giorno in questo splendido solitario... no, non è vero, sto scherzando. In realtà è un gioco un po' noiosetto e lo è per due ragioni: 1) La suspence scema troppo presto; 2) Non è prevista alcuna ricompensa per l'abilità del giocatore.

Immaginiamo allora che la Fattoria Mallory sia nata con una struttura simile a quella del solitario “Lancio della moneta indovinando la faccia”. Quale dovrebbero essere le linee di intervento per rendere il gioco più attraente?

Aumentare la suspence: aggiungere varietà

Esiste un altro tipo di solitario che ha avuto molto successo negli anni passati: il solitario di carte. In genere un mazzo assicura una certa varietà. Se lanci una moneta è come aver a che fare con un mazzo di 2 carte, una chiamata “testa” e l'altra chiamata “croce”. Ma con le 53 carte evento della Fattoria Mallory... c'è più varietà e suspence! Inizialmente gli eventi dovevano essere tutti diversi: lì sì che ci sarebbe stata una varietà pazzesca! (Ma perché oggi abbondo in entusiastici punti esclamativi?)

Tuttavia creare eventi tutti diversi sarebbe stato lungo e, soprattutto, avrebbe condotto il solitario ancor più lontano dall'obiettivo di allontanarlo dalla noia attraverso la seconda funzione eccitante: prevedere una ricompensa per il giocatore. Difatti, come ben sanno i giocatori del formato Singleton o Commander di Magic (in cui ogni carta del mazzo è unica) contrapposti a quelli “classici” (in cui sono previste nel mazzo fino a quattro carte con lo stesso nome), deck con carte tutte diverse l'una dall'altra conducono a dare un peso troppo grande all'elemento fortuna, escludendo in tutto o in parte il ruolo dell'abilità. Parliamo allora di...

Prevedere ricompense per l'abilità del giocatore

Il giocatore non vuole semplicemente essere in balia di un destino cinico e baro. Il giocatore vuole avere il ruolo del protagonista. Per questo motivo occorre lasciargli un margine di manovra per poter influire sugli eventi. Riprendiamo il solitario “Lancio della moneta indovinando la faccia”. Se esistesse la capacità di prevedere il futuro in modo incerto e basato sulla bravura, questo solitario sarebbe tutto ciò di cui avremmo avuto bisogno per giocare (trascurando il problema sopra sviscerato della varietà) e probabilemente la serie “Call of Duty” non sarebbe nemmeno stata creata. Tuttavia non riusciamo a prevedere il futuro in un ambiente così asettico come quello relativo al lancio di una moneta. Ma magari ci riusciamo se il gioco cambia lo scopo, diventando “Lancia una moneta sulla testa dell'arbitro”. In questo caso l'evento, pur se lo scopo diventa più difficile in termini di probabilità (non è più il 50%), coinvolge l'abilità di lancio del giocatore e, in certa misura, gli consente di prevedere il futuro, al punto da fargli immaginare la traiettoria ideale a cui poi conformerà la fase di gioco propriamente detta. Passando ad un sistema più complesso come quello dei mazzi di carte, c'è anche qui un chiaro elemento di gestione e previsione del futuro (è questo in fondo il concetto di abilità) poiché il giocatore in genere fa affidamento sulla conoscenza in merito alla composizione del mazzo e sulle carte già uscite per poter determinare, con ragionevole approssimazione, le carte che dovranno uscire o essere pescate/giocate.

Considerazioni collaterali

Tenuto conto di queste riflessioni, si possono allora fare le seguenti considerazioni collaterali: – Non è importante la probabilità di riuscire nel gioco se l'abilità del giocatore è adeguatamente stimolata e coinvolta e la posta in palio commisurata e attraente (tipo colpire l'arbitro alla testa); – E' bene che la probabilità aumenti con l'abilità del giocatore, sia essa fisica (lanciare corpi solidi tipo monetine) o gestionale (prevedere le future pescate da un mazzo in base alle passate); – Un gioco acquista profondità se vengono coinvolte la pratica e la conoscenza dei meccanismi interni del gioco stesso.

Finale sulla Fattoria Mallory

Detto questo, vi invito a leggere la descrizione della Fattoria Mallory per capire i meccanismi di gioco e a provare una partita, magari scaricandolo anziché utilizzare la versione web. La mia idea è che il gioco debba ancora molto lavorare sul secondo fronte descritto sopra, ovvero quello di stimolare e coinvolgere maggiormente l'abilità del giocatore, dandogli più elementi per gestire la partita. Invece la grafica è una figata! (Fine. Basta esclamativi.)

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Come promesso, voglio fare un piccolo documento di game design per capire cosa fare del gioco intitolato “Fattoria Mallory” ma anche per ragionare pigramente e piacevolmente sul game design stesso e sulle grandi questioni della vita che esso immancabilmente coinvolge.

Occorre perciò capire il punto di partenza da cui si muovono i primi passi, la genesi o origine di quanto già fatto. Questo è lo scopo del post odierno.

Narrativa, questa sconosciuta

Innanzitutto diciamo che l'idea era di usare Renpy per le sue possibilità in termini narrativi ma che mettersi a scrivere una visual novel mi era sembrata un'impresa improba fin dal principio. Ciò per due motivi: mancanza di tempo e mancanza di ispirazione adeguata. Col primo motivo ci si può fare i conti ma col secondo è un bel problema. A vent'anni mi sembrava che non avessi abbastanza tempo per partorire in una dozzina di vicende di fiction tutta la voglia che che avevo dentro di inanellare pagine di narrativa appassionata. Oggi è complicato. Complicato per varie ragioni ma la principale è che mi sono disabituato a leggere narrativa. E' una specie di muscolo disallenato... Vi confesso che per me è stata una questione che non ho lasciato passare sottogamba. Mi era ritornato in mente perfino un libro di psicologia che avevo trovato e letto da ragazzo nella biblioteca di mio fratello: lì c'era uno psichiatra che raccontava di un suo paziente pittore, il quale gli chiedeva di ridargli la sua facoltà di dipingere. Lo psichiatra gli rispondeva che forse la sua voglia di dipingere altro non era che l'espressione principe della sua natura nevrotica e quindi non era necessariamente un male il blocco creativo cui stava andando incontro. Credo che fu dopo aver letto quella cosa che cominciai a prendere la psicologia con le molle... Ad ogni modo, ho deciso di rimettermi a leggere qualche romanzo in più e questa estate ho completato “Jerry delle isole” di Jack London, un bel libro su cui ci sarebbe molto da dire e che avevo ricevuto (e mai letto) dal giorno della mia prima comunione. Ci sarebbe molto da dire, dicevo, ma non lo dirò perché andrei fuori tema. Tornando al tema, mi risolsi di bypassare la questione “blocco dello scrittore” con il classico espediente del programmatore: un bel ciclo. Ecco quindi l'idea dell'iterazione di giornate in cui ogni volta viene pescato un evento tra i tanti a disposizione. Pensavo di scriverne un centinaio, piccole parabolette inquietanti da poche righe, e pensavo che l'idea di spezzettare il mio compito principale in tanti minuscoli compiti da assolvere poco per volta mi avrebbe aiutato a tenere un certo ritmo di sviluppo. Ma mi sbagliavo. Perché la verità è che non si più completare e nemmeno cominciare nessun gioco finché non si ha ben chiara la struttura. E la struttura deve rispondere ad un unica domanda: qual è lo scopo del gioco?

Lo scopo

Qui è arrivata la prima definitiva presa di coscienza dell'impossibilità di fare un vero e proprio ibrido tra visual novel e X (dove X è qualche altro genere ancora non specificato in questa fase). Così ho cominciato a chiedere a me stesso lo scopo del gioco più adatto. In una visual novel, non c'è altro scopo che il suo svolgimento verso il finale. In un gioco con dei numeri da manipolare, non può esserci altro scopo che portare quei numeri a raggiungere i valori obiettivo dello stesso, evitando che nel frattempo essi raggiungano altri valori in grado di determinare invece il game over. Due concezioni opposte e sapevo che non avrei potuto sviluppare a dovere la prima per tutta una serie di questioni che ho spiegato pocanzi. Ecco allora che ho cominciato a pensare al mostro, al nemico, al villain. Quale altro obiettivo poteva esserci oltre che il portare a zero i suoi punti vita? Nessuno, mi son detto. Ma un sondaggio su Mastodon mi ha convinto a ritenere che sarebbe anche stato un po' troppo banale. O che quantomeno, come col sondaggio, era meglio lasciar scegliere. Così è nata l'idea dei quattro valori del mostro che era possibile attaccare per finire il gioco. Quattro valori come i quattro semi delle carte. L'idea del solitario era così dietro l'angolo.

Finisce qui la prima parte di questi ragionamenti oziosi sullo sviluppo della Fattoria Mallory. La prossima volta, se vorrete, entreremo più in dettaglio.

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