Gippo

Gippo – Un blog gestito dal Comitato Yamashita

Ieri ho mandato una e-mail al supporto di itch.io chiedendo di cancellare definitivamente il mio account. Come mai? Il punto è che sono sempre stato, anche quando non sapevo neppure cosa fosse(ro), un fan delle 5S, una teoria organizzativa giapponese in cui le 5 lettere S stanno per:

SEIRI – Separare o Scartare SEITON – Riordinare o Sistemare SEISO – Pulire o Spazzare SEIKETSU – Sistematizzare o Standardizzare SHITSUKE – Diffondere o Sostenere

Non sto a specificare nel dettaglio le fasi sopra indicate perché Google (o DuckDuckGo o Ecosia o Bing o Yahoo search o chi volete voi) possono aiutarvi ad approfondire e Wikipedia è vostra amica. Dico solo che la mia fase preferita è sempre stata la prima, cioè Scartare. Scartare l’inutile, i muda, le perdite di tempo, quello che alla fine provoca ritardi, dubbi, indecisioni, tentennamenti, incertezze. Così ho deciso di scartare tutta la mia identità di Game Developer.

Inizialmente l’idea era solo quella di scartare il logo. Poi è arrivata l’idea di sbarazzarmi dell’ingombrante concetto di avere un portfolio, cioè una vetrina in cui dimostrare una minima esperienza in campo gamedev. Poi mi sono detto: ma perché mettersi ad eliminare solo un pezzetto? Eliminiamo tutto, con pervicacia. Quindi ho deciso di disfarmi senza rimpianti di un pezzo di identità, quella di aspirante sviluppatore indie, che nel corso di questi anni ho trattato più come una posa a livello personale che come una prospettiva concreta. Mi sbarazzo di un’aspirazione a metà, fra l’altro suggerita da una persona che alla fin fine non mi sta manco tanto simpatica (il mio ex consulente del lavoro!).

A convincermi al grande gesto (grande almeno a livello simbolico) sono state le difficoltà psicologiche nello sviluppare una visual novel e l’idea di fare largo nella mia testa un po’ troppo carica in questo periodo. Messo di fronte all’azione concreta di creare un gioco, sviluppare mi è sembrata una cosa vecchia.

E un poco, nella decisione ha influito Belle Delphine. La conoscete? E’ sostanzialmente un meme vivente. Una ragazza cosplayer diventata famosa per aver fatto un po’ di foto con l’espressione “ahegao”, quella delle protagoniste dei manga che godono. Adesso sta spingendo molto sulla monetizzazione del suo personaggio, pubblicando foto più audaci e vendendole su Onlyfans. Molti la definiscono un genio perché dicono che guadagni più di una pornostar senza aver mostrato nemmeno un quarto di passera o mezzo capezzolo. A me il guadagno che mette su non impressiona (pur se nominalmente parrebbe sostanzioso), però la sua figura e la sua esperienza online mi hanno dato un messaggio di natura economica e filosofica assieme: non ci si può cristallizzare in una forma specifica. A meno che un giorno non arrivino i soldi. Lì finisce la libertà e devi battere il ferro finché è caldo, nel frattempo puoi godertela ad esplorare quello che puoi e vuoi, senza darti etichette troppo presto. Beh, non sto a specificare tutti i passaggi logici attraverso cui è arrivato il messaggio o la morale sopra indicati...

Un’altra considerazione: ho eliminato l’account perché volevo un foglio bianco da riempire. La prossima settimana per me è decisiva per via di un appuntamento che attendo da molto tempo. Questo potrebbe essere l’evento che definisce i miei prossimi anni, che mette, per l'appunto, le citate etichette. Per tale motivo, ho sentito necessità di fare pulizia di ciò che non ritenevo più necessario. Il prossimo post forse traccerà la nuova rotta. Perché nuove rotte urgono. Grazie Belle Delphine, grazie di tutto, sin d'ora.

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Ricordo che mi ero tuffato nel Fediverse qualche mese fa dopo aver letto un post di Kein Pfusch aka Uriel Fanelli. Ne ho riletto uno recentemente in cui dice che non è necessario mettersi a fare concorrenza ai social network principali inseguendo i numeri, anzi, piccolo è bello. E' un'opinone che allo stesso tempo mi lascia perplesso e suscita in me una serie di domande che possono ricondursi e riassumersi tutte in questa: A cosa servono i social network?

Io credo che i social network servono per interagire, talvolta in forma narcisistica o morbosa, talvolta più costruttiva, con una platea di persone affini che abbiano voglia di trattare in modo molto superficiale certi argomenti. Scrivo “molto superficiale” perché ho ben presente il ruolo passato dei forum, i quali sono stati (ahimé, il loro declino è inesorabile a causa dei vari discord + chat di messaggistica varie) lo strumento migliore per approfondire in modo interattivo e quasi professionale certe questioni senza per questo rinunciare anche alla chiacchiera scanzonata (come ben sanno i frequentatori delle sezioni Off-topic).

Però riconosco che il giudizio di superficialità che riservo ai social network non è del tutto colpa loro ma dello spazio che è stato lasciato loro. Mi spiego meglio: a metà del 2020 ormai tutto quello che poteva essere scritto sugli argomenti 'statici' (la storia mondiale, le zucchine, come riparare la bicicletta, come allungare il pene ecc.) è già stato messo su server, pixel nero su pixel bianco, sparso su blog, wiki, forum, siti dedicati, portali Supereva e via discorrendo. Solo il resto, cioè quello che non è statico, cioè il calciomercato, il gossip sui vip, le esternazioni dei politici, l'attualità propinata dall'agenda massonica può essere oggetto di strumenti nuovi o alternativi. Però gli argomenti sopra descritti sono cadùchi, effimeri, leggeri e poco importanti per la loro stessa natura. Una volta che impari come coltivare le zucchine o allungare il pene, beh, quello è per sempre. Se Salvini e Renzi oggi dicono qualcosa non è detto che domani non ne dicano un'altra di segno opposto. Se il Milan vuole comprare Messi, magari domani si scopre che non è vero.

Questo, a lungo andare, dà al social network un senso di inutilità che si estende, oltre che alle altre forme comunicative di internet «socializzate» tipo i blog e i portali di informazione, anche alle persone con cui interagiamo. Cioè, hanno l'effetto opposto: anzichè avvicinarci, ci allontanano per inedia. Ad esempio, mi sono reso conto che, col passare del tempo, anch'io trovo le persone sempre più noiose e meno interessanti. E che il mio problema coi social è proprio questo: è completamente scomparso il senso di curiosità nei confronti degli altri, quello che provavo agli albori di internet, quando leggevo avidamente i post di una ragazza adolescente e mi sembrava di stare lì a spiare il suo diario segreto, con quel misto di scoperta e senso del proibito. Il blog invece è diverso: qui non è importante l'interazione con gli altri ma solo l'espressione personale. In effetti potrebbe essere una forma alternativa di narcisismo allo stato puro ma, pur se è questo il caso, la trovo comunque più accettabile.

Mi rendo conto che la mia non è solo una riflessione sui social network, sui blog, su internet, quanto piuttosto sul rapporto problematico con l'altro-da-sè. Però, come dicono negli editoriali di Donna Moderna? La tecnologia è uno strumento e gli strumenti non sono buoni o cattivi, conta solo come li si utilizza e il coltello può uccidere un uomo o tagliare il pane e bla, bla, bla gne-gne-gne. Quando ero un adolescente, mi ero ripromesso di seguire mai un consiglio che potesse figurare negli editoriali pieni di buonsenso femminile (ossimoro) di Donna Moderna però dai, questa considerazione secondo me è un po' giusta. Ce n'è una di segno opposto che dice che è il media che fa il messaggio. Ma ormai siamo abituati alle considerazioni di segno opposto che sono entrambe valide e vere.

E i terribili colossi del social mainstream? E i big data? Lo ammetto: non mi interessa più di tanto fare battaglie come una singola molecola di sodio in acqua Lete. I loro social sono invivibili e spero che muoiano al più presto con le chat di messaggistica, che siano le loro o quelle di qualcun altro. Ma temo una cosa: il problema alla fin fine potrebbe essere proprio l'essere umano. Personalmente proverò a recuperare il rapporto con il mio prossimo, chissà...

Detto questo, un breve aggiornamento sullo sviluppo della mia visual novel: non ho scritto un cazzo. Anche qui c'è un problema a monte, una questione sospesa che non si vuole sbloccare nella mia vita privata e professionale. Forse le cose cambieranno dal prossimo post.

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Durante questa settimana, il lavoro sul mio nuovo gioco è proseguito abbastanza bene. La fase iniziale di ogni creazione impone una “analisi di fattibilità”, cioè una disamina della possibilità di riuscire concretamente a creare un qualcosa di meritevole di sforzo e di impiego di tempo. Per questo vorrei parlare un poco, in generale, della analisi di fattibilità e degli elementi che usualmente la compongono.

  1. La possibilità tecnica. Questo elemento si riferisce alla ricerca degli strumenti e delle scelte tecniche migliori per realizzare qualcosa, oltre che all'analisi delle proprie personali competenze. Nel caso strumenti o competenze siano carenti, occorre procurarseli e integrarli. E qui scattano le prime domande: quanti soldi, tempo, impegno occorrono per ottenerli? Ci sono alternative più semplici o a buon mercato o addirittura belle e pronte? Se sì, cosa sacrificano in termini di qualità? Dopo questo 'sacrificio' può comunque scaturire un buon prodotto? Personalmente parto sempre da qui ma non è detto che sia la scelta migliore. Il punto è che mi piace provare a creare un nuovo gioco per padroneggiare nuovi strumenti e conoscenze: in pratica si tratta di un'occasione per imparare. Sarà per questo che non ho mai pubblicato un gioco serio? Sono soddisfatto così, con una tacca in più che attesta la possibilità di usare un nuovo strumento di sviluppo? La risposta attiene all'analisi della motivazione, che è un qualcosa che in questo post non affrontiamo.

  2. L'ispirazione artistica. Questo elemento attiene alla possibilità di dire qualcosa di nuovo, oppure di affine alle proprie corde ma che possa interessare un possibile pubblico. Anche qui, ad esempio, possono apparirci serie difficoltà a trovare una motivazione: sono stati creati tanti di quei giochi! Però, pur con i limiti della forma espressiva chiamata videogame, qualcosa di nuovo c'è sempre da dire, non foss'altro che una piccola variazione sul tema. Il nostro compito tuttavia è trovare una identità ben definita, che può anche emergere strada facendo, andando per prove e tentativi, magari pure inconsapevoli. Errori perfino. La brutta notizia è che, se non troviamo nulla, il nostro gioco resterà mediocre pur nel novero delle creazioni amatoriali e hobbistiche. Una scintilla deve scoccare e dobbiamo aver pazienza prima nell'aspettarla, poi nell'utilizzarla per alimentare la fiamma della nostra arte.

  3. Il fattore economico. L'economia, cioè il complesso delle scelte in termini di tempo, risorse e impegno ai fini del raggiungimento del risultato (il gioco completo!) è l'elemento che piú di tutti potrà dire l'ultima parola sulla bontà ed efficacia del progetto iniziale. E' il fattore d'analisi imprescindibile. I costi così come intesi sopra possono essere limitati e contenuti grazie all'organizzazione e ad uno schema di sviluppo rigoroso anche se pronto, con flessibilità, a cambiare a seconda delle circostanze, delle opportunità e degli imprevisti. In questa analisi si possono evidenziare dei colli di bottiglia che impongono di ripensare da capo l'impostazione originale riadattandola per contenere i costi e i tempi. Ad esempio, un fattore critico per quanto mi riguarda nello sviluppo di una visual novel è quello della creazione degli sfondi: non a caso ho rivisto molte volte (e sto rivedendo tuttora) tutto l'aspetto grafico del progetto con l'idea di contenere o gestire meglio questo elemento cruciale. Non è necessario avere subito un piano ma diciamo che, dopo aver riconosciuto la scintilla creativa del punto precedente, prima arriva il progetto rigoroso e meglio è, pena la dilatazione abnorme dei tempi di sviluppo, che finiscono costantemente relegati nei cosiddetti 'ritagli' a far concorrenza al pornosurfing o al trollaggio su social e reddit vari.

  4. Il fattore denaro. Questo elemento d'analisi è successivo e consequenziale agli altri. Attiene all'economia 'spicciola', quella del sistema economico attualmente vigente. Se siete dei nemici del capitalismo, potete anche saltare l'analisi a piè pari ma talvolta, pure in quest'ultimo frequente caso, potreste rendervi conto che il vostro gioco può avere un'attrattiva tale da poter ambire ad una contropartita monetaria. Non trattandosi della scoperta della pennicillina, perchè non approfittarne? Il fattore denaro può comportare l'inserimento di elementi di gioco creati al preciso scopo di incentivare il pubblico a meter mano al portafoglio. Roba tipo: nudità, achievement o meccanismi di accumulazione simili, suggerimenti esterni o marchette assortite. Se l'obiettivo è il denaro, può essere conveniente rendere il progetto generale espandibile e scalabile, non solo in ragione del fattore organizzativo (cosa che va sempre bene) ma anche di quello pecuniario.

Bene, per l'analisi di fattibilità è tutto. L'ho scritta soprattutto per organizzarmi i processi mentali necessari a capire dove può arrivare lo sviluppo del gioco a cui sto pensando attualmente ma supongo possa essere applicata ad una vasta gamma di creazioni artistiche. Un'ultima avvertenza però: l'analisi è spesso paralisi quindi non buttatevici subito. Prima vi deve crescere dentro come un prurito, una fantasia, da lasciare un pochettino svagare in libertà.

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In questa piccola pausa di riflessione, ho fatto mente locale sulla possibilità di sviluppo di videogiochi. Da un po' di tempo a questa parte mi rimbalza in testa l'idea di fare una visual novel: ho dedicato anche un paio di post a questo argomento. Al di là dell'eventualità di fare o meno un gioco di questo tipo, trovo molto interessante l'idea di utilizzare uno strumento come Renpy che è open source e di livello professionale, con un'interfaccia già pronta ma personalizzabile e tante funzioni che lo rendono flessibile al punto da poter esplorare altri generi, come giochi di ruolo o gestionali a turni. Così ho sviscerato ad uno ad uno alcuni elementi critici. Quella che segue è una disamina simile a quelle fatte in passato, ma un po' più seria.

Grafica

Che io faccia una visual novel classica o un gestionale con l'aspetto di una visual novel, occorre disegnare sfondi e personaggi. Mi era venuta in mente l'idea di comprare una tavoletta grafica ma ricordo che ne avevo una qualche anno fa e non mi ci trovavo affatto bene rispetto alla naturalezza del disegno su carta poi scannerizzato. Però, non so perché, oggi imbrattare carta mi sembra tanto uno spreco, un'inefficienza. Così, giusto per provare, ho riciclato un programma di cui avevo sentito dire un gran bene tra gli artisti ma che non avevo mai sviscerato a dovere: Fire Alpaca. In questo programmino grafico open source e (cosa ancor più bella) portable, l'attenzione è tutta rivolta al disegno e c'è uno stabilizzatore del tratto molto buono. Ho provato quindi a disegnare col mouse. Un mezzo disastro ovviamente finché non ho scoperto il “curve tool” cioè uno strumento che, definendo i punti, crea direttamente una linea curva. Se avessi avuto una tavoletta grafica avrei addirittura potuto selezionare i punti per definire il tracciato e passare la penna sulla tavoletta grafica variando il tratto lungo la curva a seconda della pressione. Ma anche utilizzando lo strumento liscio della “linea curva”, i risultati sono apprezzabili, pur non potendo variare il tratto. Per questo motivo ho proceduto così: su un layer (o livello) più basso ho scarabocchiato la figura grezza in grigio chiaro e poi su un livello superiore ho tracciato le linee nere con la precisione certosina che il curve tool può fornire. Il risultato finale, con sfondo fotografico ritoccato con filtro e figura colorata in Gimp, è il seguente: Office lady Sempre con l'occasione, ho provato anche Krita, un altro open source: bocciato, troppo pesante. Forse per la pittura digitale o un uso più professionale è buono. Non per me. Lagga.

Renpy

La grafica qui sopra non mi è piaciuta molto per un paio di ragioni: 1) troppo lungo e laborioso il procedimento di creazione; 2) poco carismatico e banale l'aspetto del personaggio. Così ho provato con vari personaggi in pixel art “realistica”: ho creato le figure su tavolozze alte 240 pixel con Aseprite (edizione free) e poi le ho ridimensionate in modo da dar loro l'altezza di 720 pixel. I personaggi sono simpatici e di bell'aspetto (almeno a mio avviso) ma è sul fronte degli sfondi che si guadagna molto esteticamente e la schermata sfondo+personaggio si amalgama molto bene, essendo tutta in stile simile. Fra l'altro, disegnare sia gli sfondi che i personaggi è molto più divertente in questo modo. Non posto però alcun risultato finale, perché non mi va di scoprire le carte. Ad ogni modo, con un piccolo kit di protagonisti e relativi background, ho scaricato l'ultima versione di Renpy e ho smanettato una mezz'oretta per trovare il modo di farla funzionare con Notepad++ come editor predefinito. Il motore di Renpy mi ha fatto un'ottima impressione e ho giocato un po' con lo spostamento delle immagini, lo zoom, gli effetti grafici… fino a creare una piccola novella copiata pari pari (o quasi) da un fumetto di una quindicina di pagine e corredata di due-tre animazioni d'effetto.

La programmazione del tempo

Ho speso un paio di orette di tempo per il personaggio postato sopra. Tre orette (ma c'è dentro un po' di studio e di sperimentazione su Renpy) per il codice. I personaggi in pixel art sono più rapidi da creare, specie se si riciclano un po' di figure già create. Gli sfondi sono decisamente più elaborati di un filtro applicato ad una foto; per una cucina domestica ho impiegato almeno un'oretta. Ho avviato la mia creazione per studiarla con gli occhi di un utente e… ci ho messo sei minuti e mezzo a finirla! Ok, era un'esperienza lineare ma pensavo che almeno un quarto d'ora ci volesse per completare la mia “opera d'arte”. Invece...

Conclusioni

Ho capito in conclusione un paio di cosette. 1) Se si sceglie di fare un gioco con una forte componente narrativa come una visual novel, bisogna partire dalla narrazione e scrivere, scrivere, scrivere; 2) Se si vuole fare dell'altro bisogna partire prima da un'idea e creare una bella struttura su carta (senza paura di sprechi o inefficienze derivanti dall'imbrattarla). Mi ha solleticato un poco anche l'idea di un gioco di carte; 3) Se si vuole mettere la forte componente narrativa di cui al punto 1, c'è bisogno di collaboratori che sappiano la lingua inglese a menadito e che siano anche un po' esuberanti nello scrivere quella specifica forma letteraria chiamata visual novel (costituita in gran prevalenza da dialoghi, ma più vicina al racconto che al fumetto). 4) Quando si parla di videogiochi, non c'è mai nulla di breve in termini di tempi di sviluppo.

Queste per ora sono le mie impressioni.

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Oggi voglio parlare delle fasi. Le fasi sono un'articolazione naturale dell'esistente in divenire, difatti le persone e le situazioni sono sempre in continua evoluzione. In particolare, ogni processo di esplorazione di una nuova tecnologia o di un nuovo filone di interessi , si articola generalmente in più fasi definite. Esse, a mio parere, sono:

Le fasi

1) La fase dell'innamoramento e della scoperta

Qui è tutto bello e nuovo, i campi sono tutti inesplorati e non c'è spazio nè tempo per chiedersi dove si vuole andare a parare. Se non ci fosse questa fase, non faremmo mai nulla e staremmo tutti apatici in un angolo a farci i fatti nostri. Non ci sarebbero le invenzioni, i salti tecnologici, le nuove idee. Ma la fase non dura molto e si passa alla nuova fase in gran fretta.

2) La fase della ricognizione

C'è ancora un processo di scoperta ma anche un piccolo processo di verifica. Cominciano a crearsi nella mente le aspettative e i possibili obiettivi e compare un primo, embrionale approccio mirato al feedback, cioè si provano a testare le possibilità che l'uso del nuovo giocattolo evidenzia. La fase termina quando, come in un videogame, cominciano ad apparire i limiti del mondo di gioco, tipo i muri invisibili di alcuni sparatutto 3D o le frasi ripetute allo sfinimento dai PNG (personaggi non giocanti) dei giochi di ruolo.

3) La fase dell'abitudine

Questa non è una fase necessariamente cattiva, anzi. L'esperienza è, bene o male, chiara e piacevole e c'è la volontà di ripeterla: in breve, assistiamo all'ingresso nella routine. Dicevo che non è una fase cattiva ma, a dispetto del nome, talvolta è una fase instabile perché può sfociare nelle fasi successive. Sarebbe bello se l'esperienza rimanesse una sana, corroborante abitudine ma il deterioramento è in agguato.

4) Var. A: La fase della stanchezza

La stanchezza è uno dei possibili sviluppi. Si crea una sorta di crisi di astinenza da dopamina rispetto a quando tutto era nuovo e bello. Allora si cercano nuove varianti e variazioni, per lo più di carattere cosmetico. Ad esempio, quando avevo un blog su Splinder, sapevo riconoscere la fase della stanchezza per via di un semplice sintomo: avevo voglia di cambiare template. Come si supera in modo costruttivo la fase della stanchezza? Questo attiene alle riflessioni conclusive.

4) Var. B La fase della dipendenza

E' una fase alternativa a quella della stanchezza. Tutti questi psicologi di Facebook e social affini hanno capito che, attraverso l'engagement, la gamification e altre pratiche sataniche (satana = il nemico) si possono rendere dipendenti i propri utenti. L'hanno capito subito i MMORPG e giochi con il ranking. Non importa che l'esperienza non sia più piacevole: importa che chi ne fruisce non riesca più a staccarsene. Ovviamente non vogliamo questo.

5) La fase della fuga

Comunque vada, prima o dopo arriva la fuga. A meno che...

CONCLUSIONI

Superare concettualmente le fasi della dipendenza o quelle della stanchezza e della fuga richiede sempre e soltanto lo sforzo di rispondere una domanda: a che serve ciò che sto facendo? Ed eventualmente: chi paga? Difatti, se c'è una cosa che ho imparato è che non si possono ignorare le regole dell'economia e della corretta gestione del tempo (che è denaro).

Insomma alla fin fine “andare va bene però a volte serve un motivo” e non si ha qualcosa di concreto da promuovere o organizzare o (perché no?) da vendere, tutte le iniziative sono destinate ad esaurirsi per inedia. Amen, alla prossima e scusate il cinismo.

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Siccome non bisogna sempre parlare dei massimi sistemi, parlerò del gioco a cui ho giocato più spesso recentemente, cioé Last Bronx della Sega.

Screenshot all'uopo

Last Bronx, nella sua versione PC, gira sui moderni sistemi operativi con un po' di smanettamento tecnico da parte dell'aspirante giocatore. In particolare, essendo troppo veloci le animazioni dei personaggi, è di vitale importanza limitare i frame al secondo. Chi ha una scheda grafica Nvidia può scaricarsi, se già non lo si ha sul proprio hard disk, il programma Nvidia Inspector: si crea un profilo ad hoc per l'applicazione e si modifica l'apposita opzione indicando 30 frame al secondo (almeno questo è il valore grazie al quale raggiungo la condizione di giocabilità minima). Chi non ha una scheda Nvidia può provare un programma a scelta di quelli che servono a registrare i videogiochi che in genere hanno una funzione frame limiter (ma non Fraps che limita i frame solo registrando effettivamente un video che intasa l'hard disk).

Mi rendo conto che se mi mettessi a scrivere professionalmente la recensione di un picchiaduro (perché Last Bronx è un picchiaduro cioè un gioco di combattimenti alla Street Fighter, uno contro uno, dove a suon di calci e cazzottoni si cerca di portare a zero la barra dell'energia dell'avversario) dovrei mettermi a parlare di: – numero personaggi giocabili – ambientazioni – animazioni dei personaggi – giocabilità

Perché allora non lo faccio? In realtà lo faccio, anzi lo farò soprattutto perché non possiamo sempre stare a parlare dei massimi sistemi.

Il gioco è un picchiaduro tridimensionale (ma senza accelerazione 3D) in cui sono presenti 8 personaggi giocabili più uno che, mi dicono, è eventualmente sbloccabile in quanto boss supercattivo finale (spoiler: è il fratello della ragazza poliziotta Yoko Kono, da non confondere con la vedova di Jo... ma non voglio parlare dei massimi sistemi). Il design è accattivante, anche se questa epressione sa molto di frase fatta da recensore di videogiochi. Così come è molto “frase fatta” quella che mi consentirebbe di dire che otto personaggi sono pochi. Ma pochi per cosa? Alla fine in un picchiaduro uno si sceglie sempre i suoi due o tre preferiti e poi sono finiti i tempi in cui si stava a cercare tutti i segreti, tutte le easter egg, tutte side quest, tutte le possibili opzioni. In questi tempi postmoderni già è tanto se... ma qui sto per affogare nel mare magnum dei massimi sistemi e mi blocco.

L'ambientazione dicevamo. Si tratta di una Tokio distopica con un sacco di bande tipo il film I guerrieri della notte di cui ho visto un paio di spezzoni pochi mesi fa su una di queste reti del digitale terrestre che vanno dal 20 al 30. E' un film invecchiato male, mi sembra una roba trash peggio del videogioco Double Dragon ma senza l'elemento cult del videogioco Double Dragon. Però mettersi a dare giudizi cinematografici è molto rischioso, quindi mi fermo. Non accennerò minimamente al fatto che fra le storie dei personaggi di gioco ci stanno un minimo di dinamiche lesbiche.

Le animazioni dei personaggi sono veramente belle. Sono violente, realistiche, impreziosite da un motion blur rudimentale ma efficace che esalta la traiettoria delle armi. Sì, perché i lottatori sono armati e i loro strumenti danno proprio l'idea di fare male. Mi piacciono un sacco. Adesso mi viene in mente Kurosawa che dà bastonate in un modo ignorante e molto piacevole. Ma tutti i personaggi sono ben caratterizzati, animati e tosti quando li vedi picchiare.

E anche la dinamica di gioco è ottima. Almeno per chi ama quella di Virtua Fighter, a base di tre pulsanti (guardia, pugno, calcio + combinazioni). Hai trenta secondi per combattere e finché non finisce il timer può accadere di tutto, perfino una combo che ti massacra il tuo avatar dopo che quello controllato dal computer l'avevi ridotto ad uno sputo dal KO e dal Perfect!. Ma le parti si possono anche invertire, ovviamente. A me la dinamica oggigiorno piace.

Ai suoi tempi, in sala giochi, non avrei mai infilato 100 lire in un cabinato con Last Bronx. Lo facevo solo in giochi che mi garantivano un minimo di tempo di gioco assicurato. Qua è roba che in meno di un minuto ti sei giocato il gettone. Ma adesso mi piace. Dovrei spiegare perché mi piace in rapporto alla mia fase esistenziale ma... indovinate un po? Sarei costretto a parlare dei massimi sistemi e non voglio.

Pur nella convenzionalità di questa recensione, evito di mettere un voto ma è un bel gioco, davvero.

Ah, solo una cosa: l'icona del desktop era talmente brutta che non la potevo vedere quindi ne ho creata una nuova personalmente usando la faccia di Nagi nella schermata selezione personaggi. Questo la dice lunga su quanto ho apprezzato il gioco.

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Questo post non mira a descrivere le nefaste strategie di manipolazione di una futura possibile società distopica fondata su una dittatura sanitaria ma semplicemente i metodi di controllo di un videogioco.

La tastiera

La tastiera non è stato il primo metodo di controllo col quale sono entrato in contatto ma è stato ed è tutt'ora il mio preferito. Non saprei dire perché, forse amo la corsa e il rumore del tasto premuto, forse è il controller con cui mi trovo più a mio agio, forse semplicemente è quello con cui mi sono trovato più spesso, nella mia storia di videogiocatore, a interagire. La tastiera è un ottimo metodo di controllo quando è necessario e sufficiente un metodo digitale. Mostra i suoi limiti soltanto quando entra in scena la necessità di un controllo analogico. Per questo, il prossimo controller di cui parleremo sarà il joystick.

Il joystick

Quando penso al joystick, mi viene sempre in mente una citazione da The Game – La Bibbia dell'artista del rimorchio di Neil Strauss: “Chi si abitua con un joystick in mano, morirà con un joystick in mano”. Uno dei personaggi principali (o era lo stesso Autore?) lo diceva a proposito di un paio di discepoli che indulgevano un po' troppo nel passatempo videoludico. Inutile che vi stia a spiegare la sottile metafora fallica del joystick e il velato accostamento alla pratica onanistica. Al di là della citazione e del suo contesto, il joystick non mi è mai stato simpatico, nè quando era quella piccola levetta con la manopola sferica in cima che si trovava nei cabinati, nè quando è diventato la periferica indispensabile per godere di videogiochi come simulatori di volo e titoli automobilistici particolarmente “simulativi”. Non so perché, questione di polso. O forse perché sono sempre stato poco analogico e molto digitale, anche nella forma mentis. Ad ogni modo, sono contento che alla fine il joystick abbia fatto una fine ingloriosa a causa di un nuovo, migliore controller: il joypad.

Il joypad

Allora, all'inizio avevo sul joypad gli stessi pregiudizi negativi che avevo sul joystick. Però, sarà il fatto che il joypad è più digitale (nasce digitale) del joystick, sarà soprattutto i fatto che è possibile utilizzarlo da una posizione più comoda rispetto a quest'ultimo e, oltretutto, senza ingombrare ulteriore spazio sulla già ingombra scrivania... beh, sarà tutto questo ma alla fine sono diventato un sostenitore del joypad. Non ha superato la tastiera ma è un signor controller e, soprattutto, ha eliminato dal mercato quella cosa inutile del joystick (nonostante a me le simulazioni di volo piacciano). Ho un paio di joypad per PC e li ho utilizzati estensivamente con Pes 6, un gioco di calcio. Pensavo che avrei fatto meglio con la tastiera ma mi sbagliavo: col joypad ho scoperto una giocabilità più intuitiva e la possibilità di fare dei trick pazzeschi, sfruttando anche le levette analogiche. Che altro rimane?

Il resto

Dunque, rimangono robe tipo Kineck o controllo a mezzo webcam o bachette magiche alla Wii o quell'altro aggeggio che serve a fare la Zumba in un paio di console moderne da salotto. Il problema per me è lo stesso del joystick ma esasperato all'ennesima potenza. E qual era il problema del joystick, a parte la mia innata antipatia? Gesti troppo ampi e faticosi. Il videogiocatore è un tizio pigro, come osservava implicitamente Neil Strauss: anziché vivere la vita vera e andarsene a caccia di ragazze da rimorchiare, preferisce spaparanzarsi sulla sedia o, addirittura, il divano, per sprecare la vita in un'attività sostanzialmente masturbatoria come quella videoludica. Posso fare Zumba davanti a uno schermo solo per vedere come funziona la prima volta, non può mica diventare un'attività regolare! Lo stesso dicasi per il tennis tramite Wii o il combattimento a mani nude o le avventure su binari dove bisogna saltare e dimenarsi e sudare per evitare gli ostacoli. Dimentico nulla? Ah, sì...

La realtà virtuale

Poco da dire qui. Un'immagine vale più di mille parole.

Il malvagio Zukerberg

Vedi paragrafo precendente, con l'aggravante del casco in testa mentre Mark Zukerberg sogghigna mefistofelico pregustando la società distopica dei suoi sogni basata sulla ormai famigerata dittatura sanitaria. O quello era Bill Gates?

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Oggi voglio parlare di una cosa del passato che ha legami con la situazione attuale, in particolare vorrei utilizzarla per raccontare come l'avvento dell'imprevisto venga accolto in modi talvolta imprevedibili.

La mia storia su internet potrebbe essere definita come la parabola di un troll, non fosse per il fatto che il movente delle mie iniziative non era dettato dalla volontà di fare casino ma da quello di sperimentare in modo originale. Un po' come in quei giochi di corse in cui vuoi verificare come funziona il modello dei danni alle vetture: quale miglior metodo che metterti a percorrere il circuito al contrario? Questo breve prologo serve così ad introdurre la descrizione di un esperimento che feci i primi tempi del blog.

In genere gli esperimenti che compio non hanno uno scopo ben preciso, cioè non sono esperimenti classici nel senso rigoroso indicato dal metodo scientifico, in particolare perché non ho nessuna ipotesi da verificare. Sono esperimenti da troll, appunto, cioè buttiamo il sasso in uno stagno e vediamo che casino che esce fuori ma il casino in sé non è l'obiettivo, tantomeno il divertimento insito nel casino. Spesso è solo una questione di curiosità e disperazione.

Fantasia al potere

Era un periodo di forte stress al lavoro (erano i primi anni da “lavoratore”) e stavo cominciando a maturare un paio di fantasie:

1) La fantasia bucolica. La fantasia bucolica si componeva di vari elementi: una casa in campagna, degli animali, campi sconfinati, colture biologiche dal sapore genuino e una ragazza agreste con cui generare marmocchi.

2) La fantasia di imprenditore internettiano. Questa fantasia era il contrappasso della prima e puntava sullo sfruttare (non saprei trovare altro termine) le conoscenze e i contatti maturati su internet attraverso il blog, cercando di farle confluire in un ambiente chiuso e controllabile da me creato in rete, al fine di originare un lucro in modo nebuloso e imperscrutabile (ma conscio del fatto che i numeri, il marchio e la fidelizzazione sono importanti).

Nacque così la creatura.

Fattoria Mallory, Illinois

Immaginai una fattoria nel cuore dell'Illinois. Pensavo ad una specie di gioco di ruolo ma non volevo definire delle regole troppo ferree. Anzi, non volevo definire nulla. Ne cominciai a parlare nel blog. E nacque la “Fattoria Mallory”. Volevo che fosse un luogo reale e condiviso dagli amici del blog, un mondo da me creato, del quale si potevano definire le (poche) regole ma non il comandante supremo: me stesso.

In quel periodo non avevo molte competenze tecniche per creare un videogioco o una web app (a dire il vero non è che ne abbia molte anche adesso) per cui mi orientai sull'unico strumento che avevo a disposizione: il sito statico. Diedi alcune indicazioni su questa fantomatica fattoria e pensai di invitare tutti a descriverla o quantomeno, a immaginarla come l'ambientazione di alcune vicende narrative a piacere. Però mi accorsi ben presto che una call to action per una fattoria troppo bucolica e tranquilla non era esattamente coinvolgente (o forse sì, ma non ci credetti). Così buttai a mare la componente bucolica e inserii un elemento in grado di creare più engagement: la presenza di un enorme mostro squamato.

Riassumendo, avevo creato un sito statico i cui contenuti, sostanzialmente delle fanfiction, erano forniti da coloro (amici di blogsfera) che mi inviavano via mail le loro creazioni, basate su testo e singola immagine. Il tema, ridotto all'osso, era il seguente:

In una fattoria nel cuore dell'Illinois spunta all'improvviso un enorme mostro squamato all'orizzonte. Che cosa rappresenta? E' forse l'Apocalisse?

Il logo della Fattoria Mallory

Storie dell'Apocalisse

Creai il sito con Website X5 e lo caricai su Altervista. Avevo raccolto una decina di partecipanti. E quale fu il risultato inaspettato dell'esperimento? Semplice, che la gente tifava il mostro squamato e sperava nell'Apocalisse. Qualcuno vedeva nel mostro squamato “il diverso” e voleva che venisse accettato ed amato. Molti vedevano invece nel mostro squamato l'occasione di cambiamento, l'elemento imprevisto che cambia le carte in tavola.

Giorni nostri

Arriviamo così ai giorni nostri. Potrei mettermi a descrivere la conclusione del mio esperimento ma non è rilevante nè significativa. Semplicemente, non vedendo possibili sviluppi interessanti, passai ad altro.

Interessante è invece che oggi molte persone attorno a me comincino a lamentarsi del ritorno alla normalità post Coronavirus (il mostro squamato della situazione) poiché avevano avuto il sentore di una possibilità di cambiamento. Ricominciano a sentire le solite polemiche politiche dei tg e a pensare all'imminente vita quotidiana di sempre. Cominciano a elaborare l'idea dell'occasione mancata.

Secondo me la questione sanitaria e sociale è purtroppo ancora lontana dalla conclusione ma, al di là di tutto, mi stupisco ancora una volta che, a distanza di anni, si attenda ancora un mostro squamato per portare un po' di novità.

E concludendo: come mai oggigiorno ci sono un sacco di servizi gratis per creare il tuo account blog, chat, social ma ce ne sono così pochi per caricare via ftp un fottuto sito statico a costo zero, magari con un misero dominio di secondo livello e pochi MB di spazio?

Gippo for Comitato Yamashita

L'ho scritto e lo ripeto: pensare allo sviluppo di videogiochi in questo periodo è molto difficile. Se vi capita di usare il computer per portare avanti un po' di roba professionale in modo “agile”, mettersi a smanettare anche per un hobby che richiede molte risorse mentali “fresche”, oltre che un certo entusiamsmo, diventa complicatissimo. Ecco allora che in questo post tornerò un po' all'origine del mio impulso a fare game development, cercando di superare la naturale frammentazione a cui sono attualmente soggetti i miei processi mentali. In tempi di coronavirus, ripenso spesso con nostalgia ricorrente al progetto di rivoluzionare il mondo del videogioco indie (e non solo) di cui ho trattato in precedenti post. Oggi vi parlerò quindi de...

Il misterioso caso del videogioco controllato col pensiero (bis)

Avevo letto qualche anno fa l'articolo di un professore di fisica dell'università “La Sapienza” di Roma che voleva fornire delle prove in merito all'esistenza del paranormale. Questi spiegava infatti che il paranormale, inteso come temporanea sospensione delle leggi della probabilità, sicuramente esiste. A questo scopo aveva condotto dei test casuali coi suoi studenti in cui aveva tentato di far influenzare telepaticamente il risultato dai vari partecipanti. Aveva poi misurato lo scostamento dai valori normali attraverso un coefficiente statistico la cui misura mostrava che era stato registrato un qualcosa in grado di alterare il risultato rispetto al valore statisticamente prevedibile. Roba di poco intendiamoci, ma la misura statistica scelta (una sorta di varianza) e il valore ottenuto erano abbastanza significativi da poter far affermare e titolare, in casi analoghi, cose amene del tipo: “L'università di Cambridge trova una correlazione tra il consumo di pesce e la propensione al tradimento degli maschi caucasici”. Il professore concludeva dicendo che studi simili sull'argomento paranormale sono molto più frequenti di quel che si pensi e che perfino la CIA ne aveva fatti, ottenendo peraltro gli stessi risultati. A me era allora venuto in mente Massimo Troisi che, in un film, provava a spostare un oggetto col pensiero, con l'idea che, qualora ci fosse riuscito, avrebbe risolto d'un colpo tutti i suoi problemi economici.

Per questo mi buttai sull'impresa. Al diavolo Kinect, realtà virtuale e tutte le profetizzate “next big thing” in ambito videoludico: io avrei creato il primo videogioco controllato col pensiero. Anzi, per la precisione: il primo videogioco controllato col pensiero senza un'interfaccia tecnologica a contatto con il corpo o in grado di ricevere input fisici tipo movimenti facciali o attività elettrica del cervello (che sono progetti già esistenti). Insomma, pura magia, che è sempre l'anticamera della tecnologia. Per questo avevo preso Construct 2 e mi ero messo a fare un rapido prototipo. Per chi non lo sa, Construct 2 è un tool di sviluppo di tipo drag&drop, di quelli che promettono di creare un videogioco “senza una riga di codice” ma consente di implementare alcune funzioni un po' più complesse con del semplice javascrip. Allora creai un paio di sprites e legai il movimento di uno di essi ad una funzione statistica in javascript che analizzava un ciclo di estrazioni random il cui possibile esito era 1 o 0. Intuitivamente, maggiore è il numero di estrazioni, maggiore è la probabilità che esca un 50% di 0 e un 50% di 1. Lo scopo era cercare di allontanare il più possibile questo risultato. Come? Con la forza del pensiero. La misura statistica di cui sopra aveva un nome specifico ed era esattamente quella che consente all'università di Cambridge di dire che “chi indossa abiti dai colori vivaci in genere ha una più alta propensione a sposare partner biondi”. Sfortunatamente, non trovo più l'articolo e non ricordo, ovviamente, il nome di quel valore statistico né ricordo come accidenti si calcola. Ho ritrovato il link all'articolo che ha ispirato il tutto in una mail che avevo mandato a qualcuno ma non funziona più. Il sito però esiste ancora: è questo. Penso che gli ridarò un'occhiata in seguito, a me 'sta roba fa impazzire.

Tornando al mio gioco, lo scopo era quello di muovere uno sprite fino a farlo collidere con l'altro, immobile. Il primo si sarebbe spostato soltanto attraverso la forza del pensiero, alimentato dalla divergenza con il presumibile esito statistico. Pensavo che visualizzare l'esito attraverso due sprites, potesse aiutare l'aspirante telepata/giocatore ad alterare le sottili energie elettriche del nostro universo elettrico e, soprattutto, del nostro PC elettrico. Com'è finito l'esperimento? Più sotto.

Il terribile e imprevedibile esito del misterioso caso del videogioco controllato col pensiero

E' riuscito al primo tentativo. Davvero. E mi sono spaventato. Ero riuscito a realizzare qualcosa di incredibile! Poi ci ho riprovato di nuovo e... Ci sono riuscito di nuovo! I due sprite collidevano! Poi di nuovo! E ancora, ancora, ancora. Come quando nei film horror lui chiede a lei, girata di spalle, di indovinare le carte che estrae dal mazzo e lei ci riesce una, due, tre, quattro, cinque volte, mentre la voce le diventa sempre più cupa e cavernosa, fin quando lei si gira e il pubblico scopre con raccapriccio che non è più la solita ragazza ma una specie di zombie con gli occhi di fuoco. Ecco, è andata così. Poi sono andato a rivedere come avevo settato le condizioni e le istruzioni. E mi sono accorto degli errori. Li ho aggiustati ma era troppo tardi. L'animo si era corrotto. Anche se avevo barato ero diventato anch'io una specie di zombie con gli occhi di fuoco, almeno a livello di morale videoludica. Difatti, stavo pensando a come sfruttare l'effetto sorpresa che avevo provato, trasferendolo all'esperienza del possibile giocatore.

Vedete, la funzione random, nei vari linguaggi, non è una vera e propria funzione random. Se volete qualcosa di veramente random e casuale dovreste andare a cercare, ad esempio, nel campo del “rumore atmosferico”, facendo riferimento a siti tipo questo. Troppe complicazioni, come appare subito evidente. Fu così che lasciai quelle istruzioni e mi concentrai man mano sull'aspetto degli sprites. E fu sempre così che alla fine venne fuori un test per l'affinità di coppia. Questo:

Paranormal activities

Lo sprite collideva sempre con l'altro, si misurava solo con quale velocità avveniva il tutto. Se avveniva abbastanza celermente... è lui/lei il partner della tua vita! Vi avevo detto che l'esito del misterioso caso del videogioco controllato col pensiero sarebbe stato terribile.

Fare game development ai tempi del coronavirus

Non potevo rinunciare a intitolare il capitoletto conclusivo con l'abituale formula di “Fuori dal coro” di Mauro Giordano o di altro programma serale per anziani ansiogeni. Fare game development ai tempi del coronavirus è difficile, perché c'è la sensazione diffusa e palpabile di un cambio di paradigma della nostra società, anche se la cosa è ancora tutta da verificare. Così come il videogame giocato produce talvolta effetti stranianti quando descrive la vecchia società senza distanziamento sociale, allo stesso modo l'immaginazione coinvolta nel processo creativo risulta, per certi versi, monca. In un prossimo post parlerò di piccoli progetti che porto avanti nei ritagli di tempo, roba semplice, quasi banale, rerum vulgarium fragmenta. E spiegherò perché non c'ho voglia come una volta, anche se (spoiler) la risposta sintetica è contenuta nel paragrafo precedente. Le cose stanno cambiando e non è detto che il videogioco troverà posto nel nuovo mondo nei modi tradizionali. Magari usciranno fuori alternative più allettanti. Tipo cacciare cinghiali con arco e frecce. Però, ripensando al modo in cui avevo affrontato a suo tempo la questione dell'innovazione nel videogioco, mi rendo conto che, prima di essere traviato dalle tendenze melliflue ed estetizzanti dell'ordocapitalismo, avevo scelto l'approccio giusto. Lo scopo non era quello di creare un mondo di fantasia fine a se stesso ma un percorso mentale in grado di produrre cambiamenti concreti. In altre parole, passare dalla fantasia all'immaginazione. Intanto, chi sente di avere le facoltà di uno scanner (ma non quello che scansiona i fogli di carta) mi faccia un fischio.

Gippo for Comitato Yamashita

Innanzitutto voglio precisare che lo scopo principale di questo post è quello di creare un articolo che abbia un titolo figo in grado di soddisfare lo schema:

X + “ai tempi del coronavirus”

dove X può essere l'amore (e in tal caso la citazione è più esplicita) oppure il calcio, oppure la televisione, oppure un qualsiasi altro fenomeno in cui è dolorosamente palese la differenza tra il 'prima' e il 'dopo' l'emergenza. Si tratta di una cosa che ho sempre sognato di fare per ragioni essenzialmente modaiole, dopo aver visto lo schema all'opera tante tante volte in “Studio Aperto”, “La vita in diretta”, “Fuori dal coro”, “Live – Non è la D'Urso” ecc.ecc.

Parliamo quindi di videogiochi in tempo di permanenza forzata a casa. I primi giorni della quarantena (termine usato a sproposito, lo so) la cosa che più mi faceva paura era la sensazione di claustrofobia che derivava dagli obblighi connessi al “distanziamento sociale”. Per questo motivo avevo pensato che il modo migliore per aggirare con la fantasia questi divieti e vagare negli spazi sconfinati del possibile fosse quello di rivolgersi ai videogiochi. In particolare ai videogiochi “open world”, quelli dove si può anche girare liberamente per un mondo vivo e pulsante senza uno scopo ben preciso. Così sono andato nel mio scaffale di videogiochi e mi sono installato: – Un paio di GTA – Mafia – Boiling Point: Road to Hell

Ebbene, un'amara sorpresa mi ha accolto al varco. Difatti i videogiochi non contribuivano in alcun modo a placare la sensazione di costrizione, anzi, esemplificavano e mettevano in luce con drammaticità un fenomeno con cui nei tempi a venire faremo tutti i conti:

I videogiochi open-world sono diventati improvvisamente “datati”.

E' una cosa terribile. La cosa riguarda soprattutto quelli ambientati in epoca contemporanea (cioè l'epoca appena passata): i GTA. Non esiste che tutta quella gente stia in strada. Non esiste che io possa fermare una macchina in movimento, picchiare il conducente e impossessarmene. Cioè, era una cosa poco plausibile anche prima, almeno nel mio caso, ma adesso sembra addirittura impossibile anche a livello teorico. Reggono meglio ma non troppo i vari Mafia: il legame con l'epoca passata è qui più evidente e già prima de “i tempi del coronavirus” la più antica collocazione cronologica contribuisce a caratterizzare i titoli e ad evitare palesi anacronismi da pandemia. Regge meglio ancora “Boiling Point”: era un gioco che avevo acquistato in offerta ma mai giocato. Ambientato in un paese sudamericano di fantasia, con un'ottima colonna sonora, è privo di traffico umano e veicolare troppo diffuso e si avvale di numerose aree naturali esplorabili.

Nel complesso tuttavia, ciascuno di questi titoli contribuisce a creare un maggior senso di straniamento, anziché mitigare l'isolamento e la staticità forzata.

Per questo motivo, in seguito ho provato con maggior successo altri generi insospettabili, che di seguito vi elenco:

1. Gare automobilistiche su tracciato

In particolare formula Nascar. Suggerisco Nascar Racing 2003 della Papyrus, io avevo un “Nascar Racing Thunder 2004” della EA con cui mi sono dilettato, anche grazie ad un volante. Mi è piaciuto in particolare il senso di velocità e la semplicità dello scopo: arrivare primo facendo eventualmente a sportellate. Difatti sembra che non riesca a concentrarmi, in questo periodo, su robe troppo complicate.

2. Picchiaduro

Non so perché ma ho riscoperto i picchiaduro uno contro uno. Immagino che ognuno abbia una risposta psicologica personalizzata all'emergenza. Forse per via della fisicità, del senso di movimento. Ottimi quelli in 3D, tipo Virtua Fighter.

3. Giochi DOS

Ecco, forse qui entra in gioco, oltre all'idea di semplicità, anche la nostalgia del passato. Fatto sta che non sono il solo ad aver avuto questa idea, come vedete:

La nostalgia su MyAbandonware

Abbinato allo scopo di rivivere epoche più liete, come spiega il disclaimer sul sito, c'è forse anche quello di “premiarmi” con uno o più regalini al giorno, scaricando giochi che avevo desiderato provare (senza poterlo fare) e che venivano tutti, alla loro uscita, una cinquantina di mila lire l'uno minimo. Forse semplicemente sono gli scherzi di un carattere fermo alla fase anale, direbbe Freud.

Concludendo, tuttavia, devo ammettere una cosa. Pensavo che i videogiochi fossero uno strumento più adatto a soddisfare la mia fantasia e normalizzare la situazione. In realtà, alla fin fine, lavorare su piccole prospettive concrete in ambito domestico (tipo fare ordine) mi ha aiutato maggiormente. Il che mi fa riflettere sul ruolo dei videogiochi e di tante altre cose dell'industria del superfluo. Ma non posterò certo qui queste riflessioni, anche perché mi accorgo che il mio atteggiamento varia di giorno in giorno e che l'adattamento alla situazione trova sempre nuove strade e idee.

Gippo for Comitato Yamashita