Fratelli tutti, la nuova enciclica di papa Francesco, dice molte cose belle, buone e giuste. Dice che siamo tutti fratelli, e dobbiamo considerarci e trattarci come tali: e che dunque va condannata la disuguaglianza che constatiamo dolorosamente sia nel nostro Paese che nel mondo. Non ironizzo quando dico che sono cose giuste, anche se leggendola non ho potuto fare a meno di ripensare a quel passo de Il Regno di Dio è in voi di Tolstoj in cui il grande scrittore e pensatore russo – osannato come scrittore, rimosso come pensatore – scrive: “Siamo tutti fratelli, e nondimeno ogni mattina questo fratello e questa sorella fanno per me i servizi che non voglio far io. Siamo tutti fratelli – e nondimeno mi occorrono ogni giorno un sigaro, dello zucchero, uno specchio e altri oggetti alla cui fabbricazione i miei fratelli e le mie sorelle, che sono miei eguali, hanno sacrificato la loro salute; ed io mi servo di questi oggetti, ed anzi li pretendo” (edizione Bocca, Roma 1894, p. 129). E continua con una analisi spietata della miseria della società russa, fondata sull’ipocrisia e lo sfruttamento, con la benedizione di quella Chiesa ortodossa che lo scomunicherà. Ora, sono parole che papa Francesco sottoscriverebbe volentieri. Anzi, più che sottoscriverle, le scriverebbe. E in parte le ha scritte. Ma c’è una differenza essenziale. Il grande scrittore russo cercò – dolorosamente, tragicamente – il passaggio dalla teoria all’azione, la testimonianza, la coerenza tra vita e pensiero. Il papa, fratello di tutti, resta Sua Santità: per quanti tentativi faccia, sarà sempre infinitamente al di qua da quella orizzontalità che consente la vera fratellanza. Sarà padre – Santo padre – ma mai fratello. E la presenza nella società di figure come la sua è il maggior ostacolo alla diffusione di una effettiva cultura della fraternità.
A scuola non si apprende, se non in modo accidentale. Perché l'apprendimento è impossibile senza interesse, ed è semplicemente impossibile provare interesse contemporaneamente per più di dieci discipline, e per tutti gli argomenti di quelle discipline. Si apprende quando, in modo casuale, uno dei temi proposti incontra un nostro reale interesse. Per tutto il resto del tempo si finge un interesse che non c'è e, al momento delle verifiche, si simula di aver appreso ciò che non è stato appreso.
È una sciocchezza che il docente debba far nascere l'interesse. Il suo compito è quello di non spegnere un interesse in atto.
Quand'anche in una scuola tutti i docenti fossero miracolosamente in grado di suscitare un interesse per ciò che insegnano, il sistema nervoso degli studenti non reggerebbe. Perché l'apprendimento è una impresa profondamente coinvolgente, eccitante, adrenalinica. Dopo mezz'ora di apprendimento reale c'è bisogno di un'altra mezz'ora per metabolizzare, riflettere, calmarsi. Cinque ore di apprendimento reale sono semplicemente impossibili.
L'Aggaññasutta (DN 27) racconta le origini del mondo come una progressiva degradazione. Dopo aver cominciato a mangiare riso, gli umani diventano grossolani, cominciano a distinguere il bello e il brutto e compaiono nei loro corpi il pene e la vagina. Ed è allora che si desiderano. Dopo il primo rapporto restano storditi, sconvolti:
Nel Siṅgālasutta (DN 31) è affrontato, tra gli altri, il delicato tema del rapporto tra il padre di famiglia e la moglie. Il testo dice che il marito deve essere presente per la moglie in questi cinque modi:
“trattandola con onore (sammānanā, che viene da mānanā, onore, che a sua volta rimanda a māna, orgoglio), senza disprezzo (avimānana), non tradendola, conferendole autorità (issariyavossaggena) e fornendole degli ornamenti.”
Leggiamo ora la traduzione italiana di Eugenio Frola (Canone Buddhista. Discorsi Lunghi, Laterza):
“Un marito deve onorare la moglie: colla stima, colla mancanza di sospetto, col non tradirla, col non concederle autorità, col provvedere al suo ornamento.”
Poiché anche Pio Filippani-Ronconi traduce allo stesso modo, mi viene il dubbio. Il Pali-English Dictionary della Pali Text Society traduce issariyavossagga con “handing over of authority”. E Maurice Walshe traduce “by giving authority to her” (The Long Discourses of the Buddha. A Translation of the Dīgha Nikāya, by M. W., Wisdom Publication, Boston 1995, p. 467).
Secondo l'antico grammatico indiano पतञ्जलि la parola sanscrita छात्त्र, che indica uno studente, deriva da छत्त्र, ombrello. La sua spiegazione è: “L'ombrello è l'insegnante; lo studente dev'essere riparato dall'insegnante come da un ombrello, e l'insegnante dev'essere protetto dallo studente come da un ombrello” (H. Scharfe, Education in Ancient India, Brill, Leiden-Boston-Koln 2002, p. 122).
Occorre ricordare che nel sistema ācāryakula (o gurukula) lo studente va a vivere a casa dell'ācārya e lo accudisce: di qui il reciproco ripararsi. Nel sistema educativo occidentale questa reciprocità è impensabile. Lo studente, sottomesso per secoli, diventa infine l'utente di un servizio.
Prime impressioni sulla enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Mente spudoratamente su Francesco d'Assisi, che è andato tra i musulmani non per cercare la pace e il dialogo, ma a predicare la conversione e a cercare il martirio. E come compagno di strada nella sua riflessione religiosa e politica papa Francesco indica in particolare l'imam (il Grande Imam, lo chiama) Ahmad al-Tayyib. Il quale è noto per le sue dichiarazioni poco compatibili con i diritti umani: dalla proposta di crocifiggere i terroristi dell'ISIS (che si è tuttavia rifiutato di dichiarare eretico) alla giustificazione coranica della violenza sulle donne (testualmente: “Secondo il Corano prima si ammonisce, poi si dorme in letti separati, infine si colpisce”). Ma l'imam ha altre qualità: è contro l'ateismo, il relativismo, il mondo moderno eccetera. Tutte le ossessioni, cioè, degli ultimi papi. E Francesco non fa eccezione.
Ascesi del disgusto. Sazi di qualsiasi cosa, non volerne più: chiudere gli occhi ad ogni ente, negarlo, svuotarlo, porlo a una distanza infinita da sé. E così l'altro. Non cercare nulla, non volere nulla, non amare nessuno, non odiare nessuno, non desiderare nessuno. Essere vuoti e muti e assenti. E: non volere sé, non amare sé, non odiare sé, non desiderare sé. Porsi a una distanza infinita da sé stessi. (Nella vita sociale: essere sgradevoli, osceni, inopportuni; suscitare imbarazzo, irritare, deludere; sottrarsi.)
L'umanità non sarà salvata — se sarà salvata — dall'amore, che è sempre violento. Sarà salvata dalla solitudine. Dal sapere che siamo pianeti a distanza infinita, stelle spente gli uni per gli altri. Dall'accettazione del nulla freddo e buio che è tra me e te.