Se tentassi un bilancio etico, per così dire, dovrei ammettere di aver fatto più male che bene. Non intenzionalmente: per ruvidezza, goffaggine, scarsa chiarezza con me stesso, scarsa capacità di comprendere l'altro, distrazione. Mi rendo conto, soprattutto, di aver probabilmente fatto più male alle persone cui più volevo bene, e alle quali avrei voluto dare il meglio di me. In qualche caso renderle addirittura felici.
Ora penso che si debba piuttosto cercare di non fare il male. Dire all'altro: guardami, sono qui, sono un essere umano in difficoltà come tutti, ho una fottuta paura di morire, di invecchiare, di ammalarmi, ho un passato pieno di cose che fanno male e un futuro incerto, sono esposto a ogni impurità psicologica, mi ammalo di rabbia di tristezza di indolenza di noia, sono spesso confuso, il corpo mi fa male e mi sottrae ogni energia, a volte ho voglia di passare la frontiera, e per tutte queste ragioni non sono sicuro di riuscire a farti del bene; ma so con certezza che non voglio farti alcun male.
Il capitalismo ha profonde radici nel nostro inconscio — o meglio, nella parte più antica, animale del nostro cervello. Per millenni la nostra specie ha dovuto combattere con la scarsità di cibo e di beni. È stata tormentata dallo spettro della fame, dal terrore della morte per inedia. Il capitalismo abolisce la scarsità, inaugura il regno dell'abbondanza. Esso è la realizzazione di quel regno della disponibilità assoluta la cui prefigurazione onirico-poetica è in quel sonetto in cui Dante sogna d'essere con i suoi amici e le donne amate “in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio”, senza alcun impedimento. È il sogno di un mondo da cui sia stata bandita qualsiasi negatività, in cui un desiderio si realizzi senza mediazioni, il cui il volere sia senz'altro realtà. Nella società dei consumi il volere si realizza prima ancora di essere espresso. La disponibilità di beni è tale da anticipare il desiderio. E la tecnica guida la specie verso la facilità assoluta: davvero il mondo è una nave che va secondo il nostro desiderio. La vista — anche la sola vista — dell'abbondanza di beni suscita un immediato senso di benessere e di rassicurazione. Può essere, naturalmente, che non si abbiano i soldi per acquistare tutti quei beni, che si sia esclusi dalla festa del benessere. Ma intanto si vive circondati da ogni bene. Il povero in una società capitalista è come l'ateo in una società nella quale la rassicurazione — in modo infinitamente meno efficace — sia affidata alla fede. Se non crede, è colpa sua. Basta che si converta per essere redento.
L'arrogante, sfacciato paradosso del cattolicesimo è ritenere che Gesù sia morto sulla croce per dar vita ad una istituzione, la Chiesa, che è una perfetta riproduzione — anzi: una riproduzione perfino peggiore dell'originale — di quel farisaismo che ha combattuto per tutta la vita. “Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati 'rabbi' dalla gente” (Matteo 23, 4-7). Non è forse del penoso e ipocrita rigorismo cattolico che sta parlando? Non attacca la doppia morale dei cattolici, sempre pronti a condannare gli altri e ad assolvere sé stessi? Non è del fasto disgustoso delle gerarchie ecclesiastiche, degli abiti eleganti e costosi, degli onori richiesti e spesso imposti, delle pagliacciate che offendono l'umano senso di giustizia come il bacio dell'anello eccetera? Non parla del legame tra potere ecclesiastico e potere civile, della presenza di prelati in tutte le cerimonie pubbliche, del monsignore sempre in prima fila? E quando, poco oltre, dice: “E non chiamate 'padre' nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste” (Matteo, 23, 9), davvero è possibile credere senza malafede, senza offendere sfacciatamente la verità, che abbia detto queste parole volendo al tempo stesso creare una istituzione apertamente farisaica il cui capo si fa chiamare papa, ossia padre?
Sento già la risposta dei cattolici. La Chiesa, dicono, è una istituzione umana. E delle miserie umane occorre avere comprensione. Ma anche il farisaismo era una istituzione umana. Anche nei confronti del farisaismo bisognava avere comprensione. Ma Gesù non ne ebbe alcuna. Lo attaccò come si attacca il male. Come si attacca una istituzione che deve morire, perché non può venirne nulla di buono. La attacca perché un sale insipido (Matteo 9, 50) va gettato via.
Il capitalismo fa dell'uomo un consumatore. Acquistare, consumare, acquistare di nuovo, e di nuovo consumare, all'infinito, è l'atto antropologico più significativo dell'homo sapiens nell'era del capitalismo. Le radici di questa passione consumistica — nel duplice semplice del termine: come movente e come sofferenza — vanno cercate nel cristianesimo. Che è la religione — l'unica — che fa di Dio un prodotto di consumo e dell'uomo un consumatore di Dio. L'ordine del mondo, notava con raccapriccio il pagano Celso, viene sconvolto. Non è l'uomo che va a Dio, come è giusto che sia, poiché l'uomo è uomo e Dio è Dio. È Dio che va all'uomo. E muore per lui. E viene smembrato, mangiato, bevuto. E ancora, e ancora, all'infinito.
Lo smembramento del Divino naturalmente non è un tema nuovo nelle religioni, da Zagreus a Prajapati eccetera, ma è il cristianesimo che ha fatto del consumo di Dio una pratica quotidiana, condivisa al di fuori dei circoli iniziatici. Il cristianesimo offre all'occidente la pratica del consumo assoluto, definitivo: il consumo di Dio stesso. Dopo la morte di Dio e la fine del cristianesimo, la pratica e la pretesa del consumo assoluto sopravvivono appunto del capitalismo, con il quale è l'essere stesso, inteso come totalità di quello che è esperibile, che si offre sotto forma di cosa consumabile. Essere è essere disponibile al consumo. E l'essere dell'uomo consiste nell'approfittare di questa disponibilità, nell'incorporare ciò che si offre.
La lunga pratica della teofagia ha messo capo alla morte di Dio: perché nemmeno Dio è infinitamente consumabile. La lunga pratica dell'ontofagia condurrà alla semplice distruzione del mondo in cui viviamo.
Ti amo, dice l'uno. Ti amo, risponde l'altro. Nel ti amo dell'uno ci sono l'odore del fieno e dell'erba appena tagliata, il tepore di certe mattine d'estate, gli occhi buoni di un cane, la pioggia sui campi vista attraverso i vetri. Nel ti amo dell'altro ci sono i mille rumori della città che si risveglia, l'emozione delle prime carezze, la soddisfazione di chi ha appena segnato un gol decisivo, il senso di potere di chi ha ottenuto quello che voleva. Ognuno ha la propria personale costellazione del bene. Eppure credono di dire la stessa cosa, quando dicono ti amo. Pensano che questa cosa così personale, l'amore, possa essere al tempo stesso un universale, qualcosa che sta oltre l'io e il tu, e che unisce l'io e il tu. Si illudono di poter comprendere il bene che l'altro ha dentro, e di poter essere compresi. Ignorano che in realtà non esiste nessun bene, che anche quella cosa così personale è una menzogna: perché non esiste un io, non esiste un tu. Ignorano che il cosiddetto io non è che la scena d'un teatro, sulla quale compaiono numerosi attori: e quello che uno dice è contraddetto dall'altro. L'uno parla dell'odore del fieno, l'altro degli occhi buoni di un cane. Il terzo entra in scena sbraitando, e dileggia i primi due. Un quarto in un angolo guarda tutti e se la ride.
Ti amo, dice l'uno. Ti amo, risponde l'altro. E si prendono per mano, pronti a recitare fino in fondo la loro tragica commedia degli equivoci.
È un po' che ci sei sempre tu
nelle mie poesie. Ma sei tu?
Ti evoco mentre scrivo perché ho bisogno
di te quando mi penso, ma sei tu il tu
cui qui mi rivolgo? Sono le tue mani
che tengo mentre scrivo? E sono, poi,
poesie queste cose che faccio?
Queste domande ti sembreranno strane.
Io non mi fido troppo delle parole.
Faccio queste cose come i bambini che con i lego
mettono su una torre o un castello
e poi li buttano giù per tornare a costruire
finché la cosa non viene a noia.
In questo momento provo tedio
un fastidio di esserci non meglio definibile
e penso alla mia morte che sarà
tra un giorno o tra un anno o forse
quando le gambe più non reggeranno
forse morirò pisciandomi addosso
e tu allora chissà dove sarai, tu e le tue mani
e io penserò a quando c'eri ed era bello
eppure non sapevo essere davvero
stabilirmi nell'essere con te senza l'angoscia
che sempre mi consuma senza il senso
disperante di essere mai abbastanza
d'essere mai davvero.
Sulla mia scrivania c'è un coniglio
di carta fatto qualche mese fa
non so perché non l'ho mai buttato via
sta lì e un po' mi fa compagnia
non più fragile di me
e fuori il pigolare d'un uccello
mentre scende la sera sui colli
che tanto ti piacciono, e dai quali
non sappiamo prendere congedo.
Ricordi quel pozzo con le scale
che sembravano infinite ad Orvieto?
Mi guardo dentro e mi pare che sia
non troppo diverso: una fuga all'infinito
senza però nessuna scala per risalire.
Dovrei buttarmi giù, penso
ma non so, allora, se ancora ti arriverebbe la mia voce.
Me ne sto ancora un po' qui
a dire tu, a dirmi a te con le parole vuote.
Non si può amare un Dio che si è sacrificato per noi, così come non si può amare una donna che si sia sacrificata per noi — soprattutto se pretendesse di essere amata appunto perché si è sacrificata per noi. Sarebbe un amore morboso, sporcato dal senso di colpa e dal ricatto morale. Senza gioia.
Non c'è posizione che si collochi agli antipodi della mistica più dell'individualismo anarchico. Per il quale bene è sviluppare il proprio io, cercare il piacere e la gioia di vivere, moltiplicare le proprie esperienze. Scrive Émile Armand: “L'individualista, l'al-di-fuori, apprezza la gioia di vivere, la vita del cervello, del sentimento, dei sensi, la vita delle grandi città come quella del casolare sperduto nella campagna. Tutto egli gusta e nulla respinge all'infuori di ciò che non coincide col suo temperamento, il suo carattere, le sue asprazioni, la sua sete di realtà” (Iniziazione individualista anarchica, Amici Italiani di Armand, Firenze 1956, p. 127). Costante è, in Armand, la polemica contro il pessimismo, l'ascetismo, l'annullamento dell'io. E tuttavia se il bene è l'esperienza, perché negare questa unica esperienza – il trascendimento, appunto, l'attraversamento dell'io, l'estasi? Si potrà contestare che questa sia l'esperienza più alta per un essere umano, che in essa consista la liberazione, che essa ci metta in contatto con qualcosa di decisivo. Non si può negare che essa sia tuttavia una esperienza. Ed una esperienza che non comporta alcun dominio dell'uomo sull'uomo – unico limite all'esperienza per Armand: non si è liberi di dominare l'altro – ma che al contrario appartiene da sempre a quegli en-dehors che sono gli eretici e i mistici e gli eretici: l'azzardo che ha portato sul rogo Margherita Porete e sulla croce Al-Hallaj.
La brutale uccisione di Samuel Paty, il docente francese colpevole di aver mostrato le vignette di Carlie Hebdo durante una lezione sulla libertà d’espressione, mi ha colpito profondamente. Mi ha colpito perché sono un docente, perché sono laico, e perché negli stessi giorni ho tenuto nella mia terza una lezione sulla libertà d’espressione. Mi spiace che quella tragedia, che tanto sta facendo discutere in Francia, da noi non susciti grande interesse, e al tempo stesso ne sono un po’ sollevato, perché il livello del dibattito pubblico nel nostro Paese è infimo, e non ci sarebbe da aspettarsi molto di diverso dalla più becera islamofobia.
Confesso di essere stato tentato anch’io dalla rabbia. Di aver pensato che noi laici abbiamo conquistato la libertà di parola con il sangue di Giordano Bruno e di Giulio Cesare Vanini. E che è insufficiente ripetere fino alla nausea che “l’Islam è pace”, se poi si decapita qualcuno in nome di Allah. Ma è, appunto, una tentazione, e se cedere ad alcune tentazioni può essere cosa buona e giusta, cedere a questa tentazione è un errore grave.
Gli insegnanti francesi protestano per l'uccisione di uno di loro, decapitato da un ragazzo musulmano per aver parlato in classe delle vignette di Charlie Hebdo contro Maometto. Sul loro cartello l'hashtag #jedéfendslalibertédexpression
Ora, dopo la pubblicazione delle vignette contro Maometto, in diversi paesi si sono tenute accese manifestazioni. In molte di queste compariva un cartello inquietante: “Behead those who insult Islam”. Decapitate quelli che insultano l'Islam.
Due giorni fa ragionavo con la mia terza della libertà d'espressione. Come docente di filosofia, metto spesso i mei studenti a discutere su una tesi, presentando argomenti a favore ed argomenti contro. La tesi in questo caso era: “In qualche caso bisogna vietare la libertà d'espressione”. Un argomento a favore di questa tesi è che non bisogna, in certi casi, consentire la libertà d'espressione, perché le parole non sono semplici parole, ma diventano — sono già, in realtà — fatti. Non bisogna consentire a nessuno di mostrare un cartello che invita a decapitare chi insulta l'Islam (a margine: nessuno insulta l'Islam più di chi fa di Allah un Dio di odio), perché poi accade che qualcuno decapita chi insulta (o gli pare che insulti) l'Islam.
In nome della libertà d'espressione di Charlie Hebdo bisogna riconoscere anche la libertà d'espressione del manifestante che invita a uccidere chi parla delle vignette di Charliue Hebdo? E se no, come stabilire quale libertà d'espressione va difesa e quale vietata?