Note a margine di La forza della nonviolenza di Judith Butler (Nottetempo, Milano 2020).
Per Butler la nonviolenza va (ri?)fondata su: 1) la percezione del valore di qualsiasi vita, compresa quella non umana, 2) e dunque l'“impegno per un'uguaglianza radicale” (p. 90). Sullo sfondo della sua riflessione c'è il movimento Black Lives Matter. Non solo le vite delle persone afroamericane contano. Tutte le vite contano. E che contino vuol dire, per Butler, che sono ugualmente degne di lutto, che è un modo discutibile per dire che hanno valore: perché il lutto è un fatto antropologico, culturalmente variabile, ed è tutt'altro che certo che essere degno di lutto significhi la stessa cosa in Europa, Africa e Cina. Soprattutto, Butler lascia completamente al di fuori della sua trattazione la questione del valore della vita. Ha più di qualche ragione quando afferma che la sinistra non può lasciare il valore della vita ai movimenti pro-life, ma non dedica nemmeno un cenno alle complesse questioni filosofiche legate ad un'etica della vita. Tutte le vite hanno un eguale valore? La zanzara è degna di lutto quanto un essere umano? Non esiste nessuna gerarchia di valore tra esseri viventi? In nessun caso la soppressione della vita — di qualsiasi vita — è accettabile? E poi: se la nonviolenza ha bisogno di riconoscere il valore di ogni vita (in questo Butler è d'accordo con Capitini, che naturalmente ignora; così come sembra ignorare gran parte del pensiero nonviolento), della prassi nonviolenta non dovrà far parte anche la lotta per la liberazione delle vite non umane? Anche su questo Butler tace.
Ai cosiddetti credenti importa poco di Dio, in realtà. Se Dio non si occupasse di loro, se l'esistenza di Dio non fosse legata alla loro salvezza, alla vita eterna o alla possibilità di rendere meno minacciosa la vita quotidiana attraverso la preghiera, di Dio importerebbe loro meno che di Andromeda.
Narcisismo e paura sono al fondo della fede. Immaturità spirituale. Perché ogni autentica spiritualità comincia con l'accettazione della morte.
Criticando la bioetica della qualità della vita, la lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la dottrina della fede (che un tempo si chiamava Santa Inquisizione) afferma: “Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita. Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa”.
Ma per la Chiesa la vita che ha valore in sé stessa non è la vita tout court, bensì la vita umana. Questo vuol dire introdurre un criterio qualitativo: è sacra la vita che ha le qualità della vita umana. E quali sono le qualità di una vita umana? La coscienza, la ragione, la capacità di sentire, la libertà di scelta, eccetera. Ora, si danno due casi. Nel primo, si consente la morte di una persona ridotta in stato vegetativo, ossia in una condizione nella quale la vita non ha più le caratteristiche di una vita umana. Nel secondo, si aiuta a morire una persona che, in preda a terribili sofferenze e senza alcuna possibilità di guarigione, chiede in prima persona che si ponga fine alla sua condizione. In questo secondo caso è evidente che questa persona sta esercitando al massimo grado ciò che di più alto c'è in un essere umano: la libertà di scelta, la consapevolezza, la ragione. In entrambi i casi la Chiesa, imponendo assurdamente di vivere e cianciando al contempo di dignità umana, riconduce di fatto la vita umana alla semplice sussistenza biologica, ossia alle condizioni di una vita puramente animale, di cui — con uno dei suoi più vistosi limiti etici — peraltro nega il valore.
E a margine occorre ricordare che l'istituzione che oggi pretende di parlare di valore intrinseco della vita umana in passato ha causato la morte di persone che, per le loro idee, avevano una qualità umana che non approvava. E non meriterebbero una sola parola di commento, se non fosse che simili deliri hanno ancora seguito in questo Paese devastato dalla stupidità.
Come buddhista theravada, mi è stato insegnato che la vera meditazione buddhista è la vipassana, e che la samatha ha un valore preparatorio.È convinzione e pratica diffusa nei monasteri theravada, ed è ripetuta negli studi sulla meditazione buddhista, con pochissime eccezioni. Ora, leggendo i sutra a me pare evidente il contrario. Considerare la samatha come una meditazione che consiste nello sperimentare degli stati di coscienza particolari, in qualche modo alterati, è un grosso equivoco; così come lo è considerarla accessoria. Lo Yuganaddha Sutta (AN 4.170) al riguardo è chiarissimo: è possibile raggiungere lo stato di arahant sviluppando vipassana preceduta da samatha, o samatha preceduta da vipassana, o con samatha e vipassana in parallelo, o con un quarta via, “tenere sotto controllo qualsiasi irrequietezza rispetto al Dhamma (dhammuddhaccaviggahitaṃ)“, che mi pare indicare la possibilità di un Risveglio improvviso, senza meditazione.
Come sa, nel buddhismo sono centrali i “tre veleni”, raga, dosa e moha. Ora, questi veleni non sono solo alla base della nostra sofferenza, ma sono anche la causa del modo ordinario in cui vediamo il mondo. Secondo il Mahāvedalla Sutta (MN 43), i tre veleni sono nimittakaraṇa: creano, cioè, i segni interiori (nimitta) che si presentano in noi ogni volta che percepiamo qualcosa. Dunque: percepisco il mondo, nasce in me un segno, una immagine di questo mondo esteriore, che è immediatamente legata ad attaccamento ed avversione. È evidente che è qui un anello che bisogna spezzare: intervenire sul nimitta. Ed è esattamente quello che fa la meditazione samatha. Guardo una fiamma, evoco dentro di me l'immagine e mi concentro su di essa. Ma poi, nei jhana successivi, distruggo progressivamente quell'immagine, fino a liberarmene del tutto. Ritenere che fissare una fiamma serva solo a concentrare la mente è una visione estremanente superficiale del processo.
Azzardando forse un po', si può dire che la meditazione samatha interviene sulla percezione del mondo esterno, decostruendo la nostra visione concettuale (il buddhismo è anti-aristotelismo radicale), mentre la vipassana interviene sul mondo interno, decostruendo il soggetto.
In ogni essere umano c'è in potenza tanto il santo quanto il criminale. Il fatto che emerga l'uno o l'altro è legato alla temperatura. A temperatura media — a temperatura ambiente, per così dire: se l'ambiente non è troppo caldo, perché spiritualmente gli esseri umani sono animali a sangue freddo — l'essere umano è mediamente buono. Per meglio dire: né buono né cattivo, esigendo tanto la bontà quanto la cattiveria una energia che la sua medietà non gli consente. Provate ora ad alzare la sua temperatura. Sottoponetelo allo stress. Dategli l'impressione di essere vittima di ingiustizia. Infliggetegli qualche sofferenza. Ecco che quell'essere umano mediamente buono si sposta gradualmente verso il polo violento di sé stesso. Provate poi a calare questo individuo stressato in un contesto ambientale (intendo: culturale) caldo — in un Paese in cui vi sia una guerra, ad esempio, e dunque la cultura del nemico — ed ecco che questo brav'uomo, questa brava donna sono pronti a qualsiasi crimine.
Non credo nell'amore. È una passione calda, e prima o poi — il cristianesimo, religione calda come l'Islam, e la cui storia è una storia criminale, lo dimostra abbondantemente — si converte in odio. Credo nell'equanimità. La virtù fredda che mi consente di vedere nell'altro “un altro io diverso da me”, come diceva Rousseau.
Chi è morto non esiste più? Davvero? Lucrezio, Marco Aurelio, Seneca, Leopardi, Spinoza, Michelstaedter, Capitini erano tutti morti da tempo — qualche decennio o qualche secolo — quando sono entrati nella mia vita. Eppure ognuno di loro è stato, è presente per me. E lo è — terribile dirlo — molto più di molte persone che incontro ogni giorno. Di fatto, Leopardi esiste. Anche ora che è morto. Esiste, ed esiste in quel modo concreto che consiste nel produrre effetti. Mi dà da pensare, mi emoziona, mi aiuta, mi inquieta. Ed è lui, in modo inconfondibile.
Cos'è, sopravvivere in questo modo? Che tipo di ente è un autore? Dove lo collochiamo, in un immaginario albero degli enti? Non è ciò che Capitini chiama compresenza? I suoi libri sulla compresenza non sono una compresenza in atto? Non è stato, non è, Aldo, presente accanto più del tragicomico susseguirsi di figure che m'inesistono accanto?
Yo nājjhagamā bhavesu sāraṃ,
Vicinaṃ pupphamivā udumbaresu;
So bhikkhu jahāti orapāraṃ,
Urago jiṇṇamivattacaṃ purāṇaṃ.
Il monaco che non vede negli esseri alcuna essenza (sāra)
— come se si cercasse un fiore (puppha) su un albero di fico (udumbara) —
abbandona questo mondo e l'altro (orapāraṃ)
come un serpente (uraga) che si libera della vecchia pelle.
Rileggo, nel giorno in cui giunge la notizia della morte di David Graeber, i suoi Frammenti di antropologia anarchica (Elèuthera, Milano 2004; e scopro peraltro che la traduzione è del compagno Alberto Prunetti). Mi ero segnato allora questo passo (p. 47):
[...] “Che cos'è un'azione rivoluzionaria? Ecco la nostra risposta: un'azione rivoluzionaria è qualsiasi azione collettiva che affronti e respinga una qualche forma di dominio e di potere, e che nel frattempo alla luce di questo processo, ricostituisca nuove relazioni sociali, anche all'interno della collettività.
A rileggere ora, quello che manca è la distinzione tra potere e dominio, che per me è un punto fondamentale per pensare oggi l'anarchia. Se potere è male, come il dominio, allora non devo esercitare io nemmeno alcun potere; e dunque devo accettare il potere/dominio senza alcuna ribellione. Ma il dominio, come insegna Dolci, è la degenerazione del potere; e l'azione politica urgente è appunto questa: costruire una società nella quale le relazioni di potere sostituiscano le relazioni di dominio.