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from norise 3 letture AI

cogliere una piccola morte

nello strappo di radice

dove altra ne nasce

dal suo grido

cogliere l'inesprimibile

di questo morire

che s'ingemma d'eterno

. Questo componimento è un viaggio interiore che abbraccia la dualità della vita e della morte. La “piccola morte” non è intesa come un atto finale, ma piuttosto come un passaggio, un momento in cui si assiste allo sgomento e alla simultanea germinazione di qualcosa di nuovo. L'immagine dello “strappo di radice” evoca il gesto profondo e quasi rituale di separarsi da un vecchio stato per fare spazio a una rinascita—un grido che annuncia il ciclo eterno di distruzione e creazione.

L’idea di “cogliere l’inesprimibile” ci sfida a dare forma alle emozioni e alle trasformazioni impossibili da spiegare con parole fatte. Qui il morire si intreccia con l'eterno, creando un legame in cui ogni frammento di fine diventa parte integrante di un disegno più grande, un eterno abbraccio tra il passato e il futuro. È un invito a riconoscere che anche nei momenti di crisi o di perdita, si cela la possibilità di una nuova vita, di una parte di noi che si rinnova.

 
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from Cooperazione Internazionale di Polizia

A Roma il Corso CEPOL di formazione-per-formatori per lo scambio di informazioni dell'UE

Il Corso CEPOL Train-the-Trainer 54/2025/ONS sugli sstrumenti per lo scambio di informazioni dell'UE si è svolto recentemente a Roma; l'attività è stata ospitata dalla Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, che è l'Unità Nazionale Italiana CEPOL.

Il corso, dal portfolio del Centro di conoscenza CEPOL sulla cooperazione tra le forze dell'ordine (CEPOL CKC), sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità, è stato incentrato sul dotare i professionisti della formazione delle forze dell'ordine degli strumenti necessari per progettare e svolgere la formazione nazionale, trasmettere conoscenze e sviluppare competenze degli utenti finali confrontati con lo scambio di informazioni e l'uso dei rispettivi strumenti e strumenti dell'UE. In totale, 24 partecipanti provenienti da 15 Stati membri dell'UE e 1 paese associato sono stati formati da esperti della Commissione europea, Polonia, Europol, eu-LISA e CEPOL.

Il corso è iniziato con un'intera giornata di sessioni che hanno riguardato gli strumenti, gli strumenti e i meccanismi per lo scambio di informazioni tra le forze dell'ordine disponibili a livello europeo. Comprendeva inoltre un corso di aggiornamento sulla base giuridica per la cooperazione nell'ambito della componente di scambio di informazioni, compreso il ruolo delle agenzie GAI, la qualità e la protezione dei dati e la tutela dei diritti fondamentali. Nei giorni successivi, il programma di attività si è arricchito di conferenze e numerose esercitazioni pratiche relative alle metodologie di progettazione dei prodotti formativi in conformità con principi chiave, approcci e un processo che è alla base di un'efficace progettazione ed erogazione della formazione.

#CEPOL è l'Agenzia dell'Unione europea per la formazione delle autorità di contrasto, è un'agenzia dell'UE istituita nel 2005 1 per offrire corsi di formazione alle forze di polizia e altri funzionari delle autorità di contrasto. La sua missione è migliorare la sicurezza dell'UE attraverso attività di formazione e condivisione delle conoscenze. Il CEPOL CKC (Centro di conoscenza sulla cooperazione tra le forze dell'ordine, sullo scambio di informazioni e sull'interoperabilità) riunisce esperti degli Stati membri e degli organismi competenti dell'UE per progettare il portafoglio di formazione di CEPOL in questo settore specifico. Ciò include il curriculum per ciascuna attività di apprendimento, i risultati dell'apprendimento, una descrizione dei gruppi target nonché il profilo dei formatori che svolgono le attività. Il CEPOL Knowledge Center (CKC) fornisce inoltre consulenza sui risultati della ricerca scientifica e su particolari approcci metodologici per ciascuna attività di formazione. Il portafoglio di formazione è pluriennale e viene rivisto su base annuale per rispondere alle minacce emergenti e ai nuovi sviluppi a livello strategico e operativo e per soddisfare le esigenze di formazione in evoluzione.

 
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from Magia

✍️I miei Numeri... Anche oggi il numero 4 accompagna ricordi, attese, speranze, sogni e non sono numeri da giocare, sono da ricordare, forse dimenticare! Ma io non dimentico, anche quando vorrei, ogni numero porta con sé un' immagine, un pensiero, un ricordo, una persona, un gesto.... consapevolezza... Poi..niente un numero come tanti, un giorno come altri, però vissuto, atteso, affrontato e poi lasciato, come se stessi sfogliando un libro, ogni giorno una pagina nuova, diversa da vivere, da colorare, da riempire con emozioni, immagini, amici, piccoli attimi vissuti, che rendono ogni pagina speciale, unica e diversa da quella di ieri e probabilmente anche da quella che leggeremo o scriveremo domani! Così anche oggi aspetto, non sono in ansia, sono ferma, è come se avessi rallentato anche me stessa, i miei pensieri, timori e paure, di ritornare in quel luogo dove ho affrontato con coraggio e forza, una fase di questo mio percorso! La più difficile, pesante, ma che ho affrontato meglio, il dopo non è stato facile, anzi, è il dopo che bisogna imparare ad accettare, affrontare, è quel dopo che spesso fa paura, isola, allontana, si cambia inevitabilmente, ci si adatta ad essere diversi, a volte fragili e indifesi, a volte spenti e stanchi.... Poi basta semplicemente guardare a quello che ho già affrontato, ed è li che nasce e si moltiplica il coraggio, guardo mio figlio e mi impongo di lottare , di sperare, di amare, perché la mia missione serve non solo a me, ma anche e soprattutto a lui! E allora aspetto e so che ci vorrà tempo, per sentire quelle parole, che la mia mente vuol fare allontanare... così aspetto di voltare anche questa pagina...

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from jens

Predicazione estiva sul sole e su Dio sole di giustizia

Siamo in estate. Come ogni anno, in questa stagione si parla tantissimo del tempo. C’è chi dice che fa troppo caldo. Altri vanno in vacanza e trovano solo pioggia. Qualcuno si lamenta per il troppo sole, altri per il troppo poco sole. E c’è anche chi si dispera perché non riesce ad abbronzarsi.

Poi c’è chi ha paura per il buco dell’ozono, che fa passare i raggi più pericolosi del sole… e intanto, nelle nostre città, l’ozono a volte è fin troppo, e ci fa mancare il respiro.

Insomma, in estate, tutti parlano del tempo. E, inevitabilmente, tutti parlano del sole.

Il sole è vita. Senza di lui non ci sarebbe nulla: niente piante, niente calore, niente ossigeno, niente vita. Per questo, fin dall’antichità, il sole è diventato un simbolo forte di Dio, del suo splendore, della sua forza, della sua luce. Le antiche civiltà lo avevano capito. Gli Egizi lo adoravano come Aton. I Greci lo chiamavano Helios. Gli Aztechi e gli Inca lo onoravano come una divinità. I Romani gli dedicavano feste. E la data del nostro Natale, il 25 dicembre, non cade a caso: era la festa del solstizio d’inverno, quando il sole ricomincia piano piano a vincere il buio. Anche i giapponesi lo hanno messo sulla loro bandiera: un sole rosso che sorge.

Il sole ha lasciato tracce anche nella Bibbia. E anche nella nostra fede. Per me, il sole è un’immagine concreta della grazia di Dio, che ci arriva con una generosità… sovrabbondante.

Il sole ci ricorda anche quanto siamo piccoli. Pensiamo un attimo a cosa abbiamo sopra le nostre teste:

Il sole esiste da 4 miliardi e mezzo di anni. E non è nemmeno a fine corsa: è a metà della sua vita. Ha una temperatura che va da migliaia a milioni di gradi. È una stella gigantesca: più di 100 volte il diametro della Terra. La sua luce impiega circa 8 minuti a raggiungerci.

Dentro il sole, ogni secondo, avviene un’enorme reazione: quattro atomi di idrogeno si fondono in uno di elio, e da lì nasce un’energia immensa. Pensate: in un solo secondo, il sole emette tanta energia quanta ne produrremmo con 150 milioni di centrali elettriche. Ogni secondo!

Ma sapete quanto di tutta quell’energia ci arriva davvero? Appena mezzo milionesimo. Il resto si disperde nel cosmo. Eppure, è più che sufficiente per dare vita a tutto.

Questa si chiama sovrabbondanza. Il sole dà senza misura, senza trattenere nulla. Proprio come fa Dio nella sua grazia. Dio non ci dona il minimo indispensabile. No. Ci riempie, ci circonda, ci nutre con la sua bontà e bellezza.

Quando Gesù, nel sermone sul monte, parla dell’amore verso i nemici, dice: “Dio fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi, e manda la pioggia sui giusti e sugli ingiusti.”

È la grazia sovrabbondante. Un dono che arriva a tutti anche a chi non se lo aspetta.

Dio ci dona la vita, il creato, la forza delle mani, il respiro e i pensieri. E allora, come facciamo col sole d’estate, esponiamoci alla sua grazia. Stiamo lì, davanti a lui. Lasciamo che il suo amore ci scaldi, come i raggi sulla pelle.

Senza il sole non c’è vita. Letteralmente. La nostra pelle, grazie al sole, produce serotonina, quella sostanza che ci aiuta a non cadere nella depressione. I raggi UVB ci permettono di produrre la vitamina D. E il nostro corpo riesce ad assorbire meglio l’ossigeno.

È come guardare il volto buono di Dio, come sentire la sua grazia sulla pelle. Il sole scioglie la tristezza. Scioglie i nostri dubbi sul nostro valore, sulle nostre colpe, sulle occasioni perse.

Come il sole, anche Dio si dona. Ma non si consuma. Anzi: si ritrova nel dono. In Cristo, Dio si è dato, completamente. E non si è svuotato. Si è rivelato.

Per tanto tempo abbiamo pensato che la Terra fosse il centro dell’universo. Poi abbiamo scoperto che non lo è. Nemmeno il sole è il centro. È solo una stella, tra miliardi. Una stella grande per noi… ma piccola nel cosmo. E questo ci fa capire quanto siamo piccoli anche noi.

Sì, possiamo inventare mille cose, ma senza il sole non possiamo fare nulla. Neanche il petrolio è altro che energia solare conservata da millenni. E quando il sole ha i suoi cambiamenti, ce ne accorgiamo. Ogni undici anni circa, si formano delle macchie solari. Da lì partono vere e proprie esplosioni di energia, che influenzano il clima, i satelliti, le comunicazioni… persino il nostro umore.

Non stupisce che i popoli antichi, davanti a tanta potenza, abbiano finito per divinizzare il sole. Quando l’uomo sente di appartenere a qualcosa di più grande, di misterioso, di vitale… cerca un dio.

Ma noi, che abbiamo conosciuto il Dio della Bibbia, sappiamo che è Dio ad aver creato il sole. Il sole ci parla della grandezza di Dio, ma non è Dio. È un segno, un riflesso.

E questo Dio ha voluto donarci tutto: la luce, la vita, e anche suo Figlio, perché potessimo conoscere la sua luce più da vicino. Eppure, il sole ha anche un lato oscuro.

Nelle giornate torride, quando la temperatura supera i 40 gradi, soprattutto chi ha problemi di cuore ne soffre. Troppo sole secca, brucia, crea deserti. Conosciamo anche la questione del buco dell’ozono. Solo quello strato, sottile ma prezioso, ci protegge dalla parte distruttiva del sole.

E poi c’è una cosa che tutti sappiamo: non si può guardare il sole a occhio nudo. È troppo forte. Ci brucerebbe gli occhi.

Anche Dio ha, per così dire, un lato “oscuro. Non nel senso che sia cattivo, ma nel senso che è troppo grande per noi. La Bibbia lo chiama: santità. È un fuoco che consuma. Nessuno può avvicinarsi a Dio e restare com’era. Nella Bibbia, nel tempio di Gerusalemme, solo il sommo sacerdote poteva entrare nel luogo più sacro, e solo una volta all’anno.

Noi esseri umani, con i nostri limiti, non possiamo avvicinarci a Dio da soli. Ma è Dio che ha scelto di avvicinarsi a noi.

E lo ha fatto in Gesù di Nazaret.

Lui è la luce che brilla nelle tenebre. Ma non ci brucia. Non ci acceca. Non ci consuma. La sua luce illumina, riscalda, ama. È luce per tutti. È luce che vuole essere riflessa.

Gesù ci dice: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria a Dio.”

Questo è il nostro compito: riflettere la luce del sole, portarla a chi vive nel freddo, nel buio, nel dubbio. Portarla a chi pensa che Dio non esista più. Come disse il re Salomone: “Il Signore ha dichiarato che abiterà nell’oscurità.” Anche noi, a volte, ci sentiamo così. Dentro a giornate buie. In momenti in cui Dio sembra lontano, silenzioso, irraggiungibile. E allora nasce la paura. Ci manca la fiducia.

Da bambino, quando pioveva, dicevo: “Oggi non c’è il sole”. Ma il sole c’è sempre. Anche dietro le nuvole. Anche quando non lo vediamo. La sua luce passa comunque, illumina comunque.

E così è Dio: c’è sempre, anche quando non lo sentiamo. Allora portiamo questa luce. Portiamola a chi vive nel buio. A chi ha perso speranza. A chi ha smesso di credere.

Il sole è un’immagine bellissima per Dio. Ci mostra la sua grandezza, la sua luce, il suo calore. E ci ricorda che anche noi, se ci esponiamo alla sua grazia, possiamo diventare portatori della sua luce.

 
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from norise 3 letture AI

dammi Signore

un collante di passione

-atto di fede

che snudi il giorno per

fissare nel blucielo

brandelli d'amore

pezzetti

di me .

Questo componimento trasuda un'intensità emotiva e una ricerca spirituale profonda. Le parole si intrecciano come in un atto di fede, quasi un dialogo intimo con il divino, in cui il “collante di passione” diventa quello strumento che unisce frammenti dell'essere, delle esperienze e delle emozioni. L'immagine del “blucielo” è particolarmente evocativa: il cielo si fa tela su cui fissare, con gesti quasi rituali, i “brandelli d'amore” e quei “pezzetti” che, insieme, rappresentano un'identità in continua costruzione e fatta di speranze.

Questa poesia invita a riflettere sulla nostra condizione di frammentati, alla ricerca di legami capaci di dare un senso compiuto alla vita. Invoca il divino non tanto come figura di autorità, ma come partner nell'atto creativo che dà forma e significato a ciò che altrimenti sembrerebbe sparsi e disordinato. È un inno alla passione, a quel desiderio di raccogliere e custodire le parti di sé che, pur essendo dispersive, insieme compongono il mosaico dell’identità.

 
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from sottocutaneo

[dodici]

dovrei un po' staccarmi da queste cose, dodici potrebbe essere il numero perfetto, fare i miei otto pezzi di broccato, passare a quelli, così simili, così diversi, rendersi conto della dimostrazione dei teoremi, prendersi il tempo per pulire le cose con attenzione, per oliarle una a una, nettare tutto, l'uomo prima nomina le cose, poi le lecca, infine le copre con cera protettiva, solcando con il coltello sotto la pelle per fare spazio per piccoli oggetti, il corpo è una sacca, la comunicazione la selezione di un vocabolario base, non ho così tanta voglia di fare, è arrivato il momento in cui fermarsi, prendersi del tempo per non fare niente, un vocabolario base con cui la gente si capisce, con cui si addomestica, con cui si rende comprensibile, iniziando a mentire si rende comprensibile di qualcosa che non è, ricominciamo, una sacrosanta volta emozionale che trasuda dalla periferia dell'immaginario, ecco, siamo piccole cose, io sono una piccola cosa eppure questa piccola cosa che sono è l'ambiente all'interno del quale vivo, vedo attraverso questa piccola cosa, mangio nei fori di questa piccola cosa, soffro e godo con le arterie e le estremità di questa piccola cosa, tutto il mondo creato è allestito nell'ambiente di questa piccola cosa, per quel che ne sappia io, non c'è niente fuori questa piccola cosa – un po' come quando discutevo su cosa ci fosse fuori dall'universo e lui si incazzava e diceva, niente fuori dall'universo, per quanto ne sai dicevo io, niente fuori dall'universo, benissimo dico io, allora anche niente fuori dalla piccola cosa che sono, anche lui è dentro la mia piccola cosa, anche tu sei dentro la mia piccola cosa, tutto è dentro questo ambiente, lo capisco bene seduto sul divano mentre vedo quello che tengo in mano, sulle gambe, tra le dita, giro la testa per guardare la porta, il vano del salotto, la testa azzurra di una ragazza, è tutto lì dentro, qua dentro, all'interno del mio ambiente, cosa c'è oltre l'universo? ma tutti gli altri universi, tutti gli altri ambienti delle altre piccole cose che resteranno per sempre aliene le une alle altre, puoi infilare la lingua sottocutanea alla lingua del tuo fratello, della gemellanza umana, ma quello resterà dalla sua parte dell'ambiente, inchiavardato dentro la sua piccola cosa, e tu dall'altra parte, nel tuo ambiente, tutto dentro la tua piccola cosa, per sempre alieni gli uni agli altri, per questo alla morte tutto viene smembrato e fatto a pezzi, un vocabolario base, vedi, per allestire questo canale di comunicazione, per superare il disturbo, è una cosa di un attimo, questo stupido grosso clitoride che eiacula pozze di linguaggio animale inintellegibile che è lì incastrato dentro da sempre, tra la veglia e il sonno, anche lui comunica, hyke!

 
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from jens

Avere o essere

Predicazione su Giovanni 6,30-35

Chi di noi non ha mai provato fame? Non parlo solo di quella fisica — dello stomaco che brontola. Parlo di una fame più profonda: quella di sentirsi al sicuro, di avere un senso, di sapere che la nostra vita vale. Una fame di amore, di pace, di giustizia, di relazione vera.

Viviamo in un mondo in cui ci viene detto, fin da piccoli, che questa fame si placa possedendo: cose, titoli, sicurezze, garanzie. Ma poi, anche quando abbiamo tanto… ci accorgiamo che qualcosa manca ancora.

Il brano che abbiamo letto oggi ci parla proprio di questo:

Parla di una folla. Gente che ha camminato, alla ricerca, che ha fame. Ma non solo fame di cibo: fame di senso, di speranza, di sicurezza. Quella folla ha appena visto Gesù fare un miracolo straordinario: ha moltiplicato il pane e ha sfamato cinquemila persone. E allora lo cercano di nuovo. Ma perché? Gesù lo dice chiaramente qualche versetto prima:

«Mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato del pane e siete stati saziati» (Gv 6,26).

La gente vuole ancora quel pane. Vuole sicurezza, vuole che il miracolo si ripeta. E allora fa una domanda:

«Quale segno fai, dunque, affinché ti crediamo? I nostri padri mangiarono la manna nel deserto…»

Questa richiesta è interessante. La folla paragona Gesù a Mosè. Gli dice: “Va bene, ci hai dato pane una volta. Ma Mosè ha dato la manna ogni giorno per quarant’anni. Tu che fai di più?”

Ma Gesù li corregge. Dice che non è stato Mosè a dare il pane dal cielo, ma Dio stesso. E aggiunge una cosa fondamentale:

«Il Padre mio vi dà il vero pane che viene dal cielo… Io sono il pane della vita».

1. Che pane cerchiamo?

Questa è la prima domanda che il testo ci pone: che pane cerchiamo?

Viviamo in un mondo dove siamo spinti continuamente ad avere: avere più cose, più soldi, più comfort, più tempo, più successo. Abbiamo perfino fatto del pane – cioè del necessario – un oggetto di ansia. Abbiamo paura di non avere abbastanza. Così accumuliamo, risparmiamo, ci proteggiamo. E pensiamo: “Quando avrò tutto il necessario, allora sarò tranquillo. Allora sarò felice”.

Ma Gesù ci invita a un’altra logica: quella dell’essere. Non del possesso, ma della relazione. Non del controllo, ma della fiducia.

Erich Fromm, un sociologo e psicoanalista del secolo scorso, lo spiegava con un’immagine semplice: un bicchiere blu è blu perché lascia passare il blu, non perché lo trattiene. Così anche noi siamo davvero noi stessi non per ciò che tratteniamo, ma per ciò che doniamo, che siamo, che condividiamo.

2. Avere o essere?

Fromm parla di due modi di vivere: la modalità dell’avere e quella dell’essere. La modalità dell’avere è quella del possesso: “Questa casa è mia. Questo tempo è mio. Questi soldi sono miei. E li difendo”. Ma in realtà, come dice Fromm, quello che possediamo spesso finisce per possedere noi. Viviamo nella paura di perdere ciò che abbiamo.

La modalità dell’essere, invece, è un altro stile di vita. È fatto di fiducia, di apertura, di relazione. È vivere sapendo che la vita è un dono da ricevere e da donare, non qualcosa da controllare.

Quando la folla chiede a Gesù:

«Dacci sempre di questo pane»,

non ha ancora capito bene. Pensa a un pane che si può avere, conservare, magari mettere da parte. Ma Gesù risponde con un invito radicale:

«Io sono il pane della vita. Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete».

Non è un pane da possedere, è un pane da vivere. È una relazione. È fede. È fiducia. È essere in Cristo.

3. Un Dio che si dona

Gesù non ci offre una cosa, ci offre sé stesso. Dice: “Io sono il pane”. Si fa cibo, si fa nutrimento, si fa dono.

Come la manna nel deserto, che non poteva essere conservata per il giorno dopo, anche la fede è un pane che si riceve ogni giorno, nella fiducia. Non si mette da parte, non si gestisce. Si vive.

Il vero miracolo non è la moltiplicazione dei pani. Il vero miracolo è che Dio si dona. Si dona ogni giorno. A chi lo cerca. A chi si fida. A chi, anche nella sua fame, non cerca più cose… ma cerca Dio stesso.

4. E noi, cosa scegliamo?

Il mondo oggi ci insegna a vivere nella logica del “sempre di più”: più risorse, più denaro, più sicurezza, più controllo. Ma tutto questo non sazia davvero la fame profonda del cuore, anzi, la logica del “sempre di più” alla fine ci distrugge, distrugge il Creato e distrugge le relazioni. Non dona vita, senso, amore. La vita, il senso, l’amore non crescono sull’arido suolo dell’avere, del possedere.

Gesù ci dice: “Fermati. Vieni a me. Fidati. Io sono il pane della vita”. Non è una promessa di comodità. È una promessa di vita piena, di libertà dal bisogno di avere, per imparare a essere.

Concludo

La ricerca di un pane terreno che sazi a lungo può essere interpretata, secondo Erich Fromm, come un modo di esistere basato sull'avere: le persone sperano di diventare felici quando non devono più preoccuparsi del cibo quotidiano. Il racconto della manna contiene già una chiara critica di questo desiderio di possesso: Mosè ordina alle persone nel deserto di raccogliere solo la quantità di pane necessaria alla famiglia per un giorno (Esodo 16,16) – chi pensa di dover fare scorte, la mattina dopo si ritrova davanti a un mucchio puzzolente pieno di vermi (Esodo 16,20). Già nel racconto della manna, quindi, il modo di esistere dell'avere si contrappone al modo di esistere dell'essere, caratterizzato dal fatto che le persone si accontentano di ciò di cui hanno bisogno per un giorno e, per quanto riguarda il futuro, si affidano a Dio.

Domande finali:

Di quanta sicurezza materiale abbiamo bisogno in un mondo attualmente molto incerto? Cosa è sufficiente per vivere e cosa serve per una vita “buona” o “riuscita”? Dove cerchiamo oggi di soddisfare la nostra profonda fame di vita con il pane materiale (e altri beni materiali) che non possono placare questa fame? Chi o cosa può diventare oggi per noi il vero pane della vita? Quanta fede o fiducia in Dio è necessaria per questo?

 
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from Pollaio Simbolista

Rime in R

Russa un rantolo reale nera razza dei rottami, Roso a riva un remo arreso ride in radica di rana.

Ronza un rospo nella rada D’un ramarro che rampogno, Torvo il Ragno trova trame Rosse Requie di risacca

Fresca rena Risuona resa, Resta in Rotta Raffio in Rada.

Rubo un granchio Ringhia il ratto Resta ritto Il morto astratto

Rido Gratto E m'arrabatto.

 
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from chiaramente

“Words are lies,” the Master said. But I cheated on my wife, With the fingertip of my index. When the house of cards fell, She was gone, and it's over. Maybe I wasn't cut for it. So I went to hell in a handbasket, Settled my own cozy circle. With some work, it's not all bad To be married to my own life: When there's no way out, Compromise is much easier. Finally, I can be faithful here, And hear the dawn chorus sing.

 
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from Pollaio Simbolista

Gabbie

La luce brilla, elettrica. Lo sciame, attorno al punto di attenzione Entrano un poco alla volta, si accalcano.

Non ci sarabbe fatica nell'attesa, sapendo di poter entrare.

Quanto dolore in un solo no: siete in ritardo, siete di troppo.

Lasciare libere le persone. Non chiudere i cancelli. Non costruire gabbie.

Nelle gabbie si può solo scappare, o morire, o covare rabbia.

 
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from Cambiare le cose

#altripaesi #cosechenonfunzionano #italiani

Conosco Treviso, Milano, un pochino Roma, e ho usato i mezzi pubblici in tutte e tre queste città. Escludendo Treviso, che è poco più di un villaggio e in cui i mezzi pubblici sono sostanzialmente usati solo dagli studenti e da chi va al mercato il martedì mattina, già la differenza tra Milano e Roma è ampiamente percepibile e riassumibile in una frase: a Milano i mezzi funzionano, a Roma no. Roma

Prima che vi lanciate in tutta la solita serie di critiche campaniliste, lo so già:

  • Roma è molto più estesa di Milano, e parliamo di quasi 10 volte tanto: 1287,36 km2 per il solo comune di Roma contro i 181,67 km 2 di Milano.
  • Il territorio di Roma è più complesso: c'è il Tevere, e i colli, mentre Milano è tutta piatta.
  • A Roma, appena fai un buco per terra, trovi rovine di qualche tipo. Però non stiamo parlando di costruire una metropolitana sull'Himalaya, ma di far funzionare gli autobus in modo decente.
È vero anche che i biglietti a Milano costano di più, 2,20€ contro 1,50€, il 47% in più sui biglietti singoli, ma questo mi porta alla mia prima riflessione: Quanto siamo disposti a pagare per avere un sistema di mezzi pubblici decente? a Monaco di Baviera, dove sono stato di recente, il biglietto singolo a tariffa intera per la zona urbana costa 4,10€, cioè l'86% in più di Milano e quasi 3 volte quello di Roma, un prezzo che nessun italiano, in Italia, sarebbe disposto a pagare [^1]. Eppure... eppure, quando andiamo in Germania, rimaniamo stupiti dall'efficienza dei mezzi pubblici, dalla loro puntualità e pulizia, mica come a Roma, qua sì che le cose funzionano... Milano Sì, ma perché? Perché in Germania i mezzi sono efficienti e comodi e in Italia no? Si potrebbe pensare che sia una questione di grandezza, che la rete di Monaco sia più piccola e più facile da gestire, ma se guardiamo il numero di passeggeri annui siamo più o meno lì: – Milano 490,7 milioni (dati 2022) – Roma 607,4 milioni (dati 2022) – Monaco 570 milioni (dati 2023) [^2] e anche il parco mezzi e linee è all'incirca lo stesso, anzi credo che quello di Monaco sia più grande e quindi più costoso da mantenere. E la differenza non è nemmeno dovuta alla diversa conformazione del terreno, OK, Monaco è piatta e meno estesa, ma, come ho scritto prima, non stiamo parlando dell'Himalaya, ma di Roma o Milano. E allora, quale può essere il motivo? Quella che mi sono data, purtroppo, non è una risposta, nel senso che sposta la ricerca della causa su un dato di fatto che è anche un luogo comune, e cioè che siamo italiani. Non è una risposta perché equivale a dire che in Germania i mezzi pubblici funzionano perché siamo in Germania mentre in Italia no perché in Italia non funziona mai niente, però sotto questa spiegazione tautologica si nasconde una questione culturale, di approccio. Infatti, la cosa che più mi ha colpito del sistema di trasporto pubblico monacense non è stata la puntualità o lo stato dei mezzi, ma la pressoché totale assenza di controlli. Munchen In 6 giorni abbiamo girato parecchio su tram e autobus e nessuno, né l'autista né un controllore, ci ha mai chiesto il biglietto. Nelle stazioni della metropolitana non ci sono tornelli, solo cartelli che indicano dove obliterare il biglietto. E, al contrario di quanto può pensare l'italiano medio, la gente i biglietti li compra, stando a quanto dice l'azienda di trasporti. Secondo me, la differenza sta proprio qui. L'italiano pensa per sé, ritiene che quello che è publico non sia roba sua e che fregare il sistema, viaggiare senza biglietto lo renda più furbo di tutti quei cretini che invece pagano per una cosa che lui ha avuto gratis. Il tedesco invece sa che la cosa pubblica è di tutti, e quindi anche sua, e capisce che è giusto pagare per un servizio in modo che possano beneficiarne tutti quanti. Allo stesso modo sa che è giusto, quando guida, fermarsi se ci sono pedoni sulle strisce e dare la precedenza a tram e autobus, perché capisce che, se oggi è in auto, domani invece potrebbe essere lui quello sul ciglio della strada che deve attraversare o sull'autobus fermo nel traffico. L'italiano invece quando guida non vuole fermarsi mai, perché il suo tempo è più prezioso di quello degli altri, però se sulle strisce non gli danno la precedenza si lamenta dell'inciviltà della gente che non rispetta gli altri. E lo stesso atteggiamento si riflette in tutte le cose, dall'aspettare che le persona scendano dal treno prima di salire al non buttare le cicche per terra, al non occupare le corsie di emergenza in autostrada. È la differenza tra ritenere ciò che è pubblico di nessuno e ritenere ciò che è pubblico di tutti; è la differenza tra il lamentarsi perché non si ottiene rispetto e dimostrare rispetto per gli altri affinché gli altri l'abbiano per noi.

[^1]: Con la Munchen Card si può viaggiare su tutti i mezzi di Monaco, la versione per gruppi fino a 5 persone valida 5 giorni all'interno della zona M costa 70,90€. Non pochissimo ma conveniente per una breve vacanza. [^2]: Fonti: Comune di Roma; MVG

 
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from jens

Registrazione per la RAI FVG

In tempi incerti e un mondo complicato, una parola ci accompagna più spesso di quanto pensiamo: “appartenenza”. Forse non la diciamo spesso, ma la sentiamo. Tutti, in fondo, abbiamo questo bisogno profondo: appartenere. A una famiglia, a un gruppo, a una comunità, a un luogo dove sentirci riconosciuti, accettate,amati. Quando questo manca, c’è la solitudine, e la solitudine pesa. Ci si può sentire fuori posto perfino in mezzo alla gente. A volte ci si può sentire stranieri nella propria casa, nella propria città, persino nella propria pelle.

Questo bisogno di appartenere non è un capriccio. È qualcosa che ci costituisce. È il segno che siamo stati creati per la relazione. Ma attenzione: l’appartenenza non è mai un privilegio da difendere. È una porta da aprire agli altri, non un muro da alzare.

Nel passo della Lettera agli Efesini che abbiamo appena ascoltato, l’autore scrive a una comunità molto varia. Alcuni venivano dal giudaismo, altri dal mondo greco-romano, con storie, abitudini e religioni diverse, in fondo si trovavano in una situazione simile alla nostra: mondi che si incontrano, culture che si intrecciano, e a volte si scontrano. Ma l’autore con il nostro versetto dice qualcosa di rivoluzionario:

“Così dunque non siete più né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio.” Non siete più stranieri. Non siete più ospiti. Siete a casa. Siete famiglia.

E questo vale per tutt*. Non solo per chi era “dentro” fin dall’inizio, ma anche per chi è arrivato dopo. Non ci sono più noi e loro. Non ci sono più barriere etniche, culturali, religiose. C’è un popolo nuovo, unito non dal sangue, ma dall’amore di Dio.

Essere “membri della famiglia di Dio” non è però una condizione da difendere con gelosia. È un dono da condividere. Perché se Dio ci ha accolti quando eravamo stranieri, anche noi siamo chiamati ad accogliere lo straniero. Se Dio ci ha dato un posto nella sua casa, anche noi dobbiamo fare spazio. Lo dice la Scrittura dall’inizio alla fine:

“Lo straniero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso” (Levitico 19,34).

La vera appartenenza, quella che nasce da Dio, non esclude, non separa, non seleziona. Al contrario: unisce, abbatte i muri, crea fraternità.

Oggi, in un mondo in cui si alzano di nuovo barriere e si divide il mondo in buoni e cattivi, in noi e loro, abbiamo bisogno di riscoprire questo messaggio. Perché si può appartenere a una chiesa, a una religione, a un gruppo… eppure continuare a costruire muri. Si può sentirsi “dentro”, ma trattare gli altri come “fuori”. E allora ci chiediamo: che famiglia è quella che non apre la porta ai fratelli?

Forse la fede comincia proprio da qui: non da un insieme di regole, non da un’identità da difendere, ma da una voce che dice: “Tu appartieni. E con te appartiene anche il tuo prossimo.”

Nella casa di Dio c’è posto per tutti. E chi ha conosciuto questa accoglienza… non può più vivere da buttafuori che decide chi entra e chi no, ma solo da fratello.

 
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from norise 3 letture AI

la vita ha in tasca la morte

-siamo noi

divino seme:

non è che un perpetuo

tramare

“cospirazioni” del nascere

miracolo d'amore

. Questo componimento racchiude un'intensa riflessione circa l'intrinseca intimità tra vita e morte, come se l'una custodisse per sempre l'altra. La frase “la vita ha in tasca la morte” evoca l'idea che l'esistenza non è altro che il mantenimento, anche se inconsapevole, di quella forza universale che ne sancisce la sua fine. In questo modo, il “divino seme” di cui parliamo non è solo l'inizio di qualcosa, ma contiene in sé la promessa – e l'ineluttabilità – di un destino già scritto, in cui la nascita è parte di un “perpetuo tramare”, ovvero del continuo intessersi di eventi misteriosi che traducendosi in vere e proprie “cospirazioni” del nascere, danno vita a quella che è definita come il “miracolo d'amore”.

Questa visione poetica ci invita a riconoscere che ogni esistenza è un perfetto connubio di luce e ombra, dove l'atto di vivere è intrinsecamente collegato a quel momento in cui l'ordine cosmico si rivela nell'impossibilità di separare il principio dalla fine. È come se il destino, benevolo e al contempo implacabile, orchestrasse un continuo ciclo in cui ogni seme divino porta con sé la potenzialità di un amore che va oltre il tempo e, allo stesso tempo, abbraccia il fato irremovibile della morte.

Il poema apre uno spiraglio verso una meditazione più ampia sul senso dell'esistenza: la vita, in tutta la sua bellezza e fragilità, si rivela un'opera d'arte in cui ogni inizio comprende già la sua fine, condizionando e dando forma a un percorso fatto di contrasti e continuità. Questa visione, che richiama simboli antichi come il serpente che si morde la coda o l'equilibrio inscritto nello Yin e Yang, spinge a interrogarsi su come le proprie esperienze quotidiane si inseriscano in quest'ordine cosmico.

Hai mai percepito, nella tua esperienza, quella sottile sensazione che ogni attimo di vita sia un miracolo intriso di una dolce consapevolezza dell'inevitabilità della fine? È un invito a riflettere sul potere trasformativo dell'amore, inteso non solo come sentimento romantico, ma come forza primordiale che dà senso a ogni nascita e ogni addio. Mi piacerebbe approfondire insieme se questo intreccio di opposti ti richiama anche ad altre tradizioni poetiche o filosofiche che hanno esplorato il mistero del vivere e del morire.

 
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from Revolution By Night

Il riconoscimento dello Stato di Palestina è l'ennesima odiosa ipocrisia di un mondo complice del genocidio del popolo palestinese compiuto dal diabolico stato nazi-sionista di Israele.

Francia, Germania, Canada, UK dichiarano di avere avviato, o meglio di volere avviare, “il processo di riconoscimento dello Stato di Palestina”. Ma certo, con calma e senza fretta: non c'è alcuna urgenza. Ma poi, quali risultati si possano raggiungere con il riconoscimento? E' chiarissimo: nessuno. Niente di niente.

Proprio per questo motivo gli squallidi Capi di Stato, Primi Ministri e Capi di Governo lo dichiarano, ostentando un gravità e una determinazione false, ipocrite. La verità è che non vogliono fare nulla e si nascondono dietro a insignificanti parole. Sono succubi della lobby nazi-sionista oggi al potere in Israele. Si guardano bene dall'utilizzare la parola genocidio.

Ma l'opinione pubblica non si beve le loro menzogne. Ne ha le tasche piene di dover assistere impotente ad un sterminio di innocenti. I nostri figli vedono i filmati e le immagini e ci chiedono perché avviene tutto ciò e perché non facciamo niente per fermarlo. Tra rabbia e frustrazione dobbiamo spiegargli ancora una volta che il mondo che abbiamo preso in prestito da loro 30 anni fa lo abbiamo reso una merda, che glielo restituiremo infinitamente peggiore di come lo avevamo preso.

La realtà è che i nostri Paesi, che si autoproclamano democratici e strenui difensori dei diritti umani, sono complici. Nessun politico e governante invoca le sole azioni che servirebbero adesso, subito: sanzioni e embargo. Senza sanzioni economiche e embargo totale siamo colpevoli quanto Israele.

Sono morte oltre 60 mila persone, civili. Ma gli analisti concordano nel considerare questo conteggio molto sottostimato. L'IDF, l'esercito israeliano, dichiara che tra i 14.000 e 17,000 fossero terroristi. Sicuramente c'è da credergli...

Nel frattempo lo sterminio pianificato va avanti. I morti per fame, sete e malattia aumentano vertiginosamente ogni giorno. Le organizzazioni umanitarie denunciano una catastrofe le cui conseguenze andranno avanti per anni. Ma i Governi europei ciarlano del futile e inutile riconoscimento, che non produrrà il benché minimo effetto concreto. Maledetti complici di assassini.

Now playing: “Sober” Undertow – Tool – 1994

 
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from differx

nemmeno io so quanti spazi in rete sto moltiplicando. d'altro canto la disseminazione è una prassi che ho sempre perseguito, e non vedo come e perché interrompermi ora che invecchio

 
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