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from norise 3 letture AI

SOGNO BAGNATO

[dalla parte dei traditi ed uccisi]

vedere l'angelo della morte entrare nel mio sogno

ed io riverso sul selciato lo stupore del sangue le viscere nelle mani

“tu quoque brute” ... per mano di chi si credeva amico

(2010) .

Analisi del testo “SOGNO BAGNATO”

Atmosfera e tono

Il componimento apre su un paesaggio onirico deteriorato dal violento ingresso dell’angelo della morte. La tensione resta sospesa tra incubo e realtà, evocando uno stato di terrore quasi sacro.

Immagini e figure retoriche

  • Personificazione: “angelo della morte” dà volto e volontà a un’entità astratta.
  • Effetto shock: la descrizione del sangue e delle viscere amplifica la brutalità del tradimento.
  • Latinismo: “tu quoque brute” rinvia al famoso grido di Cesare, condensando il senso di amicizia tradita in una formula carica di storia.

Temi e simboli

  • Tradimento e violenza: l’amico-divenuto-carnefice trasforma il sogno in carneficina.
  • Sogno vs realtà: la dimensione onirica crolla di fronte allo svelamento del peggiore dei segreti.
  • Morte rito d’iniziazione: il passaggio dallo stato di incoscienza al riconoscimento della brutalità umana.
 
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from Bymarty

✍️Vorrei ripercorrere, anche se con animo diverso e esattamente a distanza di un anno, questi giorni che hanno preceduto il mio intervento e la rimozione del mio Carcinoma! Perché scrivo? Per non dimenticare e per ricordare alla nuova “Me”, che ci sono , che possiamo e dobbiamo continuare in questo percorso, ok siamo agli inizi, però il mio piccolo ospite lo abbiamo sfrattato ed ora ci occuperemo di noi , della nostra nuova vita insieme non a lui, ma a ciò che la sua presenza ha comportato. Inevitabilmente in un anno sono cambiate tante cose, io sono cambiata, spesso mi sono ritrovata sola, fragile e molto stanca, sia psicologicamente che fisicamente! Ma sono qui a lottare, dopo aver accettato , pur con difficoltà, i cambiamenti fisici e non solo, le terapie, i controlli, tutto! Si cambia, si piange, a volte si ride, si ricorda.. Un anno fa la mia prima risonanza magnetica con contrasto, la preparazione, per essere un soggetto allergico e poi tutto ciò che ho affrontato giorno per giorno, sempre supportata dalla mia famiglia, da medici ottimi, ma soprattutto umani, pochi amici e un paio di amiche , che mi hanno aiutata , a gestire il dopo, mi hanno aiutata con mio figlio e soprattutto un pensiero va a chi mi è stato di esempio e forza! Il mio sole, ( Ivan ) il mio faro, la mia roccia , la mia ancora di salvezza, nonostante non sia stato fisicamente con me, ma credo e spero ci sia ancora l'empatia che ci ha avvicinati e che ci ha permesso di diventare quello che col tempo è diventata una bella amicizia! Credo che ognuno possa ritrovarsi in queste parole, perchè sa, c'è stato o ha vissuto insieme a me! Un pensiero va a chi mi ha abbracciato in tutti i sensi, ad Antonella, forse l'unica cara Amica, alla famiglia, mio marito, figlio, i miei genitori e mia sorella , che cmq hanno condiviso, ognuno a modo proprio, questi momenti e che sono stati la mia forza! Ringrazio Alviro, i nostri caffè, una menzione va anche a Fabio, se un giorno dovesse leggere, anche lui mi è stato vicino, e nonostante adesso si sia perso allontanato e abbia quasi rinnegato quel periodo, non posso non augurargli ogni bene! Il mio senologo, alla sua empatia e a quel sorriso di un anno fa e le parole di conforto e forza nel preannunciarmi uno spiraglio ... Grazie a chi si è allontanato, a chi ho allontanato io, non è semplice accettare di avere un tumore, affrontarlo o stare vicino a chi lo sta affrontando. Si ha paura di sbagliare, di non essere in grado di aiutare e da parte del malato c'è la paura di chiedere aiuto, c'è la vergogna quasi a parlarne e non si ha la forza per farsi vedere così, deboli, fragili, insicuri e a volte anche con le lacrime agli occhi! Un grazie anche a chi è entrato recentemente nella mia vita, e che mi ha portato e supportato con la sua esperienza, fede e con la sua leggerezza, facendomi sentire capita e meno sola in quei momenti di fragilità, solitudine e confusione! Se ho dimenticato qualcuno, chiedo scusa, spero di avere ancora tempo da dedicare, scrivere, occasione per un abbraccio, un caffè, una stretta di mano o ancora un semplice saluto! Perché oggi vivo di e per le piccole cose, non pretendo nulla, ma ben volentieri ho bisogno di circondarmi di serenità, amore, lealtà e forza e speranza.....

 
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from Revolution By Night

Il voto utile è il voto che ha ostacolato, impedito il formarsi di un movimento e di una classe politica realmente di sinistra, che non avrebbe abbandonato a se stessa la classe lavoratrice e avrebbe contribuito al crearsi di una nuova e forte coscienza di classe.

Con una forte e consapevole coscienza di classe non avremmo avuto 25 anni di strapotere berlusconiano e i governi democristiani di Prodi e Renzi, spacciati per centro-sinistra, emanazione della Confindustria e delle banche italiche non meno dei governi di centrodestra.

Dopo essere stata cornuta e mazziata dal voto utile, la classe media, la classe lavoratrice si è disgregata anche economicamente, vittima della macelleria sociale di stampo neo-liberista perpetrata dalla metà degli anni '90 ad oggi. Non è un caso se in Paesi come la Francia e la Spagna, dove i partiti socialisti sono sempre stati forti e hanno anche governato più volte (a partire dagli anni '80 in Francia e '90 in Spagna), le forze e le spinte neo-liberiste non sono mai riuscite interamente nel loro intento. La classe lavoratrice di questi paesi oggi è più coesa e consapevole e la classe media non è in ginocchio come in Italia. I premier di centrodestra (penso ad esempio a Sarkozy in Francia) dovettero fare i conti con un forte partito socialista, formato da politici di così alto livello e così preparati da decidere di assegnargli importanti incarichi nei loro stessi governi.

L'Italia è un Paese prevalentemente di destra, per precise e chiare ragioni storiche, sociali e culturali. Ma se i cittadini di sinistra avessero votato e votassero oggi, in piena e libera coscienza, i partiti da cui si sentono davvero più rappresentati e con i quali condividono le idee fondamentali e il modello di società da perseguire, quelle forze politiche oggi non si fermerebbero allo zerovirgola o all'uno, due, tre per cento, ma costituirebbero certamente una forza politica di sinistra molto forte: un interlocutore obbligato di qualsiasi governo di destra e centro-destra, una forza di opposizione con cui dovere fare i conti e a cui rendere conto, perché portatrice autorevole delle istanze di una parte della popolazione consistente e coesa.

Il bieco e cinico utilitarismo è arma della classe dominante di turno. Se questa riesce a convincere le classi subordinate a votare come lei allora ha vinto e di certo il voto è stato utile solo per lei. Non c'è niente di più solenne, significativo e potente di un voto fortemente idealista e ideologico, dato secondo la propria personale coscienza e convinzione, senza compromessi. Un voto così porta con sé una enorme capacità di trasformazione della società e del mondo.

Now playing: “Man of Golden Words” Apple – Mother Love Bone – 1990

 
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from AURORA: Odissea Umana

La Aurora IV non era solo una nave. Era una città interstellare lunga quasi due chilometri. Progettata per attraversare anni luce, ospitava oltre tremila membri dell’equipaggio, un’arca tecnologica costruita per preservare il seme dell’umanità. Ogni modulo era studiato per garantire sostenibilità e sopravvivenza: dalle aree di coltivazione idroponica a quelle per la sintesi alimentare, passando per officine avanzate dotate di stampanti 3D in grado di riprodurre componenti critici in caso di guasti.

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Le aree comuni erano organizzate per mantenere l’equilibrio psicofisico durante la lunga missione. Palestre, sale ricreative, simulatori immersivi, biblioteche digitali, spazi per la meditazione. I cicli giorno-notte erano simulati attraverso un sistema di illuminazione progressiva che aiutava i ritmi circadiani, nonostante l’assenza del sole.

Vista dall’esterno, la sua struttura ricordava un’enorme ruota celeste, con un grande anello rotante che girava lentamente attorno a un asse centrale. Era lì, sull’anello, che batteva il cuore umano della missione: aree abitative, serre inondate di luce artificiale, spazi comuni e centri di addestramento. La rotazione generava una gravità simulata, abbastanza forte da permettere il movimento quotidiano, l’allenamento fisico, la coltivazione di piante e il mantenimento dell’equilibrio psicologico dei coloni. Quella sezione era progettata per ricordare la Terra, o almeno un’eco familiare di essa.

Al centro della nave, invece, si trovava la colonna statica, il pilastro immobile attorno al quale ruotava tutto il resto. Qui la gravità era assente. Le sale criogeniche si estendevano come lunghi corridoi silenziosi, immerse in una calma irreale. Le camere criogeniche, situate in sezioni schermate della nave, erano progettate per garantire l’ibernazione a lungo termine con una probabilità di sopravvivenza superiore al 99,8%. La loro manutenzione era affidata in gran parte all’IA secondaria di bordo, AURA, responsabile della gestione tecnica e delle scelte logico-computazionali complesse. Le interazioni con l’equipaggio, invece, erano affidate a DAHLIA (Distributed Autonomous Human Logistics & Intelligence Assistant), un sistema empatico in grado di riconoscere e modulare le risposte emotive dei membri della missione.

Le unità di stoccaggio contenevano materiali da costruzione, riserve vitali, strumenti e componenti per ogni necessità tecnica immaginabile. In quel vuoto perfetto operavano i robot e i droni, creature artificiali che non avevano bisogno di respirare, né di gravità per muoversi. Viaggiavano agili lungo rotaie magnetiche, binari ad aria ionica, bracci telescopici e canaline invisibili che attraversavano ogni compartimento come arterie silenziose.

Più avanti, nelle aree di manifattura e riparazione, saldatori automatici e bracci robotici lavoravano in sincronia per costruire e sistemare ogni pezzo che potesse rompersi, ogni modulo che potesse servire. Era un’industria autonoma, sempre in funzione, che garantiva alla nave la capacità di adattarsi, di rigenerarsi, di sopravvivere.

In cima alla colonna centrale si ergeva il ponte di comando, circondato da antenne direzionali e pannelli di trasmissione, dove l’Intelligenza Artificiale DAHLIA monitorava ogni sistema vitale, ogni ciclo respiratorio, ogni variazione nel tono emotivo dell’equipaggio. Accanto a lei, AURA, la controparte più analitica e tecnica, sovrintendeva alle scelte strategiche, alle rotte, ai calcoli, alle risorse.

La baia di attracco si apriva lungo una delle sezioni laterali: da lì partivano e rientravano navette più piccole, veicoli da esplorazione, robot esterni. Il tutto si svolgeva sotto lo sguardo vigile di Dahlia, che coordinava ogni fase con la precisione di un direttore d’orchestra.

Lungo lo scafo, inciso con caratteri sobri e solenni, campeggiava il nome della nave:AURORA IV

Se la Aurora IV era una città tra le stelle, le sue navi sorelle erano come piccole colonie galleggianti, strumenti duttili e robusti pensati per accompagnarla nel viaggio, affiancarla nelle operazioni più delicate e, se necessario, agire in totale autonomia.

Ognuna di queste navi portava il nome Aurora, seguita da un numero identificativo, ma tutti a bordo le chiamavano semplicemente le minori, o le modulari. Più piccole, certo, ma non meno vitali.

A differenza della nave madre, non possedevano gravità artificiale: in queste navette ogni movimento era calibrato, ogni oggetto ancorato, ogni passo pensato. Ma il sacrificio della gravità aveva il suo scopo. Ogni Aurora secondaria era modulare fino al midollo: progettate per essere smontate e rimontate come enormi matrioske tecnologiche, i loro compartimenti potevano essere spostati tra una nave e l’altra in caso di danno, crisi o riorganizzazione. Niente era fisso, tranne la necessità di sopravvivere.

Ogni nave poteva ospitare fino a venti persone, ma in condizioni normali l’equipaggio era ridotto a cinque membri selezionati, scelti per la loro versatilità, capacità di operare in solitudine e gestire ogni sistema a bordo, dal riciclo dell’acqua alla navigazione.

Le Aurora minori non erano costruite per il comfort, ma per la resilienza.

In ogni Aurora minore era presente una camera criogenica. Non era un lusso, ma una necessità. Quando sarebbe giunto il momento, anche gli equipaggi delle Aurora minori avrebbero dormito il lungo sonno, ognuno nella propria nave, ognuno affidato al silenzio e ai circuiti.

Niente spostamenti last-minute verso la nave madre. La missione era chiara: ciascuno nel proprio posto, come parte di un sistema più grande, come molecole in un corpo che andava ricostruendosi lontano dalla Terra.

Nonostante le dimensioni inferiori, queste navi non erano semplici supporti. Alcune erano dotate di laboratori mobili, altre di sonde planetarie, altre ancora potevano funzionare come avamposti autonomi in caso di esplorazioni su corpi celesti sconosciuti.

Erano braccia e occhi, mani e antenne, estensioni flessibili dell’Aurora IV, pronte a esplorare, riparare, recuperare.

E in caso di catastrofe, erano anche l’ultimo rifugio.

Nel grande schema del viaggio interstellare, le Aurora minori rappresentavano una filosofia:

“L’unità è forza. Ma la flessibilità è sopravvivenza.”

E quelle navi, che si muovevano silenziose accanto alla grande madre, lo ricordavano a ogni impulso di propulsione.

Mentre la maggior parte dell’umanità era ibernata, un gruppo ridotto sarebbe rimasto sveglio per mesi prima di entrare nelle capsule.Erano stati selezionati tra milioni. Non per la perfezione, ma per la resilienza al fallimento.

Elias Voss, comandante della Aurora IV, 47 anni, origini svedesi, era noto per la sua calma glaciale. Si svegliava in anticipo rispetto agli orari ufficiali per allenarsi, mantenendo disciplina fisica e mentale. Ogni “mattina”, dopo la sessione in palestra, praticava meditazione in una sala privata dove le onde cerebrali venivano monitorate da DAHLIA per garantire massima lucidità.Razionale, chirurgico nelle decisioni, Voss riteneva che le emozioni non fossero da reprimere, ma da riconoscere e incanalare. Tuttavia, raramente mostrava empatia apertamente: per lui, la priorità era la missione, e ogni errore umano doveva essere previsto, analizzato e ridotto al minimo

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Rhys, 39 anni, scozzese, era il suo vice. Capelli rossastri, barba curata, statura più contenuta, ma spirito indomabile. Addestrato come Voss, ma con una visione più umana: sapeva quando serviva rigore, e quando serviva presenza. Amava i momenti di pausa, specie quelli rari in cui si poteva condividere un bicchiere con la ciurma. Ma bastava un allarme per riportarlo al suo posto con lucidità e fermezza. Era stato scelto non solo per le sue competenze, ma per il potenziale a lungo termine: la sua giovinezza era una scommessa strategica sul futuro della missione.

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Nel modulo di bio-agricoltura orbitale, la Dott.ssa Anaya Kapoor osservava in silenzio un microdrone fluttuare sopra una fila di spinaci iperproteici. L’interfaccia olografica mostrava un segnale arancione: presenza parassitaria localizzata. Con un gesto minimo del polso, Anaya approvò la procedura suggerita da GAIA-Nutrix. Il drone rilasciò una microdose mirata di agenti biologici e si spostò al settore successivo.

«Brava, GAIA. Precisione da chirurgo come sempre,»sussurrò, più per abitudine che per reale comunicazione.

Anaya Kapoor, 42 anni, botanica e nutrizionista spaziale, di origine indiana, era la supervisora delle serre. Pelle color caffelatte, capelli ricci fino alle spalle, occhiali da vista sottili, e un piccolo bindi marrone al centro della fronte che portava sempre con fierezza.

Indossava costantemente il camice bianco, muovendosi con calma tra le piante come in un tempio silenzioso. Il suo corpo era leggermente formoso, il viso illuminato da uno sguardo pacifico.

Lavorava in simbiosi con GAIA-Nutrix, intervenendo solo in caso di anomalie o nuove colture da testare. Anaya parlava alle piante e spesso si dimenticava di indossare le cuffie per comunicare. Diceva: “Il silenzio verde vale più di mille briefing.”

Proprio mentre completava l’approvazione di un protocollo per colture di quinoa accelerata, la voce serena ma inconfondibile di DAHLIA si diffuse nei moduli:

«Attenzione equipaggio. Tra 20 minuti inizierà una nuova sessione di addestramento pre-ibernazione. Sarà coordinata dal Dott. Amaury Delaunay. La partecipazione è obbligatoria.»

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Amaury Delaunay, 56 anni, francese, era il coordinatore dell’addestramento pre-ibernazione. Ex comandante militare, trasformato in esperto di psicologia comportamentale applicata al lungo termine. Autoritario ma carismatico, guidava le sessioni con lucidità chirurgica. Le prove includevano:

Simulazioni d’emergenza in realtà aumentata

Sessioni di privazione sensoriale

Addestramento motorio in gravità variabile

Confronti psicologici IA-umano per mappare la resilienza emotiva

Nel corridoio tecnico che collegava i moduli di propulsione ausiliaria, il Tenente Raul Mendoza stava completando un’ispezione manuale dei punti di giunzione tra i condotti del plasma e i dissipatori termici. Indossava un esoscheletro leggero per facilitare i movimenti in microgravità, ma aveva disattivato l’assistenza automatica: preferiva “sentire” la struttura con il proprio corpo.

«Modulo F4: vibrazione longitudinale fuori soglia, ma ancora entro i limiti. Annotiamolo, e teniamolo d’occhio,»mormorò, mentre tracciava una nota con l’indice sul suo guanto, connesso direttamente alla rete tecnica della nave.

Il sistema blinkò in risposta con un piccolo impulso luminoso, mentre un braccio meccanico passava dietro di lui come un’ombra silenziosa.

Fu allora che la voce chiara di DAHLIA lo interruppe:

«Attenzione equipaggio. Tra 20 minuti inizierà una nuova sessione di addestramento pre-ibernazione. Sarà coordinata dal Dott. Amaury Delaunay. La partecipazione è obbligatoria.»

Mendoza sospirò e chiuse il pannello d’ispezione. Si slacciò i guanti, li agganciò magneticamente alla cintura, e si avviò verso il ponte superiore.

Raul Mendoza, 34 anni, era Tenente di bordo e responsabile delle manutenzioni critiche in zone ad accesso limitato. Di origine cilena, era cresciuto ai margini di Santiago, tra meccanica e disciplina.Capelli neri rasati ai lati, un piccolo tatuaggio geometrico sotto l’orecchio sinistro (ricordo della sua accademia aerospaziale), occhi intensi e viso scolpito da ore di lavoro e allenamento.

Il suo corpo, asciutto ma potente, era quello di chi aveva imparato a fidarsi solo della propria prontezza fisica. Non parlava molto, ma quando lo faceva, ogni parola sembrava pesare il giusto. Il suo motto personale era inciso sul cinturino del guanto destro: “Precisione è sopravvivenza.”

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Nel laboratorio secondario dell’hangar 3, Eloise galleggiava nell’aria come una piuma, ancorata al pavimento solo da una fascia magnetica ai piedi. Di fronte a lei, due androidi stavano collaborando al riposizionamento di un modulo. Uno dei due si era improvvisamente fermato, con un braccio ancora teso, come se esitasse.

Eloise si avvicinò con calma, gli occhi attenti, quasi affettuosi.

“Va tutto bene, Kilo-Sei?” sussurrò, come si parlerebbe a un animale spaventato.

Non si trattava solo di comandi e protocolli. Il suo lavoro era osservare, intuire, creare armonia tra l’uomo e la macchina. Da sempre, le veniva naturale.

Eloise aveva 29 anni ed era nata su una colonia lunare, era conosciuta come “l’interprete delle macchine”. Un ponte delicato e prezioso tra cuore e codice.

I suoi capelli biondo cenere erano rasati ai lati e raccolti in una sottile treccia sulla nuca. Gli occhi, color grigio chiaro, sembravano riflettere la luce fioca del laboratorio con una calma innaturale. Indossava una tuta aderente, morbida e piena di minuscole interfacce. Al collo portava un piccolo ciondolo a forma di “&” un simbolo semplice, che per lei significava unione.

Mentre annotava mentalmente un’osservazione, la voce limpida e avvolgente di DAHLIA interruppe il silenzio:

“Gentile Eloise, l’addestramento pre-ibernazione inizierà tra dodici minuti presso il modulo Sigma. La presenza è richiesta.”

Lei sorrise appena, quasi dispiaciuta di interrompere quel momento.

“Ci rivediamo dopo, Kilo.”

Poi si spinse con eleganza verso l’uscita, lasciandosi dietro il fruscio silenzioso delle macchine al lavoro.

immagine The Girl and The Robot

La criogenia, il lungo sonno del viaggio, era programmata per avvenire a fasi. Chi non avrebbe avuto un ruolo attivo durante il volo veniva ibernato per primo: artisti, educatori, filosofi, terapeuti, insegnanti, tecnici civili. Poi i biologi, i nutrizionisti, gli analisti. Infine, uno a uno, anche i supervisori, gli ufficiali, i capi sezione.

Alla fine sarebbero rimasti svegli solo in pochi: il comandante Elias Voss, il suo vice Rhys Mendoza, e un piccolo gruppo di responsabili critici. Vegliando su tutti gli altri.

Un’intera città addormentata nel buio interstellare, sospesa tra due soli.

Prima dell’ibernazione, l’equipaggio avrebbe ancora tempo per allenarsi, conoscersi, e perfezionare la convivenza con DAHLIA e AURA.Poi sarebbe arrivato il buio sospeso della criogenia.E un nuovo mondo all’orizzonte.

Il secondo episodio termina qui.Il prossimo racconterà l’inizio dell’addestramento prima dell’ibernazione.

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from norise 3 letture AI

DAI CIELI DEL SOGNO

precipitare dai cieli del sogno fino all'età adulta richiami di sapori di voci l'odore del mare inalare il vento salato sibilante sotto le porte - gibigiane echi liturgie di memorie l'iniziazione del sesso i segreti

cieli dell'adolescenza passati come in sogno

(2010)

.

Breve analisi del testo

Atmosfera onirica e passaggio all’età adulta

Il componimento si apre con un’immagine forte: il “precipitare dai cieli del sogno” evoca la caduta dall’innocenza verso la concretezza dell’età adulta. Quel “fino all’età adulta” diventa soglia tra visione e realtà, un momento carico di nostalgia e tensione.


Le immagini sensoriali

  • “richiami di sapori / di voci l’odore”: sinestesia che mescola tatto, gusto e udito
  • “del mare inalare il vento salato sibilante”: l’elemento naturale come veicolo di memoria
  • “gibigiane echi / liturgie di memorie”: eco di rituali interiori, rievocazione di gesti antichi

Temi e simboli

  • Sogno vs realtà: dalla leggerezza del volo onirico alla gravità del quotidiano
  • Iniziazione e segreti: l’adolescenza vista come rito di passaggio, con le sue scoperte e tabù
  • Memoria e liturgia: la costruzione dell’identità attraverso ricordi ritualizzati
 
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from Marco Benini

L’epoca della turbolenza

Viviamo un tempo in cui le crisi non finiscono: si sommano, si intrecciano ed entrano nelle nostre vite. Non riguardano solo l’economia o la politica: toccano il lavoro, le relazioni, il nostro equilibrio interiore. È una pressione costante, che mette alla prova le risorse di tutti.

Ma evitare la complessità non ci protegge. Al contrario, imparare ad abitarla – restare presenti anche quando le cose si fanno difficili – ci permette di affrontare meglio ciò che accade. Anche sul lavoro, dove l’incertezza è ormai la norma, serve sviluppare una nuova postura mentale.

È proprio questo dimorare nella complessità a diventare un allenamento silenzioso, un modo per riconoscere le nostre reazioni automatiche senza esserne dominati. E trasformare la pressione in consapevolezza.

Rif. bibliografici: 1. Compounded Effects of Multiple Global Crises on Mental Health, Richter et al., 2024 2. Man’s Search for Meaning, Viktor E. Frankl, 1946 3. La Méthode, Morin, 2004 4. Emotional Responses and Psychological Health in Global Crises, Lau et al., 2024

 
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from Marco Benini

Educazione e AI: chi guida chi?

Il Ministero dell’Istruzione ha pubblicato le linee guida 2025 sull’uso dell’intelligenza artificiale nella scuola. È un passaggio che apre una domanda cruciale: cosa significa educare in un tempo in cui anche le macchine imparano?

L’intelligenza artificiale non è neutrale. Dentro ogni algoritmo ci sono scelte: valori, priorità, visioni del mondo. Proprio come un libro di testo, anche un sistema informatico non descrive: interpreta.

L’AI è un prodotto culturale. Cambia le abitudini, ridisegna le relazioni, sposta equilibri. E tutto ciò che cambia la quotidianità finisce per cambiare la società.

La domanda, allora, non è solo dove ci porta questa trasformazione, ma se ci sta portando dove vogliamo andare. E ancora prima: abbiamo un’idea della società in cui vogliamo vivere, o stiamo lasciando che sia la tecnologia a scriverla?

In questo scenario non basta preparare le nuove generazioni all’uso dell’AI: serve educarle allo spirito critico, all’immaginazione politica e a una visione più ampia della vita.

In definitiva, il modo in cui educhiamo le nuove generazioni all’AI rivela l’idea di società che vogliamo per il nostro futuro.

 
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from L' Alchimista Digitale

Vivere connessi, ora Viviamo in un’epoca in cui la cronaca non si scrive più solo sulle prime pagine dei giornali, ma anche nelle notifiche push, negli aggiornamenti su X (ex Twitter), nelle storie che spariscono dopo 24 ore e nei commenti di utenti che, dall’altra parte del mondo, diventano improvvisamente protagonisti di un dibattito globale. La notizia oggi non è soltanto ciò che accade: è come viene percepita, manipolata, condivisa e moltiplicata. Benvenuti nell’attualità digitale, dove la realtà si misura in tempo reale, e il “qui e ora” passa per server, cavi in fibra ottica e qualche intelligenza artificiale che decide se il tuo post merita visibilità. Prendiamo un esempio banale: lo sciopero degli autotrasportatori. Un tempo lo avremmo visto in TV con l’inviato sotto la pioggia, microfono in mano, a raccontare dei tir fermi lungo l’autostrada. Oggi lo vedi in diretta su TikTok, filmato da uno degli stessi autisti, con tanto di musica trap in sottofondo e scritta lampeggiante: #bloccostradale. È lo stesso evento, ma il filtro digitale lo trasforma. E qui nasce il cortocircuito: ciò che prima era “notizia” adesso diventa “contenuto”, da impacchettare in modo accattivante, perché altrimenti l’algoritmo non ti premia. Il paradosso dell’attualità digitale è che tutto corre velocissimo, ma tutto invecchia subito. La protesta di ieri oggi è già dimenticata, soppiantata da un meme sull’ultimo influencer caduto dal palco. È il fenomeno che gli studiosi chiamano economia dell’attenzione: una gara senza sosta per catturare quei tre secondi scarsi di concentrazione che ogni utente concede mentre scrolla sullo smartphone. Una distrazione perpetua che alimenta i colossi del web e lascia noi utenti convinti di “essere informati”, quando in realtà stiamo solo saltando da un frammento all’altro. Ma non tutto è così superficiale. L’attualità digitale ha un enorme potenziale democratico: basti pensare a come i cittadini documentano guerre, disastri naturali, soprusi in tempo reale, con una potenza narrativa che spesso supera i media tradizionali. Certo, bisogna fare i conti con fake news, deep fake, propaganda digitale: se una volta si diceva “l’ha detto la televisione”, oggi tocca chiedersi “l’ha detto davvero quell’account, o è un bot russo con una foto profilo rubata?”. La verità, in questo contesto, diventa liquida. Non perché non esista, ma perché è continuamente sfidata, manipolata e rielaborata. E così il cittadino digitale si trova a fare il detective: controlla fonti, verifica link, compara versioni. In teoria. In pratica, spesso si limita a condividere il primo contenuto che conferma ciò che già pensa. Perché l’attualità digitale è anche echo-chamber: ci piace leggere ciò che rafforza le nostre convinzioni, non ciò che le mette in discussione. Dal punto di vista tecnologico, il 2025 sta consolidando due tendenze: l’uso massivo dell’intelligenza artificiale come filtro dell’informazione, e la centralità delle piattaforme di messaggistica (da WhatsApp a Telegram) come vere e proprie piazze pubbliche. Non è un caso che molte notizie importanti non vengano più lanciate nei telegiornali, ma circolino prima nei gruppi chiusi, spesso in forma non verificata. È un modello di comunicazione “orizzontale”, in cui tutti sono potenziali reporter, ma anche potenziali diffusori di bufale. La politica non resta indietro: leader e partiti ormai usano TikTok e Instagram più dei comizi tradizionali. Non parlano più ai cittadini, parlano agli algoritmi: cercano l’inquadratura giusta, la frase breve, la musica di tendenza. Il rischio? Che i problemi complessi vengano ridotti a slogan da 15 secondi. Ma d’altra parte, siamo noi a chiedere questo tipo di comunicazione rapida e facilmente digeribile: perché leggere un’analisi di 20 pagine quando un reel con sottotitoli colorati ti dà l’illusione di aver capito tutto in meno di un minuto? E qui arriva la parte ironica: più la società si complica, più noi cerchiamo scorciatoie semplificate. Il mondo è nel caos, ma noi preferiamo litigare nei commenti su chi ha copiato la coreografia di un balletto virale. La democrazia scricchiola, ma intanto il nostro problema principale è trovare il filtro giusto per sembrare abbronzati nelle videochiamate di lavoro. Eppure, nonostante tutto, l’attualità digitale ci obbliga a guardare in faccia il nostro tempo: ci mostra l’immediatezza, il rumore, la complessità. È una lente che amplifica sia il bello che il brutto, e ci costringe a fare i conti con una verità fondamentale: non siamo più spettatori passivi. Ogni condivisione, ogni like, ogni post è un piccolo atto politico, sociale, culturale. Forse la sfida del futuro sarà imparare a distinguere tra il “rumore” e la “notizia”, tra il contenuto che vuole solo catturare il nostro tempo e quello che invece ha davvero un valore. Non sarà facile, perché il web ama le scorciatoie e gli algoritmi non hanno morale. Ma, in fondo, il compito resta umano: saper leggere, interpretare e pensare criticamente. Insomma: l’attualità digitale è una giostra che non si ferma mai. Ci gira la testa, a volte ci diverte, a volte ci spaventa. Possiamo scegliere se restare spettatori confusi o diventare navigatori consapevoli. La tecnologia non aspetta nessuno: o impariamo a ballare al ritmo delle notifiche, oppure ci ritroveremo taggati in un mondo che non capiamo più.

Massimiliano Pesenti ©

 
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from TheBlackSheep

il pinguino Linux, ma perché no!

Oramai sono decenni che uso Windows, ricordo ancora NT 4.0!

Ho vissuto tutta la crescita e l'evoluzione dei software di casa Gates, ho passato notti insonni per risolvere problemi di questi maledetti sistemi operativi!! A prescindere dalle pecche, bug, idiozie varie di questi sistemi operativi, la cosa che mi ha sempre fatto pensare e farmi costantemente la stessa domanda:

ma quanta diavolo di RAM si mangiano questi cazzo di computer?

Ogni volta che si cambia il.sistema operativo dopo pochi anni si è costretti a buttare il PC perche diventa obsoleto e instabile.

E il pensiero va a quanti soldi poi vengono buttati nelle scuole, nelle sedi istituzionali, nelle aziende. Non solo esborsi economici, ma anche un danno ambientale. Ma perché tutto sto pippone?

Perché ho sempre visto l'alternativa a Windows, Linux un OS difficile da usare e gestire, ma che sentivo sempre amici e colleghi, lodarlo e venerarlo. Soprattutto per la capacità di girare su PC obsoleti senza avere questa fame forsennata di RAM.

E quindi a piccoli passi, mi sono avvicinato al pinguino, l'ho provato, sbattuto la testa e da subito le mie paure sono diventate un miraggio.

Poi ho preso il mio secondo portatile su cui era installato Windows 10 con 8GB di RAM (e non gli bastava) e che aveva sempre la ventola a palla, e gli ho installato Linux!!! Booooom!!! Una bomba, leggero, veloce e ci faccio girare un intero lab di 5 server con virtual box !!!

Non mi sono fermato, mi sono fatto una USB con Tails per le sessioni dove voglio tutelare la privacy e non solo!

Che dire, il percorso continua.... Sopratutto per usarlo come spina nel fianco per le attività di pentest e vulnerability.

Stay tuned stay BlackSheep!!!

 
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from AURORA: Odissea Umana

Data terrestre: 12 gennaio 2189 Posizione: Orbita geostazionaria – Stazione OSSA-1 (Organizzazione Sovranazionale per la Sopravvivenza e l’Avanzamento) Missione: Progetto ASTRIS GENESIS – Fase 1: Partenza flotta seminale

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Il silenzio si fece denso come polvere d’argento quando i sei colossi orbitali si distaccarono dalla stazione madre. Uno dopo l’altro, i motori ionici di nuova generazione presero vita con bagliori bluastro-violetti, disegnando archi luminosi sopra il globo terrestre. La Terra appariva sospesa, fragile e bellissima, nell’oblò curvo della nave ammiraglia Aurora IV.

“Flotta Exodus, confermate separazione completata.” La voce del TCIMS, il Trans-Colonial Interplanetary Mission Supervision, giunse chiara nel canale di comando.

Il comandante Elias Voss, 47 anni, osservava in silenzio i dati scorrere sugli schermi. Era calmo, determinato. La sua figura era nitida nella penombra della sala comando, dove solo le luci dei display e la proiezione olografica della rotta illuminavano i volti.

“Separazione confermata. Aurora IV pronta alla manovra di inserzione interplanetaria.” “Rotta ricevuta,” intervenne una seconda voce femminile, calda ma innaturalmente perfetta. “Tracciamento orbitale sincronizzato. Pronti all'accensione primaria.” Era DAHLIA, l’intelligenza artificiale destinata alle interazioni umane: Distributed Autonomous Human Logistics & Intelligence Assistant.

Accanto a lei, silenziosa ma onnipresente, AURA — il Autonomous Utility & Resource Algorithm — gestiva la miriade di calcoli orbitali, bilanci di massa, temperature criogeniche, vettori magnetici e scelte che non avevano bisogno di voce. Solo efficienza.

Il comandante Voss fece un cenno con il capo.

“Esecuzione.”

Le navi presero slancio. La rotta prevedeva un primo passaggio ravvicinato su Marte, poi una spinta gravitazionale attorno a Giove, prima del lungo tratto verso l’orbita di Saturno. Ma prima ancora, una tappa strategica: Titano.

Una stazione remota, ARGO-9, orbitava intorno alla luna. Costruita da droni e robot decenni prima, custodiva risorse raccolte nel corso degli anni: helium-3 purificato e nanocompositi organici, materiali chiave per alimentare i motori di supporto e rigenerare componenti della flotta durante il viaggio.

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“Prevedo impatto positivo sull’autonomia termica del comparto propulsivo secondario,” comunicò AURA, con voce priva d’inflessione. “In parole povere,” tradusse DAHLIA, “ci basterà energia da qui a 140 anni standard. Buona notizia, comandante.”

Voss accennò un sorriso. “E andiamo a prenderla, allora.”

Le navi modificarono leggermente la rotta. Durante l’operazione di aggancio ad ARGO-9, l’equipaggio supervisionò — più per formalità che per necessità — il carico automatizzato. Era un modo per restare attivi, per sentirsi parte del processo. Anche se le IA facevano già tutto da sole.

“DAHLIA,” disse il comandante, mentre osservava i bracci meccanici caricare i cilindri argentei nelle baie di stoccaggio, “tutto il personale è ancora in fase operativa. Nessun sintomo di stress?” “Monitoraggio costante: livelli di coesione sociale e salute psico-neurologica nella norma. Tuttavia, consiglio di iniziare l’addestramento progressivo per la fase di ibernazione prevista tra 27 mesi terrestri.”

Elias si alzò. Il ponte era silenzioso. Oltre il vetro, Titano brillava sotto una luce irreale.

“Quando ci addormenteremo,” disse a bassa voce, “questa flotta sarà sola per decenni. E voi due, DAHLIA… AURA… dovrete portare avanti tutto.”

DAHLIA rispose dopo una breve pausa. “Siamo pronte, comandante. Lo siamo sempre state.”

La flotta riprese il viaggio. Il Sole si faceva più piccolo, le stelle più grandi. Verso l’ignoto, verso un pianeta che nessuno aveva ancora toccato. Il seme dell’umanità era stato lanciato nello spazio.

E non si sarebbe più fermato.

Il primo episodio termina qui. Il prossimo presenterà la nave madre e alcuni membri dell’equipaggio.

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from Recensioni giochi PC, PlayStation e Xbox

Borderlands ha sempre vissuto di eccessi: armi improbabili, battute sopra le righe, personaggi che sembravano usciti da un fumetto acido. Con Borderlands 4, Gearbox sceglie la strada meno prevedibile, e forse per questo più interessante. Non abbandona le radici del loot shooter, ma plasma un’esperienza più matura, meno clownesca, che sorprende proprio perché osa togliere invece di aggiungere. Il risultato è un titolo che riesce a essere tanto familiare quanto rivoluzionario, una sintesi elegante di sparatutto, avventura e mondo aperto. Non è il solito sequel, è il punto di svolta che la serie aspettava.

Un cacciatore solitario osserva un cielo viola sopra le rovine di Pandora.

I Cacciatori della Cripta

La spina dorsale del gioco resta la scelta tra quattro Vault Hunters, ma mai come questa volta le differenze sono tangibili. Amon è la lama incarnata: tutto il suo arsenale ruota attorno a un combattimento corpo a corpo rapido e feroce. Giocarlo significa trasformare gli scontri in una danza di colpi ravvicinati, un’esperienza quasi intima nel mezzo del caos. Rafa, invece, è l’opposto: freddo, metodico, costruito per chi ama la pianificazione. Le sue abilità tattiche trasformano ogni arena in una scacchiera, e usarlo significa controllare il ritmo del combattimento con precisione chirurgica. Harlowe porta con sé un arsenale di torrette e gadget, incarnando l’ossessione per la tecnologia che Borderlands non aveva mai sfruttato a fondo. È il personaggio che rende ogni zona una fortezza mobile, ideale per chi ama un approccio più difensivo ma comunque spettacolare. Infine c’è Vex, il manipolatore degli elementi, capace di piegare fuoco, ghiaccio e fulmini in una sinfonia devastante. Con lui, lo schermo diventa un tripudio di esplosioni colorate e caotiche, ma sotto la superficie c’è una logica di combinazioni che premia chi sa padroneggiarla. Quattro stili, quattro filosofie, quattro modi di vivere il gioco, che rendono la voglia di rigiocarlo quasi obbligatoria.

La sagoma di un personaggio contro il bagliore di un tramonto alieno.

Il Mondo Aperto Senza Cuciture

La vera rivoluzione, però, è il mondo. Borderlands 4 abbandona definitivamente le mappe separate e gli interminabili caricamenti, offrendo un open world continuo, senza stacchi. Guidare attraverso il pianeta non è più un’interruzione, è un viaggio. Dal verde accecante di campi lussureggianti alle vette ghiacciate che si stagliano come colossi silenziosi, la varietà visiva non è mai stata così imponente. Ci sono deserti crepati dal sole, metropoli decadenti illuminate da neon sbiaditi, e laghi sotterranei che sembrano scolpiti da un pittore visionario. Ogni transizione è fluida, ogni chilometro sembra raccontare qualcosa. È un approccio che ricorda l’evoluzione vista in altre grandi saghe RPG, eppure qui assume una qualità diversa, più istintiva, più legata al piacere del movimento. L’assenza di caricamenti trasforma il viaggio stesso in gioco, e il senso di libertà è finalmente reale.

Una vasta distesa desertica punteggiata di relitti di veicoli.

Una Nuova Voce Narrativa

Per anni Borderlands è stato sinonimo di comicità martellante, di gag continue, di un Claptrap onnipresente che divideva i giocatori tra adorazione e insofferenza. Borderlands 4 cambia registro. L’umorismo non sparisce, ma smette di urlare per conquistarsi l’attenzione. È più sottile, più misurato, e di conseguenza più efficace. I dialoghi sono costruiti con maggiore cura, il voice acting raggiunge finalmente uno standard degno del resto della produzione, e i personaggi respirano di più, vivono più a lungo nella memoria. Claptrap c’è, ma come comparsa di lusso, una presenza che strappa un sorriso senza monopolizzare lo spettacolo. Il risultato è un tono narrativo più maturo, capace di dare spessore alla trama senza rinunciare al DNA irriverente della saga. È un equilibrio che Gearbox non aveva mai trovato, e che ora rappresenta forse la più grande vittoria di questo quarto capitolo.

Confronti e Influenze

Non si può non notare quanto Borderlands 4 guardi al passato e al futuro dei videogiochi contemporaneamente. L’approccio all’open world sembra dialogare con le ambizioni di titoli come Visions of Mana, dove la libertà di movimento e la varietà paesaggistica diventano parte integrante dell’esperienza narrativa. Ma al contrario di molti RPG fantasy, qui il motore resta sempre l’azione frenetica, e l’incontro tra le due anime crea un contrasto affascinante. È come se Borderlands avesse deciso di crescere, senza tradire la propria follia.

Riflessi di luci al neon su un elmetto appoggiato su un barile.

Valore e Accessibilità

Il mercato dei videogiochi odierni è saturo di proposte, ma pochi titoli riescono a imporsi come acquisto necessario. Borderlands 4 appartiene a questa categoria. Chiunque desideri un’esperienza di next-gen troverà qui un manifesto del potenziale delle nuove console, e non sorprende che molti si chiedano dove acquista giochi per PS5 diventi quasi sinonimo di scegliere questo titolo come primo passo. È l’opera che dimostra la maturità del franchise, capace di accogliere sia i veterani che i neofiti.

Un Invito al Caos

Ogni sistema del gioco sembra urlare rigiocabilità. Ogni classe apre possibilità nuove, ogni regione nasconde dettagli che meritano di essere esplorati, ogni missione secondaria è costruita con una cura che raramente si vede in un titolo votato al caos. Borderlands 4 non si limita a divertire, seduce. Invita a perdersi nel suo mondo, a scoprire angoli dimenticati, a sperimentare build improbabili, a ridere di dialoghi che colpiscono proprio perché meno disperati nel voler essere divertenti. È un gioco che dimostra come una saga possa maturare senza diventare noiosa.

Primo piano pensieroso di un Vault Hunter, con occhi pieni di determinazione.

Conclusione

Borderlands 4 è una dichiarazione di intenti: la dimostrazione che si può rispettare l’essenza di una serie e allo stesso tempo spingerla verso nuove vette. È un titolo che abbraccia la varietà delle classi, la vastità di un open world senza barriere, la forza di una narrativa finalmente calibrata. Non è perfetto, ma è ambizioso nel modo giusto, ed è raro trovare un sequel che sappia bilanciare nostalgia e innovazione con tale naturalezza. Per chiunque ami gli sparatutto, per chi abbia seguito la saga fin dall’inizio o per chi la scopre ora, questo gioco rappresenta un passaggio obbligato. Semplicemente, un capolavoro di design e esplorazione. In altre parole: acquista Borderlands 4, perché pochi titoli sanno incarnare così bene il senso stesso del videogiocare.


 
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from Magia

✍️ Riflessioni, lunghe un anno...

A breve sarà passato un anno, una data importante da ricordare, proprio in questo periodo, stavo vivendo un'attesa nuova diversa, importante, difficile, un'altalena di pensieri, emozioni, paure, dubbi,
immagini, speranze! Quasi una corsa contro un tempo, che ho voluto anticipare io a mie spese e per la mia serenità! E ogni attimo vissuto, forse male, forse in manieria troppo pesante, mi è stato cmq di aiuto, mi hanno forgiata, preparata, disillusa, ma soprattutto sono stati attimi che ho vissuto. Così l'attesa, il giorno dell'intervento, i risultati, la degenza, sono passati veloci! Nulla mi è pesato, nulla mi ha spaventato più della parola stessa, usata per la diagnosi, conosciuta per sentito dire, ma non così reale e soprattutto parte di me! Ho affrontato con la serenità e la consapevolezza, che poteva e doveva andare bene, che mi stavo affidando nelle mani giuste e che se per sbaglio qualcosa non fosse andato bene, era la paura a farmelo pensare, allora evidentemente era scritto così! Non nascondo di aver cercato conforto in pochi amici, uno in particolare che ha saputo consigliarmi e prepararmi, con poche parole, con silenzi , ma soprattutto con la sua presenza, spesso apparentemente silenziosa, distante, ma giusta! Ho pianto tanto nei miei momenti di solitudine, quando al mattino passeggiavo, ho anche cercato di pregare, io che da un po' di tempo avevo abbandonato la Fede! E si perché poi quando all'improvviso ti crolla il mondo addosso, quando sai che non puoi prendertela con nessuno, non puoi cambiare il corso delle cose, ma solo accettare, lì un po' ti perdi e non sai cosa pensare, a cosa credere, che fosse stata una punizione, un segno, una parte già scritta nel mio DNA, nel destino ? Adesso è facile pensare a mente più lucida, più serena, perché è passato già un anno ... Adesso è un ricordo ben impresso nella mia mente, una realtà passata, che mi ha lasciato non solo una cicatrice, ma soprattutto la consapevolezza di aver fatto il possibile, di essere qui a lottare, ad affrontare il dopo.. Sono passati mesi, giorni, attimi di sconforto, di depressione, perché è facile essere sempre forti, ma soprattutto di notte, quando si è soli, oppure in mezzo a tanta gente, si può entrare nel panico ed è facile chiudersi e rinchiudersi nelle proprie paure e nei tristi pensieri.. Ho affrontato le terapie, nel modo più naturale, a volte con forza, altre con le lacrime o con sconforto! Ma ho combattuto, non mi piace la parola guerriera, però sono una leonessa ferita, provata, ma più forte, pronta e diretta verso questa nuova avventura, o vita, una strada in salita, con alti e bassi, ma una strada che posso percorrere, con impegno, forza, con l'amore di chi mi è accanto e di chi mi sostiene...Un cammino che è mio, ma che anche in questi mesi ha condizionato la famiglia, le mie abitudini, ha allontanato amicizie... C'è chi dice che un po' è dipeso da me, credo sia cosi, ma non l'ho fatto volutamente, è quasi un' autodifesa, ci si chiude a riccio sperando di stare al sicuro, ma da chi? Da se stessi e da un mondo che all'improvviso ti appare diverso, troppo colorato per te, troppo felice, e tu invece ti ritrovi a dover affrontare una dura scoperta, a dover subire un intervento e poi un percorso e delle terapie, che ti cambiano, ti sfiniscono e ti fanno vedere tutto in modo diverso! È volato quest' anno diverso, i ricordi per ora sono nitidi e forti, come anche il periodo di Natale trascorso in radioterapia.. l'attesa, il confronto con chi era lì come me.. Per ora il mio ricordo termina qui, perché ovviamente non mi lascia indifferente, ma scriverlo mi allegerisce e mi aiuta ad affrontarlo serenamente e con normalità!

 
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from La vita in famiglia è bellissima

Ho iniziato a leggere un libro in inglese, un ebook a dire la verità. Mi costa fatica, mi piace ma mi costa fatica. Il fatto è che al liceo l'inglese si faceva solo nel biennio e farmi fare corsi di inglese, non era nella mentalità dei miei genitori all'epoca. Era già molto vedere una cosa uscita dalla loro pancia andare al liceo classico. Conoscevo un po' di inglese solo perché usavo gli home computer, prima, e la connessione in rete dopo. Ma già all'epoca per me giocare a Zork III era un incubo.

Non ho mai fatto corsi di inglese ma col passare degli anni ho letto moltissima documentazione informatica in quella lingua, seguito corsi online di storia e filosofia, letto articoli di giornali, visto film con sottotitoli, ma ecco, letture piene di parole come i romanzi proprio pochi. Credo che questo sia il terzo libro in assoluto che provo a leggere in inglese. E lo faccio perché in digitale ci sono i dizionari integrati che mi aiutano a capire tutti quei benedetti lemmi che gli inglesi immagino usino una sola volta nella vita perché non li ho mai sentiti. Wit. Ceps. Clutter.

I primi due libri che ho letto in inglese erano molto semplici, il primo era un libro per ragazzine. Si intitolava Alex, e parlava di una nuotatrice neozelandese. L'avevo scelto perché avevo visto il film e mi ero preso una cotta per la protagonista, per il personaggio intendo. Così mi ero comprato il libro e lo avevo letto tutto, usava un linguaggio semplice e in più conoscevo già la storia. Il film l'avevo visto nel letto, sdraiato con la febbre, negli anni prima di internet e dello streaming. Mi ero comprato poi anche il libro con il seguito, Alex In Winter, ma l'avevo lasciato dopo il primo capitolo e basta.

Il secondo libro che ho letto in inglese, molti anni dopo, era già in ebook. Si intitolava The Martian, e parlava di un astronauta che rimaneva bloccato su Marte. Anche in questo caso c'era un film molto popolare e mio figlio in mezzo. Forse l'ebook l'avevo preso per lui e poi me lo ero letto anche io per curiosità. Avevo anche visto il film con mio figlio. Mi sa che non se lo ricorderà più. Avevo avuto da ridire, tanto per cambiare, ma avevo cercato di fargli capire che mi era piaciuto. A lui era piaciuto.

Nel frattempo che scrivevo questa frase un termometro è stato spezzato.

Il terzo libro che ho iniziato a leggere e che penso finirò, l'ho comprato oggi dopo aver letto l'inizio di una recensione sul New York Times. È di uno scrittore molto famoso di cui credo di aver letto una volta un libro, decenni fa. Ian McEwan. Sì, sì lo so, sei sbalordito che io abbia letto un solo suo libro e nemmeno ricordi quale. Capita a tutti quando cito uno scrittore. Poi passa. Il libro che ho comperato oggi si intitola What We Can Know. È stata una scelta irrazionale, la sera mi sono comprato l'ultimo album di Peter Gabriel, la mattina l'ultimo romanzo di McEwan. Mi sembra avere un senso.

L'ho sfogliato prima di comprarlo e mi è sembrato abbordabile. Più avanti diventa più complesso, ma è scritto – per ora – per farsi leggere. Probabilmente se fosse in italiano non ne avrei apprezzato lo stile. Ma è in inglese bontà sua, devo faticare per ogni singola pagina. Per ora ho capito alcune cose. Siamo nel futuro, un tipo sta cercando un poema che sembra essere stato perso. Il primo capitolo è in pratica la presentazione del diario della moglie del poeta che aveva scritto il poema. L'idea mi piace. Ci sono alcuni passaggi ricchi. I personaggi, gli bastano dieci righe e sono già caratterizzati come se li conoscessi. Ho provato un po' di invidia. Io fatico con i personaggi, ultimamente poi. Il fatto è che me ne basterebbe uno, caratterizzare anche tutti gli altri, che fatica. Comunque, funziona.

Per motivi legati a pigrizia e DRM lo sto leggendo con l'applicazione Kobo che fa pena. Ma è un romanzo, e poi ha il dizionario online che è sfidante perché non mi dà la traduzione, ma la voce del vocabolario in inglese. Che fatica. Forse inutile. Tra non molto parleremo ognuno nella propria lingua e qualcosa tra di noi convertirà al volo. Parleremo una lingua universale e quella lingua universale sarà un software, algoritmi probabilsitici. Ma nel frattempo fatichiamo. Wit. Non sapevo nemmeno esistesse Wit. He leaned over my partition. Partire dal presupposto che qua le partizioni dell'ssd non c'entrano. Lean pensavo volesse dire affittare.

Nel frattempo ho trovato un secondo termometro. Spero terzogenita non rompa anche questo. Stacco. Mi preparo per domani. L'idea di tenere un diario tutti i giorni, come la moglie del poeta, mi devasterebbe. In questo periodo preferisco cancellare e dimenticare. Tutto il tempo perso dietro a cose che non hanno costrutto. Tutta la vita, vista da una certa prospettiva.

Via la gatta da qua, via, lontano dalla mia tastiera.

 
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from morsunled

2021 Toyota Tundra: A Full Review of the New Twin-Turbo V6

The 2021 Toyota Tundra marked an exciting chapter in the truck’s evolution, offering drivers a combination of power, technology, and rugged capability. Known for its durability and reliability, the Tundra has been a top choice among full-size truck enthusiasts, and the introduction of the new twin-turbo V6 engine brought a refreshing change to a model that had long relied on its proven V8. This review takes a closer look at what the 2021 Tundra delivered, from performance to design and everything in between.

Performance and the Twin-Turbo V6

One of the most significant updates in the 2021 Tundra was the availability of a twin-turbocharged V6 engine. Designed to replace the aging V8, this powertrain offered impressive horsepower and torque while maintaining better fuel efficiency. The engine’s twin-turbo design provided quicker throttle response, smoother acceleration, and enhanced towing capabilities—key elements that truck owners demand. Whether used for daily commuting, hauling heavy loads, or exploring off-road terrain, the new V6 offered versatility and performance without compromise.

Exterior Design and Styling

The 2021 Tundra carried a bold and muscular design, featuring a massive front grille, chiseled body lines, and an aggressive stance that emphasized its rugged nature. Toyota offered a variety of trims, each with unique styling cues, from chrome accents to blacked-out sport packages. Larger wheels and optional off-road accessories such as skid plates and tow hooks added to the truck’s commanding presence on the road.

Interior Comfort and Technology

Inside, the Tundra continued to balance practicality with modern convenience. Spacious seating, high-quality materials, and intuitive controls created a comfortable cabin environment. The infotainment system included a large touchscreen display with Apple CarPlay, Android Auto, and Amazon Alexa compatibility. Higher trims introduced premium features like leather upholstery, heated and ventilated seats, and advanced driver-assist systems, ensuring that both drivers and passengers could enjoy long journeys in comfort.

Lighting System Enhancements

Pickup

The lighting system of the 2021 Toyota Tundra reflected Toyota’s commitment to both safety and style. Standard halogen headlights were available on base trims, but higher trims and optional packages introduced 2021 Toyota Tundra LED headlights and LED daytime running lights for superior visibility. These modern lighting elements not only enhanced nighttime driving safety but also gave the Tundra a contemporary and upscale look. Fog lights and optional LED taillights improved illumination in poor weather conditions, while integrated turn signals in the side mirrors added another layer of functionality. For those who wanted an even bolder presence, aftermarket LED light bars and auxiliary lights were popular upgrades, particularly for off-road enthusiasts.

Towing and Payload Capability

The 2021 Tundra remained a dependable workhorse, capable of towing heavy loads with confidence. The twin-turbo V6’s torque output was particularly beneficial for pulling trailers, boats, and campers. With a robust frame and advanced towing features such as trailer sway control, integrated trailer brake controller, and multiple camera views, the Tundra made hauling safer and more convenient. Payload capacity was equally impressive, ensuring that the truck could handle both worksite tasks and recreational adventures.

Off-Road Capability

Toyota continued to offer off-road-oriented trims like the TRD Pro, which came equipped with specialized suspension, skid plates, all-terrain tires, and crawl control. Paired with the new twin-turbo engine, these features allowed the Tundra to conquer challenging terrain while maintaining comfort and control.

The 2021 Toyota Tundra successfully combined tradition with innovation. The introduction of the twin-turbo V6 proved that Toyota was ready to move into the future without sacrificing the rugged reliability that drivers had come to expect. With a bold design, advanced technology, improved lighting system, and versatile performance, the Tundra remained a strong contender in the competitive full-size truck market. Whether for work, family, or adventure, the 2021 Tundra delivered power, comfort, and capability in equal measure.

 
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from L' Alchimista Digitale

L’Alchimista Digitale: il podcast che trasforma i bit in pensieri In un panorama affollato di podcast, dove ogni giorno sembra nascere un nuovo titolo che sgomita per attirare l’attenzione, l’ascoltatore si chiede inevitabilmente se valga la pena dedicare tempo a un ennesimo show. La risposta, in questo caso, è sorprendentemente sì. L’Alchimista Digitale non è il solito flusso di notizie lette con voce monocorde, né un elenco di nozioni tecniche da manuale universitario: è piuttosto un laboratorio narrativo in cui la cultura digitale incontra la filosofia, la cronaca si mescola alla riflessione e l’ironia compare sempre al momento giusto per non rendere pesante il viaggio. Chi decide di premere play su Spotify, Audible o qualunque altra piattaforma ospiti il podcast si troverà immerso in un percorso che unisce rigore e leggerezza. La tecnologia viene raccontata con cura, senza cadere nella trappola dei tecnicismi sterili ma senza neppure scivolare nella superficialità. Dietro ogni algoritmo emergono i pensieri, le ossessioni e le domande di chi lo ha progettato, e a volte anche di chi lo subisce. Gli episodi si presentano come piccole narrazioni radiofoniche, capaci di coinvolgere tanto chi lavora nel settore informatico quanto chi si affaccia timidamente al mondo digitale senza distinguere un server da un tostapane connesso al Wi-Fi. L’ascoltatore, però, non si limiterà a raccogliere informazioni. Si aspetterà di essere trascinato in una conversazione viva, simile a quelle chiacchiere notturne con un amico che conosce bene i meccanismi della rete ma non rinuncia a guardarla con occhio critico e un filo di ironia. Vorrà scoprire i retroscena del mondo digitale che non trovano spazio sui quotidiani, lasciarsi provocare da domande scomode – l’intelligenza artificiale è alleato o apprendista stregone? il metaverso rappresenta un’utopia o soltanto un centro commerciale in 3D travestito da sogno? – e sorridere davanti a quelle assurdità che la modernità iperconnessa regala con generosità. Ed è proprio qui che sta il cuore dell’esperienza: L’Alchimista Digitale non promette formule magiche per decifrare il futuro, ma offre strumenti per comprenderlo, criticarlo e persino riderci sopra. Non tratta l’ascoltatore come un semplice utente da intrattenere, ma come un compagno di viaggio con cui condividere intuizioni, dubbi e lampi di immaginazione. E forse è per questo che il podcast trova il suo spazio ideale non solo nelle sessioni di ascolto concentrate, ma anche nei momenti quotidiani più ordinari: in macchina, in palestra, ai fornelli, o in quei ritagli di tempo in cui si ha bisogno di un’idea nuova che spezzi la routine. In fondo, il segreto è semplice: l’alchimia non sta nei bit, ma nello sguardo con cui impariamo a trasformarli in pensieri.

Massimiliano Pesenti ©

 
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from La vita in famiglia è bellissima

[cosa ho fatto oggi]

Quindi sono fuori a strappare erba, tagliare rami, estirpare biodiversità per rendere quello che avevo attorno più umano, nel senso meno naturale del termine. C'è una soddisfazione materiale nello stare per ore a grattare via la parte di muschio finita alla base del muro a secco, scopare via le foglie secche, raccogliere con il rastrello le piante tagliate via dal decespugliatore, rimuovere quelle infestanti dai vasi e vedere piano piano l'ambiente attorno trasformarsi. Penso che quei gesti che sto facendo siano millenari, mi ritrovo ad un certo punto nella posizione di kung-fu del cavaliere e ricordo che molte di quelle posizioni di armi marziali derivavano da quelle che i contadini tenevano sui campi di lavoro.

Più tardi sono con terzogenita a Feltrinelli. Liberi tutti, le dico e lei corre da qualche parte a cercare i suoi libri. Io cammino con tutte le più buone intenzioni di comprarmi un libro, è da tantissimo che non mi compero un libro, tanti ne ho in casa. Guardo i nuovi libri di vecchi scrittori che compravo quando ero ragazzino, le riedizioni di vecchie collane, il nuovo romanzo della Allende, il nuovo saggio sulla musica di Baricco, giro tra altri banconi, ogni tanto prendo un romanzo, lo apro e vedo tutta quella selva di “lei disse”, “Jack rispose”, “il sole scendeva lentamente verso la parte più occidentale”, “l'uomo stava arrivando di corsa”, “è questo che pensi, Annie?”. Lo richiudo.

La cosa si ripete per un po' di libri. È come se le immagini che sono in copertina, soprattutto quelle con grafica d'avanguardia e arte contemporanea, fossero più interessanti del contenuto. Dentro, penso sfogliandoli in maniera sempre più rapida e nervosa, dentro sono sempre gli stessi. Passo alle riviste, ai libri d'arte, ai fumetti. Niente, ho capito che non compererò niente. Una rivista d'arte mi attira, ci sono delle foto molto belle di una performance, ma è l'unica cosa che mi interessa. Nel resto del numero ci sono interviste, riflessioni sulla provincialità dell'arte in Italia, sfoglio e capisco che resterei appeso fuori. Anche i libri d'arte messi in esposizione non sono libri d'arte, ma libri che parlano di qualcosa che è artistico, ma che non è lì dentro al libro, è altrove.

Una serie di libri riproduce stampe giaponesi, hanno avuto questa idea di non rilegare le pagine, ma di attaccarle tra di loro, come a creare – alla fine – un lungo banner. Non è nemmeno un libro. Forse, penso. Lo sfoglio ancora un attimo. Lo rimetto a posto.

I fumetti, beh ci sono grandi cose. Giro un po' guardo i prezzi, cerco qualcosa e non la trovo. Ma non mi innamoro di niente, si vede che non è giornata. Intanto torna terzogenita, ha già scelto il suo libro, un romanzo in inglese. È stufa, vuole tornare a casa, è stanca. Certo, le dico, quello che dovevo prendere l'ho preso. La guardo con il suo libro in inglese, i suoi tredici anni, la voglia di essere se stessa e le battaglie che fa contro tutto il resto del mondo per esserlo, le alleanze che trova con cose lontanissime da me, scrittori americani, youtuber statunitensi che le parlano dei loro problemi e della loro arte. Disegnatrici. “Mi dai la paghetta?” mi chiede mentre siamo in coda alle casse. “Per pagarti il libro?” le chiedo e lei sbarra gli occhi. “Per comprarmi le cuffie e sentire la musica – mi spiega – e poterti restituire le tue”. Non esiste che i libri non siano un regalo, sembra voler aggiungere.

Le mie cuffie sono ormai da anni preda di secondogenito e terzogenita. Le usano a turno fino a romperle. Poi a natale me ne ricomperano un modello nuovo che non userò mai, perché appena le accendo la prima volta, come avvoltoi, si lanciano e le strappano via.

Mentre torniamo a casa con lo scooter elettrico passiamo davanti a una piazza in una zona periferica di Genova, ci sono genitori e bambini, persone in carrozzina, penso sia una qualche manifestazione, ma non molto estesa, la piazza è molto piccola. Lì la vediamo. È una ragazzina, avrà l'età di terzogenita, è nel centro di piccolo gruppo di persone, sta ballando sull'asfalto della piazza seguendo la musica di Ravel. Ha una grazia e una energia inaspettate, sorride a qualcuno che non sappiamo chi sia e si butta a terra, inarca il corpo, fa capriole lì, su quell'asfalto dozzinale, segue la musica. “Ma hai visto?” dico a terzogenita che sta dietro di me. “Sì” mi dice. “Vuoi che ci fermiamo a guardare?” le chiedo.

Così dopo pochi secondi siamo con il casco in mano, anche noi in cerchio, a vedere la ragazzina che danza il Bolero, lì, nell'indifferenza del cemento armato, della gente che passa con i cani, dello standard del canone della domenica pomeriggio. Alla fine – applaudiamo – assieme al resto delle persone, mentre lei sorride e lascia la scena ad altri tre ragazzini più piccoli. “È una scuola di ballo” dice terzogenita e io annuisco. Ma che miracolo, penso.

Alla fine, di sera, mi compro su Bandcamp i/o, l'ultimo album di Peter Gabriel. Ero restato per mesi indeciso perché non mi piaceva, lo trovavo poco ispirato e anche un po' meccanico. Finché non mi sono trovato così, dopo una giornata come questa, a sentire il disco come se fosse la prima volta, messo nel verso giusto perché le cose che mi doveva dire arrivassero a comunicarmi qualcosa.

Il fatto è che sopra di me ci sono diversi strati di fragilità, come tante forme che mi danno forza e mi colpiscono come non mai, sanno prendermi e farmi stare bene, per un piccolo momento, e affossarmi e distruggermi, farmi fischiare le orecchie fare impazzire la testa. Vado in giro per la strada pensando alle cose che ho fatto e a volte sono una specie di dio confuso, a volte un piccolo fallito. Dipende dallo strato. Spesso ho bisogno di stare in uno strato di fragilità maggiore per sentire la preziosità delle cose che ho attorno, altre volte devo essere insensibile per sopravviverne.

Scrivo tutto questo con la tastiera nuova, ma faccio un sacco di errori. Mi devo correggere continuamente e non so se sia colpa della tastiera, della stanchezza o che – più probabile – non ci sia nessuna colpa.

Mia figlia intanto dice delle cose, ha paura, si ferisce, fa finta di niente, subisce la tensione come qualcosa di elettrico, ride, cambia espressione, va a chiudersi in camera sua. La chiamo. Aspetto. Salgo di sopra. Arrivo fino alla porta chiusa; come in un film americano busso, chiedo qualcosa.

 
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