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from Cooperazione Internazionale di Polizia

La rete antimafia @ON si riunisce a Roma

Recentemente a Roma, presso il Centro Operativo DIA, si è tenuto un meeting della Rete @ON (Antimafia Operational Network) con i rappresentanti delle Forze di Polizia di Belgio, Germania, Francia, Paesi Bassi, Spagna ed EUROPOL che unitamente, all’Italia rappresentano il Core Group del Network.

La DIA (Direzione Investigativa Antimafia) sostiene con impegno l’azione di contrasto internazionale alle mafie, anche attraverso una mirata attività di cooperazione di Polizia per il contrasto del fenomeno transnazionale delle più pericolose organizzazioni criminali.

Il recente evento romano riveste un particolare valore simbolico in quanto ricaduto a 10 anni esatti dall’istituzione della Rete @ON, con la risoluzione del 4 dicembre 2014 del Consiglio dell’Unione Europea, promossa dalla DIA, quale risultato del Dipartimento della Pubblica Sicurezza nel corso del Semestre di Presidenza italiana di turno.

Leggi tutto qui https://poliverso.org/display/3f145dd8-394baf157ce5da4e-5df22401

 
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from angolo cottura

Ingredienti Cipolla, carota e sedano e olio extravergine d'oliva per il soffritto 100 g lenticchie piccole 500 g passata di pomodoro Concentrato di pomodoro Salsa di soia Granulare per brodo vegetale Noce moscata, sale, zucchero, una foglia di alloro

Fare il soffritto sfumando con la salsa di soia e aggiungendo il concentrato di pomodoro e il granulare Unire la passata e le lenticchie lavate e scolate Aggiungere la noce moscata, il pepe, lo zucchero (un cucchiaino o due secondo l'acidità della passata) ed eventualmente il sale Cuocere per almeno un'ora a fuoco basso con la pentola semicoperta, se necessario aggiungendo ogni tanto un po' d'acqua, verificare che le lenticchie siano cotte e portare a cottura. Usare per condire la pasta come se fosse un ragù di carne.

#salse e sughi

 
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from GRIDO muto (podcast)

Il mio Grido Muto 🗣️🤐: la storia 📖 di chi vive con fibromialgia 🤕 e artrite 🦴.

Ascolta su Castopod.it: – https://castopod.it/@gridomuto/episodes/il-mio-grido-muto-la-storia-di-chi-vive-con-fibromialgia-e-artrite-b7pw4

oppure su Spotify – https://open.spotify.com/episode/0SqIUpInmNtGa8KkJSkSWc?si=_jZFq3khSIelPYttQx1PNQ

o Youtube: – https://youtu.be/fSDgEWNrflc

Da bambino sognavo di fare la rockstar, ma tre malattie invisibili hanno cambiato tutto. Oggi voglio far sentire il mio grido che finora è rimasto muto, ma che deve essere ascoltato. È la storia di chi ha perso tanto, ma ogni giorno trova nuovi modi per farcela in una società che non ha posto per i malati invisibili.

Rilassati per un istante, concentrati e prova ad immaginare di non poter più fare nessuna delle cose che ami. Immagina di vivere ogni giorno con un senso di malessere che non se ne va mai, ma anzi può solo peggiorare, e alla fine somiglia molto a uno stato di depressione.

Questa che ti ho descritto è solo una piccola parte della mia realtà. Sono sicuro che ti sarà capitato di sentir dire “finché c'è la salute” oppure, durante un brindisi, “salute”, o ancora, “l'importante è la salute”. La salute è così presente nel nostro modo di esprimerci perché è la cosa più preziosa che abbiamo. Ma cosa succede nella nostra società a chi la perde? Come ci relazioniamo con le persone che soffrono? Cerchiamo di supportarle e di capirle, ovviamente, anche perché di solito basta aspettare e le malattie spariscono. Ma e se la malattia non finisse mai? Cosa succederebbe allora?

Sono convinto che il livello di civiltà di una società si valuti da come vengono trattati i suoi membri più deboli. E chi è più debole di chi non potrà stare bene mai più?

La società italiana è davvero capace di consentire una vita adeguata a chi soffre di malattie croniche? Quanta consapevolezza c'è sulle patologie croniche che affliggono me e milioni di altre persone e sull'impatto di queste patologie sulla psiche e sulla vita degli ammalati? Io credo che troppe poche persone ne siano consapevoli e te lo dimostrerò nel corso di questo podcast. Questa che stai ascoltando è la mia storia, la storia di una persona normale, un uomo come tanti, un musicista con un sogno che gli è stato portato via da tre malattie incurabili e che ogni giorno, nonostante tutto, continua a trovare nuovi espedienti per andare avanti in questa società strana che ci vuole sempre perfetti, performanti, senza difetti. Per chi non si allinea a tutto questo, non c'è spazio. Non sono mica l'unico a cui è successo, intendiamoci, ma forse questo è ancora peggio, no?

Moltissime altre persone, purtroppo, si trovano nella mia condizione e tutte loro hanno perso qualcosa di grosso: chi la famiglia, chi una relazione, chi il lavoro e, di conseguenza, la possibilità di vivere e sostentarsi adeguatamente e, in più, ma lo vedremo, anche la possibilità di tentare di alleviare il proprio dolore. Il grande problema che avevo, e che hanno tutte le persone come me, è quello di far capire agli altri come ci sentiamo, perché da questo dipende tutto. Ma riuscirci è una vera e propria missione impossibile. Spesso è difficilissimo anche solo capirlo per noi stessi e cercare di tradurlo in parole che gli altri possano comprendere con facilità. In questo podcast scoprirai perché e cosa intendo.

Ecco allora che la propria condizione si trasforma in un'esperienza in cui nessuno è in grado di capirti, e questo ti infonde un senso di solitudine terribile. La cosa peggiore del mondo è soffrire da soli. In questo podcast, allora, ho voluto cercare di trovare le parole adatte per spiegare come vivo e cosa sento, le difficoltà di tutti i giorni. Se tu che stai ascoltando stai soffrendo come me, finalmente ti sentirai capito. Questo è uno dei grandi obiettivi di questo podcast: farti sapere che io ti capisco, che a me puoi dire tutto perché ciò che vivi tu, lo vivo anch'io.

Se pensavi di essere l'unico o l'unica a vivere in questa condizione che non si può spiegare, sappi che a me non devi spiegare niente. Se sei un medico o un infermiere, potrai comprendere meglio come ci sentiamo noi pazienti. E se sei sano, questa storia ti riguarda comunque, perché la sofferenza, prima o poi, riguarda tutti, anche se io ti auguro che tu e i tuoi familiari non sappiate mai cosa significa. Mi chiamo Simone e quello che stai ascoltando è il mio grido che finora non sapeva come uscire ed è rimasto muto e inascoltato. Non deve esserlo mai più. Conto su di te per diffondere il mio messaggio. Insieme possiamo realizzare il mio nuovo sogno: quello di stimolare un ragionamento, di favorire un cambiamento necessario nella società e nei pensieri delle persone che non conoscono questi problemi, per creare un mondo in cui nessuno si senta più solo e abbandonato di fronte alla malattia. Ma tutto questo dipende anche da te. Continua a seguire questo podcast, iscriviti al canale e condividilo il più possibile, perché non si sa mai dove potrebbe arrivare e chi potrebbe aiutare a non sentirsi più solo. Ascoltami con attenzione, perché per capire quello che le malattie mi hanno portato via devi prima capire chi sono. Solo così saprai quanto è grande ciò che ho perso e quanto era importante per me.

Perdere ciò che ami di più, ciò che ti definisce come individuo, è una enorme ingiustizia, enorme. E sono abbastanza sicuro che se anche tu sei ammalato capisci bene cosa intendo. Anche tu, immagino, sentirai lo stesso peso. Aiutiamoci a vicenda a portarlo. Io ti aspetto ogni martedì con un nuovo episodio del podcast in cui conoscerai meglio chi sono, quello che ero e che non sono più, e le mie riflessioni su cosa significhi essere un malato invisibile oggi in Italia. Nel frattempo, stammi bene.

Questo podcast è pensato esclusivamente per raccontare la mia esperienza personale e la mia storia. Non contiene in alcun modo consigli di carattere medico o curativo. Per qualsiasi problema di salute, ti invito a consultare il tuo medico o uno specialista di fiducia.

 
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from cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

Stiamo facendo questo laboratorio settimanale dove un'ora è gestita dai ragazzi che devono organizzare in classe un telegiornale che affronta di volta in volta un tema specifico: Europa, Stati Uniti, Medio Oriente, Tecnologia e Scienza, Liguria. Siamo già al terzo appuntamento.

In quinta i ragazzi non erano abituati. I primi telegiornali erano simili a ricerche scolastiche, muri di testo letti con voce mono-tono, scarso apporto di immagini o video. Ogni volta io le la docente di sostegno abbiamo dato un feedback, consigli, in modo che potessero migliorare, essere più sicuri, comunicare meglio, saper attirare l'attenzione.

Quando venerdì scorso un gruppo ha messo sul mega-schermo che abbiamo in classe la via della città rumena dove ha sede TikTok, usando Google Maps, e uno studente si è messo davanti all'immagine fingendo di essere in Romania e un altro studente ha finto di essere un passante, un lavoratore di TikTok che stava smontando dal lavoro e il primo ha iniziato a intervistare il secondo chiedendo cosa ne pensasse delle accuse di disinformazione rivolte a TikTok dopo le recenti elezioni politiche, ecco, in quel momento mi sono reso conto che quel lavoro che stavamo facendo in classe serviva davvero a qualcosa.

 
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from cronache dalla scuola

[cronache dalla scuola]

#1

— professor Venerandi, volevamo dirle una cosa — sì? — le apre un sacco di laboratori, belli eh, adesso abbiamo quello su Shakespeare, quello dei telegiornali sul mondo, quello su Don Chischiotte fatto con i video di intelligenza artificiale, quello di storia con Sutori, quello del gioco di ruolo sulla rivoluzione francese... — sì — e non ne chiude mai nessuno — ah — non riusciamo a portarli avanti tutti contemporaneamente — capisco — bisognerebbe un po' ridurli, capisce, abbiamo anche le materie di indirizzo da studiare — capisco

#2

— professor Venerandi — sì? — ho un problema con il laboratorio su Cervantes — ah — dico, la lotta contro i mulini a vento fatta con l'intelligenza artificiale. Non potrei fare una animazione al posto dell'intelligenza artificiale? — non riesci a trovare una piattaforma per generarle? Posso consigliarti... — no, non è quello. È un problema etico — ah — io sono contro l'intelligenza artificiale generativa, perché è stata addestrata sul lavoro di grafici a loro insaputa — capisco — e quindi non voglio usarla perché penso che l'addestramento fatto in questa maniera non sia etico e rispettoso del lavoro degli altri — capisco — potrei fare una animazione al posto dell'AI? — guarda, con queste premesse ne sarei felice — oh, bene — però quando poi la presenti spieghi perché non hai voluto usare l'AI, così facciamo nascere un po' di dibattito in classe. Ok? — ok

 
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from Poesie

Sotto un silenzio indolente, abbracciati a suoni folli e lenti, panni stesi su fili immaginari diventano eterni in un eterno vuoto.

Ombre sospettose passeggiano e fingono di recarsi verso una meta. E’ il ripetersi sempre identico di gesti consueti in una città aspra e senza tempo, bella e sonnolenta. Nessuno si cura della straziante sofferenza dei muri cadenti. Qualcuno osserva le carte dimenticate e le strade rotte. Il profumo della terra si spande per l’aria, mentre il mare sembra gridare pietà per il tradimento degli uomini.

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from Poesie

Due fuochi lontani, presagio di incontri audaci e di corpi esitanti ed indifesi, zampillano tra gli astri e giurano pungenti parole d’amore. Il profumo del mare trattiene il peso dell’incertezza di quel mondo. Terre lontane sotto una guardinga Luna, e una vela ricurva dal tempo ondeggiano sulla plumbea schiuma, sorprendendo gli occhi di un viandante distratto. Un pensiero portato da un vento supplicante irrompe nel cielo spento, un volto violato si mostra e gli dei piangono sommesse lacrime.

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from Poesie

Sguardo profondo e impetuoso, rifugio di inquietudini lontane, insegui sgomento cuori che anelano dolci carezze, brindando alle amare illusioni. Il tuo volto si perde nell’infinito, diventa un'ombra fugace nel groviglio dei nostri pensieri, immersi nell’immenso cosmico, mentre le nostre mani si cercano nel fragore silenzioso della notte urlante. Luccicanti stelle cadenti, in attesa di desideri inespressi, abbandonano un esile filo salvando dal precipizio dell’oblio l'incanto di un incontro.

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from Poesie

Il rancore amaro della solitudine che corre tra cielo e mare, obbliga a laceranti visioni. Da lontano brandelli di vita, come urla soffocate, rimbombano sotto un Sole rabbioso, poco incline a trovare pace. A oriente un lampo disperato si piega su pochi vecchi tetti, dimenticati in libri ormai chiusi e persi in odorosi tristi cassetti. Una nuvola gocciolante e stupita si guarda intorno con lieta allegrezza, ignara dell'aspro tormento dell'essere, mentre fugge la luna beffarda, sorda al mio invocante canto.

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from Poesie

Una chiara brezza volge al tramonto, lasciando un velo sui tuoi occhi, mentre salgono invocanti le tue preghiere.

Avvolta in un doloroso sortilegio, guardi il cielo per trovare il sentiero che orienti i tuoi fragili pensieri ingannati dalla bruma del tempo.

Sotto il ticchettio di uno svogliato orologio pronto a scandire le tue canute abitudini, ti avvicini ad una stufa spenta e spaventata in attesa del profumo degli alberi spogli. Lenti i tuoi passi fingono sicurezza, dolci le tue mani carezzano volti lontani, incorniciati nella tua pallida memoria e disposti in ordine su una bianca credenza. Rari i tuoi sorrisi accompagnano mesti il tuo viaggio attraverso una sofferenza celata al mondo con amaro orgoglio.

Madre tanto amata e sognata, le tue labbra promettono tenere parole e ogni pena diventa più lieve.

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from Racconti

Una mattina di novembre grigia e nebbiosa fu ritrovato, poco distante dai casolari abitati da braccianti stagionali e operai, il cadavere di una giovane donna, sepolto e avviluppato da un sacco della spazzatura, nero come la pece, logoro e strappato. La pelle ormai a brandelli rendeva ancora più raccapricciante lo stato in cui si trovava quel corpo dilaniato dalle ingiurie degli uomini e dalla decomposizione che aveva risparmiato i lineamenti vaghi di quel volto sfigurato e qualche lembo di un abito dal colore rosso intenso. Quella donna si chiamava Jasmyn Hussain.

Gli Hussain erano scappati dal Pakistan in cerca di fortuna e tranquillità, come tutti i migranti. Jasmyn era stata l’ultima ad arrivare in Italia, nella terra promessa, nella terra in cui molti connazionali avevano stabilito la loro residenza. Jasmyn aveva appena sette anni e, come recita la legge italiana, fu iscritta alla Scuola Primaria. “Buongiorno bambini, Jasmyn è una nuova compagna di classe”. “Vai a sederti cara”. Aggiunse la maestra.

“Che cosa dice, non capisco. Che bella questa scuola, ci sono tante bambine. Perché mi guardano così? E adesso cosa faccio?”

La maestra, elegante ed energica, la accompagnò al banco, le diede un quaderno, una penna ed una matita.

“Che bello! Posso imparare a leggere e a scrivere, così mio fratello non mi prenderà più in giro...”

La scuola si trovava poco distante dalla piazza del paese. Per raggiungerla Jasmyn percorreva una piccola strada alberata ricoperta di ghiaia grigio perla. Durante l’anno scolastico, uno strato sottile di brina copriva la campagna deserta fino alla linea dell’orizzonte, il Sole alto e opaco abbracciava la Terra per qualche ora, riscaldandola lievemente fino all’arrivo della bella stagione, quando un turbinio di colori sarebbe esploso e le vacanze sarebbero presto arrivate.

Il padre aveva trovato lavoro in una fabbrica di serramenti. Non fu difficile far assumere anche il figlio, vista la fame di manodopera delle aziende di quella regione. La famiglia Hussain era ben voluta da tutti gli abitanti del piccolo paese in cui risiedevano, almeno fino a quando non si accorsero che Jasmyn era spesso obbligata a dormire sul marciapiede. In silenzio si accucciava, attendendo l’aurora luminosa di un altro giorno, passato ad ascoltare il paesaggio invisibile della sua anima frantumata dalla violenza di un mondo che lei non poteva più capire. Ben presto infatti il Pakistan si tramutò in un fantasma dal quale sarebbe voluta correre lontano, invece il Pakistan viveva con lei, ben radicato tra le mura domestiche con le sue regole e i suoi riti assurdi per una ragazzina che, come lei, stava incominciando ad assaporare l’ombra di una nuova libertà, appena nata, sfiorata con timore.

Concluso il Primo Ciclo di Istruzione con un esame brillante, avrebbe voluto frequentare la scuola superiore, ma i genitori le impedirono di iscriversi, sebbene non avesse l’età per abbandonare legalmente il percorso scolastico. Le istituzioni non si mossero. Lei pagò quella indifferenza, scivolando nella trappola di un ambiente poco incline ai cambiamenti e ostile anche a causa del suo atteggiamento via via sempre più ribelle, scontroso. “Voglio uscire con le mie amiche”. “Tu non sei come loro, tu sei musulmana, devi accettare questo fatto. Tu non sarai mai come loro”

Jasmyn conobbe Marco una sera d’estate, il caldo era soffocante, non vi era un filo di vento, l’umidità dell’aria lasciava spazio ad un unico desiderio, quello di rintanarsi in un locale fresco. Sotto la pergola della gelateria si respirava un po’ meglio e fu proprio lì che si incontrarono. Fu il calore di un momento. “Dove sei stata? Chi hai visto? Perché sei rientrata così tardi?” “Sono le nove di sera, papà, non è tardi”. “Non rispondermi in questo modo. Ricordati che hai 17 anni, sono io a decidere quello che puoi o non puoi fare. Vattene fuori. Resterai incollata al marciapiede e domani mattina rientrerai senza lamentarti”. Le disse il padre in collera che non l’aveva picchiata duramente solo perché non voleva sfigurarla. Ancora un po’ di pazienza, presto l’avrebbe costretta a ritornare in Pakistan per sposare il cugino Akim.

“Perché? Perché? Perché non vuoi capire che non puoi trattarmi così... accidenti...”

E mentre piangeva, scrutava quella linea invisibile che separava il dentro dal fuori, vagheggiando mondi lontani in cui rifugiarsi e perdersi. Il futuro le appariva tetro, si paragonava ad un albero malato da divellere per essere usato come legna da ardere. L’estraneità di quel dentro, a cui non apparteneva più, si era consolidata, scoprendo giorno dopo giorno, anno dopo anno ciò che le stavano negando.

Nei mesi seguenti riuscì a vedere il suo Marco in gran segreto. Jasmyn non portava il velo quando era con lui. I suoi occhi erano marroni, caldi, in qualche momento sfuggenti, intriganti; le sue labbra rosse, parevano essere state disegnate da un pittore nel tentativo di risvegliare tutti insieme i sogni più nascosti, avvolti da un pudore quasi infantile. “Ti amo…” La frase rimase sospesa mentre la baciava. “Ho paura … Mio padre non mi lascia in pace, mio fratello e mia madre mi minacciano. Ogni volta che rientro… non so se mi faranno dormire all’aperto o se mi chiuderanno per sempre in cantina”. “Deve esserci una soluzione, chiediamo consiglio alle associazioni antiviolenza”. Proprio in quel tardo pomeriggio, un amico del padre lo informò che Jasmyn si comportava come una sgualdrina. Il risultato di questa delazione: il pestaggio cui fu sottoposta. La picchiò finché non vide il suo sangue scorrere dalle ferite. I lamenti di dolore arrivarono fino ai caseggiati circostanti. Quella volta i vicini, preoccupati più che mai, non potevano restare insensibili a quei singhiozzi strozzati. Chiamarono le forze dell’ordine che trovarono Jasmyn seduta sul pavimento, muta, aveva le guance gonfie e la schiena, che si intravvedeva tra le pieghe del vestito strappato, riportava i segni di quel che era accaduto. Fu ricoverata, rimase in Ospedale per due settimane. Il padre fu denunciato e processato per direttissima, ma la condanna non lo tenne distante dalla figlia, attraverso la madre ed il fratello la insultava senza pietà. “Sei una donnaccia, una svergognata. Hai mandato dietro le sbarre nostro padre. Ci hai messo in cattiva luce anche in Pakistan. Abbiamo dovuto mettere da parte l’idea di darti in moglie ad Akim. Ricordati che noi ti abbiamo mantenuto e che si trattava di dimostrare gratitudine sposando tuo cugino”. “Ti sei dimenticato che Mio padre mi ha obbligato a dormire sul marciapiede e mi ha massacrato di botte?”

Jasmyn fu isolata dal mondo esterno. Marco, appena poteva, si recava sotto la finestra della sua camera in gran segreto per pianificare la fuga. “Non farti travolgere dal dolore e dalla paura, domani verrò a prenderti, costi quel che costi. Ho trovato un posto sicuro dove sarai al riparo dalla furia dei tuoi”. Un rumore cupo la fece sobbalzare. Erano i piedi scalzi della madre che producevano uno strano fruscio sulle scale. “Con chi stavi parlando? Non negare. Ti ho sentito”. La sua voce rimbombò nella camera. Prese Jasmyn per un braccio, facendola inginocchiare. Il pianto disperato di Jasmyn riempì l’aria avvilita, stanca di ascoltare la sua sofferenza e le sue lacrime.

“Perchè? Perché? Perché? Non ce la faccio più...”

In quel preciso istante, nonostante fosse al primo piano, scavalcò la finestra e con un salto finì per terra. Tutta dolorante scomparve inghiottita dalla foschia del primo mattino che la protesse mentre camminava in mezzo ai prati ancora brulli, incerti di fronte ad una primavera che non voleva arrivare. La madre diede l’allarme, furono immediatamente attivate le ricerche, ma di Jasmyn nessuna traccia, era stata inghiottita dal nulla. “Brutta bastarda, figlia ingrata, te la farò pagare”. Disse al figlio che tremava dalla rabbia. “Mamma, dobbiamo fare qualcosa, oramai tutti ridono di noi”.

UN ANNO DOPO

Marco e Jasmyn continuarono a vedersi, seppur con mille precauzioni. Il rifugio che l’aveva accolta era una casa famiglia per donne disperate, umiliate, maltrattate da uomini incapaci di vivere una relazione, gelosi o semplicemente stupidi. “Oggi è il tuo compleanno, ho un piccolo regalo per te”. Jasmyn aveva le lacrime agli occhi di fronte ad un mazzo di rose rosse ed una scatolina contenente un profumo, non uno qualsiasi, l’essenza era quella del gelsomino, Jasmyn portava il nome di quel magnifico fiore. “Quanto ti amo... grazie, io non so cosa dire…” “Non dire nulla, abbracciami”. E mentre la stringeva forte, sussurrò: “Dobbiamo andarcene, non ha senso restare qui, ora sei maggiorenne”. “Il problema sono i documenti. Mia madre li ha nascosti in camera sua”. “Andremo a prenderli insieme, andare da sola è troppo pericoloso”. “So che è pericoloso, ma non ho altra scelta. Se ti vedessero con me, tu saresti il primo bersaglio ed io il secondo… Non c’è speranza... Io li conosco”. “Ma Jasmyn...” “Facciamo così… io vado da loro questa sera verso le 20.30. Se non sono qui per le 22.30...”. Si interruppe.

La brezza leggera sembrava voler incoraggiare Jasmyn.

“… cosa farò quando mi troverò di fronte mia madre e mio fratello… non so… non so...”

Man mano che i passi sempre più incerti la conducevano verso il suo destino ed il mormorio dei suoi sentimenti risuonava in tutto il suo corpo, percepiva il sapore di una sofferenza amara che le impastava la bocca. Aprì la porta senza bussare, la madre ed il fratello stavano pregando. Volsero lo sguardo verso di lei, il rancore cieco si trasformò in odio, deformando i loro lineamenti già segnati dalla lunga attesa di una vendetta. “Che cosa sei venuta a fare?” “Sono qui per prendere i miei documenti”: “No, tu non ci lascerai di nuovo. Scordatelo!” Nel frattempo il fratello aveva chiuso la porta a chiave.

Jasmyn si girò verso le scale. “Cosa fai?” “Vado a prendere i miei documenti”. Fu un attimo. Madre e figlio con un cenno firmarono la sua condanna a morte. Fu scaraventata sulle piastrelle del salotto. Mentre cercava di rialzarsi, sentì intorno al collo qualcosa che le impediva di respirare. La sua vita finiva quella sera. Quel corpo martoriato era oramai incurante del mondo.

Marco, quando non vide arrivare Jasmyn all’ora concordata, si recò dai Carabinieri. Tremava e singhiozzava senza tregua mentre raccontava tutta la storia della sua amata. Squadre, formate anche da volontari, setacciarono tutte le zone in cui sarebbe stato possibile rinvenire indizi. Passarono le settimane, una dopo l’altra, senza fare progressi. Si era dileguata. Poi una pioggia torrenziale fece emergere quel sudario di plastica sepolto non lontano dall’abitazione degli Hussain. La madre ed il fratello nel frattempo erano fuggiti in Pakistan e nessuno li vide più.

elenco completo #sociale

 
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from Racconti

Il mare ostentava tutta la sua serenità. Era piatto, quasi uniforme. Al largo le vele facevano fatica a spingere vigorose imbarcazioni su cui erano adagiati pensieri annoiati dal susseguirsi di giornate sempre uguali a se stesse ed in cerca di esperienze estreme. Il vento non voleva accontentarli, non era prevista nessuna tempesta. Sulla riva un pullulare di costumi screziati, allegri, mescolati ai venditori ambulanti di varie nazionalità, ricoprivano ogni angolo. La spiaggia aveva tutto l’aspetto di un formicaio profumato di crema solare. Risate fragorose di donne un po’ abbondanti si sovrapponevano ai pianti di bambini capricciosi, figli di genitori assenti e perennemente bruciati dai sensi di colpa. In lontananza, ma non troppo, un bar offriva ristoro nelle ore più calde e lanciava musica senza tregua, così da rinfrancare lo spirito dei bagnanti. Gli uomini erano spesso indaffarati in attività che prendevano molto sul serio: in primo luogo il gioco delle bocce. Al tramonto inevitabilmente entravano in farmacia rossi come peperoni per aver sostato troppo sotto il Sole, la canicola del primo pomeriggio non perdona. In quel disordine ordinato da regole che si erano sedimentate di stagione in stagione, vi erano momenti in cui tutto evaporava per lasciare posto a sguardi furtivi e languidi. Marco era seduto sul bordo del muretto che delimitava il confine con la strada. La vide mentre si spalmava con molta cura un unguento per proteggere la pelle: prima le gambe, poi le braccia, il collo ed il seno, che si mostrava con discrezione e faceva risvegliare tutte le fantasie più sensuali, una alla volta, senza lasciare via di scampo. Marco prese l’iniziativa, non poteva sottrarsi all’attrazione che sentiva. Si mosse come fa il gatto quando cerca di acchiappare il topo. Girando un po’ intorno con passo leggero, le sue impronte sulla sabbia indicavano un percorso incerto, titubante. Giunse, dopo mille giravolte, poco distante dal suo ombrellone. “Bravo, e adesso cosa le dico?” Pensò. “Non sono certo uno spavaldo”. Ma era altrettanto certo che se non avesse fatto qualcosa sarebbe arrivata l’ora di cena e lei avrebbe abbandonato il lettino su cui aveva disteso la sua bellezza leggermente ambrata. “Ciao” “Che banale! Del resto cosa dire ad una sconosciuta, si comincia dall’inizio e l’inizio è un saluto”. “Ciao” Rispose Giulia. Marco si accorse che intorno a lui non c’era più nulla, in quel nulla si conobbero. La invitò in un locale in cui la musica rendeva vana ogni parola. Ma per loro non aveva molta importanza. Si salutarono con la promessa che si sarebbero rivisti.

Marco e Giulia passarono una settimana indimenticabile tra mare, aperitivi e nottate trascorse sotto lenzuola fradice d’amore dove non vi erano più persone ma figure evocanti mondi lontani. “Dobbiamo rientrare”. Disse Marco, stringendola fino a toglierle il respiro. Giulia ebbe un attimo di esitazione… “Ti amo”. Sussurrò, quasi intimorita dal forte sentimento che la stava travolgendo fino a restare immobile, sgomenta davanti all’auto che l’avrebbe ricondotta tra le colline della sua terra. I loro paesi si trovavano in pedemontana, a non più di cento chilometri l’uno dall’altro. Continuare a frequentarsi non sarebbe stata un’ impresa titanica. Giulia gestiva un negozio ben avviato all’interno di un centro commerciale situato vicino alla grande città, che era anche capoluogo di provincia. Da tre anni viveva da sola. Era figlia unica, i genitori erano perennemente in apprensione, nell’ottica del “stai attenta, non si sa mai”.

Giulia e Marco trascorrevano ogni attimo insieme, a parte quando Marco, direttore della più importante agenzia assicurativa della zona, doveva assentarsi per raggiungere la sede centrale a Milano. “Posso venire con te qualche volta?” “Sono noiose riunioni di lavoro con noiosi consulenti e operatori del settore. Ho i minuti contati. Magari potremmo organizzare una vacanza. Milano è indubbiamente attraente, non lo nego”. “Mi pare una buona idea”. Si baciarono intensamente. Si rintanarono in discoteca e poi a casa di Giulia. Marco abitava ancora nella casa paterna per indolenza, un’indolenza che nascondeva opportunismo. Disprezzava quelle quattro mura che lo avevano visto nascere.

DUE ANNI DOPO

Decisero di sposarsi e di avere finalmente la possibilità di condividere gioie e dolori. Marco era molto premuroso e attento, ma le sue continue assenze inquietavano Giulia che passava ore ed ore a meditare ed a costruire fantasmi. L’invisibile condizionava la sua comprensione del visibile, lo rendeva più faticoso e pesante. “Non è più lo stesso, non capisco… non capisco”. La nascita di un figlio la distrasse per un po’ dalla tristezza amara costruita sul filo di una menzogna, intuita e rifiutata, nascosta nella nebbia che confonde linee e colori.

Era un venerdì di dicembre inoltrato, le foglie secche sparse sui marciapiedi si erano arrese di fronte al vento gelido dell’inverno. Marco rincasò tardi, aveva vagato a lungo prima di calpestare il viottolo del giardino. Giulia non c’era. Diede un pugno alla porta, ferendosi lievemente. Si versò del vino rosso e bevve, perso nella fuliggine che nel caminetto componeva profili inconsueti, privi di una logica. La magia di quella scena non fu sufficiente a diminuire l’irritazione provocata dal suono ossessivo del ticchettio che scandiva i minuti, uno dopo l’altro senza tregua. Il corridoio si illuminò interrompendo il brusio del fuoco. “Dove sei stata oggi?” “Come sempre al lavoro poi con Mauro sono andata dai miei genitori”. “Tua madre e tuo padre non sono una compagnia adatta a nostro figlio che deve crescere in un ambiente in cui non si parli una lingua ‘sporca’”. “Che cosa stai dicendo?” Le rispose con uno schiaffo. Il giorno dopo si presentò con un mazzo di rose rosse. Si inginocchiò con un gesto da operetta melodrammatica e glieli porse scusandosi. Le chiese comunque di diradare le visite ai suoceri. Lei accettò a malincuore. I suoi genitori l’avevano spesso messa in guardia fin da quando si erano fidanzati ufficialmente, non tollerando quell’aria di superiorità che lui vestiva in ogni occasione.

QUATTRO ANNI DOPO

“Esco con gli amici, andiamo in birreria”. “A che ora ritorni?” “Presto, non ti preoccupare”. Non era preoccupata, a qualche ora sarebbe ricomparso, nonostante non avesse più interesse per lei ed il suo desiderio fosse svanito in una bolla di fugaci penetrazioni che non le portavano alcun piacere. Al terzo rintocco del campanile, Marco varcò la soglia, era molto eccitato. La vide sotto un lenzuolo morbido, setoso. Senza dire una parola le aprì le gambe e la costrinse brutalmente ad avere un rapporto sessuale. Giulia urlava, piangeva. “Ti prego, smettila, mi fai male”. Si alzò al mattino con l’affanno di specchiarsi e di non riconoscersi.

Dopo aver lasciato Mauro all’asilo fece visita ai suoi genitori per avere conforto. Era sfigurata. “Mio Dio, cosa ti ha fatto questa volta?” Esclamò la madre. “Sta passando un brutto periodo. Capita a tutti”. “Certo, ma non tutti seviziano la propria moglie. Devi denunciarlo”. “Ora vado, altrimenti i clienti crederanno che sia morta”. Il tono era tra l’ironico e il disperato.

L’oscurità velata del vespro annunciò la chiusura delle serrande. Giulia salì in macchina, lesse i messaggi, uno era di Marco “Sono andato a prendere Mauro. Sorpresa”. La casa traboccava di fiori e di candele. Marco era ai fornelli e Mauro gli stava intorno con i suoi giocattoli. Le offrì un aperitivo, non uno qualsiasi, quello che lei preferiva tra tutti. Le prese le mani, si piegò davanti a lei. Piangeva come un bambino. Si scusò e le promise che quello che aveva fatto non sarebbe successo mai più. “Ti amo, ti amo, non scordarlo. Io non posso vivere senza di te”.

Mauro osservava quel mondo di violenze e di scuse continue senza comprenderne il significato. All’asilo era silenzioso, non partecipava alle attività come gli altri, spesso scappava rifugiandosi dalla maestra. “Signora, ha notato che suo figlio ha qualche problema, fa fatica a stare con gli altri bambini”. “Sì, è taciturno, poco incline alla gioia”. Giulia se ne andò con le lacrime agli occhi. Dalle finestre della sua casa poteva ammirare un parco giochi, dove i ragazzini, accompagnati dai genitori, cantavano allegramente le loro filastrocche, ogni tanto qualcuno cadeva dallo scivolo o da un altro attrezzo, con le ginocchia sbucciate ripartiva e ricominciava con le capriole. Amaramente rifletteva sulla sua malinconica esistenza. La paura e la solitudine la stavano consumando lentamente. Malediva la sua ignavia, la sua stupida speranza, rendendosi conto che stava camminando lungo il margine di un vuoto incolmabile. Eppure nel suo intimo, qualcosa era cambiato: ciò che aveva ritenuto impossibile si stava tramutando nella ricerca di una forza che era davanti a lei, in un altrove di cui non aveva avuto consapevolezza fino a quel momento.

Voleva uscire dalla trappola di quel matrimonio, ma non senza scoprire gli inganni in cui era vissuta. “Perché non posso seguirti quando vai in trasferta a Milano?” “Cosa dici, Mauro a chi lo lasci? Ed il negozio? Lo chiudi?” “Potrei portare Mauro dai miei e prendermi una pausa dal lavoro”. “Non se ne parla proprio, figuriamoci Mauro dai tuoi”. Concluse con una risata sarcastica. Giulia non proferì parola, ormai la sua rassegnazione si era dileguata nella visione di un futuro impossibile. Si rivolse ad un detective per farlo seguire. L’investigatore fece un’indagine meticolosa e gettò sulla sua scrivania le immagini che ritraevano Marco e la sua amante. La cruda realtà le fu posta innanzi con il tono sereno di chi è abituato alla sofferenza altrui, al punto da non farci più caso. Si incamminò verso il parcheggio. Una incantevole e calda luce faceva capolino sul viale principale della città, gli alberi si ergevano come se fossero i padroni della strada, una strada che sembrava correre veloce verso l’infinito. Era abbagliata dai rumori fragorosi dei mezzi che davanti ad un semaforo si erano magicamente fermati ad ascoltare il cuore di Giulia. Una donna si accorse di quel viso lacerato da un antico dolore. “Signora, ha bisogno d’aiuto?” Quella voce così tranquilla la rasserenò per un attimo. “No, grazie… sto bene… sono solo un po’ stanca”. “Vuole che l’accompagni da qualche parte?” “La ringrazio, non serve...”. Scomparve lasciando dietro di sé una delicata fragranza ed un pezzo della sua anima. Arrivò al parcheggio, prese l’auto e si recò all’asilo. La rete verde a maglie larghe la separava dal suo piccino. Rimase lì, aggrappata, vedeva Mauro, da solo, stava in disparte come fanno i cani randagi quando non vogliono essere toccati da nessuno e che nessuno tocca perché sono randagi. Suonò la campanella. Le insegnanti, come al solito, accompagnarono i bambini al cancello. Mauro corse verso Giulia sganciandosi dalla fila guidata dalla sorvegliante di turno. “Mamma, sei triste?” “No tesoro, sono solo stanca”. “Perché piangi?” “Piango di gioia, perché posso cullarti come quando eri in fasce”. “Perché papà non c’è?” “Sai che viene sempre la mamma a prenderti. Che cosa hai imparato oggi?” “Niente” “Come niente?” “La maestra mi ha messo in castigo perché non volevo fare il disegno della mia mamma e del mio papà”. “Perché non ci hai disegnato?” “Non sapevo cosa disegnare. Mamma, non voglio più andare a scuola. Sono tutti cattivi”. “Non è vero, cerca di stare con loro vedrai che tutto passerà”. Mauro scoppiò a piangere. “Non mi piacciono, non voglio rivederli. Voglio stare con te”.

Cenarono da soli, Marco era in ritardo. Giulia portò Mauro nel lettone, aveva bisogno di calore umano. Il suo sorriso l’aiutava a raccontare le fiabe per farlo addormentare, ma lui non riusciva ad abbassare le palpebre. “Un’altra mamma, ti prego”. “C’era una volta un gatto che aveva due baffoni enormi, si chiamava…” Si assopirono insieme, quasi nello stesso istante. I passi decisi e rumorosi di Marco la fecero sobbalzare, strinse al petto Mauro fingendo di dormire. La porta si aprì facendo trapelare un filo di luce coperto da una possente sagoma maschile. Sarebbe voluta precipitare nel pozzo profondo in cui si rifugiano le anime dannate in terra. Il pigiama che indossava era più grande di una taglia, glielo aveva regalato la sua amica di sempre per un compleanno qualsiasi prima che il matrimonio se la portasse via, lontano, lontano dai contatti di un tempo, dalle risate al bar di Gianni che preparava ogni sabato un buffet a sorpresa.

Lui la prese per i capelli, strattonandola e trascinandola. “Credi di essere furba? Oggi sono passato in negozio. Era chiuso. Dove sei andata?” Lei taceva e più taceva e più la colpiva senza pietà. Il suo pianto disperato si mescolava a quello di Mauro. Cadde a terra senza un lamento, sopra le gocce di sangue che sgorgavano dal naso e dalla bocca e, mentre attendeva il colpo di grazia, vide Marco allontanarsi, le sue scarpe, lucide, pulite, si spostarono verso la sedia sulla quale aveva lasciato gli abiti. Appoggiò le sue mani imbrattate sopra lo schienale. La osservò. “Ti amo, tu lo sai vero?” Fu distratto da una voce infantile. “Papà perché hai picchiato la mamma?” “Perché è stata cattiva. Mi ha detto una bugia”. “Io sono cattivo?” “No, tu sei buono”. “Allora non mi picchierai, vero?” “No, tu fai sempre quello che dico io”. Portò Giulia in bagno, la lavò, la mise a letto e scese in salotto dove un comodo divano lo accolse fino al risveglio.

Un’altra Luna si era adagiata sul suo volto tumefatto. All’alba la testa era frastornata, intorpidita, non riusciva a muoversi, le sembrava di avere sopra di sé un peso tale da impedirle di respirare, di pensare, di esistere. Il cuscino madido emanava un odore acre. Si toccava la fronte come quando da piccola faceva qualche marachella e non aveva il coraggio di dirlo. Telefonò ai suoi genitori per informarli che era esausta. Aveva bisogno di andare al pronto soccorso. “Chiama il 112, a Mauro baderemo noi…Per favore denuncialo”. I medici ed i paramedici quando l’esaminarono ebbero un attimo di scoramento. “Signora, lei deve fare denuncia”. “No, mi ucciderà, ne sono sicura”. Quando giunsero le forze dell’ordine, Giulia si rifiutò di parlare. “Signora, se fa così non possiamo aiutarla, dobbiamo comunque convocare suo marito in centrale”.

Giulia rientrò a casa, avrebbe voluto spiegare… spiegare cosa? Aveva paura di lui, delle sue mani, della sua ombra. Voleva la separazione e questo era tutto. Una poltrona l’avvolse tentando di consolarla. Nel buio la chiave girò nella toppa. Si avvicinò a lei senza svegliarla: “Non mi lascerai vero? Non puoi farlo”.

I Poliziotti lo avevano ascoltato e ammonito, poi lo aveano rispedito là, dove abitavano la sua rabbia ed il suo tormento. Non fece parola con Giulia di quella conversazione.

UN MESE DOPO

Giulia si recò da un avvocato per avviare la procedura di separazione. La lettera formale con la richiesta fu consegnata a Marco che la lesse con aria sprezzante. Ma quando la vide indaffarata ad impacchettare gli indumenti di Mauro, capì che avrebbe dovuto prendere sul serio la situazione. Attese le prime ore del mattino, si premurò di verificare che Mauro dormisse, prese un coltello e lo conficcò una, dieci, cento volte nel corpo di Giulia, sferrando ogni colpo con sempre maggiore efferatezza, guardandola dritto negli occhi e più la guardava più sentiva il bisogno di infierire “Non te ne andrai”. Invece se ne andò, senza valigie… all’obitorio.

Il funerale si svolse alla presenza di tutti coloro che l’avevano conosciuta e di tutti coloro che avrebbero voluto dimostrarle solidarietà.

Vicino all’angolo estremo del cimitero vi erano Mauro e la nonna. “Nonna, la mamma dov’è? E’ in castigo perché ha disubbidito?”

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Era notte fonda, la città dormiva, anche i ladri ed i truffatori avevano lasciato la strada per ritirarsi a sonnecchiare qualche ora. I viali ed i parchi erano vuoti, deserti gli ultimi locali notturni, le finestre ed i balconi separavano e proteggevano gli abitanti in attesa dell’aurora. Alla periferia di quella quiete una musica assordante attraversava le pareti di una casa che indugiava tra fiumi di birra, vino e super alcolici scolati da giovani in cerca di emozioni forti, che sbeffeggiavano la triste vita dei loro coetanei già a letto. Valeria, che aveva esagerato con l’alcol e aveva fumato, sprofondò su un divano. La testa non era più lì, vagava per altri lidi, in un sogno stranamente lucido. Vedeva intorno a sé altri sballati come lei, solo più annoiati, viziati da genitori sempre meno presenti.

“Guarda la sbruffona come è conciata”. Disse uno di loro.

Valeria non era una sbruffona. Era giunta in Italia dalla Colombia quand’era ancora in fasce. Aveva frequentato la scuola fino a 19 anni, quando affrontò l’esame di maturità e si diplomò. Il padre e la madre facevano gli operai nello stabilimento più importante della zona, erano miti, discreti e sapevano di avere una figlia speciale: affettuosa, rispettosa e studiosa. Vivevano tutti insieme in un appartamento in centro, piccolo ma confortevole e poi dalla finestra del salotto si poteva ammirare il Duomo con le sue guglie e le sue vetrate variopinte. Vi era anche un grande balcone pieno di piante e fiori che la madre curava in modo quasi maniacale, per dimenticare la fatica della fabbrica, le dieci ore consecutive di lavoro. Il suo volto esprimeva comunque felicità che distribuiva a piene mani. La domenica era sacra, era l’unico momento in cui potevano ritrovarsi tutti insieme.

Valeria non era una sbruffona. Era una ragazza come tante altre che amava la vita, mai e poi mai avrebbe immaginato quello che le sarebbe successo, si fidava di tutte le persone che la circondavano, pensando che non ci fosse alcun motivo per farle del male. Passava la maggior parte del tempo libero con gli amici. Il ritrovo era il bar “Portorico” dove si degustavano gli aperitivi più raffinati della zona, accompagnati da tartine e pizzette favolose. Da lì poi, il sabato, partivano alla volta della discoteca.

Valeria non era una sbruffona. Faceva volontariato in una cooperativa in cui erano ospitati i bambini soli che avevano solcato il mare in cerca di una vita migliore. E intanto cercava lavoro.

Fu proprio durante quella ricerca che conobbe Mattia, un bel tipo dagli occhi cerulei che lo rendevano seducente e misterioso nello stesso tempo. Aveva il fascino maledetto degli scapestrati, quelli che non si fanno tanti scrupoli e che sono convinti che tutto ciò che vogliono spetti loro di diritto. Era benestante, il padre medico e la madre insegnante lo accontentavano in tutto. Se avesse messo da parte tutte le paghette ricevute, avrebbe potuto comprare un appartamento, magari non grande ma sicuramente decoroso. Si insinuò nella vita di Valeria senza far rumore, con la discrezione di una foglia che si stacca dall’albero e fa mille giri prima di adagiarsi sul prato. Era dolce, parlava poco di sé, ma compensava questa reticenza con fiori e piccoli regalini che lei accettava sorridendo: “Grazie non avresti dovuto”. “Sei la donna più bella che io abbia mai conosciuto, non posso evitare di essere riconoscente al fato”. “Non dire così o mi farai arrossire”.

Era dicembre inoltrato, gli alberi spogli guardavano un Sole pallido, infreddolito che non vedeva l’ora di coricarsi. Mattia e Valeria passeggiavano tra i negozi che si erano trasformati in un carosello di colori e offerte speciali. “Cosa farai a Natale?” Lei non rispose subito, era assorta nei suoi pensieri. “Pranzo con i miei genitori”. “E sì, anch’io… per Capodanno hai qualche progetto?” “Non ancora, forse uscirò con le mie amiche che mi hanno proposto di attendere la mezzanotte in Piazza”. “Farò anch’io così, non ho voglia di chiudermi in qualche locale affollato… Domani sera un amico organizza una festa privata, ci verresti?” “Non conosco nessuno, mi sentirei in imbarazzo”. “Non ti preoccupare ci sono io”. Valeria, seppur con qualche dubbio, accettò.

La villa dell’amico era circondata da un parco principesco in cui prevalevano pini e abeti, le siepi guidavano i vialetti che, durante la bella stagione, si illuminavano insieme ai cespugli fioriti, che contornavano gli alberi, mostrando la loro presuntuosa bellezza a chiunque osasse entrare durante la canicola. L’ingresso dell’abitazione era costituito da tre gradini in marmo sopra i quali un portone decorato in stile Liberty permetteva l’acceso al salone principale. L’accoglienza fu garbata e i complimenti per il suo abito rosso porpora, trasparente solo fino alle ginocchia, misero Valeria a proprio agio. “Sono gentili i tuoi amici”. “Sì, è gente altolocata che sa come comportarsi in società”. Nel frattempo si era avvicinato Marco. “Posso rubarti la fanciulla?” “Certo”. Rispose Mattia Si avvicinarono al buffet. “Raccontami qualcosa di te”. “Cosa vuoi sapere? La vita fino ad oggi non mi ha riservato grandi sorprese. E’ stata tranquilla, senza salti nel vuoto. Insomma, c’è ben poco da dire”. Intanto lui riempiva il bicchiere con del whisky e lei beveva, beveva senza rendersi conto della quantità di alcol che aveva in corpo. Mattia la raggiunse. “Non bere così tanto”. “Non sono ubriaca, se è questo che pensi”. Non voleva apparire come un’ochetta senza esperienza. “Dai prendi una sigaretta”. Le disse un volto dall’aria baldanzosa. “Io non fumo”. Rispose timidamente. “Provala questa è speciale”. “Figuriamoci, perché dovrebbe essere speciale? Una sigaretta è una sigaretta”. “Va bene se non vuoi provare, non farlo… non sai cosa ti perdi”. Un pizzico di orgoglio la spinse ad adeguarsi. All’inizio fumava con un po’ di difficoltà poi, siccome le sembrava di non sentire nulla, aumentò il ritmo delle inspirazioni. Senza accorgersene cadde sul divano.

Erano le tre del mattino, in quella villa erano rimasti il proprietario con un gruppo di amici e lei, Valeria. Tutti gli altri se ne erano andati. Mattia, un po’ intontito, si allontanò da loro. “Che ne dite se provassimo a spogliarla?” Uno sguardo di intesa scivolò tra di loro e li trasformò in un branco pronto a colpire la preda. “Ma ve lo immaginate se spuntiamo nel telegiornale?” Iniziò così una violenza che si protrasse per più di un’ora. Uno dopo l’altro martoriarono Valeria. Quando Mattia si svegliò e si rese conto di quello che stava succedendo, ebbe un momento di smarrimento. Poi anche lui la stuprò. “Lo fanno tutti, non sarà la fine del mondo”. Pensava, mentre abusava di lei. A turno filmarono con grande soddisfazione tutto quello che stava accadendo. Avrebbero postato la loro bravata per darla in pasto ad internet e catturare migliaia di like. Alla fine dovettero decidere cosa fare di quel corpo, tenerlo in casa non si poteva ovviamente. Lo caricarono in auto e lo gettarono in una zona in cui vi era un complesso edilizio in costruzione.

I video divennero virali e Valeria dovette sopportare la tragedia di un altro stupro. Molti commenti la dileggiavano, la ritenevano responsabile perché non se ne era andata e aveva avuto comportamenti provocatori. Uno di quei commenti recita: “Ti sta bene cara Valeria, è questo quello capita alle donne che, come te, vogliono scimmiottare gli uomini, bevendo e fumando”.

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Teresa viveva a ridosso della montagna, in un minuscolo paesino dove era ancora possibile ammirare in primavera le rondini che in stormo disegnavano spirali rasenti il campanile. Era un po’ scorbutica, amava il profumo del tramonto e l’aria autunnale che pareva volesse portarsela via, lontano. Lontano da dove? Lontano da quello spazio vuoto in cui era precipitata da quando veniva affidata ai nonni materni per periodi più o meno lunghi, rinchiudendola in una realtà in cui una sottile violenza la faceva strisciare tra le braccia sudate dello zio. Visse così la sua infanzia, appesa ad un filo, accumulando rancore nei confronti di una famiglia che la lasciava in balia degli eventi. La casa era circondata da un vigneto e da un grande orto. Nonna Margherita seminava, piantava e raccoglieva. Ogni tanto andavano insieme a mangiare il gelato al di là del ponte. Il fiume avanzava lento, separando il grumo di abitazioni desolate dal luccichio dei palazzi e dei viali illuminati. Era una festa di colori e di desideri inespressi. “Nonna, quando hai conosciuto il nonno?” “Tanti anni fa, ad una sagra. Non mi piaceva, ma i nostri genitori avevano in mente un altro progetto. Così mi ritrovai sposata con lui”. Un’ombra velò il sorriso di Margherita. “All’inizio fu molto difficile, poi l’abitudine ebbe il sopravvento”.

Al rientro Teresa, con il sapore del gelato ancora sulle labbra, seguiva il silenzio tetro della strada che l’avrebbe ricondotta tra le mani di un aspro destino. “Dai Teresina andiamo a giocare”. Quando le sue esili mani aprivano la porta di quella stanza, i sensi di colpa l’avvolgevano, riteneva di essere lei la causa di tutto perché stava zitta e non si ribellava. Dio l’avrebbe punita facendole scontare il suo peccato tra le fiamme dell’inferno. Il prete in Chiesa era stato chiaro e aveva spiegato molto bene cos’erano gli atti impuri. La prima confessione fu per lei un martirio, non potendo dire quello che le stava accadendo perché sicuramente non avrebbe avuto l’assoluzione. Una corazza finì per chiuderla in un mondo tutto suo. Quando poteva, andava sull’argine del fiume, che procedeva dolcemente verso il mare per ascoltare il suo perenne canto. Non aveva mai visto il mare, ne aveva sentito parlare in casa. Le immagini erano il frutto di descrizioni sgrammaticate di emigranti che avevano solcato in un interminabile viaggio le onde fino alla terra promessa. Nei loro racconti regnava la penombra, il silenzio, l’orrore del naufragio e della morte.

Aveva 14 anni quando si aprirono per Teresa le porte del cotonificio. Si svegliava alle quattro, beveva una tazza di latte. Poi si incamminava verso il sentiero in cui avrebbe incontrato tante come lei, forse più stanche di lei, forse più ferite, ognuna con la propria maschera, sotto la quale si potevano intravvedere le rughe profonde di una umanità dimenticata. L’edificio imponente, che le stava aspettando, rendeva tutto il resto insignificante, rumori spaventosi rimbombavano per 15 ore al giorno. Quelle che avevano più esperienza erano deformi a furia di piegarsi sul telaio ed immergere le mani nel liquido bollente utilizzato per districare i bozzoli del baco da seta.

La sirena segnava l’entrata al cotonificio: una fila ordinata raggiungeva le postazioni che sarebbero state abbandonate quando le tenebre avrebbero offuscato il cammino. Teresa non aveva timore, sembrava piuttosto spavalda. Invece era solo contenta di allontanarsi dal gorgoglio della roggia che fluiva borbottando come fa la polenta fumante nel paiolo.

Nel giorno del suo ventesimo compleanno i genitori le comunicarono che si sarebbe dovuta sposare presto. Avevano scelto per lei il figlio maggiore dei Pascal, Guido, che aveva una discreta autonomia finanziaria: era proprietario di 15 ettari di terreno. Le due famiglie si misero attorno ad un tavolo per discutere delle questioni finanziarie. Le donne stavano in disparte, non erano ammesse alla trattativa. “Mia figlia è un po’ selvatica, ma è una grande lavoratrice ed è in grado di leggere libri interi”. Precisò suo padre. “So che al Cotonificio si è distinta: non si è mai lagnata dell’orario o della fatica”. Rispose il futuro marito, interessato all’aspetto pratico e non certo a quello culturale. “Veniamo alla dote”. Incalzò un po’ ruvido il padre di Guido. “Su questo foglio ho elencato tutto quello che sarà vostro dopo il matrimonio”. Teresa osservava quella scena con l’animo frantumato, le spalle curve rassegnate la rendevano ancora indifesa. La madre, con un gesto affettuoso che non le era consueto, l’abbracciò. Lei sapeva quanto fosse dura essere povere in quegli anni. La sua storia, non scritta, si poteva leggere sul bastone appeso alla parete sopra la credenza. “Mamma, ti prego non lasciarmi andare”. “Non posso fare nulla. E’ tuo padre che decide”.

Il giorno del matrimonio la sposa indossava un abito bianco, cucito da lei stessa. Era come se le avessero scavato la fossa e lei ci avesse messo intorno i fiori per rendere meno aspro quel momento della sua vita. Sarebbe voluta fuggire dentro uno dei suoi libri, in in cui le parole rendono i rimorsi ed i rimpianti vani, inutili e fanno sprofondare le anime in un grazioso parco fatto per consolare e alleviare le pene.

Il corteo nuziale partì alle 10.00 di mattina e si diresse in Chiesa. Era un sabato di settembre. Fu accompagnata all’altare e consegnata come si fa con i pacchi davanti alla soglia delle abitazioni, nella speranza che vengano aperti e non ci siano reclami. Teresa si inginocchiò, abbassò le palpebre, pianse. Tutto da quel momento sarebbe cambiato.

Nella modesta camera riservata agli sposi dal suocero convivente, vi era un grande letto o almeno lei ebbe questa impressione. Guido si spogliò e si mosse verso Teresa che aveva ancora il velo, sotto il quale si potevano scorgere gli occhi intimoriti e le labbra tremanti. Le loro mani si toccarono. Teresa ebbe un sussulto. Il passato, le ingiurie subite si fecero spazio nella sua mente, rivide lo zio, il sudiciume, la vergogna e la paura di essere martoriata. Uscì e si precipitò dentro un armadio disperata perché ora era diverso, un uomo autorizzato dal matrimonio l’aveva rubata e rinchiusa in una prigione. Guido era furioso, gli venne il sangue alla testa, le sue vene si gonfiarono al punto da rendere il collo un insieme di rigagnoli neri. La prese per un braccio e la tirò fuori. La spinse bruscamente. Teresa urlava come se fosse al mattatoio. Si divincolava, ma la sua forza non fu sufficiente a respingere quella valanga che stava sopra di lei. All’alba, con l’abito da sposa sporco, si mosse verso lo specchio limpido e freddo, il volto era tumefatto.

Guido, come sempre, si recò nei campi di buonora. Le mucche trainavano faticosamente il carro su cui erano appoggiati gli attrezzi necessari per la raccolta dell’uva. Il vigneto distava un chilometro dal paese e copriva tutto il versante di una collina morenica, un regalo della natura. Ai lati dei filari le siepi si inerpicavano senza una regola: una ragnatela di pioppi, castagni, larici intrecciati in un groviglio che tentava di assumere una forma che ancora non c’era. Di fronte a tanta bellezza sarebbe stato impossibile non commuoversi, non per Guido che era concentrato sulla vendemmia di una distesa di grappoli rosso rubino. La cantina si sarebbe presto riempita di botti e poi di bottiglie ansimanti dalla brama di essere riempite e di spargere l’aroma fruttato nei bar e nelle locande della zona. Verso il vespro, il campanile assolveva con precisione il compito di scandire il ritmo millenario che tutti i contadini attendevano con la testa abbassata, arsi dal caldo e dalla falce e bruciati dal freddo. Guido da lontano scrutava con orgoglio la casa, la sua casa, quella che aveva edificato mattone su mattone e dove sarebbero cresciuti i suoi figli. Una collera improvvisa e prepotente verso Teresa lo fece sbottare. “Doveva capitare a me una stupida, stupida, stupida! Ma non l’avrà vinta!”

Teresa rimase incinta e cominciò a gonfiarsi, illudendosi di poter trovare una briciola di felicità. Nacque una bambina, un batuffolo che le diede la forza di accettare tutto, persino le nerbate, all’ombra di un sole per lei pallido inverno ed estate. Le sussurrava all’orecchio: “Gioia mia, non seguirai le mie orme, tu avrai un passo diverso e nessuno ti potrà fermare”. Invece non la vide crescere né sbocciare. Morì all’età di due anni, sotto i colpi di una polmonite fulminante. Al funerale poche persone, quelle poche che erano in grado di capire un sentimento così profondo come dover sganciare le corde della bara in cui avrebbe riposato per sempre l’innocenza. “Vorrei incontrare un venditore di libertà che mi aiuti a scivolare via”. Bisbigliò Teresa. “Non c’è, non esiste. Noi siamo state condannate senza appello. Sai cosa ti succederà? Sarai umiliata e pestata ogni santo giorno. Cerca di avere altri figli, forse loro ti salveranno”. Era la sua vicina, un’anziana signora, dolce e comprensiva che si muoveva dondolando come fanno gli storpi. “Anche tua suocera è venuta a mancare molto giovane”. “Nessuno in casa parla di lei e della sua morte”. “Fu recuperata dai Carabinieri in un fosso, respirava ancora, ma il suo era un sospiro insieme ad un lamento. Il suo spirito non era più ancorato alla terra, stava salendo verso il cielo al cospetto di Dio. Aveva rinunciato a combattere, perdendosi nei meandri dello sconforto e dell’amarezza”. Guido percorse velocemente la distanza tra lui e Teresa. “Hai chiacchierato abbastanza, muoviti”. “Vorrei restare ancora un po’ qui con la mia creatura”. “Non fare tante storie. Se è morta è a causa tua”. “Mia? Cosa avrei fatto?” “Il problema è che cosa non hai fatto”. Guido Aveva il cuore straziato perciò era stato ingiusto, ma con chi poteva prendersela? Teresa era lì, in quel cimitero, pieno di rimpianti e dispiaceri, tra gente che si è conosciuta e che è morta.

Per un po’ Guido la lasciò in pace, non perché avesse compassione per lei, ma perché era sconvolto da quello che era accaduto. Teresa passò le settimane seguenti in lacrime, mentre tutto scorreva monotono e ripetitivo. Era sfinita dalla spietata consapevolezza di essere ormai in fondo al pozzo.

Un sera si recò nella piazza del paese. Affascinata dal fruscio, ora calmo ora vivace, dei rami secchi sbatacchiati sulla strada dalla brezza novembrina che annunciava la pioggia, non si rese conto che aveva fatto tardi, troppo tardi. “Dove sei stata sgualdrina”. “Ho fatto una passeggiata”. “Le mogli per bene non escono da sole”. Guido si tolse la cinghia dei pantaloni e le diede una lezione esemplare. Si fermò solo quando la pelle si trasformò in ferite sanguinolente. Non servì a nulla, Teresa continuò ad uscire.

La neve, che aveva coperto la campagna, e gli alberi spogli e ghiacciati dipingevano un paesaggio fiabesco in cui cantare e brindare al nuovo anno. Quello sarebbe stato l’ultimo inverno dai Pascal. Erano trascorsi quattro anni dal matrimonio. Un martedì di febbraio fu condotta dal medico di famiglia, interpellato da Guido per una visita. La sentenza fu presto emessa, visti i comportamenti non consoni al ruolo di moglie, il manicomio avrebbe curato le sue devianze.

Si presentò a marzo, i bucaneve avevano invaso i campi che si stavano tingendo di verde. Aveva con sé un misero bagaglio. Lo psichiatra ebbe con lei una breve conversazione. Fu sufficiente per fargli scrivere la diagnosi: “Donna particolarmente silenziosa con atteggiamento ribelle”. Gli assistenti di turno la scortarono lungo un interminabile corridoio. “Dove mi portate?” “Prima di tutto ti dobbiamo lavare e rasare i capelli, poi andremo nella camerata dove resterai fino a che non ti sarà consentito passeggiare in giardino”. La lavarono con uno spruzzo che le avrebbe segnato la pelle, un’altra degente le tagliò i capelli. Non le lasciarono nulla, nemmeno l’anello nuziale. Tutti i suoi oggetti furono depositati in uno stanzone lurido pieno di valigie, abiti, occhiali. Era entrata nella discarica degli esseri umani. Vite inutili, ripudiate. Si sedette sopra un materasso sfondato nella parte centrale. I muri scrostati gridavano lo strazio e la sofferenza. “Sei arrivata oggi?” Si girò lentamente. Vide una ragazza che indossava un camicione stretto al punto da non potersi alzare. “Sì”. “Perché sei qui?” “Di preciso non lo so. Probabilmente perché non sono stata una brava moglie. E tu?” “Ho tradito mio marito”. “Hai figli?” “Sì due, un maschio e una femmina. E tu?” “Mia figlia è morta a due anni”.

Non avevano la forza per raccontare altro. Alle 20:00 la ragazza fu trasferita, mentre un carrello sudicio trasportava le pastiglie da somministrare con una puntualità da clessidra.

Teresa, dopo 60 giorni di terapia, era così intontita da non essere in grado di distinguere il giorno dalla notte. Spesso cadeva o si accasciava, e faceva i bisogni dove dormiva. L’infermiera per punizione la legava al letto sopra i suoi escrementi, ripetendole un ritornello minaccioso: “Stai attenta, prima o poi finirai nel reparto Inquiete”. Quando Teresa avvertiva l’odore acre del tabacco del direttore, aveva la sensazione di essere pungolata da duri stiletti mentre i brividi le scuotevano la schiena. Era il momento del rimprovero. Inesorabilmente veniva apostrofata con un tono perentorio: “Mi riferiscono che non ti comporti bene. Vedrai che quando smetterai, tutto andrà meglio”. Poi le scarpe nere si dirigevano, come al solito, verso le infermiere, alle quali dava istruzioni.

“Noi dobbiamo combattere per la sopravvivenza, fare tutto quello che ci chiedono, tacere e obbedire”. Accanto a lei, una magra e pallida figura, ricoverata da vent’anni, le mise una mano sulla fronte. Teresa tacque. Quel silenzio fu interrotto da un singhiozzo che le soffocò un urlo. “Se finisci nel reparto Inquiete difficilmente rivedrai il Sole”. “Che cosa succede lì dentro?” “Quel reparto è di fatto l’anticamera per l’elettroshock. Si tratta di uno stanzone in cui siamo nude e dove non ci sono servizi igienici, dobbiamo fare tutto lì dentro. Spesso, in preda ad una sorta di raptus improvviso, qualcuna diventa aggressiva e morsica le altre”. “Ci sei stata anche tu?”. “Sì, ma io sono stata fortunata perché sono ritornata indietro in fretta. Lo psichiatra ha preteso che avessi rapporti sessuali con lui. Questo è il prezzo che ho pagato”. Teresa deglutì la poca saliva che le era rimasta in bocca. “Hai mai tentato la fuga?” “Sì, per questo sono finita tra le inquiete”. “Come hanno fatto a prenderti?” “Delle persone molto zelanti mi hanno catturata e riconsegnata come un oggetto di nessuna importanza. Anzi sarebbe meglio dire che mi hanno trattato al pari di un arnese da riporre nel posto assegnato. Il manicomio è un buco nero che nasconde una umanità anomala, indecifrabile, che incute paura”.

DUE ANNI DOPO

Il manicomio era sempre lo stesso, affollato di esistenze invocanti pietà, colpevoli di essere nate. Teresa ebbe finalmente il permesso di uscire in cortile. Questo era un privilegio per chi si sottometteva alle regole di una istituzione sanitaria il cui compito era quello di creare una barriera invalicabile tra dentro e fuori, annientando identità fragili e disagiate, e dove la memoria diventava dimenticanza e le ricoverate erano inerti ed inermi di fronte ad infermieri e medici che abusavano di loro in mille maniere. Il cortile dava sulla strada principale dove macchine variopinte sfrecciavano verso l’orizzonte incuranti di quell’ospedale diroccato, difeso da una rete molto robusta su cui era intrecciato del filo spinato. Il terreno metteva in mostra tutta la sua trascuratezza: chiazze d’erba qua e là tra i sassolini consumati dal continuo calpestio. Intorno all’unico albero dalla folta chioma il solco si faceva più evidente. Qualcuna vi girava intorno. Era un modo per far passare il tempo in una struttura in cui il tempo non esisteva. Anche Teresa si trovò dietro le altre, cantando “Ninna nanna ninna oh, questa bimba a chi la do…”, tentando così di rievocare il suo vissuto, ma la nebbia, che si era impadronita di lei, la confondeva.

DIECI ANNI DOPO

Teresa aveva familiarizzato con una giovane ragazza, Maria, che trattava come se fosse sua figlia e che era stata internata dal padre dopo che si era tagliata le vene. “Perché lo hai fatto?” “Ero stanca di farmi massacrare di botte”. Dopo il primo tentativo di fuga fu sottoposta al mezzo di correzione denominato Benda. Le posero un pezzo di stoffa sulla testa e la faccia, lo strinsero, le tirarono addosso acqua ghiacciata. Maria non si scoraggiò. Elaborò un piano rocambolesco, ma che avrebbe avuto qualche possibilità di riuscita. Fu tradita da una paziente per un pezzo di carne. Così fu curata con l’elettroshock. La riportarono nella camerata in coma. Teresa le baciò una guancia. “Signore del cielo, cosa le hanno fatto?” Maria rimase in quello stato per ore. Quando si svegliò, era confusa, aveva perso il senso dell’orientamento e la memoria. Le avevano bruciato il cervello. Ora Teresa avrebbe dovuto essere forte per due. “Dio vi maledica!”

VENT’ANNI DOPO

Teresa fu convocata dal Direttore del manicomio. “Questa è la tua lettera di dimissione. Domani te ne potrai andare”. “Dove? Da chi? E poi chi si prenderà cura di Maria. Chi?” Pensò. “Dovresti essere felice, invece mi pare di scorgere delusione”. “Mi scusi, è che sono stupita”. Un infermiere le diede una pacca sulla spalla per incoraggiarla. Nel corridoio che collegava l’ufficio al padiglione femminile vi era una vetrata. D’impulso si bloccò davanti alla sua figura riflessa e si guardò. Non riconobbe se stessa. Aveva i capelli secchi ed increspati, era imbruttita, sporca, il cencio che indossava era diventato grigio scuro. Teresa assomigliava ai lupi spelacchiati al termine del loro viaggio su questa terra.

“Povera Maria, vogliono che me ne vada. Ma io senza di te non andrò da nessuna parte”. Dopo la mezzanotte annodò delle strisce di tela ricavate dagli stracci da cui erano coperte. Trascinò Maria, ormai senza una parvenza di vita se non vegetale, nei bagni. Posizionò con attenzione le due rudimentali corde. Le trovarono appese. Oscillavano sotto il Sole che faceva trapelare i suoi raggi dalla finestrella. Pareva che le volesse accarezzare.

GIORNALE LOCALE

Trafiletto di cronaca a pagina venti

“Tragedia al manicomio”: due pazienti impiccate. Le dichiarazioni del Direttore e la dinamica dell’accaduto, ricostruita dalle forze dell’ordine, hanno dimostrato che è stata la pazza crudeltà di una delle due a spingerla al gesto estremo di uccidere e di uccidersi. Nessuno ha reclamato i loro corpi. Le spoglie delle due donne sono state sepolte fuori dal cimitero.

premio ELENCO COMPLETO #sociale

 
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from mydiary, I am Shiva

Pensieri a caso:

Ieri Bitcoin ha raggiunto i tanto attesi 100k, ho sempre creduto che fosse una questione di tempo.

L'inverno mi rende vuoto, mi passa la voglia di fare, i sogni e le speranze vengono rimandati ad una primavera futura, che non verrà perche dalla primavera comincio a lavorare.... Io lavoro nella bella stagione e vado in letargo nell'inverno. E' fisiologico che l'inverno col suo maltempo e le sue giornate corte porti tutti gli animali a rintanarsi al sicuro, rallentare, proteggersi e tenere le energie pronte per quando sarà il tempo; ma nel mio caso quelle energie mi serviranno per lavorare e non per vivere. Odio essere di basso morale, ma a me manca divertirmi, ho un sacco di tempo libero, ma in inverno non so come usarlo se non dentro casa; e dentro casa non mi sento così vitale! Non svernerò ai tropici, o almeno non fintanto che mio figlio non cresca un po...

Ho cominciato da pochi giorni Hogwarts Legacy su ps4: ecco come passo gli inverni LOL! Bel gioco, sopratutto bell'ambient!

Ho sempre trovato una correlazione tra lo sviluppo socio-economico di un paese con la sua latitudine: i paesi che hanno un lungo inverno sono tendenzialmente piu ben organizzati rispetto ai paesi con un clima favorevole, questo me lo spiego con due semplici congetture: 1. Nella storia di un popolo stabilizzato in ambiente con lungo inverno, solo chi era ben organizzato per superare il lungo inverno sopravviveva alla primavera successiva con abbastanza energie per prosperare e riprodursi; chi invece non riusciva ad organizzarsi con abbastanza risorse moriva e non generava prole, indi per cui solo coloro che sopravvivevano con un metodo organizzativo efficente trasmettevano quel sistema alle generazioni future che continuando ad utilizzarlo potevano prosperare 2. Nei paesi con clima favorevole invece, questo meccanismo non era necessario, perche le risorse essenziali erano sempre disponibili: cibo da vegetazione spontanea o di semplice coltivazione, mari pescosi, fauna abbondante, la non necessita di ripararsi da forti intemperie: si, ogni tanto le forti piogge potevano causare allagamenti, ma era solo questione di attendere e ricostruire; nell'attesa nessuno sarebbe morto di fame o di freddo. Questa mia semplice osservazione spiega il perchè oggi giorno vediamo che i popoli che si trovano nella fascia tra il tropico del cancro e il tropico del capricorno siano tendenzialmente civiltà poco sviluppo in infrastrutture ed organizzazione socio-economica. Questa cosa probabilmente cambierà nel futuro, anche in conseguenza alla forte globalizzazione dell'ultimo secolo, e alo sviluppo di intenret. Comunque sia, io credo che l'eesere umano viva piu felice in un'ambiente con una temperatura compresa tra i 22° e i 28°; o almeno questo vale per me.

 
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