Transit

Cisgiordania

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L’attuale quadro in Medio Oriente, tra Striscia di #Gaza e #Cisgiordania, continua a smentire nei fatti la narrativa di una tregua solida e orientata alla pace. Nelle ultime settimane, mentre le autorità israeliane e statunitensi insistono sulla “fragilità”, ma ancora tenuta del cessate il fuoco, le operazioni militari israeliane in Cisgiordania e il perdurare dell’emergenza umanitaria a Gaza mostrano la distanza tra il linguaggio diplomatico e la realtà sul terreno. Organizzazioni per i diritti umani e osservatori indipendenti hanno parlato di una tregua “solo sulla carta”, che non ha interrotto il ciclo di violenza contro la popolazione palestinese.​

A Gaza, il cessate il fuoco entrato in vigore nell’ottobre 2025 è stato più volte “messo alla prova” da raid israeliani giustificati come risposta a presunti attacchi di #Hamas, con decine di morti palestinesi anche dopo la proclamazione della tregua. Alcuni resoconti parlano di oltre 200 palestinesi uccisi nella Striscia dopo l’accordo di cessate il fuoco, a conferma del carattere estremamente fragile e unilaterale della tregua.

Nel frattempo, le condizioni di vita della popolazione restano drammatiche: la stragrande maggioranza degli oltre due milioni di abitanti è sfollata o senza casa, esposta a fame, malattie e mancanza di accesso ai servizi essenziali, in continuità con una crisi umanitaria aggravata da 18 anni di blocco israeliano.​

Le organizzazioni umanitarie sul terreno, tra cui “Emergency”, “WeWorld“ e altre ONG internazionali, descrivono campi sovraffollati, mancanza di acqua potabile, elettricità e cure mediche adeguate, con l’arrivo delle piogge invernali che trasforma le aree di accampamento in distese di fango e rifiuti. I rapporti parlano di accesso agli aiuti ostacolato dalle autorità israeliane e di un sistema di “evacuazioni” che comprime la popolazione in aree sempre più ristrette, priva di infrastrutture vitali.

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In questo contesto, la tregua appare come un dispositivo che congela l’assedio e ne normalizza gli effetti devastanti, piuttosto che come un passo verso la fine delle ostilità.​ Nella Cisgiordania occupata, tra fine novembre e oggi si è registrata una ulteriore intensificazione delle operazioni israeliane nel nord del territorio, in particolare nelle aree di Tubas, Tammun, Aqaba e Jenin.

Le IDF, affiancate dallo Shin Bet, hanno lanciato maxi-operazioni “antiterrorismo” con irruzioni notturne nelle abitazioni, arresti mirati, blocchi stradali, uso di bulldozer per isolare interi quartieri e il dispiegamento di mezzi corazzati ed elicotteri. Secondo fonti militari israeliane, tali azioni mirano a “decapitare le cellule terroristiche” nel nord della Cisgiordania, ma le conseguenze pratiche sono un ulteriore irrigidimento del regime di occupazione e la compressione degli spazi di vita per la popolazione palestinese.​

Queste operazioni si inseriscono in un quadro più ampio di consolidamento del controllo israeliano sulla Cisgiordania, che comprende l’espansione delle colonie, la frammentazione territoriale e l’avanzamento di proposte legislative di annessione formale delle aree occupate. Analisi giornalistiche hanno parlato di “nessun ritiro” e di un processo di annessione strisciante, in cui la presenza militare e dei coloni prepara il terreno alla cancellazione di fatto della prospettiva di uno Stato palestinese contiguo.

La quotidianità palestinese è così segnata da check-point, incursioni armate e violenza dei coloni, in un contesto che molte organizzazioni definiscono di apartheid e pulizia etnica lenta.​

Gli Stati Uniti continuano a presentare il piano del presidente #Trump come architettura di riferimento per la tregua e il processo politico, la cui “prima fase” ha costituito la base dell’accordo di cessate il fuoco del 9 ottobre. Tale piano prevede, nelle fasi successive, il progressivo ritiro israeliano verso la cosiddetta “Linea Gialla”, l’istituzione di un’autorità di transizione per governare Gaza, il dispiegamento di una forza di sicurezza multinazionale e l’avvio della ricostruzione. Importanti organizzazioni per i diritti umani hanno sottolineato come l’accordo non affronti le cause strutturali del conflitto (blocco, occupazione, impunità) e rischi di consolidare uno status quo di subordinazione palestinese.​

Il Consiglio di Sicurezza dell’ #ONU ha approvato a novembre 2025 una risoluzione su Gaza che, secondo il “Centro diritti umani” dell’Università di Padova, rappresenta un “piano di guerra e non di pace”, poiché trasferisce poteri essenziali a un nuovo “Board of Peace” guidato dagli Stati Uniti, svuotando di fatto il ruolo dell’Onu in materia di pace e sicurezza internazionale. L’Unione Europea, pur ribadendo nei suoi documenti il sostegno alla soluzione a due Stati e la necessità di preservare la tregua, continua a limitarsi a dichiarazioni e richiami al diritto internazionale, senza dotarsi di strumenti coercitivi efficaci per contrastare l’espansione militare e coloniale israeliana.

Ne deriva una asimmetria di potere in cui gli Stati Uniti dettano la cornice del processo, mentre l’UE rimane un attore essenzialmente reattivo e marginale.​ Appare sempre più evidente che la tregua ufficiale funzioni principalmente come cornice retorica dietro cui Israele continua a perseguire, con mezzi militari, politici ed economici, un piano di lungo periodo di disarticolazione del tessuto sociale palestinese.

Le offensive “mirate” in Cisgiordania, l’assedio strutturale di Gaza, l’ostacolo sistematico agli aiuti umanitari e l’assenza di reali garanzie internazionali configurano un processo di distruzione progressiva delle condizioni di esistenza del popolo palestinese, sotto l’ombrello di un cessate il fuoco che non interrompe, ma piuttosto normalizza, la violenza strutturale.

La tregua non rappresenta un passo verso la pace, bensì uno strumento di gestione del conflitto che consente a Israele di avanzare nel proprio progetto coloniale e di annessione, mentre la comunità internazionale, tra complicità e inerzia, assiste all’erosione ulteriore dei diritti e della stessa possibilità di autodeterminazione palestinese.​

#Medioriente #Gaza #Israele #Peace #Blog #Opinioni

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La posizione del primo ministro israeliano Benjamin #Netanyahu e dei suoi governi rispetto alla nascita di uno stato palestinese è stata storicamente e sistematicamente di netta opposizione. Tale linea, consolidata nel corso di più mandati, si fonda su motivazioni di sicurezza, strategie politiche interne e supporto di alleati significativi come gli #USA, con uno specifico ruolo anche dell'Unione Europea, specialmente negli ultimi anni di conflitto e nella fragile tregua in atto.​

Netanyahu si è sempre opposto in modo esplicito alla nascita di uno stato palestinese, sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, sostenendo che la creazione di tale entità comporterebbe gravi rischi per la sicurezza di Israele e porterebbe il territorio sotto l'influenza di Hamas e di altri gruppi considerati terroristici.

Nel corso dei decenni, il leader israeliano ha argomentato che l’origine del conflitto non dipende dall’assenza di uno stato palestinese, ma dall’opposizione all’esistenza stessa di Israele da parte di diverse parti palestinesi e arabe. Tale convinzione ha portato Netanyahu a promuovere politiche di isolamento dell’Autorità Nazionale Palestinese e al rafforzamento di Hamas a Gaza per mantenere la divisione tra i palestinesi: “Chi desidera ostacolare la nascita di uno stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di #Hamas”, ha dichiarato in riunioni di partito.​

A partire dal ritorno alla guida di #Israele nel dicembre 2022, il governo Netanyahu ha accentuato la sua opposizione a qualsiasi riconoscimento unilaterale di uno stato palestinese. Nel 2024, la Knesset ha votato formalmente contro la nascita di uno stato palestinese, definendo l’eventuale riconoscimento “un regalo al terrorismo”. Il primo ministro ha ottenuto il sostegno sia dai partiti di destra che da quelli centristi, consolidando una linea che respinge apertamente ogni diktat internazionale su tale questione. Parallelamente, sono state accelerate le operazioni militari a Gaza e l’espansione degli insediamenti in #Cisgiordania, rallentando o impedendo ogni serio negoziato di pace.​

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Gli Stati Uniti hanno storicamente sostenuto Israele anche rispetto al veto posto contro il riconoscimento di uno stato palestinese presso le Nazioni Unite. Nell’ultimo conflitto a #Gaza, Washington ha ripetutamente bloccato con il proprio veto risoluzioni ONU che chiedevano l’arresto delle ostilità e l’apertura agli aiuti umanitari, dichiarando che tali pressioni pianificate “indebolirebbero la sicurezza israeliana e rafforzerebbero Hamas”.

Tuttavia, segnali recenti indicano un leggero cambiamento: una parte del Congresso USA ha iniziato a proporre la risoluzione per il riconoscimento dello Stato palestinese, seppur senza concreto esito. La tregua attuale rimane estremamente fragile e subordinata alle dinamiche interne israeliane e alle pressioni internazionali, con il governo di Netanyahu che continua a minare la stabilità e i processi negoziali.​

L’Unione Europea si è mostrata maggiormente incline a sostenere la “soluzione a due stati”, criticando apertamente la politica israeliana contemporanea. Tuttavia, la reale capacità d’influenza della #UE sulle scelte del governo israeliano rimane marginale, sia per le profonde divergenze interne alla stessa Europa che per il peso geopolitico degli Stati Uniti nelle politiche israeliane. La posizione della UE si limita spesso a dichiarazioni di principio e pressioni diplomatiche, risultando poco efficace nel condizionare gli sviluppi concreti sul campo.​

L’opposizione di Netanyahu e del suo governo alla creazione di uno stato palestinese appare più radicata che mai nel contesto attuale. Le strategie di divisione interpalestinese, la retorica sulla sicurezza e la gestione della crisi di Gaza sono pilastri di questa immunità ai cambiamenti internazionali. Gli apparati di potere statunitensi e, in misura minore, europei, nonostante alcuni segnali di evoluzione, continuano a garantire una protezione diplomatica che rende difficile qualunque concreta attuazione della “soluzione a due stati”. #Israele vuole essere l’unico stato nella Palestina. Lo dice con le armi e la distruzione di ogni ragionevole ipotesi contraria.

#Blog #Israele #Palestina #USA #UE #Opinioni #Medioriente

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L’inchiesta di Ronen Bergman e Mark Mazzetti, pubblicata nel 2024 sul “New York Magazine” ed ora tradotta da “Internazionale” per la sua nuova collana “Extra Large”, è una documentazione profonda e drammatica dell’impunità dei coloni israeliani nella Cisgiordania occupata. Partendo da un contesto storico che risale al 1967, anno in cui Israele occupò militarmente la Cisgiordania dopo la “Guerra dei sei giorni”, la colonizzazione si è sviluppata come un progetto sostenuto da ideologie nazionaliste e da una politica statale che ha favorito gli insediamenti di coloni ebrei, oggi circa 700mila nella regione. Questi insediamenti sono considerati illegali dal diritto internazionale e spesso anche dalla legge israeliana stessa.

Secondo gli autori, il quadro che emerge è quello di una violenza dei coloni contro i palestinesi che avviene in un clima di quasi totale impunità. Gli atti violenti, dalle aggressioni fisiche agli attacchi incendiari, raramente vengono perseguiti dalle autorità israeliane. L’inchiesta racconta la storia del villaggio di Khirbet Zanuta, dove dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, l’escalation di violenze dei coloni è degenerata senza alcun intervento efficace delle forze di sicurezza israeliane nonostante ripetute richieste di aiuto.

È emerso come funzionari di alto livello, tra cui il ministro dell’Amministrazione della Cisgiordania Bezalel Smotrich, abbiano attivamente ostacolato l’applicazione della legge contro l’espansione illegale degli insediamenti e la violenza dei coloni.

Una fonte militare israeliana ha dichiarato che «gli sforzi per reprimere la costruzione di insediamenti illegali si sono ridotti fino a scomparire», mentre gruppi per i diritti umani israeliani hanno evidenziato che solo il 3% dei casi di violenza dei coloni tra il 2005 e il 2023 ha portato a una condanna. Ami Ayalon, ex capo dello “Shin Bet”, ha sottolineato che “...il primo ministro e il gabinetto fanno capire che se viene ucciso un ebreo è una cosa terribile, mentre se viene ucciso un arabo non è la fine del mondo.”

Questa disparità di trattamento ha contribuito a cementare un sistema di due giustizie: una per i coloni e un’altra per i palestinesi. L’inchiesta rivela anche come la complicità tra coloni e Stato israeliano, alimentata da indugi politici e da un’ideologia radicale, stia minando non solo i diritti dei palestinesi ma anche le basi della democrazia israeliana stessa, consegnando la Cisgiordania a un ciclo di violenza e ingiustizia senza fine. Questa analisi mette a nudo una realtà in cui “coloni violenti e Stato sono diventati “una cosa sola”, sottolineando come l’impunità sia il cemento di un’occupazione violenta e continua, nonostante tutto questo sia stato dichiarato illegale nel diritto internazionale. La solita, ammessa e protetta protervia di Israele.

Nota: per acquistare l’inchiesta in formato e-book o cartaceo, potete andare sul sito di “Internazionale”: https://www.internazionale.it/

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