📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo XI – L’ufficio notturno nelle Domeniche

Ora della levata di domenica 1 Per l’Ufficio vigilare della domenica ci si alzi un po’ prima.

I tre “notturni” dell'Ufficio domenicale 2 Anche in questo caso si osservi un determinato ordine, cioè, dopo aver cantato sei salmi come abbiamo stabilito sopra ed essersi seduti tutti ordinatamente ai propri posti, si leggano sul lezionario quattro lezioni con i relativi responsori, secondo quanto abbiamo già detto; 3 solo al quarto responsorio il cantore intoni il Gloria e allora tutti si alzino subito in piedi con riverenza. 4 A queste lezioni seguano per ordine altri sei salmi con le antifone come i precedenti e il versetto. 5 Quindi si leggano di nuovo altre quattro lezioni con i propri responsori, secondo le norme precedenti. 6 Poi si recitino tre cantici, tratti dai libri dei Profeti a scelta dell’abate, che si devono cantare con l’Alleluia. 7 Detto quindi il versetto, con la benedizione dell’abate si leggano altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo già indicato. 8 Dopo il quarto responsorio l’abate intoni l’inno Te Deum laudamus, 9 finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, mentre tutti stanno in piedi con la massima reverenza. 10. Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l’abate prosegua immediatamente con l’inno Te decet laus e, recitata la preghiera di benedizione, si incomincino le lodi.

Prescrizioni in caso di ritardo 11 Quest’ordine dell’Ufficio vigiliare della domenica dev’essere mantenuto in ogni stagione, tanto d’estate che d’inverno, 12 salvo il caso deprecabile in cui i monaci si alzassero più tardi, nella quale circostanza bisognerà abbreviare le lezioni e i responsori. 13 Si stia però bene attenti che ciò non avvenga; ma se dovesse accadere, il responsabile di una simile negligenza ne faccia in coro degna riparazione a Dio. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

1: Ora della levata di domenica L'insieme del monachesimo occidentale nel V e VI secolo ha praticato la vera vigilia (le grandi “vigiliae” con salmi e letture che duravano quasi tutta la notte) ogni settimana. In RB e nell'ufficio romano questa vigilia lunga è scomparsa e al suo posto rimane l'ufficio notturno allungato. Si può vedere in questo fatto una mitigazione della RB, ma anche la soluzione di alcune difficoltà di orario incontrate da altre regole che ritenevano le vigilie complete (in Francia il sabato e la domenica, in Italia solo la domenica); infatti molte regole parlano di espedienti contro i sonnolenti, S. Cesario, ad esempio, obbliga i monaci a rimanere in piedi o a fare qualche lavoro durante le letture per vincere il sonno, ecc. Allora, la riforma radicale di SB (l'abolizione della veglia completa) non è un rilassamento ma un modo pratico per risolvere il problema: è meglio, cioè, dormire e riposare la prima parte della notte e vegliare poi nella preghiera e nella meditazione della Parola di Dio; si perde quindi di durata, ma si guadagna di intensità; e anche la lectio divina del giorno di domenica a cui SB dà molto più tempo (RB 48,22) ne risulterà avvantaggiata. Abbiamo qui un esempio in più del primato spirituale sopra l'ascesi solo materiale. Nonostante sia stata abolita la pratica della vigilia nel senso originale, il nome è restato (25 volte in RB, come nel titolo di questo capitolo), ma ormai solo nel senso di Ufficio notturno, come appunto quello di “notturno”.

2-10: Composizione dei tre “notturni” dell'Ufficio domenicale L'Ufficio notturno domenicale è un ampliamento di quello feriale; rimane invariato il numero dei dodici salmi, ma ci sono dodici lezioni con altrettanti responsori prolissi; il terzo notturno ha una struttura particolare, essendo composto di tre cantici dell'AT con alcuni elementi nuovi: “Te Deum”, “Amen” dopo il Vangelo, “Te decet laus”. Il vangelo proclamato dall'abate alla vigilia domenicale era, molto probabilmente, uno riguardante la risurrezione del Signore. Un Ufficio così ricco e vario occupava evidentemente buona parte della notte e comportava non poca fatica. Per celebrarlo con dignità la comunità doveva alzarsi molto prima degli altri giorni e d'estate il sono era ridotto veramente a poco. Quindi, nonostante l'abolizione della vigilia in quanto tale, abbiamo un ufficio notturno con una ampiezza e una solennità degne della commemorazione settimanale della risurrezione del Signore.

11-13: Prescrizioni in caso di ritardo Alzarsi tardi poteva più facilmente capitare in quei tempi, perché mancavano gli orologi a suoneria. Mentre per il giorno avevano la clessidra, la meridiana, l'orologio idraulico e altri strumenti, la difficoltà era grandissima per la notte. Usavano vari espedienti, come per esempio il consumo di una candela, ma più spesso dovevano affidarsi al corso delle stelle o al canto del gallo; per tutti era necessaria una speciale attitudine a vegliare. Ma la negligenza, la distrazione, la sonnolenza entravano a volte in causa: SB ribadisce che tale disordine deve assolutamente evitarsi; troppa riverenza merita l'Opera di Dio perché si debba abbreviare a causa di un ritardo nella sveglia. Si noti che l'abbreviazione, in caso, riguarderà letture e responsori, mai il “sacro” numero dei dodici salmi!

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo X – L’ufficio notturno dell’estate

1 Da Pasqua fino al principio di novembre si mantenga lo stesso numero di salmi, che è stato prescritto sopra; 2 eccetto che, a causa della brevità delle notti, non si leggano le lezioni dal lezionario, ma, invece di tre, se ne reciti a memoria una sola dell’antico Testamento; 3 tutto il resto si svolga, come è già stato prescritto, cioè nell’Ufficio vigiliare non si dicano mai meno di dodici salmi, senza contare i salmi 3 e 94.

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Approfondimenti

Il capitolo precedente parlava della preghiera notturna d'inverno. Nel semestre estivo – da Pasqua a novembre – le notti sono corte; per poter celebrare le lodi mattutine all'alba, si deve anticipare la sveglia e sopprimere il tempo per lo studio dopo l'Ufficio notturno (RB 8,4).

Il sonno è accorciato di parecchio; per non restringerlo troppo, si abbrevia un po' anche l'Ufficio notturno; ma si deve mantenere il sacrosanto numero di dodici salmi: allora si sopprimono le lezioni, riducendole a una sola, a memoria, quindi breve, e seguita da un responsorio breve.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo IX – I salmi dell’ufficio notturno

Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno) 1 Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il versetto: «Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode», 2 a cui si aggiunga il salmo 3 con il Gloria; 3 dopo di questo il salmo 94 cantato con l’antifona oppure lentamente. 4 Quindi segua l’inno e poi sei salmi con le antifone, 5 finiti i quali e detto il versetto, l’abate dia la benedizione e, mentre tutti stanno seduti ai rispettivi posti, i fratelli leggano a turno dal lezionario posto sul leggio tre lezioni, intercalate da responsori cantati. 6 Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il cantore lo intoni 7 e allora tutti subito si alzino in piedi per l’onore e la riverenza dovuti alla Santa Trinità. 8 Quanto ai libri da leggere nell’Ufficio vigilare, siano tutti di autorità divina, sia dell’antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica.

Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno) 9 Dopo queste tre lezioni con i rispettivi responsori, seguano gli altri sei salmi da cantare con l’Alleluia 10 e dopo questi una lezione tratta dalle lettere di S. Paolo, da recitarsi a memoria, il versetto, la prece litanica, cioè il Kyrie eleison, 11 e così si metta fine all’Ufficio vigilare.

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Approfondimenti

1-8: Prima parte dell'Ufficio (Primo Notturno) Questo capitolo parla soltanto dell'Ufficio notturno feriale, del tempo ordinario, nel periodo invernale. Si inizia con il versetto “Signore, apri le mie labbra...” (salmo 50,17), che viene ripetuto tre volte in coro, nel silenzio della notte. SB mostra una certa predilezione per queste formule ternarie sia in onore della SS.ma Trinità, sia per far penetrare più profondamente nel cuore dei monaci i concetti espressi dalle labbra. Il salmo 3 (aggiunto da SB, scelto forse a motivo del v.5: “Io mi corico e mi addormento, mi sveglio perché il Signore mi sostiene”. Il Gloria Patri, breve e popolare dossologia, molto comune al tempo della controversia ariana, è usato frequentemente da SB nel suo cursus liturgico; qui l'adopera, come alla fine di ogni salmo, secondo l'uso romano. Il salmo 94, “accompagnato dall'antifona, oppure cantato lentamente” (v.3), è quello chiamato invitatorio, molto adatto al momento sia per l'inizio “Venite, applaudiamo al Signore...”, che per il contenuto; era intercalato normalmente da un'antifona, cioè un versetto con cui il coro si univa al canto del solista o dei solisti.

Per la parola “inno” (v.4), il testo ha ambrosianum, cioè inni composti o attribuiti a S. Ambrogio. SB li introdusse sotto l'influsso della liturgia lerinese o milanese, mentre la chiesa romana li introdusse solo nel sec.XII.

Seguono i primi sei salmi con le antifone e poi un versetto. Quindi il lettore chiedeva la benedizione all'abate per leggere le letture. Si dice nel v. 5 che a questo punto i fratelli si siedono: quindi bisogna dedurre che i salmi erano recitati tutti in piedi; ciò è confermato dal fatto che SB per il Gloria dei salmi non ordina, come per i responsori (v. 7), di alzarsi. E possiamo da qui notare la discrezione di SB che colloca le letture con i responsori dopo i primi sei salmi, mentre nell'Ufficio romano e in Cassiano (Inst 2,4-6) erano alla fine dei dodici salmi: perciò le letture, durante le quali i fratelli stavano seduti, costituivano un vero riposo fisico e spirituale, a metà di un Ufficio lungo e pesante.

I responsori erano una forma di salmodia, responsoriale appunto, una specie di dialogo tra solista e coro. Si tratta qui del responsorio prolisso, abbastanza sviluppato nel testo e nella melodia, come si deduce dalla prescrizione di abbreviarli, insieme alle lezioni, qualora i monaci si fossero alzati tardi (RB 11,12); esistono poi anche i responsori brevi, a lodi e a vespro.

9-11: Seconda parte dell'Ufficio (Secondo Notturno) Si parla ora del secondo notturno, con altri sei salmi; essi hanno per antifona l'alleluia per ricordare che la vita del monaco è una vita pasquale in unione con Cristo risorto. Si intercalava l'alleluia, ma non sappiamo come e quante volte. Seguiva una lettura breve sia all'Ufficio notturno che a quello diurno.

La litania conclusiva è la “supplicatio” di origine greca introdotta a Roma sotto Gelasio I (fine del sec. V): era una serie di invocazioni a cui il popolo rispondeva sempre “Kyrie eleison”: corrispondono oggi alle invocazioni mattutine e intercessioni vespertine introdotte nella Liturgia delle Ore. Alcuni pensano che SB riservi la forma lunga con le intenzioni alle lodi e al vespro (“litania” RB 12,4; 13,11; 17,8), mentre alle Ore Minori e all'Ufficio notturno la riducesse solo all'elemento popolare Kyrie eleison.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VIII – L’ufficio divino nella notte

Levata durante l'inverno 1 Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino, 2 in modo che il sonno si prolunghi un po’ oltre la mezzanotte e tutti si possano alzare sufficientemente riposati.

Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino 3 Il tempo che rimane dopo l’Ufficio vigilare venga impiegato dai monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.

Levata d'estate 4 Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre, l’orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possono uscire per le necessità della natura, l’Ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.

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Approfondimenti

CAPITOLI 8-11 – Introduzione alla sezione sull'Opus Dei Nei testi più antichi, per “OPUS DEI” (Opera di Dio) s'intende tutta la vita spirituale del monaco o, semplicemente, la vita monastica. Poi a poco a poco il significato si restrinse a designare la vita di orazione organizzata intorno alla lettura della Parola di Dio, alla salmodia e alla preghiera silenziosa. Questo è il senso di “Opus Dei” nella RB, con particolare riferimento alla Preghiera liturgica comune, l'Ufficio Divino, o come diciamo oggi, la Liturgia delle Ore. I capitoli della RB che la prendono in considerazione sono:

  • cc.8-18 che riguardano l'ordinamento dell'Ufficio Divino,
  • cc.19-20 che riguardano il modo di pregare,
  • c.47 sulle norme per il segnale dell'ora dell'Ufficio Divino e per la disciplina in coro (appendice 1),
  • c.52 sull'oratorio del monastero (appendice 2).

Importanza dell'Ufficio Divino nella RB Al gruppo dei capitoli relativi alla dottrina ascetica segue un blocco di capitoli relativi alla preghiera. C'è da notare la loro posizione, quasi a dire che l'Opus Dei è l'occupazione principale della vita cenobitica. Nella RM, invece, il direttorio dell'Ufficio si trova nei cc.33-45, dopo l'argomento sul dormitorio e la levata.

È senza dubbio errato considerare i Benedettini come “fondati per il coro”; ma è anche certo che nella mente di SB, interpretata poi da tutta la tradizione benedettina, la liturgia costituisce l'occupazione conventuale essenziale e primaria a cui nulla deve anteporsi: “Nihil Operi Dei praeponatur” (Nulla si anteponga all'Opera di Dio – RB 43,3).

La sezione sull'Ufficio Divino è molto omogenea sia dal punto di vista dell'argomento che del vocabolario e dello stile. Vi abbondano, sotto questo aspetto, anormalità linguistiche, vocaboli e modi di dire del latino volgare, della lingua corrente del sec. VI. È probabile che tutto il blocco dei cc.8-18 formasse un fascicolo a se` che conteneva il “corpus liturgico” dei monaci prima della redazione della RB; fu poi inserito da SB nel corpo della sua Regola con alcune modifiche. Rileviamo l'importanza di questa sezione che risulta dal fatto stesso della quantità, della minuziosità con cui viene stabilita ogni parte dell'Ufficio Divino e dal posto preminente che occupa nella Regola, subito dopo la sezione dottrinale e prima della parte legislativa propriamente detta.

CAPITOLO 8 – L'Ufficio Divino della notte Passare in veglia buona parte della notte era una pratica molto comune nella Chiesa primitiva, secondo la mistica dell'“attesa dello Sposo” (cf. anche Dante, Paradiso X, 140-141: “Nell'ora che la Sposa di Dio surge a mattinar lo Sposo perché l'ami”). La vigilia domenicale, iniziata con la grande veglia pasquale, risale ai tempi apostolici. Le altre vigilie notturne cominciarono a celebrarsi in occasione delle maggiori solennità liturgiche e delle feste dei martiri locali.

Però, se i chierici e il popolo cristiano passavano in orazione alcune notti (o parte di esse), i monaci si alzavano tutte le notti sia per recarsi comunitariamente alla salmodia sia per l'orazione privata. Perciò la giornata del monaco comincia con l'ufficio notturno e da esso logicamente SB inizia le sue prescrizioni. Finora lo si è chiamato, ma impropriamente, “Mattutino”; dopo la riforma liturgica, “Ufficio delle Letture”.

1-2: Levata durante l'inverno L'Ufficio Divino – è chiaro – non poteva abbracciare tutta la notte; il corpo e lo spirito hanno necessità di riposo. È certo che le prime generazioni di monaci dominarono il sonno fino all'inverosimile. Si pensi, in occidente stesso, a S. Colombano il quale voleva che il monaco “venisse stanco al giaciglio, dormisse già mentre camminava e fosse costretto a levarsi prima ancora che cessasse il sonno”. Con il suo buon senso e con la sua discrezione, SB vuole che, “secondo una ragionevole valutazione” (v.1), i monaci si alzino riposati e a digestione compiuta. Per cui si alzavano d'inverno all'ottava ora della notte (nell'orario di SB tutto il tempo diurno e notturno veniva diviso in dodici parti uguali). Da RB 41,9 risulta che vespro e cena dovevano aver luogo con la luce del giorno: al massimo quindi i monaci andavano a letto circa un'ora dopo il tramonto, cioè verso la fine della prima ora notturna; e poiché si alzavano all'ottava ora della notte, il riposo durava sette buone ore notturne; a Natale, quando ogni ora notturna era di circa 75 minuti, il riposo raggiungeva le nostre nove ore, poi man mano si scendeva fino a un minimo di ore 6,15 nostre (quando Pasqua capitava verso il 20 aprile), ma allora forse si regolavano andando a letto un po' prima. Per tutto l'inverno, dunque, la durata del sonno oscillava tra le otto ore e mezzo e le sette ore.

3: Intervallo tra l'Ufficio notturno e quello del mattino Il sonno più che sufficiente già concesso esclude che si ritorni a letto dopo l'Ufficio notturno. SB ritarda di quasi due ore la levata rispetto a RM, ma sopprime il “secondo sonno” concesso da RM dopo l'Ufficio notturno in inverno e dopo le lodi mattutine d'estate. In questo SB dipende da Cassiano (Inst 2,13; 3,5) che criticava l'uso del “secondo sonno” allora assai diffuso. Perciò dopo l'Ufficio notturno, i monaci di SB disponevano di un tempo più o meno lungo. I fratelli che ne avevano bisogno impiegavano tale tempo nello studio del salterio e delle lezioni (sono le “letture brevi” che si recitavano a memoria come viene detto in RB.9,10 e 12,4). Nel testo originale c'è la parola “meditationi” che non si deve intendere nel senso odierno di meditazione, ma nel senso di “esercizio-esercitarsi”, che comporta insieme l'imparare a memoria e l'esercitarsi nella salmodia. E i fratelli che già sapevano il salterio a memoria, e che quindi non avevano bisogno di tale studio, cosa facevano? Certo non tornavano a letto; avranno impiegato tale tempo nella lettura o nella preghiera personale.

4: Levata d'estate Per il periodo estivo non è fissata un'ora precisa per la levata. Essa doveva essere regolata in modo tale che, tra l'Ufficio notturno e quello del mattino, ci fosse solo un piccolo intervallo. Nei mesi aprile-maggio e settembre-ottobre si hanno in media dalle 8 alle 7 ore di sonno continuo; a giugno di meno, fino a un minimo di 5 ore; ma forse si andava un po' più tardi all'Ufficio notturno (il quale d'estate e' più corto non essendoci le letture come si vedrà al c.10); la siesta prevista da SB (RB 48,5) serviva appunto a compensare il difetto del sonno notturno, specialmente nel periodo centrale.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VII – L’umiltà

Necessità dell'umiltà 1 La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: «Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». 2 Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia, 3 dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: «Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me». 4 E allora? «Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre».

La scala di Giacobbe 5 Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell’umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l’umiliazione della vita presente, 6 bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli. 7 Non c’è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l’umiltà si sale. 8 La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo; 9 noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l’anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

I dodici gradini dell'umiltà_ 10 Dunque il primo grado dell’umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione, 11 si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all’inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti. 12 In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne, 13 l’uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli. 14 È ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: «Dio scruta le reni e i cuori» 15 come pure: «Dio conosce i pensieri degli uomini». 16 Poi aggiunge: «Hai intuito di lontano i miei pensieri» 17 e infine: «Il pensiero dell’uomo sarà svelato dinanzi a te». 18 Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: «Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia». 19 Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: «Allontanati dalle tue voglie» 20 e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà. 21 Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: «Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell’inferno» 22 e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: «Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza». 23 Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: «Ogni mio desiderio sta davanti a te». 24 Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere. 25 Per questa ragione la Scrittura prescrive: «Non seguire le tue voglie». 26 Se dunque «gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi» 27 e se «il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio», 28 se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi, 29 bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e, 30 pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: «Hai fatto questo e ho taciuto».

31 Il secondo grado dell’umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri, 32 ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato». 33 Cosa che pure un antico testo afferma: «La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio».

34 Terzo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l’Apostolo dice: «Fatto obbediente fino alla morte».

35 Il quarto grado dell’umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell’esercizio dell’obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza 36 e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: «Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato». 37 E ancora: «Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore». 38 E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: «Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello». 39 Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: «E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato», 40 mentre altrove la Scrittura dice: «Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l’argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni». 41 E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: «Hai posto degli uomini sopra il nostro capo». 42 Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l’altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due, 43 come l’Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

44 Il quinto grado dell’umiltà consiste nel manifestare con un’umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell’animo o le colpe commesse in segreto, *45 secondo l’esortazione della Scrittura, che dice: «Manifesta al Signore la tua via e spera in lui». 46 E anche: «Aprite l’animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia», 47 mentre il profeta esclama: «Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa. 48 Ho detto: «confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore» e tu hai perdonato la malizia del mio cuore».

49 Il sesto grado dell’umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l’obbedienza, 50 ripetendo a se stesso con il profeta: «Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te».

51 Il settimo grado dell’umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell’esserne convinto dal profondo del cuore, 52 umiliandosi e dicendo con il profeta: «Ora io sono un verme e non un uomo, l’obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe»; 53 «Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso» 54 e ancora: «Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge».

55 L’ottavo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l’esempio dei superiori e degli anziani.

56 Il nono grado dell’umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato, 57 perché la Scrittura insegna che «nelle molte parole non manca il peccato» 58 e che «l’uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra».

59 Il decimo grado dell’umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: «Lo stolto nel ridere alza la voce».

60 L’undicesimo grado dell’umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce, 61 come sta scritto: «Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare».

62 Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore, 63 in quanto durante l’Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell’orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi; 64 e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio, 65 ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: «Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo». 66 E ancora con il profeta: «Mi sono sempre curvato e umiliato».

Epilogo 67 Una volta ascesi tutti questi gradi dell’umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore; 68 per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all’abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura; 69 in altre parole non più per timore dell’inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù. 70 Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

L'umiltà, nella RB come nella tradizione patristica e monastica anteriore, esprime un concetto completo con molti e diversi elementi, un compendio di cammino ascetico; un'ascesi che non solo sbocca alla contemplazione, ma include già in se stessa una levatura mistica di grande efficacia. Perché umiltà significa anzitutto imitazione di Cristo secondo la prospettiva paolina; cioè non solo l'imitazione esterna dell'esempio di Gesù storico, ma la comunione intima con i suoi sentimenti, la partecipazione alla “kenosis” di Colui che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”, ma preferì la nostra pochezza e miseria, e nel suo amore arrivò a dare la vita per noi sulla croce.

Lungo tutta la salita dell'umiltà avanza Cristo con il monaco, o meglio il monaco accompagna Cristo fino al profondo del suo annichilimento. I momenti più dolorosi di questo cammino di croce, tanto difficile per la nostra natura umana, rappresentano altrettante modalità dell'imitazione di Cristo. Cosi` nel 2° gradino il monaco ripete: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui...” (Gv 6,38); nel 3° obbedisce con Cristo “fattosi obbediente sino alla morte...” (Fil 2,8); nel 4° – il gradino del martirio dell'obbedienza – ripete: “Per te siamo messi a morte ogni giorno, siamo considerati come pecore da macello” (Sal 43,22). Altre frasi tremende mette SB sulla bocca del monaco umile nel 6° e 7° gradino, fino a “Io sono verme e non uomo” (Sal 21,7) di Cristo sulla croce. Siamo proprio alla più alta vetta dell'umiltà (RB 7,5). E allora precisamente il monaco arriva a quel grado di “amore di Dio che, divenuto perfetto, scaccia via il timore” (RB 7,67) e si realizza la grande trasformazione interiore per opera dello Spirito Santo; come si verificò in Cristo quando, giunto al fondo della sua “kenosis”, “proprio per questo Dio lo esaltò e gli diede un nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil.2,9).

Ecco dunque la scala dell'umiltà. Siamo partiti con il timor di Dio, siamo condotti lungo il cammino da Cristo e procediamo con Cristo e, al termine di questa pedagogia arriva lo Spirito Santo e si comincia ad operare con quella carità perfetta che scaccia il timore e si va avanti senza sforzo, naturalmente. Così, lungo la scala dell'umiltà, operano nel monaco Padre, Figlio e Spirito Santo.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo VI – L’amore del silenzio

Uso della parola in genere 1 Facciamo come dice il profeta: «Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone». 2 Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riservata al peccato! 3 Dunque l’importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto: 4 «Nelle molte parole non eviterai il peccato» 5 e altrove: «Morte e vita sono in potere della lingua».

Uso della parola nelle relazioni con i superiori 6 Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare. 7 Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Parole sconvenienti 8 Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

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Approfondimenti

Non c'è nella Bibbia una vera e propria dottrina sul silenzio, né si può parlare del silenzio come virtù o valore raccomandato; la Scrittura è piena di testi che si riferiscono a entrambe le cose: «C'è un tempo per tacere e un tempo per parlare» (Qo 3,7b). La lingua è un dono di Dio, attraverso cui gli uomini comunicano fra di loro ed esprimono a Dio i sentimenti del loro cuore. A volte è importante tenerla a freno, mentre a volte sarebbe vigliaccheria e mancanza di fedeltà tacere. Nei libri sapienziali troviamo una pedagogia per il buon uso della lingua: il saggio, a differenza dello stolto, sa meditare e pesare le sue parole. Discepoli e coltivatori di tale saggezza, i monaci cristiani fin dalla più remota antichità praticarono e insegnarono la moderazione nell'uso della parola. Tutta la tradizione (Apoftegmi, storie monastiche, regole cenobitiche, trattati spirituali, ecc...) lo testimonia; ma nessuno parla di silenzio assoluto, perché tacere sempre non è umano, però è necessario moderarsi, perché la lingua facilmente passa il limite e arriva a mormorazioni, calunnie, detrazioni, conversazioni peccaminose: parlare molto, cioè, equivale ad esporsi di più al peccato. Si tratta quindi di un silenzio ascetico.

Il silenzio poi ha grande importanza per la vita del monaco, in quanto è in funzione della quiete in Dio la “hesychia”, la tranquillità; l'accento veniva posto sopratutto sulla “ritiratezza”, sul rimanere in cella, “tacendo e sedendo” dice S. Girolamo. Anche per Cassiano, che pure dedica al silenzio tre dei suoi indizi di umiltà, esso è in funzione della preghiera, aiuta il monaco a raggiungere la “preghiera di fuoco” ed è il segno della raggiunta unità della persona in Dio. Così si proibiva ai monaci di parlare fuori delle celle e di ritrovarsi a parlare in refettorio; molti monasteri erano famosi per il silenzio che vi regnava, ma sembra più un titolo di gloria che una parte della dottrina di ascesi.

La “taciturnitas” La nozione di equilibrio fra tacere e parlare, con evidente inclinazione a favore del silenzio, la lingua latina dei monaci la espresse con il termine taciturnitas (che non corrisponde al nostro italiano “taciturnità”, la quale può comportare anche quell'aria di musoneria che diviene così pesante e fastidiosa nei contatti col prossimo). Silere e silentium significano astenersi totalmente dal parlare; taciturnitas significa l'abitudine a far caso al silenzio, il volontario e virtuoso amore al silenzio, frutto di umiltà e di raccoglimento, che concede la facoltà di esprimersi con moderazione, soltanto se necessario, discretamente. Perciò si potrebbe tradurre anche “amore al silenzio” con tutto il significato spiegato sopra (cioè anche modo di parlare).

Il silenzio nella RB SB tratta brevemente della “taciturnità”, in un solo capitolo di soli 8 vv.in cui rimane sui principi, dandoci un capitolo più omogeneo, coerente, anche se molto breve. Nella RB abbiamo 4 volte la parola taciturnitas e 4 volte la parola silentium. “Silentium” indica un aspetto disciplinare, funzionale (silenzio a tavola, RB. 38,5; silenzio notturno, RB. 42,1; silenzio durante la siesta, RB. 48,5; silenzio nell'oratorio, RB. 52,2) e significa silenzio in senso stretto, cioè astensione totale dal parlare. “Taciturnitas” (RB. 6 titolo; 6,2-3; 7,56; 42,9) denota, come detto sopra, moderazione, sobrietà, discrezione nell'uso della parola e, come si usa tradurre, amore al silenzio. Alla “taciturnitas”, non al “silentium” SB dedica un capitolo della sua sezione ascetica.

STRUTTURA del capitolo 6 Comincia all'improvviso con una citazione dal salterio brevemente commentata, rafforzata da altre due citazioni dei Proverbi (vv. 1-5); passa all'uso della parola nei rapporti con i superiori (vv. 6-7), condanna solennemente le parole sconvenienti (v. 8). Vediamo il testo:

1-5: Uso della parola in genere SB parte da una citazione scritturistica che serve di base e di principio al suo insegnamento: mettiamo in pratica ciò che dice il salmista. Nel salmo 38 citato, il salmista oppresso dai dolori si propone di tacere assolutamente per non dare all'empio occasione di bestemmiare (quindi notiamo che il contesto del salmo è diverso da come viene applicato in RB). Il v. 3 del salmo dice così: «Ammutolito, in silenzio, tacevo, ma a nulla serviva, e più acuta si faceva la mia sofferenza»; invece la versione della Volgata era: “silui a bonis” che RB (e RM prima) ha inteso: “mi sono astenuto anche dal dire cose buone”, da cui l'argomentazione derivante. L'atteggiamento del salmista viene indicato come generale disposizione d'animo del monaco. “Anche dai buoni discorsi ci si deve “a volte” interdum astenere per amore al silenzio”, tanto più dalle parole cattive! E nel v. 3 SB insiste: “è tanta l'importanza del silenzio – cioè: tale è la gravità e la serietà di questa dimensione nella vita monastica – che ecc...” Come si deve interpretare la frase: perfectis discipulis “ai discepoli perfetti”? Si deve intendere che a questi soltanto si deve dare raramente licenza di parlare, lasciando più libertà ai meno perfetti? Sì, se si considera il parallelo con la RM la quale distingue tra la categoria dei “perfetti” e quella dei “tiepidi, imperfetti e meno solleciti” (RM 9,48); secondo altri, invece, qui si intende semplicemente i monaci in quanto tali e in quanto devono sforzarsi di essere, dovendo essi per il loro stesso stato mirare alla perfezione. Alla citazione del salmo 38 SB aggiunge altri due testi scritturistici del genere sapienziale, brevi e incisivi: Pr 10,19 e Pr 18,21. In tutti e tre i testi biblici citati, la ragione addotta per frenare la lingua è quella di evitare il peccato, questo è nella generale tradizione ascetica del monachesimo primitivo.

6-7: Uso della parola nelle relazioni con i superiori I monaci, da perfetti discepoli, devono parlare assai poco, giacché parlare è funzione del maestro, mentre al discepolo tocca ascoltare. Si torna al concetto dell'abate come “dottore”; si tace per ascoltare la voce del maestro che è l'abate e, attraverso l'abate, il Maestro per antonomasia: Cristo. è interessante notare l'importanza dei vv. 6-7 per la relazione del silenzio con l'obbedienza (capitolo 5) e con l'umiltà (capitolo 7). Il discepolo ascolta per mettere in pratica ciò che gli si comanda e in tal modo torna a Dio attraverso il cammino dell'obbedienza (Prol. 1-2). Il monaco poi tace per umiltà (v. 1: “mi sono umiliato”) e parla con umiltà (v. 7); tanto il parlare (il modo di parlare) che il tacere sono in rapporto con l'umiltà. Si tratti di rispondere all'abate quando domanda un parere o si tratti di chiedergli qualcosa, i fratelli debbono mantenersi sempre entro i limiti dell'umiltà, docilità e riverenza.

8: Parole sconvenienti Infine, con accento severo ed energico, SB condanna i discorsi non convenienti alla dignità di monaco, non solo le trivialità – il che pare ovvio – ma anche le parole giocose e non necessarie. Questo ultimo versetto contribuisce a dare un aspetto ancora più rigoroso e molto forte al capitolo che senza dubbio è in una linea rigida e severa.

CONCLUSIONE Ma... per fortuna, altri passi della RB che si riferiscono alla “taciturnitas” (=amore al silenzio e uso corretto, monastico, della parola) mitigano e umanizzano l'aspetto serio e un pò duro del capitolo 6. A giudicare dal v.6, il silenzio regna come norma generale nel monastero e per parlare ci vuole un permesso speciale che si accorda solo raramente. Ma da altri testi si deduce che la proibizione di parlare non era così assoluta: i monaci non erano soggetti ad una legge che li obbligava a convivere senza comunicare tra loro. Il silenzio assoluto si osservava in certi luoghi e in certe ore: durante i pasti (RB 38,5); in dormitorio, tanto durante il riposo notturno (RB 42,1) quanto durante la siesta (RB 48,5). In altri luoghi era molto meno rigoroso (o veniva trasgredito spesso); in RB 26,1-2 si proibisce di parlare con lo scomunicato; in RB 67,5-6 si ordina di non parlare di ciò che si è visto fuori del monastero. I monaci quindi parlavano e ridevano pure! Tra le mortificazioni suggerite in quaresima (RB 49,7) si dice di togliere qualcosa alla loquacità e... alle buffonerie (= “scurrilitate”, lo stesso vocabolo che nel capitolo 6 è condannato assolutamente, “aeterna clausura in omnibus locis damnamus”! v. 8).

Nel capitolo 6, dato che si tratta della sezione spirituale, a SB interessa enunciare il principio e presentare il valore del silenzio, facendone vedere l'aspetto austero, essenzialmente ascetico. La dimensione mistica della taciturnità i monaci la scopriranno a poco a poco, avanzando nel cammino dell'unione con Dio, man mano che si familiarizzano con la S. Scrittura e gli altri testi della tradizione patristica e monastica che SB prescrive (RB 73,2-6). Cassiano, per esempio, dice che è impossibile arrivare all'“orazione pura” se lo spirito è disturbato dal ricordo di conversazioni recenti (Coll. 9,13), che l'“orazione di fuoco” consiste in un gemito inenarrabile che trascende la parola (Coll. 9,25), che l'anima giunta alla vetta della contemplazione penetra in una meditazione e concentrazione così assoluta che non si può esprimere (Coll. 9,27). Però SB si mantiene nei limiti della “vita pratica”, che non va oltre l'estirpazione dei vizi e l'acquisto delle virtù; la sua “taciturnitas” è puramente ascetica. Il capitolo 6 è un commento e ampliamento di 4 strumenti delle buone opere:

  • 51°: custodire la propria lingua da parole cattive o disoneste;
  • 52°: non amare il parlare molto;
  • 53°: non dire parole inutili o eccitanti al riso;
  • 54°: non amare di ridere molto o in maniera smodata (RB. 51-54).

Si noti anche la finalità educativa e di carità della RB. A proposito dell'uso della parola abbiamo tre volte questa espressione: rationabiliter cum humilitate “ragionevolmente con umiltà” in:

  • RB.31,7 a proposito del cellario;
  • RB.61,4 a proposito dell'ospite;
  • RB.65,4 a proposito del priore.

E nel capitolo 7,60 sostituisce “dire poche parole e sante” di RM con: “dire parole poche e ragionevoli (sensate)”. A SB interessa di meno che le conversazioni siano edificanti (come nella RM), quanto piuttosto che abbiano senso, che avvengano nella ragionevolezza e nella calma. Così in RB 31,7.13-14: come deve rispondere il cellario a chi gli chiede qualcosa fuori luogo o quando non può concedere qualcosa. Così RB.66,2-4 a proposito del portinaio: che risponda subito, rivolga parole di benvenuto, con tutta la mansuetudine e umiltà, con fervore di carità. La pedagogia di SB tende sopratutto a promuovere il buon uso della parola nelle relazioni concrete; siamo indirizzati dunque sul terreno delle relazioni fraterne, un argomento di cui RM non si occupa mai, ma che per SB è di capitale importanza.

Perciò la tradizione monastica ha assegnato pure un tempo per la ricreazione comune: parteciparvi e portarvi il proprio contributo di pensiero, di amore e di gioia è un atto di obbedienza e di carità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo V – L’obbedienza

Obbedienza pronta e sue motivazioni 1 Il segno più evidente dell’umiltà è la prontezza nell’obbedienza. 2 Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo 3 e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell’inferno e in vista della gloria eterna, 4 appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio. 5 È di loro che il Signore dice: «Appena hai udito, mi hai obbedito» 6 mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: «Chi ascolta voi, ascolta me». 7 Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà, 8 si liberano all’istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti. 9 Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio: 10 così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Motivazione biblica dell'obbedienza 11 Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: «Angusta è la via che conduce alla vita»; 12 perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate. 13 Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: «Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato».

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza 14 Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste, 15 perché l’obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: «Chi ascolta voi, ascolta me». 16 I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché «Dio ama chi dà lietamente». 17 Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore, 18 pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge la mormorazione nell’intimo della sua coscienza; 19 quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

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Approfondimenti

In tutte le lingue il concetto di obbedienza deriva da “audire” e significa sempre la “disposizione ad ascoltare l'altro e a fare la sua volontà”: ascoltare e obbedire derivano dalla stessa radice etimologica. In latino abbiamo ob-audire “ascoltare” e ob-oedire “obbedire”: vocaboli vicinissimi che nella letteratura cristiana sono in relazione con la radice ebraica “shemà”, il cui significato è primariamente “ascoltare” e in secondo luogo “obbedire”.

La religione ebraica si riassume essenzialmente in questo concetto di obbedienza: ascoltare Dio e compiere i suoi desideri. Era la religione dell'obbedienza alla rivelazione di Dio; il culto di Dio consisteva essenzialmente nell'obbedienza (cf. ad esempio 1Sam 15-22) e l'essenza del peccato nella disobbedienza alla volontà di Dio manifestata nei comandamenti, nella Legge e nei Profeti. Nel NT appare con grande evidenza il valore essenziale dell'obbedienza. La vita di Gesù, come la presentano i Sinottici e come la interpretano S. Giovanni e S. Paolo, non è altro che la storia di un'obbedienza totale alla volontà del Padre attraverso il cammino della passione, della croce, della morte ignominiosa: Gesù accetta tutto pienamente per pura obbedienza al Padre. L'intera esistenza di Gesù si riduce ad una totale conformità alla volontà del Padre: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34); Gesù non è venuto per fare la sua volontà, ma quella del Padre (Gv 6,38); Egli non parla per iniziativa propria, ma il Padre parla in lui (Gv 3,44); per questo chi vede lui vede il Padre (Gv 14,9-10).

Per il cristiano non basta in effetti accogliere il messaggio di Gesù, bisogna conformarsi alla volontà del Padre, come Gesù la manifesta «non chiunque mi dice: Signore, Signore..., ma chi fa la volontà...» (Mt 7,21): il vero discepolo di Gesù compie la volontà del Padre. Il valore cristiano dell'obbedienza è posto in rilievo sopratutto da S. Paolo: tutta l'opera salvifica di Gesù si riassume, secondo Filippesi 2, nella sua morte come atto di obbedienza al Padre, in contrapposizione alla disobbedienza di Adamo. L'obbedienza di Gesù è, per S. Paolo, il fondamento della salvezza (Rm 1,19); la fede è l'obbedienza alla predicazione del messaggio di salvezza (Rm 10,16; 2Cor 7,15; 2Tess 1,8); il cristiano è l'uomo che obbedisce al Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo (2Tess 1,18).

L'obbedienza occupa quindi, senza dubbio, una posizione-chiave nella storia divina della salvezza. I Padri della Chiesa non cessarono di segnalarlo con grande insistenza. Ma questa idea incontrò un'eco straordinaria soprattutto tra i monaci a cominciare dalle prime generazioni. In effetti i Padri del Deserto, ammaestrati dalla loro esperienza, erano giunti a due conclusioni: primo, che senza il rinnegamento di sé non si giunge a una vera adesione alla volontà di Dio; secondo, che il rinnegamento consiste essenzialmente nella rinuncia alla propria volontà, “muro di bronzo – a dire dell'abate Poimene – che separa l'uomo da Dio” (Apophtegmata, Poimene 54). I testi monastici trattano di continuo questo tema sotto tutti gli aspetti:

  • obbedire a Dio;
  • obbedire alla Scrittura;
  • obbedire ai Padri del monachesimo;
  • obbedire ai fratelli e, in particolare,
  • obbedire al proprio anziano spirituale, se si vive come anacoreta, o
  • obbedire al superiore e alla regola, se si vive come cenobita.

In tal modo si andò elaborando a poco a poco una teoria e in pratica il concetto dell'obbedienza religiosa. Si suole distinguere un'obbedienza ascetica o educativa (più specifica degli eremiti) e un'obbedienza funzionale o sociale al servizio della comunità (propria dei cenobiti). In realtà i due aspetti sono complementari: l'obbedienza ascetica è necessaria per realizzare l'obbedienza funzionale nella maniera più perfetta possibile; l'obbedienza sociale, poi, ha sempre un aspetto ascetico ed educativo. In ogni caso, i legislatori monastici del cenobitismo (Pacomio, Basilio, ecc.) non si mostrano meno esigenti, riguardo all'obbedienza, dei Padri spirituali degli eremiti. S.Basilio richiede un'obbedienza universale e senza condizioni.

Quanto detto sopra è il fondo biblico e monastico in cui situare il concetto di obbedienza nella RB. SB ne parla nell'ambito della dottrina ascetica, la dottrina dell'obbedienza viene cioè riportata alla scala dell'umiltà nel contesto dell'itinerario ascetico proposto ai monaci. Nel capitolo 5 si tratta in senso proprio dell’obbedienza al superiore; ci sono poi altri due capitoli che trattano specificamente dell'obbedienza: RB. 68 (L'obbedienza nelle cose impossibili) e RB. 71 (L'obbedienza reciproca). Ma dell'obbedienza se ne parla con frequenza, dal principio del prologo all'epilogo; ricordiamo che per SB l'obbedienza è il cammino attraverso cui si ritorna a Dio (Prol. 2). Incontestabilmente nella RB l'obbedienza costituisce l'asse dell'itinerario monastico.

Obbedienza pronta e sue motivazioni Il v.1 sembrerebbe in contraddizione con il capitolo 7. Ma qui non si parla di gradino nel senso di una serie come nel capitolo 7, “primo” qui significa “il principale” o più perfetto, “primo nel tempo”, “fondamentale” dal punto di vista della pedagogia monastica. Quindi la frase “primus humilitatis gradus” del v.1 si può tradurre: “Il principio dell'umiltà”, “la manifestazione più evidente dell'umiltà” e simili. Questa nozione del primato (nel senso spiegato) dell'obbedienza nella formazione cenobitica è unanime nella tradizione monastica.

«Obbedienza senza indugio» “sine mora”: è il carattere più evidente della vera obbedienza e SB vi insiste per tutta la prima parte del capitolo. L'amore di Cristo balza evidentemente come il motivo fondamentale e il più nobile per obbedire. L'idea non è nuova: il monaco impugna le gloriose armi dell'obbedienza per militare sotto Gesù Cristo vero Re (Prol. 3). Si ricordino anche gli strumenti 10 e 21 del capitolo 4. Evidente anche il richiamo nella struttura grammaticale al “Niente anteporre all'amore di Cristo” di RB 4,21 e al “Nulla assolutamente antepongano a Cristo” di RB.72,11. Possono però esserci altri motivi meno elevati anche se validi e la RB li enumera: il servizio santo a cui si sono consacrati, il timore dell'inferno, il desiderio della vita eterna; ma in tutti e tre questi motivi è sempre supposto e incluso il primo, quello dell'amore integrale a Cristo, da cui il monaco non può prescindere. SB descrive, accumulando molte espressioni, l'atteggiamento fedele del monaco e la prima caratteristica dell'obbedienza: prontezza come dinanzi a un comando di Dio, rapidità, quasi simultaneità tra l'ordine del superiore e l'esecuzione del discepolo. “Lasciando incompiuto...”. Cassiano avverte che al segnale dell'orazione e del lavoro si interrompeva anche una lettera dell'alfabeto già iniziata (Inst 4,12).

Letteralmente il v.10 recita «quibus ad vitam aeternam gradiendi amor incumbit» tanta perfezione d'obbedienza è un bisogno e una gioia dell'anima perché incombe, incalza (questo è il senso del verbo latino) l'amore per la vita eterna di cui si diceva negli strumenti delle buone opere “desiderarla con tutto l'ardore spirituale” (RB 4,46). Segue una descrizione breve ma abbastanza completa e precisa dell'obbedienza cenobitica.

Motivazione biblica dell'obbedienza La Regola viene paragonata alla “strada stretta” (v. 11) di cui si parla nel discorso della montagna (Mt 7,14); poi si definisce l'obbedienza prima al negativo, poi al positivo. Negativamente è rinunciare alla volontà propria: “non vivono secondo il proprio capriccio personale” e “non obbediscono ai desideri e gusti propri” (v. 12). Le espressioni richiamano due strumenti delle buone opere: RB 4,59 e 60. Positivamente l'obbedienza è:

  • camminare secondo il giudizio e la volontà di un altro;
  • passare la vita in monastero;
  • desiderare di essere sottomessi a un abate;
  • si imita in tal modo il Signore che disse di se stesso: “Non sono venuto a fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato (Gv 6,38).

Il primo elemento corrisponde al 61° strumento delle buone opere e, insieme al secondo (stabilità in monastero, RB 4,78), caratterizza i cenobiti che “vivono in monastero militando sotto una Regola e un abate” (RB 1,2).

Il terzo elemento vuole indicare il carattere libero e volontario dell'obbedienza su cui si insisterà in seguito; la Regola dice altrove che l'obbedienza è un bene (RB 71,1) e pertanto desiderabile (ma qui SB dice che “desiderano essere sottomessi”!). Tutto ciò proviene dal quarto elemento messo sopra, che riassume, concludendola, questa parte del capitolo: l'imitazione di Cristo.

Qualità, sopratutto interiori, dell'obbedienza La Regola insiste sulle qualità che deve avere l'obbedienza cenobitica per essere veramente gradita a Dio e “dolce agli uomini”. Quest'ultima espressione è un tocco sapiente e amorevole di umanità e finezza psicologica del santo Patriarca. Anche per il superiore dare un ordine non è sempre facile: riesce perciò di conforto per lui incontrare un'obbedienza sollecita e sorridente. Dunque si obbedisca senza esitazione o ritardo – si raccomanda ancora la celerità – o svogliatezza oppure con mormorazioni o proteste (v.14), ma volentieri e serenamente, perché “Dio ama chi dona con gioia” (v.16).

Di buon animo: parole importanti che devono penetrare nell'animo del monaco. “Dio guarda nel profondo del cuore” (v. 18); obbedire esteriormente non basta, se l'atto non è accompagnato dalla buona volontà profonda e sincera di chi obbedisce: l'obbedienza si deve interiorizzare.

Tra tutti i difetti che annullano il valore dell'obbedienza, il peggiore è il vizio della mormorazione. SB ne ha un'avversione particolare, sia essa esteriore o solo interiore, e dice che i mormoratori incorreranno nella pena prevista (v.19). Certo, questa nota finale, redatta sullo stile del codice penale, suona un po' strana in questo capitolo di pura spiritualità; perché è chiaro che qui non si parla del giudizio di Dio, ma della disciplina regolare contro la mormorazione. Senza dubbio la clausola stona. Ma SB era un “uomo pratico secondo Gesù Cristo”.

Nel capitolo V possiamo individuare due motivazioni principali per l'obbedienza monastica:

  1. motivazione ascetica (rinunzia a se stesso, alla propria volontà, ai propri gusti);
  2. motivazione sopratutto teologica (obbedire per amore di Cristo).

Dai testi biblici del capitolo V appare la figura di Cristo:

  • come colui al quale si obbedisce (Lc 10,16 citato nel v. 6 e nel v. 15)
  • e come colui che si imita nell'obbedire (Gv 6,38 citato nel v. 13).

In altre parole: Cristo è rappresentato

  • una volta nell'abate che ordina
  • e una volta nel monaco che obbedisce.

Ecco i due aspetti che risultano dai due testi evangelici:

  • obbedire come Cristo e
  • obbedire come a Cristo.

Ambedue gli aspetti dell'obbedienza – comandare e obbedire – hanno il fondamento ultimo in Gesù Cristo.

L'abate non potrebbe esigere un'obbedienza assoluta senza essere autorizzato da Gesù (di cui fa le veci in monastero, RB 2,2); e d'altra parte l'obbedienza è cristologica in quanto ispirata dall'amore a Cristo (RB 5,13)

«Cristo appare sia come Maestro che come discepolo, poiché di fatto egli è nel medesimo tempo, inseparabilmente, il Verbo che legifera e il Servo che si umilia. Così in questa relazione monastica fondamentale, Cristo è rappresentato nella sua esistenza drammatica e nelle sue dimensioni totali: la sua sovranità divina e la sua umiliazione fino all'estremo..., una cosa non esiste senza l'altra. E la gloria e la genuinità sublime del monachesimo e della sua teologia viva sta proprio in questa rappresentazione drammatica, o meglio sacramentale, della Persona e della vita di Cristo.» (H.U. Von Balthasar)

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo IV – Gli strumenti delle buone opere

Il decalogo 1 Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; 2 poi il prossimo come se stesso. 3 Quindi non uccidere, 4 non commettere adulterio, 5 non rubare, 6 non avere desideri illeciti, 7 non mentire; 8 onorare tutti gli uomini, 9 e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

Rinuncia a se stesso e opere di misericordia 10 Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo; 11 mortificare il proprio corpo, 12 non cercare le comodità, 13 amare il digiuno. 14 Soccorrere i poveri, 15 vestire gli ignudi, 16 visitare gli infermi, 17 seppellire i morti ; 18 alleviare tutte le sofferenze, 19 consolare quelli che sono nell’afflizione.

Odiare il mondo, amare Cristo 20 Rendersi estraneo alla mentalità del mondo; 21 non anteporre nulla all’amore di Cristo.

Mansuetudine e sincerità; vizi da evitare 22 Non dare sfogo all’ira, 23 non serbare rancore, 24 non covare inganni nel cuore, 25 non dare un falso saluto di pace, 26 non abbandonare la carità. 27 Non giurare per evitare spergiuri, 28 dire la verità con il cuore e con la bocca, 29 non rendere male per male, 30 non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi; 31 amare i nemici, 32 non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori, 33 sopportare persecuzioni per la giustizia. 34 Non essere superbo, 35 non dedito al vino, 36 né vorace, 37 non dormiglione, 38 né pigro; 39 non mormoratore, 40 né maldicente.

Retto giudizio di sé 41 Riporre in Dio la propria speranza, 42 attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi, 43 ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

Novissimi 44 Temere il giorno del giudizio, 45 tremare al pensiero dell’inferno, 46 anelare con tutta l’anima alla vita eterna, 47 prospettarsi sempre la possibilità della morte.

Custodia di sé 48 Vigilare continuamente sulle proprie azioni, 49 essere convinti che Dio ci guarda dovunque. 50 Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale. 51 Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti, 52 non amare di parlar molto, 53 non dire parole leggere o ridicole, 54 non ridere spesso e smodatamente.

Spirito di preghiera e di compunzione 55 Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio, 56 dedicarsi con frequenza alla preghiera; 57 in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate 58 e cercare di emendarsene per l’avvenire.

Sottomissione della carne e dello spirito 59 Non appagare i desideri della natura corrotta, 60 odiare la volontà propria, 61 obbedire in tutto agli ordini dell’abate, anche se – Dio non voglia! – questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore:» Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno». 62 Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento. 63 Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

Amore fraterno 64 Amare la castità, 65 non odiare nessuno, 66 non essere geloso, 67 non coltivare l’invidia, 68 non amare le contese, 69 fuggire l’alterigia 70 e rispettare gli anziani, 71 amare i giovani, 72 pregare per i nemici nell’amore di Cristo, 73 nell’eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

Fiducia nella misericordia del Signore 74 E non disperare mai della misericordia di Dio.

La “paga” per l'uso degli strumenti 75 Ecco, questi sono gli strumenti dell’arte spirituale! 76 Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso: 77 «Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d’uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano».

la “officina” per l'uso degli strumenti 78 L’officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.

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Approfondimenti

CAPITOLI 4-7: Sezione ascetica La Regola non è un trattato di teologia ascetico-mistica e quindi in essa non si possono cercare grandi disquisizioni sulle virtù, sui vizi, sulla preghiera e la contemplazione. S.Benedetto per queste cose rimanda a:

  1. Sacra Scrittura
  2. Padri della Chiesa
  3. Scrittori monastici (RB.73,2-6)

Però un “corpus ascetico” propriamente detto, considerato dalla tradizione come base e fondamento della spiritualità benedettina, lo forma un gruppo di quattro capitoli dedicati interamente a esporre una serie di linee ascetiche e una dottrina sopra alcune virtu` considerate come fondamentali per la vita del monaco:

  • cap. 4: Gli strumenti delle buone opere;
  • cap. 5: L'obbedienza;
  • cap. 6: L'amore al silenzio;
  • cap. 7: L'umiltà.

Il capitolo 4 è un lungo elenco di massime morali molto brevi; a un esame anche superficiale appare che buona parte, sia dei termini che del contenuto dottrinale, si ritrova nei capitoli 5-6-7, con i quali forma una unità letteraria, li prepara e in un certo senso ne anticipa la dottrina.

Si è parlato giustamente di “trilogia benedettina”, cioè: obbedienza, taciturnità, umiltà. Ma sarebbe errato considerare queste tre virtù basilari dell'ascetismo monastico su uno stesso piano. L'umiltà è la madre dell'obbedienza e della taciturnità; obbedienza e taciturnità sono due modalità di uno stesso comportamento di sottomissione; nei due casi il superiore è considerato sotto due aspetti differenti: l'obbedienza rende omaggio ai suoi ordini, la taciturnità ai suoi insegnamenti. Legando insieme obbedienza e taciturnità in forza dell'ascolto che è il loro momento comune, ritroviamo l'idea della loro filiazione dell'umiltà (idea che è propria di Cassiano): significa dare prova di umiltà mortificare la propria volontà e sottomettersi all'anziano, trattenere la lingua e moderare la voce.

È difatti nel capitolo 7 della RB, nella scala dell'umiltà, l'obbedienza è il tema più rilevante dei quattro primi gradini, mentre la taciturnità, già presente nel quarto gradino, è materia propria dei gradini 9, 10 e 11. Possiamo dunque dire che l'obbedienza è l'umiltà nell'agire, la taciturnità è l'umiltà nel parlare: l'una è pronta ad agire, l'altra lenta a parlare.

Abbiamo dunque la trilogia propriamente monastica: obbedienza – taciturnità – umiltà (capitoli 5-6-7), dopo il capitolo 4 sulle buone opere, che ha un carattere più universale.

Capitolo IV – Gli strumenti delle buone opere Il capitolo ha una fisionomia particolare: è tutta una serie di precetti brevi, quasi sempre formulati secondo il medesimo schema, che i monaci potevano imparare a memoria (procedimento usato anche per i catecumeni quando si preparavano al battesimo, fino ai nostri catechismi di qualche anno fa). Questo genere di insegnamento sotto forma di proverbi fu molto amato dai cristiani e dai monaci antichi. Si ricordino: i “Monita” dell'abate Porcario, le “Sentenze' di Evagrio Pontico, tanto che alcuni credono che SB abbia preso un elenco che andava in giro per i monasteri e lo abbia tramandato nella Regola.

La visione della vita monastica come appare dal “catechismo” in forma di massime che è il capitolo 4 della RB è questa: il monaco è l'operaio di Dio (Prol. 14; RB 7,49.70) che, nell'officina del monastero, in compagnia e in comunione con gli altri operai che formano la sua famiglia religiosa, fatica notte e giorno in un lavoro interamente spirituale – l'arte spirituale del v.75 – maneggiando strumenti spirituali che sono le virtù, sperando e fidando della grazia e della misericordia del suo Signore che, nel giorno benedetto in cui riconsegnerà gli attrezzi, possa ricevere la ricompensa delle sue fatiche: «Ciò che occhio non ha mai visto, né orecchio mai udito, né mai entrato in cuore di uomo: questo, Dio ha preparato per coloro che lo amano» (1Cor 2,9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo III – La consultazione della comunità

Convocazione di tutta la comunità per le questioni importanti 1 Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l’abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l’affare in oggetto. 2 Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno. 3 Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.

Comportamento dei monaci e dell'abate nel consiglio 4 I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute; 5 comunque la decisione spetta all’abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli. 6 D’altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.

Autorità della Regola 7 Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene. 8 Nessun membro della comunità segua la volontà propria, 9 né si azzardi a contestare sfacciatamente con l’abate, dentro o fuori del monastero. 10 Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola. 11 L’abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.

Consiglio degli anziani per le questioni di minore importanza 12 Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più anziani, 13 come sta scritto: «Fa’ tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene».

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Approfondimenti

Questo capitolo finisce di determinare la costituzione organica della comunità, stabilendo il ruolo che spetta a ciascun membro nel governo del monastero. Nella RM è un tutt'uno col capitolo 2 sull'abate e difatti è strettamente collegato con esso. Tuttavia SB se ne distacca e ne fa un capitolo a sé in cui, pur dipendendo dalla RM, notiamo una sua originalità. Possiamo ricordare brevemente i precedenti storici del consiglio degli anziani nella tradizione monastica: le assemblee degli anacoreti di Scete; nelle “Vite” copte di S. Pacomio, si racconta che il superiore generale riuniva i “grandi” o “anziani” della “koinonia”; le Regole di S. Basilio presentano un parallelo perfetto con le disposizioni della RB. Tuttavia in questi passi si tratta sempre di un consiglio ridotto scelto, composto di uomini “capaci di giudicare” e sembra che essi non si limitano ad esporre il loro parere, ma danno un voto abbastanza decisivo. In SB c'è una impostazione diversa del cenobio e quindi dei rapporti tra abate e comunità.

1-3: Convocazione di tutta la comunità (per cose di maggiore importanza). Quando si tratta di affari di grande importanza, deve essere convocata tutta la comunità. Si tratta proprio di un consiglio generale. Esso ha le seguenti caratteristiche:

  • lo convoca l'abate,
  • espone il problema lo stesso abate,
  • l'abate infine, udito il parere di tutti, riflette sulla cosa e decide quanto ritiene opportuno.

Si tratta perciò di un consiglio puramente consultivo. Quindi la convocazione dei fratelli a consiglio non significa una restrizione dei poteri abbaziali o un voler dare una forma “democratica” alla direzione del monastero. Per SB l'autorità dell'abate è intangibile e non ammette opposizione alcuna. Tutto questo appare chiaro e senza alcun dubbio dal testo della RB: l'abate non perde assolutamente nulla della sua autorità. Bisogna pure notare, però, che queste riunioni non possono fare a meno di stimolare l'interesse di tutti per l'andamento del monastero: sono una vera partecipazione al governo del cenobio, anche se la decisione rimane dell'abate. I monaci cessano di essere dei minorenni a cui si presenta tutto già stabilito e definitivo; sono persone adulte che pensano con la loro testa, hanno idee e convinzioni proprie che l'autorità deve soppesare e apprezzare. Si instaura così un dialogo generale in cui i monaci si manifestano, si conoscono, formano realmente una comunità. Quindi questa disposizione di Benedetto di convocare tutti senza eccezione ha un'importanza decisiva per l'instaurazione di autentiche relazioni tra monaci e monaci, e tra monaci e abate, per la formazione di quello spirito di famiglia, caratteristico dei cenobi benedettini. Il motivo ultimo di questa determinazione è spirituale. SB non si rifà a una legge esteriore, come sembra fare la RM (nella RM il consiglio si riferisce solo ai beni materiali e si basa sul principio della proprietà corporativa: “le sostanze del monastero sono di tutti e di nessuno” (RM 2,48); ma ad una profonda convinzione basata sulla fede: “spesso è al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore” (v.3). SB qui allude certamente al passo di Mt 11,25: “... hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” e pensa a Samuele e a Daniele che giudicarono gli anziani (cf 1Sam 3 e Dan 13), come dirà espressamente in un altro capitolo (RB 63,6). Principio spirituale quindi, ma anche – a pensarci bene – molto umano e psicologico; si tratta di sapere ciò che chiede il Signore a una comunità in una data situazione e il Signore lo può rivelare a uno dei membri meno qualificati (principio spirituale); ma SB sa pure che i monaci giovani in genere hanno maggiore entusiasmo e generosità e sono liberi da pregiudizi e da interessi personali (principio umano).

4-6: Comportamento dei monaci e dell'abate Seguono alcune norme pratiche sulla maniera di manifestare il proprio parere: è il galateo monastico delle riunioni di famiglia. Se SB vuole che l'abate consulti i fratelli, ciò non dispensa questi ultimi dai doveri di umiltà e di rispetto; essi sono chiamati ad esporre il proprio parere e non a farlo prevalere a tutti i costi; quindi sottomissione, umiltà, obbedienza a ciò che l'abate decide alla fine. Troviamo espressioni che richiamano l'atteggiamento da tenersi nell'ufficio divino (RB 20,1) e che si rifanno al vocabolario dell'obbedienza; quella dell'obbedienza e della sottomissione è in ogni circostanza la strada maestra per i monaci che hanno scelto di “militare sotto la Regola e un abate” (RB 1,2). Ci si potrebbe chiedere: la RB proibisce di “sostenere ostinatamente” il proprio parere; ma se uno insiste sulla sua idea senza petulanza, con calma e semplicità, è lecito o no secondo SB? È impossibile rispondere con sicurezza! Senza dubbio, l'abate deve tener conto dei consigli che gli si danno; la convocazione dei fratelli non può ridursi a una pura commedia; certo, la decisione ultima spetta a lui, ma questa non può essere dettata da arbitrarietà; SB chiede che egli penda dalla parte più conveniente, più opportuna (v.5) e aggiunge, in una frase solenne, che “se è doveroso per i discepoli obbedire, altrettanto doveroso è per il maestro decidere con prudenza e giustizia” (v.6). Abbiamo perciò una botta di qua e una di là, come appare molto di più nel brano seguente.

7-11: Autorità della Regola Si enuncia ora un principio assoluto e di portata generale: “In ogni cosa tutti seguano la Regola come maestra e nessuno ardisca temerariamente allontanarsene” (v.7). Qual'è il significato esatto di un principio così categorico? Che esso valga sia per i monaci che per l'abate è indiscutibile. Perciò – ci si domanda – allontanarsi talvolta dal contenuto letterale o anche dal senso della Regola implica necessariamente temerarietà e bisogna quindi evitarlo ad ogni costo? O non piuttosto a volte si può – e talvolta si deve – date le circostanze, prescindere dai precetti della Regola? In tutti i modi, sembra certo che questa frase, grave e maestosa, più che per i monaci (anche per loro, certamente) è scritta per porre rimedio ad eventuali capricci dell'abate, il quale con ogni probabilità va considerato incluso in quel “nessuno” del versetto seguente: “nessuno in monastero segua i capricci del proprio cuore” (v.8). In compenso, segue nei vv.9-10 una frase per salvaguardare l'autorità dell'abate: non discutere insolentemente o altercare sfacciatamente con lui (ma naturalmente in riunione con umiltà e delicatezza si può contraddirlo). Poi (v.11) di nuovo un richiamo per l'abate. Come si vede, è quasi un tira e molla tra i due poli del cenobio: comunità e abate. I correttivi dell'autorità abbaziale sono dunque due: il timore del giudizio divino (rendiconto a Dio, cf. RB 2 e RB 64 più di una volta) e la Regola cui anche lui deve sottomettersi.

12-13: Consiglio degli anziani (per cose di minore importanza) Quando si tratta di minora – “affari di minore importanza, contrapposto a “praecipua” del v.1), l'abate si limita a consultare gli anziani. Per “anziani” non si intende una categoria sociale (cioè in rapporto all'età, anche se essa poteva avere una certa importanza), ma una categoria spirituale; nella RB se ne parla come di coloro che, essendo più maturi spiritualmente, più formati nella vita monastica, disimpegnano i vari uffici: decani, maestro dei novizi, portinai...; SB conclude con una citazione esplicita della Scrittura (l'unica del capitolo) che in realtà è composta di due citazioni: Prov 31,3 e Sir 32,34 (ricordiamo l'uso libero che SB fa della Bibbia come uno che ne ha grande familiarità e cita a memoria): “Fa ogni cosa con il consiglio...”, un principio di saggezza umana corroborata dalla Parola di Dio; così il “padre del monastero” utilizza la prudenza e l'esperienza dei fratelli prima di prendere una decisione, in modo che tutti collaborino alla ricerca della volontà di Dio, che è l'unica cosa che importa.

Conclusione In questo capitolo terzo SB riconosce che l'abate ha – come diremmo oggi – un carisma particolare come superiore; ma questo carisma non può essere visto al di fuori del contesto di una comunità viva e di una Regola. In SB notiamo l'insistenza tra diritti e doveri dell'abate (abbiamo visto quasi un tira e molla): non vuole assolutamente limitare il potere dell'abate, che anzi appare nel capitolo piuttosto rinforzato; quanto ai doveri, li propone con una forza nuova; non consistono solo (come per RM) nell'ascoltare tutti, ma l'abate è invitato a “disporre ogni cosa con prudenza e giustizia” (v.6), ad “agire sempre con timor di Dio e rispetto della Regola” (v.11), pensando al giudizio divino. Queste raccomandazioni denotano un senso nuovo della fallibilità del superiore. SB cerca di equilibrare e sintetizzare questi tre elementi”

  • il carisma abbaziale di guida e maestro;
  • il dono del discernimento che ha la comunità;
  • la sapienza accumulata dalla tradizione e codificata nella Regola.

Tutti sono sotto la Regola. Questo è un punto importante: tutti, abate e monaci, sono sotto la Regola; per SB essa è norma suprema. Senza dubbio il ricorso alla Regola è in relazione alle difficoltà del momento; però c'è un elemento permanente: in tutti i tempi, e sopratutto in periodi di rilassamento, la comunità e l'abate non possono avere salvaguardia che il rispetto religioso di una Regola intangibile; un abate non è niente senza una Regola. Per SB il consiglio dei fratelli è consultivo. Pur conservando questo spirito della costituzione benedettina del monastero, la Chiesa è intervenuta nel corso dei secoli per eliminare o prevenire abusi e ha limitato in qualche punto e in certe circostanze i poteri abbaziali; così pure per determinati casi ha imposto e reso deliberativo il voto dei monaci. Oggi il Codice di Diritto Canonico e le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano delle norme precise per il capitolo di famiglia.

Tratto da:APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo II – L’Abate

1 Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta. 2 Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome, 3 secondo quanto dice l’Apostolo: «Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!»

Cristo Maestro e Pastore: così l'abate 4 Perciò l’abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore, 5 anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità. 6 Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell’obbedienza dei discepoli 7 e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge. 8 D’altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta, 9 verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: «Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato, ribellandosi contro di me». 10 E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro ostinazione.

Duplice insegnamento: con la parola e con l'esempio 11 Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento, 12 mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani. 13 Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri 14 e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: «Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?» 15 e ancora: «Tu che vedevi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo».

L'imparzialità dell'Abate 16 Si guardi dal fare preferenze nelle comunità: 17 non ami l’uno più dell’altro, a eccezione di quello che avrà trovato migliore nella condotta e nell’obbedienza: 18 non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza. 19 Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto, 20 perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, «dinanzi a Dio non ci sono parzialità» 21 e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone. 22 Quindi l’abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.

La correzione tempestiva ed efficace dell'Abate 23 Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell’apostolo: «Correggi, esorta, rimprovera» 24 e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre. 25 In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina. 26 Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo. 27 Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati, 28 ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: «Lo stolto non si corregge con le parole» 29 e anche: «Battendo tuo figlio con la verga, salverai l’anima sua dalla morte».

Dirigere le anime 30 L’abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più. 31 Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo: 32 perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l’incremento del numero dei buoni.

Primato delle anime sugli affari temporali 33 Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche, 34 ma pensi sempre che si è assunto l’impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto 35 e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto : «Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù» 36 e anche: «Nulla manca a coloro che lo temono».

Osservazione escatologica conclusiva 37 Sappia inoltre che chi si assume l’impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto 38 e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria. 39 Così nel continuo timore dell’esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio 40 e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.

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Approfondimenti

Esclusi dalla sua prospettiva eremiti, sarabaiti e girovaghi, SB comincia ad organizzare il cenobio che, per sua definizione, è una società con una legge che lo regola e un capo che ne costituisce l'anima e il fondamento. Ecco allora, all'inizio della RB, questo fondamentale capitolo che, dopo il 7°, è il più lungo (a parte il prologo) e senza dubbio uno dei più gravi e solenni.

SB dedica all'abate e alla sua funzione due capitoli: il secondo, dove la figura del superiore è esaminata in connessione con la dottrina spirituale che deve insegnare; e il 64°, che tratta dell'elezione dell'abate e in cui è ripreso il tema dei compiti affidatigli. Tuttavia, dell'abate si parla in quasi tutta la Regola per l'importanza del ruolo come lo concepisce SB, sopratutto nella “sezione disciplinare”. È l'abate che sceglie il priore e il cellario (RB 65,11; 31,1) e forse anche i decani (RB 21,1); che si prende cura degli scomunicati (RB 27-28) ed eventualmente può cacciare un monaco recalcitrante (RB 28,6). All'abate sono affidati la responsabilità dell'amministrazione, gli uffici più importanti nella liturgia; egli può cambiare l'ordine dei posti e la misura dei cibi e delle bevande.

La figura dell'abate come SB la propone e come è vista nella prospettiva di oggi Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, la questione dell'abate è stata molto discussa e studiata, specialmente a causa della crisi in cui si è trovata la figura del superiore nelle comunità religiose. Le cause sono varie:

  • l'esigenza di una maggiore democraticità nei confronti dei superiori troppo accentratori e dittatoriali;
  • la necessità di rendere più responsabili i membri della comunità, evitando i rischi di infantilismo;
  • la profonda revisione cui è stata soggetta la comunità religiosa.

Perciò si è cercato di riscoprire attraverso molti studi le differenti figure del superiore nella tradizione monastica. Sono due, in particolare, le immagini più note:

  • La figura dell'anziano di provata esperienza e dotato di carismi personali, capace di avviare il discepolo alla vita monastica e di dirigerlo personalmente. Questa immagine, ben conosciuta sopratutto dagli apoftegmi e dalle collazioni di Cassiano, vede l'anziano circondato da discepoli, ma il rapporto non è stabile e l'obbedienza, pur ritenuta un valore importante, non è una virtù obbligante né stabile. Ciò che lega anziano e discepolo è sopratutto la parola e l'esempio del maggiore; è così che il discepolo cresce e può diventare a sua volta maestro e padre di altri.
  • La figura di superiore nella tradizione pacomiana. La comunità è stabile e numerosa, l'accento è posto sopratutto sulla “koinonia” tra i membri di cui il superiore è garante, colui che deve consolidarla e renderla fervente. La funzione abbaziale è dunque un servizio reso alla comunità dei fratelli.

Il termine “abate” “Abbas-abate” dall'aramaico abba = padre, nel NT si applica solo a Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo e Padre nostro ed è Gesù che lo pronuncia e lo Spirito Santo lo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15). Allora, come è possibile applicarlo ad un uomo? Tanto più che Gesù dice: “Non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,9). S. Girolamo si indignava che ci fossero nei monasteri quelli che chiamavano altri o si facevano chiamare con tale nome. In realtà, l'unica giustificazione possibile per attribuire ad un uomo, sul piano religioso, il nome di “abbà” è quella di rendere omaggio all'unica paternità di Dio che tale uomo rappresenta.

Agli inizi del monachesimo si cominciò ad usare tra i monaci la parola abbà (in Egitto apà in copto) senza alcun riferimento a potere di governo; si dava a monaci venerando non come puro titolo onorifico, ma come a veri padri spirituali, persone attraverso le quali si esercitava la paternità di Dio nel deserto; apa-abba non era l'uomo che governava in monastero, ma solo il monaco che era arrivato alla perfezione ed era ripieno dello Spirito di Dio, che possedeva il discernimento degli spiriti, la scienza spirituale, era capace di pronunciare parole di salvezza ispirate dallo Spirito Santo, capace di generare figli secondo lo Spirito, fino a formare in loro monaci perfetti e futuri “padri spirituali”, questa è l'immagine più comune che si ritrova negli Apoftegmi e in Cassiano.

Però, come si sa, le parole si evolvono con l'uso e cambiano di senso; piano piano “abba” si trasforma in puro titolo onorifico o titolo di governo; il suo significato tecnico, caratteristico e pregnante di “padre spirituale”, di “anziano” che guida le anime andò man mano sfumando. In occidente il termine “abbas-abate” si impose sugli altri – “padre”, “preposto”, “maggiore” – con cui si designava il superiore di una comunità monastica; nel secolo VI era la parola maggiormente usata e in tal senso la troviamo in RB e RM.

La responsabilità dell'abate SB vuole che l'abate stesso per primo sia consapevole di ciò che comporta il suo nome e sin dall'inizio si appella al suo senso di responsabilità: “deve realizzare con i fatti il nome di superiore”. Se dunque il termine di abate nella RB non richiama il concetto di uomo carismatico, anziano, che comunica lo Spirito ai monaci, tuttavia acquista un nuovo e profondo significato: l'abate fa in monastero le veci di Cristo, e di questo ne siamo convinti per fede. È il grande principio fondamentale – non si tratta di una opinione, di una pia credenza, ma è materia di fede – che è divenuto nella RB la definizione dell'abate.

L'abate secondo la Regola del Maestro Che cosa significa che l'abate fa le veci di Cristo nel monastero? La formula è una sintesi della dottrina esposta a lungo nella RM e di cui restano solo poche tracce in SB. Il succo della RM è questo: l'abate esercita una funzione analoga a quella del vescovo e appartiene come lui alla categoria dei “dottori”, cioè di quei ministri posti da Cristo a capo della Chiesa dopo gli “apostoli” e i “profeti” (1Cor 12,28); come il vescovo governa la Chiesa, così l'abate governa solamente una “schola” di Cristo, cioè il monastero; come il vescovo è assistito da presbiteri, diaconi e chierici, così l'abate si fa coadiuvare da “preposti” (decani nella RB). Questo parallelo tra superiori ecclesiastici e monastici era comune nei testi del secolo VI (così a proposito delle comunità pacomiane, così in Cassiano, ecc.) e si appoggiava sui medesimi testi scritturistici: “Pasci le mie pecorelle...” (Gv 21,17); “Chi ascolta voi, ascolta me” (Lc 10,16).

Il concetto di “dottore” successore degli apostoli dà modo poi alla RM di inserire l'abbaziato nella gerarchia cristiana a fianco all'episcopato. Pare comunque che il successivo sviluppo dell'abate-pontefice rivestito delle insegne pontificali tragga origine non dal testo della RM ma dall'importanza temporale dei monasteri, dal peso cioè da essi esercitato sulla società in campo giuridico, economico e culturale.

L'Abate – dottore L'abate dunque è successore degli apostoli, in quanto “dottore”; rappresentante di Cristo in quanto “abate-padre”. Questi due aspetti sono uniti, dato che “apostoli” e “dottori” sono emissari del Signore. Ci agganciamo così al concetto di monastero come “schola”: la scuola di Cristo deve avere il suo “dottore” che fa le veci dell'unico Maestro. Quindi, non preoccupandosi dell'uso del termine “abate” presso i monaci di Egitto e di altre parti, la RM va subito al NT e si riferisce direttamente a Cristo; così abate non significa altro che “dottore”: le due nozioni hanno lo stesso significato, di una autorità derivante da Cristo. Questa dunque la concezione dell'abate nella RM. SB, nella sua concisione, conserva la sostanza di questa dottrina, pur con modifiche e particolarità proprie, frutto di una diretta e sofferta esperienza in questo campo. SB, cioè, prova che il superiore fa le veci di Cristo dal fatto che è chiamato con il suo stesso nome: “abba-padre”. Al lettore moderno suona molto strano il fatto che Cristo è chiamato “Padre”; e i commentatori hanno cercato di interpretare questo passo che è uno dei più studiati di tutta la Regola! Si sono trovati molti testi di epoca patristica in cui Cristo viene designato come Padre; attraverso Giustino, Clemente Alessandrino, Origene, Atanasio, Agostino, Evagrio Pontico, Cesario di Arles e molti altri, abbiamo la certezza che la dottrina della paternità di Cristo è molto antica, piuttosto comune, tradizionale e ortodossa.

La dottrina della paternità di Cristo Si dà a Cristo il nome di Padre in quanto è il nuovo Adamo (Rm 5,12-21); Sposo della Chiesa (Ef 5,23-33; 1Cor 6,16; Ap 21,9); Maestro dei cristiani (Mt 23,10 ecc.) e il maestro era generalmente considerato come il “padre spirituale” dei suoi discepoli. Cristo può chiamarsi Padre in quanto è la manifestazione della paternità di Dio: Egli è infatti “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Eb 1,3). In che senso bisogna prendere la paternità di Cristo di cui l'abate è vicario secondo la RB? Si tratta anzitutto di una paternità spirituale, e poi anche di una paternità adottiva, secondo l'altra affermazione di Prol 3-7 in cui si dice che Egli (cioè Cristo, secondo l'interpretazione più comune considerato il contesto e il parallelo con la RM) ci ha adottato come figli. Notiamo che la RB è più cauta che la RM (in cui nel prologo c'è il lungo commento al “Padre Nostro” come preghiera diretta a Cristo), però anche qui appare Cristo come Padre adottivo dei monaci e questa paternità fonda la sua autorità su di loro, come quella dell'abate suo vicario. Tuttavia, l'applicazione del testo paolino di Rom 8,15 non è molto appropriata in quanto la frase, nonostante i paralleli nella letteratura patristica, si riferisce per Paolo direttamente a Dio Padre, non al Figlio. Potremmo dire che dando a Cristo il nome di Padre, SB vuole reagire contro la tendenza ariana di considerare il Figlio come inferiore al Padre. Nello sforzo di salvaguardare la divinità del Signore Gesù, troviamo la ragione per cui è messa in ombra la considerazione di Cristo come “Fratello”, per cui la cristologia di SB risulta un pò unilaterale, mentre si è notata la sua devozione alla Trinità: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito sono chiaramente posti in evidenza nella Regola. Ricordiamo il riferimento esplicito all'opera dello Spirito Santo in un momento culminate della Regola: RB 7,70. è senza dubbio come fratello, e non come Padre, che il NT presenta Gesù. I testi sono chiari e numerosi: sono suoi fratelli tutti i poveri, gli abbandonati, gli afflitti (Mt 25,40); “andate a dire ai miei fratelli” (Mt 28,10); Gesù parla di “Padre mio” e “Padre vostro” (Gv 20,17); “primogenito di una moltitudine di fratelli”, dice Paolo (Rom 8,29)...

La unilateralità cristologica della RB presenta l'abate quale vicario non di Cristo-Fratello, ma di Cristo-Padre: eleva l'abate da un livello umano e fraterno – che Cristo adottò nella sua vita mortale – a un piano superiore, eccelso, quasi divino. Certo, ci sono molti passi in cui SB (a differenza della RM) ricorda all'abate la sua condizione di uomo peccatore, di luogotenente, ecc., ma nella RB viene quasi canonizzata una distanza, un livello incolmabile tra l'abate e i monaci. È difficile immaginare l'abate benedettino come un S. Pacomio che serve fraternamente la “koinonia” (= la comunità) con una dedizione e una umiltà non solo interna ma esterna e visibile. Perciò quando alcuni autori dicono che l'abate paragonato al “paterfamilias” romano di potere assoluto, o al “signore feudale” spirituale e nello stesso tempo guerriero, o a un “principe-prelato” dell'epoca barocca, o al “padre-abate” idealizzato e romanticamente sopraelevato dalla restaurazione monastica, sono soltanto delle evoluzioni diverse, attraverso i tempi, della idea originale, si deve riconoscere che, sì, le trasformazioni si devono alle circostanze socio-politiche cambiate; però il fatto di vedere l'abate su un piano notevolmente superiore ai monaci, ha il suo fondamento stesso nella RB (e molto più nella RM).

Posizione dell'abate rispetto a Cristo Posto il principio fondamentale – che l'abate è il vicario di Cristo-Padre – il resto del capitolo contiene continue e insistenti esortazioni dirette all'abate stesso, perché compia fedelmente il suo ufficio che si va definendo a poco a poco. In primo luogo appaiono due immagini, due analogie, corrispondenti a due attributi di Cristo attestati nel Vangelo e illustrati abbondantemente nella tradizione letteraria e dall'arte paleocristiana: Cristo Maestro e Pastore; così l'abate. “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono” (Gv 13,13), “Io sono il Buon Pastore” (Gv 10,14): sono parole di Gesù. Rappresentante di Cristo in monastero, l'abate di conseguenza esercita l'ufficio di maestro e di pastore.

Abate – maestro Come maestro, l'abate “insegna, stabilisce, comanda”, allo stesso modo degli antichi maestri, solo che non insegna una dottrina propria; non impone una sua propria volontà, la sua dottrina è di Cristo, i suoi precetti debbono conformarsi costantemente alla volontà di Cristo. Il governo e la dottrina di lui dovranno essere fermento di santità nell'animo dei monaci; l'idea del fermento è un'allusione alla parabola del Signore (Mt 3,33); si applica, naturalmente, sopratutto all'opera di formazione e di insegnamento, che costituisce un essenziale compito dell'abate e distingue il carattere di lui da quello comune e semplice di capo, di superiore (si ricordi quanto detto sopra dell'idea di abate quale uomo con il carisma di “dottore” secondo la letteratura monastica e sopratutto in RM). Come maestro, l'abate dovrà render conto non solo della sua dottrina, ma anche della condotta dei discepoli. Il che evidentemente non esime costoro dal giudizio divino, come invece pretende la RM (per lo meno in tre passi: RM 1,87.90-92; 2,35-38; 7,53-56: con questo ragionamento i monaci non debbono fare altro che obbedire all'abate e su quest'ultimo ricade tutta la responsabilità dei loro atti). Nella RB non c'è riferimento alcuno a questa strana teoria che fa dei monaci degli “irresponsabili” eterni “minorenni”. Tuttavia l'abate è responsabile dei monaci.

L'abate – pastore Come pastore, si imputeranno all'abate le deficienze del gregge, qualora esse dipendano dalla negligenza del pastore. Il “paterfamilias”, il capo della casa, ha affidato a lui pastore la custodia e l'incremento del gregge; come i servi della parabola evangelica, l'abate dovrà render conto del frutto e sarà ritenuto responsabile di ogni mancanza dovuta alla sua incuria. Si noti la forza con cui SB accentua questa cura pastorale: “tutto lo zelo” [per le anime turbolenti], “con ogni diligenza” [ogni rimedio per le loro infermità]. Solo allora, se il gregge si mostra ostinatamente ribelle, sarà responsabile in proprio della sua rovina e l'abate sarà assolto nel giudizio divino.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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