📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo LVII – Capitolo LVIII – Norme per l’accettazione dei fratelli

1 Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità, 2 ma, come dice l’Apostolo: «Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio». 3 Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta, 4 sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria. 5 Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano. 6 Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l’incarico di osservarli molto attentamente. 7 In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l’Ufficio divino, l’obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune. 8 Gli si prospetti tutta la durezza e l’asperità del cammino che conduce a Dio. 9 Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola 10 e gli si dica: «Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va’ pure via liberamente». 11 Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi possibili. 12 Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda coscienza dell’impegno che sta per assumersi. 13 E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga ancora una volta la stessa Regola. 14 Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità, 15 ma sappia che anche l’autorità della Regola gli vieta da quel giorno di uscire dal monastero 16 e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare liberamente. 17 Al momento dell’ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza, 18 al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco. 19 Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all’abate presente. 20 Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un segno, deponendolo poi sull’altare con le proprie mani. 21 Una volta depositato il documento sull’altare, il novizio intoni subito il versetto: «Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e non deludermi nella mia speranza». 22 Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto, aggiungendovi alla fine il Gloria. 23 Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro della comunità. 24 Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà, 25 ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo. 26 Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e rivestito dell’abito monastico. 27 Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel guardaroba, 28 in modo che, se in seguito dovesse – Dio non voglia!– cedere alla suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l’abito monastico. 29 Non gli si restituisca invece la domanda che l’abate ha ritirato dall’altare, ma sia conservata in monastero.

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Approfondimenti

L'AGGREGAZIONE AL MONASTERO (RB 58-61 + 62 Abbiamo già visto la paura che i monaci antichi avevano dei rapporti con l'esterno, per il pericolo che si infiltrasse nel monastero una mentalità mondana (vedi soprattutto RB 66,7 e 67,5). Per questo motivo i Padri del cenobitismo erano portati a provare duramente i postulanti, a saggiarne lo spirito e la consistenza dei propositi, a negare loro ripetutamente l'ingresso e, una volta ammessi, obbligarli a restare come in quarantena per un periodo più o meno lungo perché riflettessero sulla serietà della propria vocazione e si abituassero al nuovo genere di vita. Cassiano descrive in questo modo l'ammissione dei postulanti nei monasteri d'Egitto: prima si facevano aspettare almeno dieci giorni alle porte del cenobio, provandone la pazienza con ogni sorta di ingiurie; poi si facevano entrare e venivano spogliati di tutto il denaro e dei loro abiti, sostituendovi quelli del monastero; però con tale “vestizione” non erano ancora incorporati alla comunità, ma venivano affidati all'“anziano” che sovrintendeva alla foresteria, e per un anno intero aiutavano a servire gli ospiti, esercitandosi nell'umiltà e nella pazienza; infine passavano a far parte di una decania ed erano candidati ormai membri della comunità cenobitica e ricevevano una formazione specifica (Inst. 4,3-7). SB adottò più o meno questo schema, ma con molte modifiche, o sue originali o attingendo ad altri autori, come la RM, che in questa sezione è lunghissima e particolareggiata. Trattiamo qui dell'ammissione più comune e ordinaria (RB 58), e poi alcuni casi speciali di ingresso in comunità: l'oblazione dei fanciulli (RB 59), l'ammissione dei sacerdoti e chierici (RB 60) e di monaci di altri monasteri (RB 61); per associazione di idee, si parla poi dei sacerdoti del monastero (RB 62).

Preliminari al c. 58 È uno dei più importanti capitoli della Regola, perché non parla solo della procedura per l'accettazione, ma del contenuto stesso della vita monastica, con le idee fondamentali secondo SB: il QUAERERE DEUM, la STABILITAS, la CONVERSATIO MORUM, la OBOEDIENTIA. A questo capitolo corrispondono RM 87-88 e 89-90, molto lunghi, con tutti i dialoghi tra postulante e abate e le esortazioni di quest'ultimo, soprattutto il c.90, in cui quasi tutti i 95 versetti (!) sono occupati da un'omelia dell'abate. SB ha modificato molte cose, ha abbreviato moltissimo, ha soppresso la distinzione tra i postulanti iam conversi (già conversi, cioè coloro che vivevano nel mondo alla maniera dei monaci con una vita penitente, semplice e nel celibato) e i postulanti ancora laici.

1-4: L'ingresso Non bisogna essere facili all'accettazione: la sincerità e la solidità di una vocazione devono essere provate, come suggerisce l'Apostolo (che in questo caso non è S. Paolo, ma S. Giovanni, 1Gv 4,1; il testo si riferisce direttamente ai falsi profeti). Al v. 1 per “vita monastica” c'è il termine “conversatio” che è termine tecnico: per il senso preciso, vedi più avanti (commento al v. 17). Il nuovo venuto, dunque, comincia a trovare difficoltà davanti alla porta. SB però è più discreto: i “pochi giorni” di cui parla Pacomio (Reg 49) e che erano diventati “una settimana” secondo la Reg IV Patrum 2,25 e “dieci giorni” secondo Cassiano (Inst 4,3), diventano quattro o cinque giorni (v. 3). Non è verosimile che in tali giorni restasse sempre all'aperto e allo scoperto, forse veniva ricoverato presso la “cella” del portinaio. Dopo una prima fase davanti alla porta, un'altra breve fase nella foresteria (v. 4).

5-16: Il noviziato Comincia quindi un periodo di prova più definito e specifico, che si svolge in un locale apposito, cella novitiorum (noviziato) per un anno intero, sotto la guida di un “anziano” (che col tempo si chiamerà maestro dei novizi): tutte queste cose sono innovazioni proprie di SB. Nel locale a parte, i novizi passano tutto il tempo libero dall'Ufficio divino e dal lavoro: lì mangiano, dormono e “meditano”: un termine tecnico, quest'ultimo, che comprende sia la lectio divina, sia l'imparare a memoria i testi (la “exercitatio”), l'apprendere, quindi tutto il lavoro di studio e di formazione (vedi commento a RB 48,23).

6: ...un anziano capace di guadagnare le anime L'espressione di questo v. 6 è di origine biblica (Mt 18,15; 1Cor 9,20) e richiama un passo analogo della “Vita Pachomii”,25. Il metodo da seguirsi nel noviziato consta di due parti: da un lato il candidato stesso deve verificare (e il maestro deve osservare questo) se è disposto a cercare Dio attraverso un cammino spirituale specifico; dall'altro il maestro gli deve porre davanti le difficoltà che tale cammino comporta.

7-8: Punti fondamentali di verifica I vv.7-8 sono molto importanti: abbiamo alcune linee fondamentali della vita monastica.

  • Si revera Deum quaerit (se veramente cerca Dio): è colta qui tutta l'essenza e il programma della vita monastica. Si viene al monastero non per uno scopo particolare o per una missione specifica di bene (predicazione, insegnamento, ecc...), ma solo per la ricerca di Dio: è un atteggiamento generale di fondo, un'attitudine religiosa essenziale. Per i monaci, l'assidua ricerca di Dio, dopo che essi sono stati cercati da Lui (cf. Prol 14), diventa la loro ultima ragion d'essere.

  • Se e` pronto all'Opus Dei, all'obbedienza, alle umiliazioni: tre esplicitazioni della sincera ricerca di Dio che il novizio deve verificare; il maestro, poi, dovrà non nascondere le difficoltà del cammino: omnia dura et aspera per quae itur ad Deum (tutte le difficoltà e le asprezze attraverso le quali si va a Dio) (v. 8): anche questa frase è rimasta proverbiale e programmatica nell'iter di formazione del monaco. SB divide l'anno di noviziato in tre periodi disuguali: primi due mesi (v. 9), i successivi sei mesi (v. 12), gli ultimi quattro mesi (v. 13). Alla fine di ciascun periodo si legge al novizio l'intera Regola, “perché conosca bene che cosa affronta entrando” (v. 12). Oggi si usa leggere la Regola durante tutto il noviziato, accompagnata dalla spiegazione particolareggiata del maestro; gli antichi, anzi, raccomandavano di impararla a memoria, e l'uso è rimasto presso alcuni monasteri. Così il novizio va maturando la sua esperienza “in ogni pazienza” (v. 11), ascolta la triplice lettura della Regola (vv. 9.12.13), delibera (v. 14) di osservare tutte le prescrizioni della vita comune, della legge sotto la quale intende militare (v. 10). Allora, al termine del noviziato, lo si ritiene degno di essere aggregato alla comunità monastica (vv.14-16).

17-29: La professione monastica Il suscipiendus (colui che deve essere ammesso) (v. 17) farà ufficialmente professione di vita monastica. Al tempo di SB e per molti secoli non esisteva che una unica professione. La Chiesa è intervenuta, per vari motivi, ad obbligare un periodo di voti temporanei, della durata di almeno tre anni. Quanto è ordinato e descritto qui da SB vale oggi pienamente solo della professione “solenne”, che si usa chiamare anche consacrazione monastica.

17: Contenuto della professione SB fa promettere al candidato tre cose, che impropriamente furono definiti “i tre voti monastici”. In realtà SB non intende qui stabilire tre voti distinti, ma solo indicare l'oggetto della promessa del monaco. Nei pacomiani non si parla mai di voti, anche se c'era la pratica dei consigli evangelici; Basilio parla di consacrazione al Signore fatta per voto (Reg. 14), ma non menziona “voti” espliciti. Certamente la disposizione di SB ha avuto il merito di polarizzare la pratica dei voti monastici (castità e povertà erano inclusi nel fatto stesso di farsi monaco, nella “conversatio”) ed ha influito sulla organizzazione posteriore della vita religiosa. E passiamo al contenuto. Il novizio promette: “de stabilitate sua et conversatione morum suorum et oboedientia” (stabilità, conversione dei costumi, obbedienza9.

Stabilitas Che cos'è veramente la “stabilità”? Senza dubbio è anzitutto la perseveranza (cf. v. 9), cioè stabilità, costanza, fermezza, permanenza in uno stato determinato. La cosa è più complicata (e controversa) quando si vuol determinare con precisione l'oggetto della perseveranza. Tenendo presente il contesto, risulta abbastanza chiaro che si tratta di perseverare nel monastero come monaco sotto la Regola che si accetta di professare, praticamente è il “compromettersi totalmente nella vita monastica”, perseverando fino alla morte, in una comunità, in una permanenza abituale nei recinti del monastero, con l'accettazione della vita comune e l'osservanza regolare. Ricordiamo la finale del Prologo: “perseverando nel monastero fino alla morte, parteciperanno con la pazienza ai patimenti di Cristo” (Prol. 50). Ricordiamo ancora il 4° grado di umiltà: “conservare la pazienza... chi persevererà sino alla fine...” (RB 7,36). Ricordiamo ancora la finale del c. 4: ”... stabilitas in congregatione” (la stabilità nei recinti del monastero), che è l'“officina” dove si adoperano gli strumenti dell'arte spirituale (RB 4,78). Contro il disordine dei monaci girovaghi (RB 1,10-11), contro la “in-stabilitas” lamentata da Cassiano (Inst. 7,9), SB vuole come una delle sue caratteristiche una stabilità di luogo e di famiglia che aiuta a superare la instabilità del cuore. Il concetto di stabilità ha oggi un significato più allargato, secondo le diverse Congregazioni monastiche, e ammette delle eccezioni anche dove si è legati ad un singolo monastero. Rimane comunque il senso primordiale e fondamentale della perseveranza, con la pazienza, sull'esempio di Cristo: “In ultima analisi, promettere la stabilità è compromettersi nel partecipare alla pazienza, nella obbedienza, nella perseveranza di Cristo che furono totali, assolute, senza limiti...” (J. Leclerq). “È l'incarnazione, la cristallizzazione di un'attitudine, e di un'attitudine puramente spirituale...; la vita religiosa è un compromettersi per tutta la vita...; si entra in uno stato cristiforme...; si rimane in monastero perché si rimane in Cristo” (H. U. Von Balthasar).

La conversatio morum Prima si leggeva conversio monastica, cioè il novizio prometteva di cambiar vita, lasciare i costumi del mondo per acquistare quelli di un vero monaco. I recenti studi critici fanno ritenere genuina la lezione conversatio, piuttosto che conversio. Il termine “conversatio” può derivare dall'intransitivo “conversari” e significa: modo, tenore di vita, condotta; oppure dal transitivo “conversare”, da “convertere”, nel senso di rivoltare, rigirare, e allora equivale a “conversio”, sia in senso proprio che figurato. Come termine specifico monastico può quindi significare, oltre il semplice “modo di vivere”, anche l'entrata, la dimora in monastero, l'appartenenza allo stato monastico, oppure, in senso più limitato, la vita ascetica nello stato monastico; infine, come equivalente di “conversio”, significa la conversione, il mutamento di vita. Nella RB queste sfumature ci sono; nei passi in cui appare il termine, può valere in genere “vita monastica”: Prol. 49; RB 1.3; 1,12; 2,18; 21,1; 22,2; 58,1; 63,1; 63,7; 73,1-2. Però qui, in RB 58,17, l'aggiunta morum suorum (dei propri costumi) crea difficoltà. Secondo Steidle, la :“conversatio”_ designa qui ugualmente la vita monastica stessa (secondo un gran numero di testi antichi) e “morum suorum” non è che un “genitivo di ridondanza”, cioè una forma letteraria in cui nome e genitivo non sono realtà diverse, ma due sinonimi che si rafforzano reciprocamente. Il novizio così promette di osservare quella “conversatio” che aveva voluto abbracciare bussando la prima volta alla porta del monastero (v. 1). D'altronde la Mohrman ha dimostrato egregiamente lo scambio avvenuto tra i due termini e l'uso di “conversatio” anche nel significato di “conversio”. Tra “conversione dei costumi” come condotta virtuosa, oppure come stile di vita, applicati ambedue all'esistenza del monaco, non c'è dunque grande differenza, ma vogliono in fondo significare la medesima cosa. Potremmo vedere nel termine due prospettive secondo le due etimologie: la prima indicherebbe l'aspetto statico (cioè uno “stile” da monaci secondo la Regola); l'altra indicherebbe l'aspetto dinamico (la promessa di andare dal male verso il bene, e dal bene verso il meglio, l'impegno nel continuo superamento, nel rifiuto di fermarsi o di stagnarsi nella “corsa spirituale”). Ricapitolando, all'origine del termine c'è l'idea del genere di vita, la vita in comune, la maniera di vivere (“conversari”); ma questa maniera di vivere suppone e implica un cambiamento della condotta (“conversare”, da cui “convertere”), per cui il monaco è cosciente sempre di dover tendere ad perfectionem conversationis. Così “conversatio morum” non indica solamente il passaggio dal mondo alla vita monastica, ma la vita monastica stessa in ogni momento della sua tensione dinamica (e include e trascende i tre voti di povertà, castità e obbedienza). La vita monastica deve essere una corsa continua, un progresso nella “conversatio” e nella fede, come dice Prol. 49; la “conversatio morum” assicura l'“allargamento del cuore” (il “dilatato corde”) di cui parla ancora Prol. 49: per correre nella ineffabile dolcezza dell'amore di Cristo (cf. RB 7,68-70 con Prol. 49), nel cammino del ritorno verso il Padre (Prol. 2).

La Oboedientia Dei tre voti essenziali ad ogni stato religioso e già inclusi nella precedente “conversatio”, è espressamente nominata l'obbedienza, perché è il dono più elevato, perché indispensabile alla interna organizzazione del cenobio, perché per SB è la cosa più importante; praticamente ne ha parafrasato la materia nei vv. 14-16. Il novizio allora, al termine di un anno di prova e di matura riflessione, promette solennemente di perseverare nel recinto del monastero e nella comunità, a cui da allora in poi appartiene (stabilitas), in un costante progresso nelle virtù monastiche (conversatio) e nella docilità ai precetti della Regola e ai comandi dell'abate (oboedientia). Oggi la professione si emette “secondo la Regola di S. Benedetto e le Costituzioni della Congregazione ... ” cui si appartiene, perché le Dichiarazioni e le Costituzioni approvate dalla S. Sede integrano e interpretano la Regola secondo le particolari esigenze di tempo e di luogo e le tradizioni proprie di ciascuna Congregazione.

17-29: Rito della professione Dopo la riflessione sopra il contenuto della professione monastica, esaminiamone brevemente il rito come descritto da SB. Il novizio farà la sua professione davanti a tutti (v. 17) e soprattutto davanti a Dio e ai suoi Santi (v. 18). Deve redigere un documento giuridico, la “petitio” (oggi diciamo “la carta di professione”) scritta possibilmente di suo pugno, da lui firmata e che poi egli stesso porterà sull'altare (vv. 19-20). Benché la Regola non lo dica espressamente, da questo e da altri indizi (soprattutto da RB 59,2 e 8 in cui si dice di unire la “petitio” alla “oblatio”, cioè il pane e il vino per l'Eucarestia), si deduce che la professione avveniva durante la Messa, al momento della presentazione dei doni: la tradizione benedettina è unanime su questo punto. In tal modo la professione monastica acquista la sua dimensione teologica piena: nel contesto eucaristico viene espresso pienamente il dono di se stesso che il monaco fa a Cristo e in unione al sacrificio di Cristo.

Dopo la deposizione del documento sull'altare vicino alle offerte, il triplice canto del Suscipe (Sal 118, 116) intonato dal novizio e ripetuto dalla comunità intera (vv. 21-22), è molto significativo: Accoglimi, Signore, secondo la tua parola..., canta il monaco al momento supremo della sua consacrazione a Dio, in risposta alla chiamata che il Signore gli ha diretto (cf. Prol. 14-20). Non c'è monaco che non senta riempirsi l'anima di commozione e di dolcezza al ricordo del suo “Suscipe”. La rubrica seguente (v. 23) contiene ugualmente un significato profondo: il neo professo si prostra ai piedi dei fratelli chiedendo preghiere; quanto più arduo è il cammino, tanto più c'è bisogno della Grazia, e la preghiera fraterna costituisce il primo aiuto che riceve dalla comunità di cui ormai fa parte. Nei vv. 24-25 si parla della disappropriazione che deve essere fatta o distribuendo i beni ai poveri (prima della professione) o cedendoli al monastero con una donazione legale, dato che “da quel giorno non sarà più padrone nemmeno del proprio corpo” (v. 25).

Poi si parla della “vestizione” in maniera alquanto sorprendente e diversa da come aspetteremmo noi oggi e anche da quanto appare in Cassiano e in RM. SB non parla di “abito monastico” (l'espressione non appare mai nella Regola), ma solo che “sia svestito dei propri abiti e rivestito con quelli del monastero” (v. 26): è solo un segno e una conseguenza della totale disappropriazione; a lui non resta di proprio assolutamente nulla, neanche i vestiti con cui giunse al monastero; SB insomma non dà importanza all'abito monastico (vedi a questo proposito quanto detto nel commento a RB 55). Il capitolo si conclude alludendo al caso di abbandono e, incidentalmente, sappiamo che l'abate prende dall'altare la “petitio” e la fa conservare nel monastero per sempre, anche nel caso di infedeltà del monaco. Tale prescrizione ha un senso giuridico ed economico: siccome nella petitio era inserita la “donatio” dei beni, la carta non veniva restituita per evitare reclami da parte dell'uscito.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVII – I monaci che praticano un’arte o un mestiere

1 Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un’arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l’abate lo permetta. 2 Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero, 3 sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l’abate non glielo permetta di nuovo. 4 Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci, coloro, che sono stati incaricati di trattare l’affare, si guardino bene da qualsiasi disonestà. 5 Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo, 6 colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero. 7 Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l’avarizia, 8 ma bisogna sempre venderli un po’ più a buon mercato dei secolari «affinché in ogni cosa sia glorificato Dio». =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

La povertà individuale del monaco, lo spogliamento di sé acquista qui un aspetto più spirituale che materiale: il monaco deve essere distaccato dalla proprietà privata anche nei suoi pensieri.

1-3: Gli artigiani del monastero La base di sussistenza del monastero, secondo la RB è la terra lavorata da operai a pagamento o dai monaci stessi (cf. RB 48). Tra i fratelli potrebbero trovarsi alcuni che o già nel mondo o in monastero si sono resi abili in un'arte. SB non specifica nulla; pare gli interessi poco; ciò che a lui interessa è il bene spirituale, quindi evitare il rischio della mancanza di umiltà: cose che sono al di sopra di ogni considerazione di guadagno per il monastero. Perciò potranno questi monaci esercitare la loro arte, ma solo con il consenso dell'abate (v. 1) e senza ritenersi indispensabili, vantandosi di portare un utile al monastero. Forse SB si ispira a S. Agostino, il quale parla di monaci che hanno portato delle sostanze al monastero e che potrebbero insuperbirsi di ciò. Potrebbe ispirarsi anche a Cassiano (Inst. 4,14) che parla del lavoro dei monaci egiziani. Per SB, se gli artigiani non sono capaci di disinteresse e di distacco, deve proibirsi loro di esercitare la loro arte (v. 3).

4-9: Vendita dei prodotti del lavoro Per la vendita dei prodotti del monastero sono due i vizi da evitare: la frode e l'avarizia. La frode potevano commetterla o gli artigiani stessi o altri monaci o altri intermediari. L'avarizia, sotto il pretesto di maggiori introiti per il monastero, sarebbe una cosa grave sia per i monaci singoli che per il buon nome del monastero stesso. Per evitare ciò, si venderà aliquantulum (un pochino) di meno di quanto vendono i secolari. S. Girolamo (Epist. 22,34) parla con ironia dei monaci sarabaiti, i quali, “come se fosse santo il loro lavoro, e non la vita, vendevano a prezzi maggiori”!

9: _Ut in omnibus glorificetur Deus..._ ...Affinché in tutto sia glorificato Dio. Anche nel trattare interessi così secondari e temporali, il fine e l'ispirazione devono essere di carattere soprannaturale. La bella sentenza, presa da S. Pietro (1Pt 4,11), ricordata quasi incidentalmente in un passo secondario della Regola e a proposito di un argomento così poco spirituale, esprime bene lo spirito di fede del S. Patriarca, ed è divenuta un programma e un motto dei nostri monasteri, dove si trova spesso anche abbreviata in sigla: U. I. O. G. D.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LVI – La mensa dell’abate

1 L’abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini. 2 Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che vuole. 3 Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il mantenimento della disciplina.

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Approfondimenti

1-3: Senso del capitolo Il breve capitolo va considerato come complemento del capitolo dell'ospitalità: c'è una cucina e una mensa propria per i forestieri e per l'abate. Questi mangia sempre con gli ospiti e, nel caso questi fossero pochi, l'abate può invitare alcuni dei fratelli, purché rimangano sempre uno o due seniori a tutelare la disciplina nel refettorio comune.

Il capitolo, uno dei più brevi di tutta la Regola, è stato il tormento dei commentatori, antichi e moderni. Alcuni hanno ritenuto inammissibile che SB faccia mancare abitualmente l'abate dalla mensa comunitaria, che è uno dei segni maggiori della vita fraterna e della comunità radunata nel nome di Cristo. DeVogué ha interpretato che gli ospiti fossero introdotti nel refettorio monastico e mangiassero alla “tavola” (“mensa” = nel senso di tavola) dell'abate, in giorno di digiuno con orario diverso (in modo che l'abate – solo lui – interrompesse il digiuno), negli altri giorni insieme alla comunità. Ma questa ipotesi renderebbe incomprensibile il v. 3 e non risponderebbe alla “mens” di SB, il quale vuole che gli ospiti non disturbino con la loro presenza la vita regolare dei monaci.

Dobbiamo dire che separare l'abate dai fratelli in un momento così significativo della vita della comunità come la refezione comune, costituisce il prezzo che SB si considerò obbligato a pagare affinché l'esercizio dell'ospitalità non intralciasse lo svolgimento normale del ritmo della giornata monastica. Certo, la cosa generò, nel corso dei secoli, abusi e inconvenienti: si pensi alla grande stortura che più tardi si verificò dando alla “mensa abbatis” il senso di “beneficio ecclesiastico”, con patrimonio proprio, distinto da quello della comunità; fu il pretesto per una lunga serie di gravi abusi che influirono molto negativamente sullo spirito monastico, specialmente nel periodo dei cosiddetti “abati commendatari”.

Naturalmente, oggi, tutto ciò è sorpassato e l'abate presiede abitualmente ai pasti comuni; gli ospiti o mangiano a parte o sono ammessi al refettorio monastico assieme alla comunità.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LV – Gli abiti e le calzature dei monaci

1 Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano, 2 perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in quelle calde di meno: 3 il giudizio al riguardo è di competenza dell’abate. 4 Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco una tonaca e una cocolla, 5 quest’ultima di lana pesante per l’inverno e leggera o lisa per l’estate; 6 inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze. 7 Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può trovare sul posto ed è più a buon mercato. 8 L’abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa. 9 I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri. 10 Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi cambiare la notte e per lavarle; 11 il di più è superfluo e dev’essere eliminato. 12 Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev’essere restituito, quando ne viene assegnato uno nuovo. 13 I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno. 14 Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po’ migliori di quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno. 15 Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine. 16 I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall’abate, per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale. 17 E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha ricevuto dall’abate, sia sottoposto a una gravissima punizione. 18 Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà, l’abate distribuisca tutto il necessario 19 e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago, fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno. 20 In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che «Si dava a ciascuno secondo le sue necessità». 21 Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi. 22 Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

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Approfondimenti

1-8: I vestiti dei monaci Anche S. Agostino, subito dopo le norme sull'accettazione di lettere o regali, parla del vestiario dei monaci: un punto su cui è più facile che si insinui il vizio della proprietà. Questo capitolo della RB si ricollega a RM. 81 e, nella seconda parte, a RM. 82. Che cosa deve avere dunque ciascun monaco per uso suo personale? Vestiti, calzature e pochi utensili: lo stretto necessario. RB 55 intende precisarlo, ma solo fino a un certo punto. Perché SB ha troppa esperienza, prudenza e sensatezza per imporre un vestito uniforme, un “abito religioso” nel senso moderno della parola, valido e obbligatorio per tutti i luoghi e per tutte le persone. SB vuole che si tenga conto del clima (vv. 1-3), e ciò fa capire che egli ha una prospettiva ampia (non pensa solo al monastero di Montecassino o di Terracina); esprime la sua opinione su ciò che basta in un clima temperato (vv. 4-6); non gli interessano il colore e la qualità, e vuole che i monaci non se ne curino (vv. 7-8). Ciò che gli interessa è la povertà, o meglio la semplicità: che ci si accontenti del necessario; difatti SB insiste sulla sobrietà (sufficit “basta” dei vv. 4 e 10) e sul ruolo dell'abate nel fornire il vestiario (v. 8).

L'elenco del vestiario fornito dalla Regola è abbastanza ridotto: una cocolla di lana per l'inverno e un'altra più leggera o consumata per l'estate, la tunica, lo scapolare “per il lavoro” propter opera, scarpe e calze (vv. 4-6). Tutto sembrerebbe chiaro, e invece non lo è affatto, perché nessuno dei capi di vestiario menzionati corrisponde a quelli in uso oggi nei monasteri; anche se i nomi sono rimasti, il significato è mutato. Vediamo in breve:

L'evoluzione dell'abito monastico Gli storici disputano sul senso degli antichi testi relativi all'abito dei monaci. Alcuni dicono che esso era certamente riconoscibile e che, sin dai testi pacomiani, “prendere l'abito”, o riceverlo dalle mani di un altro monaco equivaleva a impegnarsi nello stato monastico. Altri dicono che l'abito monastico non aveva nulla di specifico, in quanto ciò non era ammissibile per gli usi del tempo. La cosa è discutibile e i testi sono interpretati nell'uno o nell'altro senso. Certo è che l'abito monastico doveva mettere in risalto la povertà, l'umiltà: ora il problema è sapere se facevano questo prendendo un abito particolare, oppure scegliendo l'abito comune della gente più povera e più semplice.

In oriente In oriente gli anacoreti usavano la massima libertà. Forse il primo abito monastico distintivo fu la “melota”: una specie di zimarra larga, fatta di pelli di capra o di altro animale, stretta al corpo da una cintura di cuoio; ricordava – e senza dubbio voleva pure imitare – il vestito di Elia (cf. 2Re 1,8) e di Giovanni Battista (cf. Mt 3,4), i due precursori dei monaci cristiani. I monaci d'Egitto continuarono per molto tempo a usare la melota, però, in genere, solo come difesa dal freddo. Abitualmente invece indossavano una tunica con o senza maniche, una cintura di cuoio e un cappuccio “Koukoullion” che copriva il capo e il collo. Così la maggior parte degli eremiti e cenobiti di S. Pacomio. S. Basilio non prescrive un abito tipico, ma un vestito povero, semplice, simbolo della rinunzia alla vanità del mondo.

In occidente In occidente l'abito monastico è stato il più vario. S. Girolamo descrive – esagerando un pò – le bizzarrie e le stravaganze nel vestire dei vari monaci che giravano per Roma. S. Martino di Tours e i suoi monaci indossavano una tunica tessuta con pelle di cammello e un “pallium” o mantello nero. Il pallium era a quel tempo il contrassegno più comune del monaco in Gallia e nell'Africa romana. Cassiano attribuisce grande importanza all'abito monastico, cui dedica tutto il primo libro delle Institutiones. In occidente comunque finì per imporsi il cappuccio, tanto che i monaci furono conosciuti come gens cucullata (persone incappucciate), e si conservava anche la melota: S. Benedetto eremita a Subiaco andava vestito di pelli (II Dial. 1) e da abate continuò a portarla (II Dial. 7). La RM (90,82-86) usa le espressioni “vestiti santi”, “abiti sacri”, “abito di Cristo”, abito del santo proposito”, cioè per il Maestro esiste un abito distintivo.

La RB Al contrario, la RB non ha nulla di esplicito: probabilmente né la cuculla, né la tunica, né lo scapulare che i primi monaci di S. Benedetto indossavano, erano abiti specificamente monastici. La “tunica” di lana era l'indumento più importante, insostituibile; tutti i romani l'avevano; già fin dal secolo III d.C. si usava un cinturone di cuoio: “bracile”; in RB 22,5 si parla di corde o tunicelle: “cingulis aut funibus”). La “cuculla” consisteva originariamente in un semplice cappuccio che copriva la testa, il collo e parte delle spalle; più tardi si modificò. La cocolla di SB era forse un mantello semicircolare chiuso (molto simile alle ampie casule); costituiva il vestito esteriore del monaco, come lo prova il fatto di averne due, una per l'inverno e una per l'estate. Probabilmente se la toglievano per lavorare, sostituendola con lo scapolare. Lo “scapulare” è il pezzo più discusso: alcuni lo identificano con lo “analabos” di cui parla Evagrio Pontico, cioè la cinta di lana che girava intorno al corpo per aggiustare e adattare il vestito alla persona; altri pensano a un modello più ridotto di cocolla, più adatto per il lavoro manuale, una cocolla particolarmente corta da coprire poco più che le spalle (“scapulare”, appunto). Quest'ultima opinione è la più probabile. Per i piedi si parla di pedules et caligae (calze e scarpe), ma non si è affatto d'accordo sul significato dei termini usati da SB. Secondo alcuni, i “pedules” sarebbero una specie di sandali legati al collo del piede con lacci (come le “ciocie” usate nella zona di Cassino I (che è la “Ciociaria”); le “caligae” invece erano stivaletti da viaggio e da campagna. Sembra più probabile che “pedules” fossero un indumento di stoffa che avevano l'ufficio delle nostre calze, e “caligae” fossero le scarpe simili alle calzature militari, stivaletti che coprivano interamente il piede. Comunque, a parte queste considerazioni archeologiche di importanza relativa, certo è che SB lascia una grande libertà per quanto riguarda la qualità, il colore, la foggia dei vestiti (v. 7). Da questo e da altri indizi, pare che nessuno dei capi di vestiario citati in questo capitolo appartenga esclusivamente ai monaci: l'abito dei primi benedettini non differiva essenzialmente da quello dei contadini, dei poveri e degli schiavi, cioè delle classi inferiori della società. È sintomatico che SB non parla mai dell'abito monastico, se non nel momento della professione (RB 58,26), il che è tanto più strano in quanto Cassiano, il suo autore preferito, e la RM trattano di esso lungamente ed esaltano il valore religioso e il simbolismo dell'abito monastico come segno distintivo (cf. Inst. 1: tutta la descrizione dell'abito e il suo simbolismo; RM 81; 90,82-85; 95,21; ecc...). Per SB il distintivo del monaco è la tonsura (RB 1,7). Se nella professione il monaco viene spogliato del suo abito e ne riceve un altro completo (e notiamo che lì non si dice “abito monastico” o “abito santo” o simili, ma semplicemente “vestiti” – anzi “rebus” (le robe) – del monastero, RB 58,26), ciò vuol significare direttamente che egli ha perduto il diritto di proprietà. Insomma, SB non dà importanza a queste cose. Fare una storia dell'evoluzione dell'abito monastico lungo i secoli è pressoché impossibile. Certamente nel sec. VI non era usato il colore nero, che era ritenuto un lusso (S. Cesario lo proibisce espressamente). Oggi quasi tutti i benedettini usano il nero; i Camaldolesi, gli Olivetani e i monaci di Montevergine usano il bianco; i cisterciensi e i Trappisti usano tonaca bianca e scapolare nero.

Nella Congregazione Silvestrina, all'inizio l'abito era de gattinello, cioè di un panno di lana di colore misto risultante dalla combinazione del grigio o cenerino con il lionato. Per questo nel medioevo i Silvestrini furono chiamati, come i Vallombrosani, monaci “grisei” (grigi). Col passare del tempo il lionato prese il sopravvento sul grigio, fino a diventare tanè, come si può vedere da numerose pitture esistenti. Nel 1663, al tempo dell'unione con i Vallombrosani, fu adottato il colore nero. Le Costituzioni del 1690 stabiliscono l'abito di colore tanè o lionato che pieghi allo scuro. In seguito, non sappiamo precisamente quando, si adottò il colore bleu fino al 1933. Attualmente, a partire da quella data, l'abito è nero e la cocolla (abito corale) è di colore turchino tendente al nero. In India e Sri Lanka, viene usato il bianco. In Australia, da qualche anno, usano, opzionale d'estate, anche il colore bianco.

9-14: Disciplina per rilevare e consegnare i vestiti SB vuole evitare che i monaci accrescano il guardaroba. “Bastano due tuniche e due cocolle”. Sappiamo che i monaci dormivano vestiti, per essere pronti a recarsi all'Ufficio notturno (RB 22), e quindi avevano la tunica e forse anche la “cuculla”... Notiamo il vigoroso sufficit (basta) all'inizio del v. 10 e tutto il v. 11: quel che è in più è superfluo e si deve eliminare (così anche in Pacomio, Reg. 81). Al v. 13 si parla di femoralia (femorali): corrispondono pressappoco alle odierne “mutande”. Ordinariamente non erano usati, ma solo in viaggio, soprattutto per cavalcare. Nei monasteri il loro uso fu però assai vario: in alcuni luoghi li portavano abitualmente tutti (come a Cluny); in altri chi li voleva, in altri era addirittura proibito. Notiamo anche la delicatezza e la signorilità di SB nel prescrivere vestiti migliori per chi viaggia (v. 14).

15-19: Fornitura del letto e precauzioni contro il vizio della proprietà La stessa semplicità che distingue l'abito del monaco, deve contrassegnare il suo letto: sufficiant (bastano), (di nuovo, per la terza volta, appare questo verbo!), un pagliericcio, una coperta leggera, un cuscino (v.15). Il letto era allora l'unico mobilio personale del monaco, e pare che servisse da nascondiglio per le piccole cose che i monaci sottraevano all'uso comune. La RB, come tutti i documenti monastici antichi, invita l'abate a ispezionare con frequenza e a punire severamente i colpevoli di un vizio così odioso, cioè la proprietà (vv.1 6-17). Sono rimasti famosi alcuni fatti di monaci trovati in possesso di denaro dopo la morte e trattati molto rudemente per tale motivo (privati della sepoltura ecclesiastica!): cf. S. Girolamo in Epist. 22,23 e il fatto di S. Gregorio Magno quando era abate al Celio. L'ispezione “opus peculiare” del v. 16, si ispira a Cassiano (Inst. 4,14), dove significa: guadagno procurato con lavori particolari. In RB, invece, ha il senso di “cose ritenute senza il permesso dell'abate”.

20-22: L'abate deve provvedere ai singoli Però, per estirpare dalle radici il “vizio della proprietà” (di nuovo appare l'espressione usata in RB 33,1), l'abate deve dare a tutti i fratelli il necessario. Osservazione molto pertinente: altrimenti se lo procurano di nascosto! è stato sempre così!. In tal modo invece, non hanno alcun pretesto per compiere atti di proprietà. Le disposizioni precedenti ricordano l'energico c. 33; solo che, invece di dirigersi ai monaci, qui la Regola parla all'abate: dia egli tutto il necessario, secondo la frase di Atti 4,35 già citata nel c. 34: “veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”. E di nuovo la Regola parla a favore dei deboli che necessitano di più. A queste necessità deve badare l'abate nel dare le cose, e “non alla cattiva volontà degli invidiosi” (v. 21); cioè non deve omettere di soddisfare le necessità dei monaci più deboli per dare retta a quelli che, mossi da invidia, non tollerano eccezioni o agevolazioni. Così il trattato sulla proprietà (spogliamento di sé) costituito dai cc. 33-34 riceve nel c. 55 un complemento indispensabile, che potrebbe intitolarsi “la responsabilità dell'abate nel mantenimento della vita comune” (DeVogué).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIV – La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci

1 Senza il consenso dell’abate nessun monaco può ricevere dai suoi parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli. 2 E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di accettarlo, senza averne prima informato l’abate. 3 Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il dono, può sempre assegnarlo a chi vuole 4 e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di afflizione, per non dare occasione al diavolo. 5 Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto ai castighi dalla Regola.

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Approfondimenti

Non ricevere nulla senza permesso Questo breve capitolo non è che l'applicazione di quanto prescritto in RB 33,2: “Nessuno ardisca dare o ricevere qualcosa senza il permesso dell'abate”. Si è già detto quanto SB sia severo in materia di povertà, per lo spogliamento e il distacco del monaco. La fonte è soprattutto S. Agostino (ma anche Pacomio, Cassiano, Cesario); tuttavia, mentre Agostino parla della castità (ricevere alcunché da qualcuna, cioè da una donna) e della clausura, RB si riferisce alla povertà (e all'obbedienza: non disporre di nulla senza il permesso dell'abate).

Per il monaco destinatario si aggiunge la raccomandazione di non lamentarsi (cf RB 34,3) nel caso che l'abate dia il permesso di accettare il regalo e poi lo dia a un altro fratello che forse ne ha più bisogno, secondo lo spirito del c. 34: è un caso concreto di distribuzione delle cose in comune. Pertanto quel monaco a cui era inviato il regalo non deve rattristarsi, “per non dare occasione al diavolo” (cf Ef 4,27; 1Tim 5,14), cioè per non cedere alla tentazione del malcontento, dell'agitazione, della mormorazione.

Il termine “eulogia” (letteralmente: “buona parola”, “benedizione”) ha tanti significati: designava anzitutto l'Eucarestia e il pane benedetto durante la messa che si inviavano vicendevolmente vescovi e presbiteri, in segno di comunione e di amicizia. S. Paolino da Nola ne mandava ai suoi amici, come S. Agostino. Anche quel briccone di Fiorenzo, quando inviò a SB il pane avvelenato, simulò di mandare un'eulogia (II Dial. 8). Designava ancora il pane offerto dai fedeli che non veniva consacrato per l'Eucarestia e veniva distribuito al termine della liturgia. Il vocabolo servì poi ad indicare ogni pio dono, come reliquie, medaglie, immagini e anche frutta e piccoli doni tra i più vari. In questo testo, dunque, significa piccoli regali, magari con incluso il carattere quasi sacro di regalo tra ecclesiastici e persone consacrate a Dio (SB pensa probabilmente ai regaletti fatti ai monaci dalle monache o pie donne, cf II Dial. 19).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LIII – L’accoglienza degli ospiti

1 Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: «Sono stato ospite e mi avete accolto» 2 e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini. 3 Quindi, appena viene annunciato l’arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; 4 per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. 5 Questo bacio di pace non dev’essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche. 6 Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza, 7 adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità. 8 Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro. 9 Si legga all’ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità. 10 Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all’ospite, 11 mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito. 12 L’abate versi personalmente l’acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda; 13 lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti 14 e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: «Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio». 15 Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d’altra parte, l’imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé. 16 La cucina dell’abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall’arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero. 17 Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve. 18 A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n’è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l’obbedienza. 19 E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio 20 e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine. 21. Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio: 22 in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge. 23 Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l’incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti, 24 ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

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Approfondimenti

Il c. 53 sull'ospitalità è in linea con tutta la tradizione monastica. La S. Scrittura parla dell'accoglienza degli ospiti come di un esercizio fondamentale della carità fraterna (cf. Rm 12,13; 13,8; ecc.) e Gesù dice che nelle persone di ospiti e pellegrini si riceve lui stesso (Mt 25,35-43). Fin dalle origini del monachesimo, ricevere poveri, pellegrini e ospiti fu ritenuta una pratica sacrosanta della vita quotidiana: così presso i Padri del Deserto (abbiamo tanti esempi e aneddoti nei “Detti”), presso anacoreti, presso i cenobiti pacomiani. SB si mostra degno erede di questa tradizione. Per il c. 53 della RB abbiamo nella RM vari capitoli (RM 65; 71-72; 78-79), in cui da una parte notiamo grande comprensione e carità (addirittura il Maestro fa anticipare il pasto dei fratelli a sesta, se l'ospite si trattiene); d'altra parte notiamo differenza nei confronti di ospiti che si fermano più giorni: in essi potrebbero nascondersi parassiti e ladri. SB ha soppresso tanta casistica e parla dell'ospitalità in un solo capitolo unitario e ben compatto, tutto pieno di un profondo spirito di fede, di calore umano e di carità fraterna.

Struttura del capitolo RB 53 si divide in due parti:

  1. la prima (vv. 1-15) descrive l'accoglienza con una piccola teologia dell'ospitalità (è ispirata soprattutto alla “Historia Monachorum in Aegypto” tradotta da Rufino);
  2. la seconda (vv.16-24) parla dell'organizzazione dell'ospitalità nel monastero, con le ripercussioni per la vita interna del cenobio e la pace dei fratelli.

Appare, anche dalla struttura e dal vocabolario, che questa seconda parte dovette essere composta in un secondo tempo da SB; in seguito alla pratica continua dell'ospitalità, alle varie esperienze, agli inconvenienti notati, il santo Patriarca dovette aggiungere alcune precisazioni. Le campagne italiane non erano certo il deserto dell'Egitto, gli ospiti a Montecassino affluivano incessantemente e a volte in buon numero; tale afflusso avrà pregiudicato il clima di preghiera e il silenzio in cui vivevano i monaci. Da qui alcune restrizioni aggiunte alla prima stesura, per armonizzare le irrinunciabili tradizioni dell'ospitalità monastica con le esigenze della vocazione cenobitica.

1-15: Accoglienza degli ospiti: teologia dell'ospitalità Esaminiamo ora il testo “Ero pellegrino e mi avete ospitato” (Mt 25,35). La frase di Matteo domina tutta la prima parte del capitolo e costituisce la base per il principio generale che tutti gli ospiti che giungono al monastero siano accolti come Cristo in persona (v. 1). Mettiamo l'accento su quel “tutti” con cui si apre il capitolo. SB intende bandire ogni distinzione di grado sociale. Ognuno poi sia ricevuto con l'onore dovuto, “soprattutto i nostri fratelli nella fede e i pellegrini” (v. 2). Domestici fidei (fratelli nella fede) sembra si debba interpretare nel senso di monaci o anche chierici e in genere quelli che fanno professione di speciale servizio a Dio (ciò sarebbe confermato anche da passi di Pacomio, Cassiano, Girolamo). Pellegrini: quelli che vengono da lontano a scopo di pietà e di devozione. I pellegrinaggi ai luoghi santi della Palestina e di Roma erano allora frequenti e i monasteri erano il naturale rifugio nelle soste dei pii viaggiatori. Dunque i “domestici fidei”, per la loro professione sacra, e i “peregrini”, per il loro sacro scopo di viaggio, meritano particolare cura ed onore. A questi SB aggiunge i “poveri” (v. 15), specificando che specialmente nei poveri e nei pellegrini si riceve Cristo.

Posto il principio, SB passa a descrivere il rito dell'accoglienza, i cui vari atti erano nella tradizione della Chiesa primitiva e del monachesimo: accorrere a ricevere l'ospite, umiltà nel riceverlo, preghiera, bacio di pace, lettura della S. Scrittura, lavanda dei piedi... (vv. 3-14). A proposito della lavanda dei piedi (vv.12-14), ricordiamo che essa era anticamente assai comune ed era necessaria a causa del viaggiare a piedi. Praticamente dobbiamo ritenere che non ad ogni “benvenuto” tutta la comunità andasse a compiere questo atto, ma che per tutti insieme i nuovi venuti si eseguisse la lavanda in un solo tempo della giornata, e che i fratelli la facevano a turno, in modo che “tutta la comunità” adempisse questo atto di servizio e di umiltà. A tal riguardo gli usi nei monasteri furono i più vari. Bello lo spirito di fede che aleggia nel v. 14: i monaci vedono nell'ospite arrivato una manifestazione della grazia e della benevolenza di Dio: “Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia (=grazia)...” (Sal 47,10).

16-24: Organizzazione dell'ospitalità Dato che nel monastero bisogna accogliere tutti coloro che chiedono ospitalità – (ricordiamo l'8° strumento delle buone opere: “onorare tutti gli uomini” (RB. 4,8) che si riferisce senz'altro all'ospitalità) – potrebbero derivare inconvenienti per la vita comune, poiché gli ospiti, “che non mancano mai in monastero” (v. 16), arrivano alle ore più impensate. Ecco allora la necessità di una certa organizzazione, per compiere bene l'esercizio dell'ospitalità. Abbiamo quindi la cucina a parte con un personale specializzato, la foresteria e il foresteriario, con eventuali aiutanti: ambedue le cose sono creazioni di S. Benedetto rispetto alla RM. Il santo patriarca vuole che la casa di Dio sia amministrata da saggi e saggiamente (v. 22). Sappiamo che nel mandare alcuni monaci a fondare il monastero di Terracina, SB parlò di posto per “l'oratorio, il refettorio per gli ospiti, la foresteria...” (II Dial. 22); e ancor oggi non si concepisce monastero benedettino senza una parte riservata a foresteria.

Il capitolo si chiude con la proibizione ai monaci di parlare con l'ospite, e sembra una nota un po' negativa in un testo iniziato con tanto slancio spirituale. SB è guidato dall'intenzione di salvaguardare l'osservanza regolare; non si tratta solo del silenzio, ma anche di evitare il contatto col mondo esterno, come si vedrà anche in RB 66,7 e 67,4-5. Però l'osservanza della Regola non significa mancanza di educazione: incontrando l'ospite, il monaco non ometterà di salutare gentilmente e di domandare umilmente la benedizione, secondo l'uso del tempo.

Conclusione e applicazione oggi Il bel capitolo sull'ospitalità ha generato la gloriosa tradizione dell'ospitalità benedettina, una delle manifestazioni caratteristiche dello spirito e dello stile benedettino, che ha svolto anche un'opera di altissimo valore sociale nella storia d'Europa. Oggi, certo, la situazione è cambiata: rapidissimi mezzi di comunicazione, organizzazioni turistiche e alberghiere... Eppure, anche oggi si viene al monastero. Che cosa vengono a cercare gli uomini del XX secolo nelle nostre foresterie? Quella dimensione spirituale che non può trovarsi in un albergo. Il problema dell'accoglienza va ripensato, e seriamente, nelle nostre comunità. E notiamo che gli ultimi versetti del c. 53 non sono in contraddizione con il concetto di “comunità aperta”. Aprirsi significa soprattutto donare quanto di meglio si possiede, in uno scambio fraterno di carità. Questo tuttavia è possibile solo se l'accoglienza degli ospiti si svolge in modo da salvaguardare la pace e il raccoglimento della comunità, altrimenti non si offre altro che il vuoto della propria dissipazione. La foresteria poggia sulla interiorità dei monaci; una foresteria monastica non può essere tale se dietro di essa non c'è la presenza silenziosa e irradiante di una comunità riunita nel nome di Cristo; una comunità che sappia, in uno spirito di fede, essere disponibile, sappia accogliere tutti come Cristo in persona (cf v. 1), e mettere a parte coloro che vengono al monastero, in semplicità e umiltà, della propria vita di preghiera, di meditazione, di lavoro.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LII – La chiesa del monastero

1 La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro. 2 Alla fine dell’Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio, 3 in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare, privatamente, non sia impedito dall’indiscrezione altrui. 4 Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per proprio conto, entri senz’altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e intimo ardore. 5 Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all’orazione si guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio, per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.

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Approfondimenti

Questo capitoletto apporta un prezioso completamento alla sezione liturgica, perché lascia intravedere dei prolungamenti alla preghiera comune nel corso della giornata. RB 52 corrisponde a RM 68, che pero` tratta soltanto del silenzio da osservarsi uscendo dall'oratorio: i monaci non debbono seguitare a canticchiare i salmi.

1: L'oratorio del monastero Per comprendere la prima frase di SB (v. 1), bisogna tener presente che era abbastanza normale per gli antichi fare qualche piccolo lavoro manuale mentre ascoltavano la salmodia del solista o le letture. Così per i monaci egiziani, probabilmente anche nelle comunità pacomiane. S. Cesario di Arles proibisce alle monache di lavorare durante l'Ufficio (Regula virginum, 10), però vuole qualche lavoretto durante l'Ufficio notturno per vincere il sonno (Ibid. 15). In questo contesto si comprende la concisa ed energica frase di SB: “L'oratorio deve essere ciò che il suo nome significa” (v. 1): la casa della preghiera non sarà mai per SB un laboratorio, né servirà talvolta a consumare i cibi, né fungerà mai da parlatorio, né diventerà un luogo, anche provvisorio, per deporre strumenti di lavoro o altri oggetti non destinati al culto.

2-3: Silenzio terminato l'Ufficio divino Che nell'oratorio si celebra l'Opus Dei, si sa. SB ricorda qui (vv. 2-3) che, terminato l'Ufficio divino, “tutti escano in silenzio”; e passa poi al tema che gli interessa particolarmente: l'orazione privata di ciascun monaco. Si deve mantenere nell'oratorio il massimo silenzio, perché chi vuole possa continuare a pregare; nell'oratorio in particolare Dio dà udienza ininterrottamente, la porta è sempre aperta. SB vuole invitare velatamente a pregare con frequenza, come si deduce anche dal seguente v.4.

4-5: Preghiera privata anche in altri momenti Non solo dopo l'Opus Dei, ma anche in altri momenti un fratello può sentirsi spinto alla preghiera. Così veniamo a conoscere che durante la giornata ogni monaco può trovare l'opportunità di qualche momento libero da dedicare alla sua preghiera privata, probabilmente durante il periodo della lettura. SB poi aggiunge delle condizioni sulla maniera di pregare: entri semplicemente e preghi, espressione nuda e semplice che non include alcun particolare metodo o schema di orazione; preghi e basta, cioè massima libertà e semplicità nel procedimento secondo l'ispirazione di Dio. Non a voce alta, cioè senza alzare la voce, senza emettere gemiti e sospiri sonori, come si usava a volte presso gli antichi, ma con lacrime e fervore di cuore; richiama la “purezza di cuore” e la “compunzione delle lacrime” di RB 20,3 (Per preghiera e lacrime, cf. anche RB 4,57, uno strumento delle buone opere). Lacrime e cuore sono come indizi dell'autenticità della preghiera del monaco. Chi non vuole pregare in questo modo, non è autorizzato a rimanere nell'oratorio (v. 5), perché l'oratorio deve essere solo luogo di preghiera e di incontro con Dio.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LI – I monaci che si recano nelle vicinanze

1 Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona, 2 a meno che l’abate non gliene abbia dato il permesso. 3 Se contravverrà a questa prescrizione, sarà scomunicato.

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Approfondimenti

Viaggi brevi Questo capitoletto parla di viaggi meno importanti e, senza dubbio, più frequenti, per piccole commissioni. In pratica si limita a proibire di fermarsi a mangiare fuori, qualora si pensi di rientrare in giornata, senza espressa licenza dell'abate. Nel testo c'è: il suo abate, ad escludere l'invito proveniente anche da un altro abate, nel caso il monaco sia andato a fare una commissione in un altro monastero. Ricordiamo l'episodio dei fratelli che accolsero l'invito di una pia donna e furono rimproverati (ma poi subito perdonati!) da SB. E S. Gregorio inizia quel capitolo proprio ricordando che “era consuetudine del monastero che ogni volta che i fratelli uscivano per qualche commissione, non prendere né cibo né bevanda fuori del monastero” (II Dial. 12).

Notiamo che questo capitolo si trova dopo il c. 50, con cui appare la connessione, perché lì si diceva come si devono comportare riguardo all'Ufficio divino i fratelli che lavorano non molto lontano o sono in viaggio.

Notiamo ancora che nel testo del presente capitolo si parla di monaco, al singolare, mentre al c. 67 sempre al plurale: probabilmente nei viaggi più lunghi e importanti i monaci non andavano mai da soli, ma almeno in due.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo L – I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio

1 I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell’ora fissata per l’Ufficio divino, 2 se l’impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall’abate, 3 recitino pure l’Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio. 4 Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le ore stabilite per l’Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino l’adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.

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Approfondimenti

La veritas horarum delle celebrazioni liturgiche L'Ufficio divino si celebrava normalmente nell'oratorio e alle ore stabilite, aderendo al senso storico e mistico che ogni ora possiede (quello che dopo la riforma liturgica si chiama la “verità delle ore liturgiche”). Ora, poteva succedere a volte – o forse con frequenza – che alcuni monaci non potevano per lontananza trovarsi in coro tutte le volte che la comunità si radunava.

1-3: I fratelli che lavorano lontano Il primo caso che la RB contempla è quello del lavoro. È vero che SB vuole che abitualmente i lavori dei monaci si svolgano dentro la cinta del monastero (RB 66,6-7), ma a volte per vari motivi – sopratutto si pensi al lavoro dei campi – si poteva essere abbastanza distanti per accorrere alle varie Ore canoniche. Secondo la RM bastavano 50 passi di distanza per essere dispensati dall'andare in coro (RM 55,2), il che pare un po' ridicolo. SB lascia all'abate di giudicare se i monaci possono o no venire in coro. In caso negativo, questi “celebrino l'Opera di Dio dove lavorano, inginocchiandosi con santo timore” (v. 3). Che cosa significa quest'ultima frase? Vuole forse dire che il fatto di celebrare l'Ufficio fuori dell'oratorio non dispensa dal prostrarsi per l'orazione silenziosa che c'era dopo il canto di ogni salmo? Il luogo parallelo della RM 55,4 potrebbe far propendere per tale interpretazione. Oppure significa semplicemente di seguire le stesse rubriche che si seguono in coro; o ancora un avvertimento ai monaci di non prendersela alla leggera e alla sbrigativa, ma fare tutto con precisione e riverenza? Notiamo che SB dà per scontato che ogni monaco – non esisteva la distinzione tra chierico e non-chierico, tra professo semplice e professo solenne – ha l'obbligo dell'Ufficio divino.

4: I monaci in viaggio Il secondo caso di assenza riguarda i fratelli in viaggio. Per questi SB dimostra un'assennata mitigazione e riserva: quando si viaggia, non sempre le circostanze permettono di seguire il completo cerimoniale o il perfetto orario; perciò i fratelli facciano come meglio possono. Nell'ultima frase c'è l'espressione servitutis pensum (debito del loro servizio, v 4.) per indicare la preghiera liturgica; in RB 49,5 la stessa espressione indica le varie osservanze del monaco. È la stessa idea di tutta la vita del monaco come “servizio”, “milizia di servizio” (RB 2,20) e di questo servizio l'espressione più alta è appunto la lode di Dio. Né deve meravigliare l'idea di “debito”: a volte la preghiera comune può essere pesante e costituire un vero sacrificio! Notiamo che oggi, nelle odierne condizioni del lavoro monastico può essere più frequente l'assenza di qualcuno. E in più si permette (nello spirito anche di mitigazione che SB mette in questo capitolo: “come meglio possono”, v. 4) la congiunzione di alcune Ore canoniche. Dobbiamo però tendere con ogni sforzo alla “verità delle Ore” e al ritmo della lode di Dio nei vari momenti della giornata.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIX – La quaresima dei monaci

1 Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale, 2 visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita, 3 profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell’anno. 4 E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno. 5 Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere, 6 in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio «con la gioia dello Spirito Santo» qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica; 7 si privi cioè di un po’ di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l’animo fremente di gioioso desiderio. 8 Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev’essere prima sottoposto umilmente all’abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione, 9 perché tutto quello che si fa senza il permesso dell’abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito. 10 Perciò si deve far tutto con l’autorizzazione dell’abate.

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Approfondimenti

Nel determinare l'orario, SB ha tenuto conto del particolare carattere della quaresima (RB 48,14-16; 41,6-7). L'importanza data a tale periodo lo induce a scrivere un capitolo a parte sulla quaresima, quale tempo forte dell'anno liturgico per il quale senza dubbio egli aveva particolare devozione e che considerava come molto adatto per il rinnovamento spirituale dei monaci. Cassiano, da idealista impenitente, applicando la sua esegesi allegorica, dice che la quaresima è come la “decima”, il tributo che i cristiani nel mondo debbono pagare annualmente al Signore; immischiati come sono nelle cose della terra, negli affari e nei piaceri, si fa loro obbligo di consacrare al servizio di Dio almeno questi giorni. I monaci sono esenti dal pagare tale decima, perché hanno fatto a Dio donazione della loro vita intera con tutto quanto possiedono, e vivono tutto l'anno con il regime che i laici conducono in quaresima, obbligati dalla legge. La quaresima fu istituita solo per gli imperfetti: difatti non esisteva fin quando si mantenne la perfezione della Chiesa primitiva degli Atti. Così Cassiano, in Coll. 21,24-30. Uomo pratico secondo Gesù Cristo, SB pensa che anche per i monaci – uomini che aspirano alla santità, ma sempre uomini dalla testa ai piedi! – capita molto a proposito questo periodo di rinnovamento e di intensificazione della vita cristiana che ogni anno prepara i catecumeni al battesimo e tutti i fedeli a una degna celebrazione della Pasqua. È stato notato che, ad eccezione dei vv. 8-10 che sono come una appendice e di carattere chiaramente cenobitico, il capitolo dipende, tanto nelle idee quanto nelle espressioni, dai “Discorsi sulla quaresima” di S. Leone Magno, soprattutto i primi quattro (sono dodici). Così il contrasto iniziale tra la vita da tenersi in quaresima e quella più leggera da tenersi nel resto dell'anno; così il “tale virtù è di pochi” (v. 2) a proposito di una vita sempre a un livello spirituale molto alto; soprattutto l'idea della “purezza di vita”, di purificazione, di espiazione in quaresima delle colpe di tutto l'anno sono il 'leit-motiv' della predicazione di S. Leone. Appare chiaro che SB ha assimilato la dottrina quaresimale del vescovo di Roma, è impregnato del suo vocabolario e ripete spontaneamente le sue espressioni senza che si preoccupi di citarle letteralmente. Quello che S. Leone predicava a tutti i cristiani, SB lo scrive per i monaci; è una ulteriore prova che la vita monastica è un modo di realizzare la vita cristiana e che la dottrina della perfezione evangelica predicata dai Padri della Chiesa è ugualmente valida per il cristiano che vive nel mondo e per quello che, seguendo la sua vocazione, vive in monastero. SB quindi in questo capitolo è più preoccupato di sottolineare l'importanza della quaresima e lo spirito che deve animare la vita in tale periodo, che di fare precise pratiche penitenziali alla comunità o determinare in che cosa deve consistere l'intensificarsi della vita di preghiera, come invece fa la RM (cf. RM. 51 e 53). Dobbiamo perciò classificare il capitolo 49 della RB più tra la parte ascetica e spirituale che tra la parte propriamente legislativa e disciplinare.

1-3: Lo spirito che deve animare la quaresima “La vita del monaco dovrebbe essere una continua quaresima”, quasi a dire: tale sarebbe l'ideale, magari fosse così! Qual'e` il significato esatto di queste parole? Non dobbiamo credere che SB pensi a un carattere eccessivamente severo e melanconico della vita monastica; per lui la quaresima – come appare in seguito – non ha un volto triste, ma significa anzitutto un tempo in cui si vive con purezza (v. 2) e integrità la vita cristiana, o per lo meno si cerca. Uomo pratico e realista, SB sa che sono pochi quelli dotati di tanta virtù e fortezza di spirito da mantenersi completamente fedeli al Vangelo durante tutto l'anno. Allora durante la quaresima sforziamoci non solo di vivere come monaci autentici, ma anche di fare qualcosa in più, quasi a compensare e cancellare le negligenze degli altri periodi. Questo è insomma l'ideale quaresimale per i monaci: vivere perfettamente come tali e riparare con pratiche supererogatorie alle infedeltà della “quaresima” precedente. (Per i paralleli con S. Leone Magno, cf. “Discorsi sulla quaresima”, I,2; IV,1; V,2.6).

2: Custodire la propria vita con somma purezza “Puritas” qui è nel senso più ampio: la mondezza di mente e di cuore, per cui si è spogli da ogni attacco che distragga da Dio. La bellissima sentenza richiama il 48° strumento delle buone opere: Actus vitae suae omni hora custodire (vigilare continuamente sulle azioni della propria vita), RB 4,48; è la vigilanza assidua di chi ama seriamente Dio e vuole che nessuno dei suoi atti possa ostacolare l'unione con Lui; è praticamente il primo gradino dell'umiltà, con la famosa “memoria Dei” (cf. RB 7,10-30).

4-7: Pratiche quaresimali SB scende al particolare. Anzitutto astenersi da ogni peccato: è la prima e più necessaria astinenza (cf. S. Leone M., Discorso IV,6); la lotta contro i vizi – estirpandoli dalle radici, se è possibile – è uno dei fini dell'ascetismo cristiano. Poi dedicarsi con speciale impegno a certe pratiche. SB ne segnala quattro: tre di carattere spirituale, una di carattere corporale.

  1. Preghiere con lacrime, si tratta dell'orazione privata, in unione alle lacrime e alla compunzione del cuore, suggerita spesso da SB (cf. RB 4,56-57; 20,3; 52,4);
  2. Lectio divina, appunto perciò ha prescritto la consegna di un libro a ciascun monaco all'inizio della quaresima (RB 48,15-16) e ha unificato le ore di “lectio”, circa tre ore di seguito: “dal mattino fino a tutta l'ora terza” (RB 48,14).
  3. Compunzione del cuore, è lo spirito di compunzione, cioè il chiedere perdono a Dio dei propri peccati con lacrime e gemiti, come ha già detto nel 57° strumento delle buone opere (RB 4,57), evidentemente con maggiore frequenza e intensità che negli altri periodi.
  4. Astinenza, è l'astinenza corporale, come specificherà meglio nei versetti seguenti.

5: Aggiungiamo qualcosa... “Aggiungiamo qualcosa al consueto debito del nostro servizio” (v. 5). C'è un debito, una “tassa” stabilita, delle prestazioni normali – diciamo così – nel servizio di Cristo, che è la vita monastica; durante la quaresima, aggiungiamo qualcosa alla tariffa ordinaria. E abbiamo qui altri due elenchi (oltre a quello del v. 4) nel v. 5 e nel v. 7. L'idea di aggiungere qualcosa è continua pure in S. Leone Magno (cf. Discorsi, II,1). Tutte le cose elencate si ritrovano negli strumenti delle buone opere (RB. 4).

7: Sottraiamo qualcosa... Nel terzo elenco (v. 7) si parla di sottrarre qualcosa alla loquacità e alla scurrilità o leggerezza. Ma non aveva SB completamente condannato queste cose nel c. 6 sull'amore al silenzio? (RB 6,8). Come mai ora si suggerisce di reprimerle “un poco” aliquid durante la quaresima? Una cosa è la teoria, un'altra è la pratica. Qui pare affacciarsi sorridente il volto paterno di SB. La vita dovette insegnare al santo – sempre grave e solenne, ma anche molto umano – che ci sono dei tipi per natura leggeri e portati allo scherzo e alla buffoneria, e privarli del tutto di queste cose equivarrebbe a reprimerli. Basta che si moderino un po', almeno in quaresima!

Due caratteristiche dell'impegno quaresimale * Il senso della gioia nell'impegno quaresimale e nell'attesa della Pasqua. “Col gaudio dello Spirito Santo” (v. 6): citazione da 1Ts 1,6. Anche a proposito dell'obbedienza SB ha ricordato (RB 5,16) che “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7). Questa nota di letizia, frutto della sincera generosità ispirata dallo Spirito Santo, rende più profumato l'atto di offerta. Si ricordi, poi, a proposito del digiuno, l'insegnamento di Gesù: “Tu invece, quando digiuni, profumati...” (Mt 6,17). Al v. 7 la frase “con gioia di soprannaturale desiderio aspetti la santa Pasqua” ricorda alcune espressioni liturgiche. L'attesa della Risurrezione di Cristo dona a tutta l'osservanza quaresimale l'abito della gioia; preparato dall'impegno e dalle osservanze della quaresima, il monaco giungerà maturo a godere pienamente la S. Pasqua. * Il carattere individuale e volontario è l'altra caratteristica di questi versetti. Le pratiche quaresimali non sono imposte obbligatoriamente a tutti i monaci dall'autorità della Regola o dall'abate. A differenza dalla RM, in cui si prescrivono orazioni e astinenze comunitarie, la RB non ha un programma preciso e obbligatorio per la comunità intera (a parte quanto detto nell'orario, RB 48,14-16). Si tratta di opere supererogatorie che ciascuno unusquisque offre a Dio volontariamente propria voluntate e col gaudio dello Spirito Santo cum gaudio Sancti Spiritus; non sono un peso supplementare imposto dalla legge, ma un segno della generosità con cui ciascun monaco, con cuore largo e gioioso, intende darsi a Cristo Signore a compensazione delle deficienze nel servizio santo che ha professato.

8-10: Appendice sul ruolo dell'abate “Cum spiritalis desiderii gaudio sanctum Pascha expectet.” Aspetti la santa Pasqua nella gioia del desiderio spirituale (v. 7). Con queste magnifiche parole si chiudeva probabilmente il capitolo nella sua prima redazione. SB in seguito vi aggiunse un'appendice. Chissà, forse alcuni monaci, approfittando della libertà di scelta, si davano a delle pratiche ascetiche o a penitenze eccessive. (Ricordiamo quello che vide Macario tra i monaci di Tabennisi durante la quaresima, cf. Palladio, Storia Lausiaca, c. 18,14-15). La Regola, pur lasciando quella libertà individuale di cui sopra, guida il monaco per i sentieri dell'obbedienza: le piccole mortificazioni individuali siano sottoposte al permesso e alla benedizione dell'abate (si evita così il pericolo di illusione e di esagerazione) e siano accompagnate dalla sua preghiera. È questa un'idea propria del monachesimo antico: il discepolo attribuiva alla preghiera del “padre spirituale”, richiesta al medesimo prima di iniziare qualche opera, la riuscita dell'opera stessa. SB si mantiene nella linea della tradizione autentica. E termina con un principio di carattere generale: tutto deve compiersi con il consenso dell'abate (v. 10; cf. anche RB 67,7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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