📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo XLVIII – Il lavoro quotidiano

1 L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio. 2 Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente: 3 da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9; 4 dalle 9 fino all’ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio. 5 Dopo l’ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri. 6 Si celebri Nona con un po’ di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall’obbedienza fino all’ora di Vespro. 7 Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, 8 perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli. 9 Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli. 10 Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9, 11 quando celebreranno l’ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14. 12 Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale. 13 Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi. 14 Durante la Quaresima leggano dall’alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane. 15 In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo. 16 I suddetti libri devono essere distribuiti all’inizio della Quaresima. 17 E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio, 18 per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri. 19 Se si trovasse – non sia mai! – un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta, 20 ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore. 21 Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito. 22 Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi. 23 Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio. 24 Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un’attività che non li lasci nell’inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l’eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene, 25 poiché l’abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.

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Approfondimenti

L'Opus Dei è l'occupazione principale del monaco, però non è l'unica. Il rimanente tempo va distribuito tra lavoro manuale e lectio divina. Quindi il titolo non abbraccia tutto il contenuto del capitolo. In realtà in queste pagine abbiamo tutto l'orario della giornata, con la saggia distribuzione del tempo tra OPUS DEI, LECTIO DIVINA, LAVORO MANUALE, i tre grandi cardini della vita monastica.

RB 48 corrisponde a RM 50. In quest'ultima l'orario è visto soprattutto alla luce dell'Ufficio divino: si tratta di occupare il tempo tra un ufficio e l'altro; nella RB ha uno scopo eminentemente pratico: interessandogli l'ordinamento delle occupazioni dei monaci tra lavoro e lectio, SB non teme neanche di spostare alcune ore dell'Ufficio divino (terza, sesta e nona), cosa che altrove era soltanto eccezionale. RB considera piuttosto il ritmo della vita umana con le sue alternanze di sforzo e di riposo, di lavoro spirituale e di lavoro materiale.

La struttura del capitolo è logica:

  • un principio generale (v.1);
  • orario da Pasqua a ottobre (vv.2-6) e norme in caso di lavori eccezionali (vv.7-9);
  • orario da ottobre a quaresima (vv.10-13);
  • orario di quaresima (vv.14-16);
  • la lectio quaresimale, che riveste particolare importanza, fa aggiungere a SB delle norme per la scrupolosa osservanza del tempo ad essa dedicato (vv.17-21);
  • chiudono il capitolo alcune direttive sul lavoro e la lettura in casi speciali: uno temporale (la domenica, vv.22-23), l'altro personale (infermi vv.24-25).

1: Principio generale: necessità del lavoro Apre il capitolo un assioma fondamentale: la necessità e l'obbligo del lavoro. La sentenza “l'ozio è nemico dell'anima” si trova nella Regola di S. Basilio stampata nella versione latina di Rufino (Reg.192) e viene citata come un detto di Salomone, ma non si trova nella Scrittura e non si legge nell'opera originale in greco di S. Basilio (Reg. 37). La Bibbia ha frasi simili: “l'ozio insegna molte cattiverie” (Sir 32,21; cf. Prv 26,13-14; Sir 22,1-2). Si noti che nel testo della RB, per “ozio” c'è la parola latina otiositas e non otium, perché è l'“otium” latino non corrisponde al nostro “ozio”, ma significa “essere libero per dedicarsi ad attività di carattere spirituale” (quali lo studio, la contemplazione, ecc.; da qui l'espressione “otia monastica” “ozi monastici” come tempo per la lectio divina, la riflessione, ecc.). Attenzione quindi a non equivocare. “Perciò i fratelli in determinate ore...”: la frase richiama un passo di Agostino (De opere monachorum, 37). SB vuole distribuire bene il tempo: tutte le ore non impiegate nell'Ufficio divino devono avere un ben determinato uso: o lavoro manuale o lectio divina.

2-6: Orario estivo : da Pasqua a Ottobre Scendendo al concreto, SB stabilisce l'orario per i vari tempi dell'anno. Nei mesi di primavera estate, dopo Pasqua (verso le 5) i monaci andavano al lavoro. Non si fa menzione dell'Ufficio di Terza, che probabilmente veniva celebrato sul luogo stesso del lavoro (cf. RB 50), oppure si celebrava al termine del lavoro verso le 10. (Sarà bene ricordare, a proposito di ore e di orario, che si tratta di computo romano, con l'ora variabile secondo le stagioni in funzione della luce solare. Dall'ora quarta (verso le 10) fino a sesta (verso mezzogiorno) i monaci si dedicavano alla lectio. Si noti la discrezione di SB che d'estate fa lavorare i monaci nelle prime ore del giorno quando non è troppo caldo. Dopo sesta, i monaci mangiavano e poi avevano la siesta, per compensare qualcosa alle meno ore di sonno durante le brevi notti dell'estate. SB non tiene conto qui del mercoledì e venerdì, in cui non si mangiava fino a nona (RB 41,2-4) per ragione del digiuno; sembra però che la siesta nel periodo estivo ci fosse tutti i giorni, digiuno o non digiuno, come appare dal parallelo RM 50,56-60. Quelli a cui non piaceva dormire o che amavano astenersene per ascetismo, erano autorizzati a leggere presso il proprio letto, ma non a voce alta: la raccomandazione non è superflua, perché gli antichi erano soliti leggere, anche privatamente, pronunziando le parole. Da questo testo deduciamo che tutti i monaci, dormissero o leggessero, dovevano rimanere nel dormitorio comune (come appare anche da RM 44,12-19). La siesta durava fino a nona, ma detta ora canonica si anticipava un pò e poi i monaci tornavano al lavoro fino a vespro.

7-9: Norme in caso di lavori eccezionali SB aggiunge una parentesi di singolare importanza: contempla il caso di lavoro eccezionale, come la raccolta delle messi e dei frutti. I monaci di quel tempo non si occupavano direttamente dei lavori dei campi, che invece affidavano ad operai prezzolati (i monaci si limitavano al lavoro dell'orto, del giardino...). Ora, le circostanze in cui si trovava l'Italia – la guerra tra Goti e Bizantini, la povertà, la mancanza di mano d'opera o l'impossibilità di pagarla – potevano costringere i monaci a fare da se stessi la mietitura, la trebbiatura, la vendemmia, ecc. Quindi, malgrado le riserve dell'ambiente monastico italiano, SB si vede costretto a introdurre il lavoro agricolo e riscopre nel suo tempo la grande legge del monachesimo primitivo di sostenersi con il proprio lavoro: allora sono veri monaci, quando... (v. 8). La necessità del lavoro inculcata prima come una massima negativa – evitare l'ozio, nemico dell'anima (v. 1) – si basa ora su un principio positivo: attendere alla propria sussistenza, conforme all'esempio dei “nostri Padri e degli Apostoli” (v. 8). Quindi il lavoro manuale dei monaci non consisterà solo nelle diverse occupazioni domestiche (in cucina, nel forno, nel mulino); o nei diversi incarichi in monastero (ospiti, ammalati); o nella semplice coltivazione dell'orto sufficiente per le verdure per la mensa comune; o ancora nell'esercizio di un'arte: tutti lavori, questi, che non davano un'entrata al monastero (anche gli stessi artigiani, cf. RB 57,4-7); si tratta anche di coprire le necessità del monastero con il prodotto del proprio lavoro, di provvedere al proprio sostentamento con fatica, secondo la grande legge del lavoro. In tal caso, dice SB, i monaci si dedichino a tali lavori pesanti non soltanto senza mormorare, ma col santo orgoglio di sentirsi veri monaci (vv. 7-8); però non si ecceda, e si pensi ai meno dotati di vigore fisico o morale (v. 9).

10-13: Orario invernale: da ottobre a quaresima In autunno-inverno si ha un altro ordinamento. I monaci dedicavano le prime ore della mattinata alla lettura, dalle lodi fino alla fine dell'ora seconda, che, calcolando il solstizio invernale con la levata del sole molto più tardi, dovrebbe corrispondere alle nostre ore 8:30-9. Poi si celebrava terza e quindi c'era un lungo orario di lavoro fino a nona, verso le 14:30-15. Si parla solo qui di due segnali per l'Ufficio divino, però si può supporre che erano sempre due i segnali per chiamare alla preghiera i monaci quando stavano lavorando. Come già si è visto, (RB 41,6), in questo periodo i monaci mangiavano solo dopo nona, e non c'era la siesta; perciò dopo il pasto si riprendeva la lettura o lo studio dei salmi: vacent psalmis significa “mandare a memoria il salterio” a forza di recitarlo (SB a questo scopo ha già stabilito il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi in inverno, cf. RB 8,3). La lettura durava certamente fino a vespro; dopo vespro, breve intervallo, quindi riunione dei monaci con la lettura delle Collazioni e compieta (cf. RB 42,5).

14-16: Orario durante la quaresima Come si vede, l'orario invernale era più austero che quello estivo. In quaresima questo carattere severo si accentua: la quaresima è un tempo penitenziale. La refezione era dopo il vespro, che però veniva un pò anticipato (cf. RB 41,7-8). L'orario così è meno spezzettato: lettura tutta di seguito fin verso le 9; poi lavoro continuo fino alle 16 (interrotto solo dagli Uffici di sesta e nona recitati probabilmente sul posto di lavoro); seguiva il vespro, la refezione, quindi la lettura comune e compieta. Ciascuno dei giorni di penitenza preparatori alla Pasqua (eccettuata la domenica) costituiva una dura giornata di lettura e di lavoro sopportata a digiuno fino a vespro.

Bibliotheca: interpretazione controversa I vv.15-16 hanno un'interpretazione controversa. “All'inizio della quaresima – dice la RB – ciascuno riceva un libro della biblioteca da leggere di seguito e per intero”. Il testo è perfettamente chiaro. La disputa è intorno alla parola biblioteca. Si è interpretato fino a qualche anno fa sul senso originario e comune di biblioteca del monastero. Alcuni studi fanno pendere per un'altra interpretazione. Si dice che se la parola “bibliotheca” nella letteratura classica indica la biblioteca nel senso nostro, cioè deposito di libri, nella letteratura cristiana significa l'insieme dei libri sacri, cioè la Bibbia. Nei testi cristiani dal VI al IX secolo, cioè durante il periodo patristico e il primo medio evo, questo significato è più frequente che non l'altro. In tutta la Regola non si parla mai di biblioteca del monastero, quasi sicuramente perché non esisteva (al tempo do SB i monasteri più grandi avevano in genere un centinaio di codici. Si pensi però a Cassiodoro e alla sua fondazione). Inoltre i cataloghi medioevale di libri non chiamano quasi mai “bibliotheca” l'insieme dei codici che elencano, mentre usano la parola nel senso di Bibbia e citano difatti Bibliotheca integra (=l'intera Bibbia), Bibliotheca II (=il secondo volume), ecc. Si dice ancora che interpretare in questa frase della RB la parola “bibliotheca” come deposito di libri non ha senso, in quanto risulta evidente da tutta la tradizione cenobitica (Pacomio, Agostino, Ordo Monasterii, Isidoro...), che i libri venivano distribuiti tutti i giorni, perché i monaci leggevano sempre; che significato ha una sola distribuzione all'inizio di quaresima? E negli altri periodo dove leggevano? Invece con la nuova interpretazione di Bibliotheca = Bibbia, tutto apparirebbe più logico. Prima e dopo SB, la Scrittura soleva dividersi in nove codici (SB ne cita alcuni: “Eptaticum” = i 7 primi libri; “Regum” = 1Re; cf. RB 42,4, oltre al “Psalterium”). Orbene se ne dava uno a ciascun monaco all'inizio di quaresima, perché la Scrittura costituiva il suo alimento spirituale più che negli altri tempi dell'anno; e così in capo a nove anni si era letta la Bibbia completa, un “codice” per quaresima, seguendo un certo ordine, come è indicato dalle parole per ordine e per intero del v.16. Anche S. Cesario invitava a leggere la Scrittura specialmente durante la quaresima. Tuttavia l'interpretazione della parola rimane discutibile.

17-21: Vigilanza durante la lettura Dedicarsi per tre ore al giorno (e in quaresima per tre ore di seguito) alla lectio divina implicava un certo sforzo per molti monaci, specialmente in quei tempi in cui la cultura e la lettura non erano alla portata di tutti. SB delega uno o più anziani a vigilare perché i monaci facciano la lectio (forse... bisognerebbe rimettere questa norma nei nostri monasteri!!!). La disposizione – che vale evidentemente per tutto l'anno e non solo per la quaresima – prova che non si leggeva in un luogo comune, ma ciascuno prendeva il suo libro e si ritirava dove voleva. Nei secoli posteriori, poi, si usò studiare e leggere insieme nel chiostro o in una sala apposita. Al tempo di SB sarebbe stato impossibile, anche perché si usava in genere pronunciare a voce alta le parole che si leggevano: ecco perché era più facile che uno approfittasse dell'occasione e si metteva bellamente a chiacchierare.

Il fratello accidioso SB qualifica un tale fratello come accidioso, cioè vittima dell'accidia. È l'unica volta che tale parola appare nella Regola; ed è strano, dato l'enorme uso della parola e del concetto negli ambienti monastici. La parola “accidia” (akedia in greco, acedia in latino) letteralmente significa “mancanza di cura”, “incuria”, e divenne un termine tecnico presso i monaci. Si trova nella famosa classificazione di Evagrio Pontico, trasmessa da Cassiano sotto il titolo “Gli otto vizi principali o capitali”, ed ha un posto di molto rilievo: si tratta di una passione o infermità dello spirito composta di inquietudine, tedio, vuoto interiore, instabilità, torpore, ecc.; si potrebbe pensare alla moderna “noia” (quando uno non ha voglia di fare nulla, è arido e vuoto spiritualmente). Evagrio e Cassiano la analizzano con precisione clinica. Per gli antichi era la tentazione per eccellenza degli anacoreti, il cosiddetto “demonio meridiano”. Ai cenobiti poteva (e può) venire soprattutto durante la lectio, quando essi sono più soli con se stessi, più simili agli anacoreti. Cassiano ugualmente nota che la “acedia” non permette di dedicarsi alla lettura (Inst. 10,2). SB vuole che un tale fratello, “inutile a se stesso e dannoso agli altri” (un “frate-mosca” lo chiamava S. Francesco), sia punito in modo esemplare, sì “da far timore anche agli altri” (v.20); l'espressione ricorda 1Tm 5,20.

21: parlare in ore non competenti Al v. 21 segue un principio generale: che i monaci non comunichino tra di loro in ore non competenti, tanto meno durante il tempo della lettura, che deve essere dedicato a parlare con Dio, ad ascoltare e approfondire la sua parola.

22-25: Lavoro e lettura in casi particolari Due casi particolari, al termine del capitolo. La domenica è dedicata interamente al Signore. S. Girolamo scriveva ai monaci d'Egitto: “Nei giorni di domenica attendono solo all'orazione e alla lettura” (Epist. 22,35). SB segue questa pratica; naturalmente alcuni dei fratelli dovevano attendere ad uffici necessari: cellerario, infermiere, cuoco, ecc. Però, nel caso di qualche fratello molto svogliato o anche poco incline a leggere per disposizione naturale (pensiamo che forse alcuni sapevano appena appena leggere), SB prescrive un lavoretto qualsiasi, anche di domenica, tanta era la paura della “otiositas”. Ricordiamo che “meditare” (v. 23) non significa tanto meditare nel senso nostro, ma piuttosto “esercitarsi nello studio dei salmi”, “ripetere per imparare a memoria”. Tale è il senso del v. 23 e probabilmente di RB 58,5 a proposito dei novizi. Quanto agli infermi e ai fratelli di salute fragile, bisogna provvedere un lavoro che mentre fa evitare l'ozio (di nuovo la paura della “otiositas”!), non li opprima o schiacci (v.24). Il capitolo termina con una nota di umanità: l'abate deve considerare la loro debolezza (v.25).

Conclusione Se si paragona ad altre Regole monastiche, l'orario di SB appare molto più complicato; ma questo non è un difetto, rivela una grande discrezione nell'autore, che fissa tanti particolari, anche minuziosi, tenendo conto dei tempi e delle circostanze. Per SB vale il principio “Nulla si anteponga all'Opera di Dio” (RB 43,3); però non teme di spostare alcune ore dell'Ufficio (terza, sesta, nona e anche vespro) per meglio inquadrare le altre due occupazioni principali del monaco, secondo tutta la tradizione monastica: lectio e lavoro.

RB si preoccupa molto della lectio divina. Ad essa assegna il tempo migliore in durata e qualità; d'inverno le sono dedicate le prime ore della giornata (senza contare il tempo tra l'Ufficio notturno e le lodi, cf. RB 8,3) e un'altra ora circa tra nona e vespro; d'estate le ultime ore della mattinata e, chi vuole, il tempo della siesta. Complessivamente sono tre ore al giorno (in quaresima di più e la domenica tutto il tempo libero). SB vuole evitare una durata eccessiva in continuità e quindi fa in modo che la lectio sia spezzettata. Sarebbe inutile cercare nella RB una dottrina sulla lectio divina: era una cosa naturale conosciuta da tutti i monaci (e dai cristiani), era la maniera della Chiesa di accostarsi al testo sacro in vista non tanto dell'intelletto, quanto piuttosto della preghiera.

RB, poi, si preoccupa che i monaci lavorino: il lavoro dura circa sette ore in inverno e in quaresima, sei ore e mezzo in estate ed è più intervallato a causa del clima estivo. Non si specifica quale era il lavoro manuale che i monaci facevano. SB non ne assegna uno esclusivo: oltre a quello necessario per i servizi del monastero (forno, cucina, ecc.), poteva essere quello dei vari artefici (cf. RB. 57) e certamente – in certe occasioni o per circostanze storiche – quello dei campi.; è considerato comunque eccezionale quello estivo della raccolta. Nel corso dei secoli i monaci hanno intrapreso i più vari generi di lavoro manuale e intellettuale.

Nell'orario fissato con tanti particolari da SB non figura la messa quotidiana nei giorni feriali, nemmeno in quaresima. Nel monastero al tempo di SB la messa conventuale e solenne si celebrava solo la domenica e le feste. Questo non deve sorprendere. Solo posteriormente a SB si andò estendendo l'uso della messa quotidiana (cominciando dall'Africa e dalla Spagna). Naturalmente, oggi la messa conventuale è il centro della giornata monastica.

Nell'orario di SB manca pure ogni accenno ad un tempo per la cosiddetta ricreazione per allentare un pò l'arco teso di preghiera-lectio-lavoro e per aumentare i rapporti fraterni. Certamente non esisteva di orario. Però sarà bene ricordare che SB non interdice affatto l'uso della parola, ma ammonisce solo per l'uso saggio, discreto e assennato della parola (cf. RB 6; 4,51-54; 7,56-61 e relativo commento). Inoltre le “ore non competenti” di RB 48,21 fanno spia che dovevano esserci anche delle “ore competenti” in cui i monaci potevano avvicinarsi, parlare, trattare insieme. Con l'andare del tempo, la tradizione monastica ha fissato un particolare “tempo competente” scritto anche nei nostri orari come “tempo libero” o “sollievo”, per scaricare un pò la tensione della preghiera e del lavoro e per trascorrere qualche momento in fraterna conversazione.

Per la ricostruzione di una giornata monastica nel monastero benedettino del medioevo, si può vedere il libro (molto breve e di facile lettura) di: L.MOULIN, La vita quotidiana secondo S,Benedetto, Jaca Book, Milano 1980.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVII – Il segnale per l’ufficio divino

1 Bisogna che l’abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l’Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate. 2 L’intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l’ordine prestabilito, spetta, dopo l’abate, ai monaci appositamente designati. 3 E nessuno si permetta di cantare o di leggere all’infuori di chi è capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori; 4 inoltre questo compito dev’essere svolto con umiltà, gravità e reverenza e solo dietro incarico dell’abate.

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Approfondimenti

1: Il segnale per l'Ufficio divino Il titolo si riferisce solo alla prima parte del testo (v. 1). SB aggiunge poi altre precisazioni che riguardano la disciplina in coro durante la celebrazione. Si dice anzitutto che la responsabilità della puntuale celebrazione liturgica, di notte e di giorno, ricade sopratutto sull'abate, il quale o prende l'incarico lui stesso o lo affida a qualche fratello “molto attento”. In un'epoca in cui le ore variavano da un giorno all'altro e in cui i procedimenti per calcolare il tempo erano piuttosto rudimentali, tale incarico era più difficile di quanto sembri a prima vista. Il modo di dare il segnale era vario presso gli antichi monaci. Nei monasteri pacomiani si chiamava con la voce o si batteva uno strumento qualsiasi; le vergini di Santa Paola erano chiamate al canto dell'alleluia (S. Girolamo, Epistola 108,19); Cassiano riferisce che si bussava alle porte (Inst. 4,12). Può darsi che SB pensi alla percussione di lamine di metallo o di tavolette. Il fascetto di verghe posto da qualche pittore in mano al santo, più che uno strumento penale, indica forse uno strumento destinato alla sveglia; nel caso, sarebbe stato il patriarca stesso – come dice qui il testo – a svegliare i monaci.

2-4: Disciplina del coro Spetta ugualmente all'abate designare chi deve cantare o leggere. Il buon ordine della celebrazione e l'edificazione dell'assemblea esigono che facciano i solisti solo coloro che sono in grado di farlo, e ciò si riferisce tanto alla precisione materiale quanto alle disposizioni spirituali: umiltà, gravità e grande riverenza (v.4). Notiamo che il verbo imponere (v.2), più che “intonare” un salmo, significa qui recitarlo integralmente. Tuttavia ciò risulta più facile che “leggere” (v. 3) per il fatto che i salmi si recitavano a memoria, mentre leggere nei manoscritti dell'epoca era un'impresa più complicata e certamente non erano molti i monaci che potevano farlo con competenza e soddisfazione di tutti.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLVI – La riparazione per le altre mancanze

1 Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell’orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio, 2 rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza 3 e non si presenta subito all’abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa, 4 sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri. 5 Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell’intimo della coscienza, lo manifesti solo all’abate o a qualche monaco anziano, 6 che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

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Approfondimenti

1-4: Colpe esterne in qualunque luogo del monastero Quest'ultimo capitolo della sezione disciplinare considera tutte le altre colpe e negligenze che possano commettersi in qualunque parte del monastero. Il castigo per i falli esterni qui previsti – rompere qualche oggetto o perderlo – non costituisce nessuna novità per la legislazione monastica: Pacomio (Reg. 13-17,131) e Cassiano Inst. 4,16) lo menzionano. Ciò che è nuovo è l'esigenza di spontaneità e l'immediatezza della soddisfazione (non previste in Cassiano e in RM). SB prevede due gradi: il primo è la soddisfazione immediata; il secondo, nel caso della non soddisfazione, è la scomunica. SB si ispira a S. Agostino (Epistola 211,11) che prevede, per il monaco che riceve regali di nascosto, tutti e due i casi: se lo confessa spontaneamente, verrà perdonato; se si viene a sapere da altri (per esempio da un decano o da qualche altro fratello, sarà punito più severamente. Tuttavia, mentre Agostino parla di una colpa abbastanza grave (doni ricevuti di nascosto da una donna), SB applica la norma a casi più banali ed estende il suo campo di applicazione. Ricordiamo che nella vita del S. Patriarca, abbiamo un esempio di ambedue i casi: la confessione spontanea del buon goto, che venne subito confortato da SN (II Dial. 6) e il monaco che aveva ricevuto dei fazzoletti e non disse nulla e ne ebbe una solenne lavata di capo (II Dial. 19).

5-6: Colpe interne o peccati occulti Il monaco deve dunque confessare spontaneamente le proprie mancanze, anche le più materiali, e soddisfare per esse. Se invece si tratta di “peccati occulti” commessi nel segreto della propria coscienza, non devono essere pubblicati. Bisogna, sì, confessarli, ma solo all'abate o ai “padri spirituali”. Non è facile stabilire precisamente ciò che si intende per “peccati occulti”. Si può fare riferimento a RM. 15 (pensieri cattivi) e a Cassiano (Coll. 2,11.13: furto, pensieri impuri). In RM la confessione si fa all'abate, ed è preparata dai preposti (decani); in RB si fa all'abate e ai “seniori spirituali”: questi possono essere i decani, ma non solo loro. “Anziani spirituali” nella tradizione monastica (trasmessa soprattutto da Cassiano), sono quei monaci molto avanti nella vita spirituale, alla fine del cammino della scala dell'umiltà, quindi oggetto di una particolare ispirazione dello Spirito Santo. Non si tratta dei sacerdoti del monastero (RB. 62), né si parla qui della confessione sacramentale, ma di vera direzione spirituale che, secondo la Regola, non è solo monopolio dell'abate. La manifestazione dei pensieri cattivi e dei peccati occulti è ricordata altre volte nella RB: in uno strumento delle buone opere (RB 4,50) e nel 5° gradino dell'umiltà (RB 7,44-45).

Tutta questa finale del c. 46 si ispira in qualche modo a RM. 15 (e a S. Agostino, soprattutto per la spontaneità dell'accusa), ma è originale nella distinzione netta tra la confessione pubblica per le mancanze esterne e la confessione privata per i peccati interni. Quando SB dice: “sappia curare le piaghe proprie e altrui”, include in tale scienza la nozione della Scrittura (come RM), ma soprattutto la capacità di tacere sulla confessione ricevuta, e in più ricorda all'abate e al “seniore spirituale” la propria fragilità: anche loro sono peccatori come gli altri.

CONCLUSIONE SUL CODICE PENITENZIALE (RB23-30 e 43-46) Concludendo, richiamiamo alcuni valori fondamentali del codice penitenziale benedettino:

  • Importanza della persona. Più volte nel codice penale – come anche nel capitolo sull'abate (cf. RB 2,23-25.27.28-31) – SB ritorna sul fatto che la punizione deve essere adeguata all'indole di ciascuno, proprio perché non si tratta di vendetta, ma di un modo per aiutare e curare il fratello che sbaglia. Perciò SB, a malincuore e dopo numerosi tentativi, si decide ad espellere il monaco colpevole e solo per timore che altri si perdano a causa sua (RB 28,6-8); e in seguito, se quegli si pente, è disposto a riprenderlo in comunità anche più volte. (RB 29,1-3).

  • Dimensione comunitaria. Un fatto emerge dal codice penitenziale, al di là delle forme e delle consuetudini dovute alla società del tempo: ogni trasgressione alla Regola, ogni mancanza grande o piccola commessa in monastero, è un attentato alla vita della comunità e come tale deve essere corretta e riparata; è sulle condizioni e sui modi di appartenenza alla comunità che scatta la scomunica, la cui pena è proprio l'esclusione dalla vita di comunione nei suoi gesti principali: preghiera e mensa.

Che cosa rimane oggi? Che cosa possiamo e dobbiamo ritenere oggi di tutto il codice penitenziale della RB? Certo, la presenza stessa di un codice penale nella Regola può risultare sgradevole alla nostra mentalità odierna; e di fatto l'accentuazione dell'aspetto giuridico e casuistico ha portato ad immagini di monastero troppo distanti dallo spirito del Vangelo e del monachesimo: monasteri quasi caserme o scuole nel senso peggiore (la storia ce ne fornisce degli esempi) e non comunità di volontari, aggregazione libera per seguire Cristo.

Tuttavia ci sono alcuni valori nel codice penitenziale che non dovrebbero andare perduti. Poniamo delle riflessioni in forma di questioni:

  1. La pratica della scomunica implicava delle regole molto strette e precise di appartenenza alla comunità. Il fatto di aver abolito ogni penalità non potrebbe indicare che questi criteri di appartenenza sono divenuti molto labili? che, cioè, si tende a vivere in modo individualistico?

  2. Con le punizioni e le penitenze, la Regola intende dare soprattutto un aiuto al monaco perché egli possa prendere coscienza dei propri difetti e correggersi (aspetto medicinale della pena). Abbiamo trovato, oggi, altri modi concreti di aiuto? O ciascuno è lasciato “libero” (cioè solo) con i propri limiti e il desiderio di superarli?

  3. Nella RB pena e penitenza hanno un carattere pubblico, come detto sopra. Abolite, per la mentalità dei tempi, tutte le pratiche della Regola, non c'è pericolo che vi sia una mancanza di sensibilità riguardo al confronto e alla correzione fraterna? O, peggio, dato che ci si conosce molto bene, non ci riduciamo forse soltanto a fare mormorazione e critica “privata”? Dobbiamo – credo – educarci di più al senso della responsabilità reciproca: la comunità intera come organismo deve salvare i suoi membri deboli e infermi, non con un malinteso senso di pietà o peggio con una colpevole solidarietà con i vizi, ma con una carità genuina che comprende la correzione fraterna – la “verità nella carità”, cf. Ef 4,15) – con una preghiera insistente e con un supplemento di santità. Dio ci ha riuniti insieme perché lo cerchiamo nella preghiera, nel lavoro, nella vita comune. Ognuno deve sentirsi ormai inseparabile dai suoi confratelli e solidale con essi per sempre. Bisogna dunque che egli lavori, preghi, si sacrifichi non solo per raggiungere la propria santificazione personale, ma anche per aiutare quella degli altri.

Possiamo ritenere almeno queste riflessioni dall'esame dei dodici capitoli del codice penitenziale della RB.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLV – La riparazione per gli errori commessi in coro

1 Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un responsorio, un’antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa, 2 perché non ha voluto correggersi umilmente dell’errore commesso per negligenza. 3 Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si ricorra al castigo corporale.

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Approfondimenti

1-3: Sbagli durante la preghiera comune Non si tratta più di mancanze provocate da cattiva disposizione, ma da disattenzione o negligenza. Secondo Cassiano (Inst. 4,16), costituivano una colpa lieve da ripararsi subito mediante pubblica penitenza. Anche SB esige una riparazione pubblica per quegli “sbagli commessi per negligenza” (v. 2), ma non dice in che cosa essa consista; probabilmente in una prostrazione a terra. Ancor oggi nei monasteri si conserva l'uso di questo atto di umiltà per gli errori durante l'Ufficio: si porta la mano al petto o si genuflette al proprio posto... Sono, oltre che espressioni di umiltà, atti di riverenza verso la santità di Dio (cf. RB 19 e 20). Chi non voleva sottoporsi a questa umiliazione e riparazione veniva punito più severamente, a giudizio dell'abate (forse come la soddisfazione degli scomunicati).

3: I fanciulli, per mancanze di questo genere, siano battuti Bisogna intendere per gli sbagli in coro, oppure per non essersi umiliati dopo gli sbagli? Sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi: anche i ragazzi hanno il loro amor proprio. Ma bisogna anche ammettere che SB possa aver inteso infliggere le battiture ai ragazzi per gli sbagli durante la recitazione. Si pensi che l'uso della verga era normale per gli alunni, è rimasta celebre la verga con cui S. Gregorio correggeva gli irrequieti fanciulli che formava al canto sacro (cf. anche la famosa esperienza di S. Romualdo). E, del resto, fino a non molti anni fa', sulla cattedra del maestro elementare faceva bella mostra la bacchetta e qualcuno degli ancora viventi potrà ricordare di aver imparato le declinazioni latine a forza di bacchettate!

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIV – La riparazione degli scomunicati

1 Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa comune, al termine dell’Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta del coro, 2 rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che escono 3 e continui a fare in questo modo fino a quando l’abate non giudichi che ha sufficientemente riparato. 4 Quando poi sarà chiamato dall’abate, si getti ai piedi di lui e di tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere. 5 Allora, se l’abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo posto o a quello designato dallo stesso abate, 6 senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a meno che l’abate glielo ordini. 7 Inoltre al termine di tutte le Ore dell’Ufficio divino, si prostri a terra lì dove si trova 8 e faccia così la sua riparazione, finché l’abate non metterà fine a questa penitenza. 9 Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall’abate 10 e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!

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Approfondimenti

Il capitolo parla della soddisfazione e riconciliazione dei monaci scomunicati. Cassiano prevede un rito molto semplice: una semplice prostrazione alla fine dell'Ufficio e l'ordine dell'abate di alzarsi (Inst. 4,16). RM 14 è più complicata: prostrazione alla porta durante l'Ufficio, preghiera della comunità all'abate, rimprovero al penitente e sua promessa di correggersi, preghiera della comunità, versetto “Confitemini...” (Confessatevi...), lunga preghiera, nuovo avvertimento, versetto “Erravi...” (Ho peccato...). RB in parte ritorna alla semplicità di Cassiano, in parte conserva il cerimoniale di RM.

1-8: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica maggiore I colpiti da scomunica maggiore (RB 25) devono seguire questa procedura in quattro fasi: anzitutto la prostrazione alla porta dell'oratorio “in silenzio, con la faccia rivolta a terra, ai piedi di tutti i fratelli man mano che escono”; e non una volta sola, ma fino a quando lo giudica l'abate (vv. 1-3). Potremmo qui notare la falsariga della procedura della Chiesa per i penitenti pubblici i quali aspettavano davanti alla porta della basilica). Poi, chiamati dall'abate, si prostrano davanti a lui e a tutti per chiedere preghiere: è un rito silenzioso, non si pronuncia nessuna orazione a voce alta (a differenza della lunga orazione di RM. 14,25-73). Quindi, se l'abate lo concede, tornano al loro posto in coro. Però non potranno recitare salmo o lettura come solista in coro e alla fine di ogni ora canonica si prostrano a terra al loro posto. Questa soddisfazione durerà fin quando l'abate lo giudicherà opportuno. Così la procedura potrà essere più o meno lunga; è da notarsi l'insistenza di S. Benedetto sul giudizio personale e la responsabilità pastorale dell'abate, il quale deve essere spinto solo dal desiderio di provare la sincerità e la perseveranza del monaco penitente e assicurare meglio la sua conversione. SB si ispira alla medesima carità e al realismo dei cc.27-29; è più pedagogico rispetto a RM, perché conosce meglio la psicologia e ha esperienza diretta.

9-10: Soddisfazione degli scomunicati: scomunica minore Gli scomunicati solo dalla mensa (scomunica minore: RB 24) fanno la soddisfazione nell'oratorio fino a quando l'abate con la sua benedizione dice che basta. Consisteva nella prostrazione alla fine dell'Ufficio e probabilmente nel non intonare salmi e antifone, come nella terza e quarta fase del rituale sopra descritto (vv.6-7).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLIII – La puntualità nell’Ufficio divino e in refettorio

1 All’ora dell’Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine, 2 ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza. 3 In altre parole non si anteponga nulla all’opera di Dio». 4 Se qualcuno arriva all’Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94, che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause, non occupi il proprio posto nel coro, 5 ma si metta all’ultimo o in quella parte che l’abate avrà destinato per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti, 6 e vi rimanga fino a quando, al termine del l’Ufficio divino, avrà riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza. 7 Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all’ultimo posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti. 8 Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così occasione al demonio; 9 è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l’Ufficio e correggersi per l’avvenire. 10 Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all’Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all’ultimo posto, secondo la norma precedente, 11 e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino a che non avrà riparato, a meno che l’abate gliene dia il permesso con il suo perdono; 12 ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua mancanza. 13 Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme a mensa, 14 se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia rimproverato fino a due volte. 15 Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune 16 e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto. 17 Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al versetto che si recita dopo il pranzo. 18 Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell’ora stabilita. 19 Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro, non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente corretto.

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Approfondimenti

Il significato della soddisfazione per le colpe commesse Com'è proprio dell'uomo sbagliare, così è proprio del monaco riconoscere umilmente i suoi errori e le sue deficienze davanti a Dio e davanti ai fratelli. Perciò il significato della soddisfazione è quello di riparare pubblicamente le colpe, gravi o leggere, commesse pubblicamente a detrimento della pace, della concordia, dell'ordine della comunità; chiedere perdono a Dio delle irriverenze commesse contro di lui o contro le cose a lui consacrate. Il c. 43 parla della soddisfazione di chi arriva tardi alla preghiera comune o alla mensa. Ha il parallelo in RM 73.

1-3: Sollecitudine ad intervenire all'Ufficio divino La puntualità costituisce un elemento fondamentale per l'ordine. Essa va usata soprattutto per la preghiera. Qualunque sia l'occupazione del monaco, al segnale dell'Ufficio divino, bisogna lasciarla subito perché la dignità della preghiera comune è superiore a tutte le altre cose. Per inculcare la più scrupolosa puntualità, SB dice di “correre con somma sollecitudine” (v,1), ma sempre con la gravità caratteristica del monaco, ricordata molte volte nella Regola (cf.RB 6,3; 7,60; 22,6; 42,11; 47,4). Nulla perciò si anteponga all'Opera di Dio Ergo nihil Operi Dei praeponatur (v. 3): la celebre massima benedettina si trova in questo capitolo. Per il monaco la preghiera liturgica comunitaria ha un primato indiscutibile e il monaco è, e deve tendere ad essere, essenzialmente un uomo di preghiera. L'espressione “Nihil Operi Dei...”, e soprattutto il concetto stesso, erano tradizionali nel monachesimo. Nella II. Reg. Patrum, 31 si legge: “Niente si deve anteporre all'orazione”; l'orazione qui denota l'Ufficio divino. “Non anteporre nulla all'orazione in tutto il giorno” è una massima dell'abate Porcario di Lerins.

4-9: I ritardatari all'Ufficio notturno Nonostante tutte le avvertenze e la solidità del principio generale, è inevitabile per la natura umana che ci siano delle mancanze. SB si mostra comprensivo e indulgente e vuole anche all'Ufficio notturno il salmo 94 (l'Invitatorio) si reciti molto lentamente per dar modo ai sonnolenti di giungere prima del Gloria. Chi arriva più tardi si metterà all'ultimo posto o in un luogo speciale a ciò destinato dall'abate e dia soddisfazione al termine dell'Ufficio (vv.5-6). SB si mostra qui innovatore: secondo l'uso di molti monasteri attestato da Cassiano (Inst. 3,7), i ritardatari (dopo il secondo salmo) erano costretti a rimanere fuori e a unirsi solo da lontano alla preghiera e a prostrarsi ai piedi di tutti quando uscivano. SB li pone in un posto particolare perché per la vergogna di vedersi così notati siano portati a correggersi (v,7); altrimenti, se rimangono fuori, ci sarà chi se ne torna beatamente a letto, oppure si sdraia lì per terra godendosi, d'estate, il fresco della notte o chiacchierando con qualche altro del suo stampo (v.8). Il S .Patriarca è veramente un pittore arguto in questa scenetta: conosce l'uomo; la sua esperienza, la sua fine penetrazione psicologica gli hanno insegnato molte cose: “Che entrino, invece, perché non perdano tutto” (v.9).

10-12: I ritardatari all'Ufficio diurno Per gli Uffici diurni SB è più severo, perché i monaci sono allora meno scusabili, essendo già tutti in piedi; non solo si riduce il margine per il ritardo (il Gloria del primo salmo), mentre di notte c'era il salmo 3 di attesa e il salmo 94 cantato lentamente), ma si proibisce ai ritardatari di associarsi al coro dei fratelli salmodianti (v.11), a meno che l'abate, per ragioni particolari, non lo concede; rimane comunque l'obbligo della soddisfazione (v.12).

13-17: I ritardatari alla mensa Anche la mensa comune è uno degli atti più importanti per la società cenobitica. Chi arriva tardi, dopo la preghiera, o esce prima della preghiera di ringraziamento, mangerà da solo e senza vino; però tale punizione si applica soltanto dopo due ammonizioni (v.14).

18-19: Disciplina nel prendere il cibo Approfittando dell'occasione, SB aggiunge una nota (per sè non c'entra con il tema del capitolo): che nessuno ardisca mangiare o bere fuori dagli orai regolari. Anche Cassiano parla di monaci che osservavano così rigorosamente tale norma da non toccare neppure i frutti caduti a terra (Inst. 4,18). S. Basilio dice: “Attento a non incorrere nel peccato di mangiare clandestinamente: (Reg. 15). Fa eccezione il caso in cui il superiore offre qualcosa, per esempio per un lavoro straordinario o per altro motivo: sarebbe allora orgoglio e superbia non accettare e si sarebbe passibili di punizione.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLII – Il silenzio dopo compieta

1 I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte. 2 Perciò in ogni periodo dell’anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente: 3 se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione, 4 ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell’ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti; 5 se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato 6 e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione, 7 perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza. 8 Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all’uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola. 9 Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito, 10 eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l’abate abbia dato un ordine a un monaco; 11 ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.

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Approfondimenti

RB 42 corrisponde a RM 30. Ambedue le Regole stabiliscono un legame tra i pasti e il silenzio notturno (in RB 41 si parla dell'orario dei pasti). Il titolo accenna solo al silenzio, ma il capitolo parla più a lungo della lettura che precede compieta.

1: Osservanza del silenzio Il capitolo inizia con una massima generale cara a SB (come il c. 19 e il c. 49). La Regola ha già parlato dell'amore al silenzio (la “tacitirnitas”) nel c.6; ora ribadisce il principio: il monaco deve aver cura del silenzio in tutti i tempi, ma una posizione di privilegio va riservata al tempo della notte. Si noti che qui c'è la parola “silentium” (non “taciturnitas”), che ha un senso più energico e assoluto.

2-7: Lettura prima di compieta e riunione di tutta la comunità Dopo il v.1 viene lasciato il tema del silenzio per trattare di due cosa legate fra loro: la lettura prima di compieta e la riunione di tutta la comunità. RM 30,1-11 prevede a questo punto la lavanda dei piedi e la comunicazione tra i fratelli di cose necessarie, prima del silenzio rigoroso. RB insiste di più sulla riunione di tutta la comunità che sul silenzio a cui prepara compieta. Questa insistenza sembra giustificata dal fatto che SB introduce l'uso della lettura prima di compieta, uso sconosciuto a RM.

A volte si è interpretata la lettura in comune solo come un modo di approfittare del tempo mentre i fratelli erano occupati in qualche ufficio; ma non sembra troppo esatto vedere la cosa solo così. SB dà un'importanza evidente a questa lettura vespertina fatta in comune. Indica alcune opere: le “Collazioni” di Cassiano e le “Vitae Patrum”, testi tipicamente monastici o “altre opere di edificazione” (v. 3). Lettura pubblica ed edificazione di chi ascolta vanno sempre di pari passo nella Regola (RB 38,12; 47,3; 53,9), tanto che SB si preoccupa di non far leggere in quell'ora più propizia alla tentazione niente meno che alcuni libri della S. Scrittura: l'Eptateuco (i primi sette libri della Bibbia: Pentateuco + Giosuè + Giudici) e i libri dei Re (1-2 Samuele e 1-2 Re); non si considera dannosa la lettura dei libri sacri (difatti bisogna leggerli in altri momenti (v. 4) perché sono parola di Dio), ma si pensa che alcune storie scabrose lì riferite potevano suscitare a quell'ora immagini sconvenienti alla fantasia delle “menti deboli” (v. 4). SB pensa quindi alla parte spiritualmente debole della comunità. Anche Cassiano notava che tali letture dell'AT non erano adatte agli “spiriti deboli e infermi” (Coll. 19,16).

Significato della lettura La lettura vespertina ha un valore proprio, di preparazione non tanto per compieta quanto per la notte. La notte da una parte è segno del male, delle tenebre spirituali e piena di misteriosi pericoli per lo spirito; dall'altra parte è propizia, come nessun altro tempo, alla riflessione e alla preghiera. SB dice di leggere “quattro o cinque fogli” (v. 6) – era molto, sopratutto in quell'epoca – e nel frattempo devono arrivare tutti i fratelli.

Importanza della presenza di tutti i fratelli Che tutti si ritrovino sembra molto importante per SB; tre volte in questo capitolo si trovano espressioni che richiamano questo fatto: “seggano tutti insieme” (v. 3); “si radunino tutti” (v. 7); “tutti insieme” (v. 8). Perché questo far arrivare tutti? per assicurare l'osservanza del silenzio notturno? perché tutti ascoltino (almeno un po') la lettura preparatoria per la notte? per concludere tutti insieme la giornata al canto di compieta? Impossibile determinarlo con certezza. Certo è che SB vuole tutti insieme i membri del monastero nel momento conclusivo della giornata.

8: Compieta e silenzio notturno Quando tutti i monaci sono presenti si dice compieta e poi “a nessuno sia permesso proferire parola” (v. 8). La comunità intera si immerge nel gran silenzio della notte. Disciplina cenobitica antichissima: risale a Pacomio (“Nessuno parli a un altro di notte”, Reg. Pachomii 94) e da lui passa in tutte le altre Regole (Cassiano ha: “Nessuno dei monaci ardisca di attardarsi per un po` a scambiare parola con un altro”, Inst. 2,15); oltre alla salvaguardia del silenzio, si tende a premunire la castità (si suppone la dormizione in celle separate). Comunque RM e RB sembrano indipendenti da Pacomio, almeno nella motivazione. RM porta una motivazione liturgica: difatti il silenzio rigoroso iniziava con il versetto: “Poni, Signore una custodia alla mia bocca...” (Sal 140,3) e terminava con il versetto: “Signore, apri le mie labbra...” (Sal 50,17) (RM 30,12-16). RB (e anche RM) tende a favorire il riposo di tutti. E questo si spiega con il passaggio dalla cella al dormitorio comune: stando insieme i monaci debbono stare attenti a non disturbarsi nel sonno (cf. RB 48,5) e nella preghiera (cf. RB 52,2-3), cose che prima i monaci compivano nella loro cella. Quindi il silenzio notturno ormai ha una caratteristica di sensibilità fraterna più che di protezione contro i pericoli della castità.

9-11: Penalità ed eccezioni Conclude il capitolo una prescrizione severa contro i trasgressori del silenzio notturno (v. 9) e il caso di due eccezioni: l'arrivo di ospiti e un eventuale ordine dell'abate (v. 10), per terminare con un'osservazione circa la gravita` e la delicatezza nell'uso della parola in tali occasioni eccezionali.

Nota per i monaci di oggi Forse i monaci di oggi devono rieducarsi a riscoprire il “grande silenzio” della notte. Certo, SB vede quanto sia necessario il silenzio notturno per salvaguardare il riposo di dieci o venti monaci che dormivano nello stesso luogo. Ma è anche certo che pensa alla “spiritualità” – per così dire – della notte. La notte è, infatti il tempo delle grandi rivelazioni di Dio nell'antica e nella nuova alleanza: nel silenzio della notte il Verbo incarnato è apparso per la prima volta tra noi (cf. la liturgia del Natale); nel silenzio della notte il nostro Redentore è risorto dal sepolcro; nel silenzio della notte, Cristo si intratteneva a colloquio col Padre. Il monaco dovrebbe, in questo grande silenzio, prolungare la sua preghiera personale che nasce dalla liturgia e delle liturgia è luce e alimento. Oggi nei monasteri si dovrebbe tornare a riflettere con maggiore scrupolosità su questo capitolo e su questo aspetto della spiritualità monastica.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XLI – L’orario dei pasti

1 Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera. 2 Invece da Pentecoste in poi, per tutta l’estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all’ora di Nona, cioè fin dopo le 14:30 e negli altri giorni pranzino all’ora di Sesta. 4 Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12:00, secondo quanto stabilirà paternamente l’abate. 5 Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione. 6 Dal 14 settembre fino all’inizio della Quaresima pranzino sempre all’ora di Nona. 7 Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all’ora di Vespro: 8 questo ufficio però dev’essere celebrato a un’ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno. 9 Anzi, in ogni stagione, sia l’ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

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Approfondimenti

La sezione dell'alimentazione si chiude con un capitolo sull'orario dei pasti e sui tempi del digiuno. È parallelo a RM 28, ma con notevoli varianti: SB mitiga molto la legge dei digiuni. Per l'orario dei pasti, RB segue un ordine cronologico, distinguendo quattro periodi.

1: Primo periodo: da Pasqua a Pentecoste Il tempo pasquale, per il carattere di particolare letizia, esclude il digiuno; perciò SB prescrive il pasto principale a sesta e la cena alla sera. Per i romani il pasto principale era la sera; ma i monaci subito dopo la refezione serale, avevano la lettura e compieta, e quindi il riposo; perciò l'inversione dei due pasti era anche una buona norma igienica. Riguardo ai monaci primitivi (Egitto), S. Girolamo dice che “da Pasqua a Pentecoste le cene si cambino in pranzi”, cioè l'ora veniva anticipata da nona a sesta (Epist. 22); così anche Cassiano (Coll. 21,23). Anche RM prevede il pranzo a sesta nel tempo pasquale e concede la cena, ma solo giovedì e domenica (RM 28,37-40). SB è più largo: pranzo e cena per tutto il tempo pasquale.

2-5: Secondo Periodo: da Pentecoste al 13 (o 14) settembre (estate) Il periodo estivo ha il pranzo a sesta ed ha, in via ordinaria, il digiuno che anche i semplici fedeli osservavano ogni settimana, cioè il mercoledì e il venerdì, digiuno che consisteva nel fare il pasto a nona e non avere la cena. Mentre i giudei digiunavano il lunedì e il giovedì, i cristiani, fin dai primi tempi, digiunavano il mercoledì e il venerdì, e questa usanza fu tenuta in grande onore presso i monaci; per la chiesa romana e alcune altre anche il sabato (così anche RM). Ma anche questo digiuno mitigato ha per SB delle deroghe: mercoledì e venerdì si digiuni (nel senso detto sopra), purché i lavori campestri e la calura estiva non richiedano una dispensa; l'abate consideri la cosa. Si noti il v. 5 che intende dire: se è vero che i monaci non devono mai mormorare (RB 34,6; 40,8-9), è anche bene che l'abate disponga le cose in modo da evitare ogni motivo fondato di mormorazione.

6: Terso Periodo: dal 13 (o 14) settembre a quaresima (inverno) In inverno RB prevede il digiuno continuo (cioè pranzo a nona e senza la cena), esclusa la domenica (in RM anche il giovedì). Questo periodo si suole chiamare “quaresima monastica”. Nel testo, le “idi di settembre” possono intendersi il “13 settembre”, come è più ovvio, ma anche considerare le “idi chiuse”, cioè terminate, e quindi supporre l'inizio di tale periodo di digiuno il “14 settembre”, pratica comunissima nei monasteri, anche perché legata alla festa della S. Croce.

7-9: Quarto periodo: Quaresima In quaresima l'unico pasto si prendeva dopo vespro. Era l'ora comune per tutti i cristiani: si tratta della “quaresima ecclesiastica”, in cui si celebrava il sacrificio eucaristico nel tardo pomeriggio, e quindi si faceva a vespro l'unica refezione del giorno. SB aggiunge che la cena si faccia con la luce del sole e che il vespro, perciò, venga anticipato (v. 8); anzi mette come norma generale che tutto si faccia con la luce del giorno luce fiant omnia. È una disposizione che eccita la nostra curiosità. Perché? Anche se non si escludono ragioni di ordine economico (risparmiare olio) o anche il motivo di abbreviare un po' il tempo del digiuno che doveva essere pesante per gente che faceva lavori manuali, pare che il motivo principale sia di tipo morale: la convinzione che la notte non è un tempo adatto per mangiare, come per parlare (RB 42,8-11); SB ha in mente probabilmente molte frasi di S. Paolo (cf. Rom 13,12-13; Ef 5,8-14; 1Tess 5,5-8) sulla notte come simbolo di tutti i peccati: in particolare di quelli della bocca.

Riassumendo: i monaci avevano:

  1. giorni senza digiuno con pranzo e cena: in tutte le domeniche e le feste; nel periodo pasquale; in tutta l'estate (cioè da Pentecoste al 13 o 14 settembre, eccetto il mercoledì e il venerdì.

  2. giorni di digiuno moderato con un'unica refezione a nona: nei mercoledì e venerdì da Pentecoste al 13 o 14 settembre (purché non ci fosse lavoro eccezionale nei campi o molta calura); in tutti i giorni feriali dal 13 o 14 settembre fino a quaresima.

  3. giorni di digiuno stretto con unica refezione a vespro, in tutte le ferie di quaresima.

Nell'insieme dobbiamo dire che il sistema dei digiuni in RB è molto attenuato rispetto a RM, mentre è più severo per cibi e bevande. Nei tre capitoli sui pasti, troviamo tre volte l'accenno a dispense: RB 39,6-9 (aggiunta di cibo); 40,5-7 (aggiunta di vino); 41,4-5 (dispensa dal digiuno in estate). Il motivo della dispensa è il lavoro, perché RB prevede il lavoro di agricoltura (mentre RM limita il lavoro dei monaci all'artigianato o al giardinaggio). RB 41,4-5 raccomanda all'abate molta discrezione (cf. anche RB 64,17-19), perché i monaci evitino la mormorazione e perché i deboli non si scoraggino.

Certo, ciò che SB concede al cibo e alla bevanda avrebbe scandalizzato i Padri del deserto. L'ideale del S. Patriarca, però, non è una santità riservata a pochi, ma accessibile anche agli infermi di corpo e ai deboli di animo. Nel suo programma di perfezione ascetica non entrano di proposito rigorose macerazioni del corpo ed eroici digiuni. I suoi monaci devono poter attendere alla preghiera corale, alla lettura e al lavoro senza eccessivo peso. Certo, il prolungamento del digiuno fino a nona per parecchi mesi dell'anno e la qualità stessa dei cibi differenziavano abbastanza i monaci dai laici; ma per la quantità del vitto come del sonno, SB in definitiva non richiede molto di più di quanto si esigeva allora dai buoni cristiani.

Il regime di SB potrà forse apparire severo oggi; ma si pensi che l'astensione perpetua dalle carni, come l'unico pasto a nona (e in quaresima a vespro) non erano allora ritenuti così duri come adesso. La tendenza di SB a concedere attenuazioni ed eccezioni indica il sapiente adattamento alle condizioni fisiche e morali dell'occidente. La discrezione consigliata già da Basilio (Reg. 19) e dall'abate Mosè in Cassiano (Coll. 2,16) fà in SB un ulteriore passo in avanti. Nello stesso spirito i monaci di oggi tengono conto, anche per il vitto, del regime alimentare medio del luogo in cui si vivono, delle mutate condizioni di tempra fisica, delle necessità dei fratelli più deboli, ecc., in modo da non avere una visione angelicata o manicheista della vita monastica. Ma forse non e` nemmeno inopportuno il richiamo ad una certa austerità, evitando di indulgere a una continua e ordinaria sovrabbondanza, o peggio ad uno spreco di evidente matrice consumistica moderna, per serbare sempre fede alla temperanza e alla frugalità dello stato monastico, pensando anche a quanti nel mondo soffrono oggi la fame. La riflessione su questi capitoli della Regola può essere una sfida per la vita quotidiana in monastero.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XL – La misura del vino

1 «Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» 2 ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità. 3 Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa. 4 Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa. 5 Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l’ubriachezza. 6 Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d’accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente, 7 perché «il vino fa apostatare i saggi». 8 I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino: 9 è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.

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Approfondimenti

1-7: Il vino per i monaci Il capitolo è legato al precedente. Inizia con la citazione di 1Cor 7,7 a dimostrare la titubanza di SB a legiferare su questi argomenti. S. Paolo, nel brano, si riferisce direttamente alla sessualità. SB l'applica al vitto: come la verginità, così anche l'astinenza dal vino è un dono che proviene dall'alto; perciò non si può imporre come obbligo, ma solo proporre come sacrificio meritorio davanti a Dio (v. 4). Per la comunità, considerando le varie esigenze, SB fissa (ma si noti l'espressione di ritegno come al c. 39 “sufficere credimus” pensiamo che basti) una “emina” di vino al giorno, misura incerta che i commentatori calcolano intorno a ¼ di litro. Secondo l'uso, vi si mesceva l'acqua, generalmente calda.

Nei vv.5-7 SB prevede un supplemento in caso di lavoro e di calore eccessivi, ma sempre con l'invito a fuggire l'eccesso e l'ubriachezza. Qualcosa di simile in RM 27,43-46, dove tuttavia il supplemento è dato per motivi gioiosi e l'ebbrezza è posta in relazione con l'impossibilita` di stare attenti alla preghiera e con la libidine. (Notiamo qui che RM è molto particolareggiata nell'uso del vino: stabilisce quanti bicchieri si danno a ciascuno e il modo di darli, quanti pezzi di pane vi si possono intingere prima dell'arrivo delle vivande, il numero delle bevute dopo nona per il lavoro, e tanti altre particolarità). Al v. 6 SB fa un'osservazione riguardo all'uso del vino per i monaci, manifestando i suoi scrupoli e facendo il confronto tra monachesimo antico e monachesimo del suo tempo (così anche in RB 18,24-25 a proposito della perfezione).

Il vino nella tradizione monastica Sull'uso del vino nella tradizione monastica, si va dalla totale proibizione (Vita di Antonio, Pacomio, Basilio – solo per i malati –, Giovanni Crisostomo...), alla progressiva (Agostino, Ilario di Arles...) e pacifica ammissione (Cesario, Aurichiano, Isidoro, Fruttuoso...). Nelle “Vitae Patrum” (V, IV,31) si legge la sentenza dell'abate Pastore che “vinum monachorum omnino non est” (il vino non conviene affatto ai monaci), e SB la ricorda con un certo disagio; tuttavia accetta le cose come sono e vi si adatta, pur ricordando e lodando l'austerità antica. E aggiunge la norma di Basilio (Reg. 9) di non bere almeno fino alla sazietà, citando la frase del Siracide 19,2 che, presa integralmente, suona così: “vino e donne fanno traviare anche i saggi”. A SB, in questo punto, il secondo termine (le donne) non è pertinente!

8-9: Casi di scarsezza o di mancanza di vino SB aggiunge un piccolo paragrafo per il caso di scarsezza di vino a causa della situazione del luogo o anche della povertà del monastero. Qui interviene la fede: benedicano Dio che presta loro l'occasione di un po' di penitenza (v. 8); doversi affliggere per così poco! Tanto meno mormorare! (v. 9).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo XXXIX – La misura del cibo

1 Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato – a seconda delle stagioni – dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte, 2 in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell’altra. 3 Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza. 4 Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c’è un solo pasto, che quando c’è pranzo e cena. 5 In quest’ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena. 6 Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l’abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento, 7 purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall’ingordigia. 8 Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola, 9 come dice lo stesso nostro Signore: «State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo». 10 Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà. 11 Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

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Approfondimenti

1-5: Razione quotidiana del cibo SB prova disagio e ritegno nel determinare la misura del vitto (lo dirà espressamente all'inizio del capitolo seguente, RB 40,1-2). Perciò inizia con un modesto sufficere credimus (pensiamo che bastino). Identico inizio in RM 26,1, con la differenza che RB è un po' più restrittiva mettendo come occasionale il terzo piatto che in RM è sempre previsto. Caso strano: poi: RB è più lunga di RM. Al v.1 la frase omnibus mensis è, per l'interpretazione, tra le più tormentate della Regola. Può significare (più letteralmente prendendo “mensis” come ablativo regolare da “mensa, mensae”): a tutte le mense, cioè a quella della comunità, a quella dei servitori e del lettore che mangiavano dopo (RB 38,11), e a quella dell'abate e degli ospiti (RB 56,1); come anche, e più probabilmente, a tutte le tavole, dove erano seduti i fratelli per gruppi (soprattutto considerando il parallelo con la RM secondo la quale i monaci stavano a tavola in tavoli diversi secondo le decanie). Altri invece intendono “mensis” come ablativo volgare al posto del regolare “mensibus” (da “mensis, mensis”) e interpretano: in tutti i mesi, cioè sia d'estate che d'inverno. (Per l'orario dei pasti che poteva essere a sesta, a nona e anche dopo, cf. RB 41).

SB vuole due pietanze cotte, per assicurare il necessario ai fratelli malati (v. 2), ma chi aveva stomaco forte poteva senza dubbio fare onore ad ambedue. L'eventuale terzo piatto era di legumi teneri che in Italia del Sud il popolo soleva mangiare anche crudi: fave, ceci, lupini, ed anche carote, cipolle, ravanelli, ecc. Per il pane si parla di una “libbra”, peso tradizionale presso tutti i monaci (cf. Cassiano, Coll. 2,19; RM 26,2). La libbra romana equivaleva a un terzo di chilogrammo, ma variava secondo i tempi e i luoghi. Pare che la misura di SB sia molto più grande: il pane costituiva il cibo principale per i monaci di allora, dediti quasi tutti a lavori manuali. A Montecassino si conserva ancora un peso di bronzo, di cui un'antica e seria tradizione attestata già da Paolo Diacono (sec. VIII) dice adoperato fin dai tempi di SB, portato a Roma nella prima distruzione dell'abbazia (577) e restituito da Papa Zaccaria. Tale peso corrisponde a kg.1,055: esso valeva per il pane crudo; per il cotto, l'equivalente si può calcolare intorno agli 800 grammi. SB ricorda al cellerario di conservare la terza parte della razione di pane a testa per i giorni in cui c'era anche la cena (ma non si dice in che cosa questa consistesse).

6-10: Eventuale aggiunta e quantità per i fanciulli Questo era il regime normale. Ma ci potevano essere dei supplementi per qualche motivo: SB cita solo il caso di un lavoro eccessivo, RM 26,11-13 anche un motivo gioioso (domenica, giorni di festa, ospiti particolari; e parla anche del “dolce” (!) ricordando un episodio di “Vitae Patrum”); purché, osserva SB, non si esageri fino all'eccesso o all'indigestione (vv.7-9). I fanciulli seguono un regime particolare (v. 10): si sa che essi hanno bisogno più di cibo frequente, che di cibo abbondante. SB ha già provveduto in loro favore (RB 37).

11: Astinenza dalle carni Come già detto in RB 36,9, l'astinenza dalle carni era normale per i monaci; si intende “carni di quadrupedi” (v. 11). Il divieto delle carni si è andato nel corso dei secoli più o meno attenuando, a causa della crescente debolezza generale dell'organismo, e oggi di fatto è quasi annullato nella legge ecclesiastica. Le Costituzioni delle singole Congregazioni fissano le norme per l'astinenza nei monasteri.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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