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DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Capitolo I – Le varie categorie di monaci 1 È noto che ci sono quattro categorie di monaci.

2 La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

3 La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall’entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero, 4 dove con l’aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio; 5 quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell’eremo, sono ormai capaci, con l’aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

6 La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l’oro nel crogiolo dell’esperienza di una regola, 7 costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura. 8 A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l’appagamento delle proprie passioni, 9 per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

10 C’è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all’altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri, 11 sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.

12 Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare. 13 Lasciamoli quindi da parte e con l’aiuto del Signore occupiamoci dell’ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

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Approfondimenti

Le specie dei monaci S. Benedetto dà come cosa risaputa che le specie dei monaci sono quattro, contando anche quelle dei falsi. Usa cioè un clichè tradizionale già definito da oltre un secolo. S. Girolamo, parlando dei monaci egiziani, enumera tre specie” cenobiti, anacoreti e “remnuot” (sarabaiti); Cassiano ne enumera quattro: cenobiti, anacoreti, sarabaiti e falso anacoreti che erano usciti dai cenobi. SB è d'accordo con ambedue riguardo alle prime tre categorie, ma unisce i falsi anacoreti (di Cassiano) alla terza categoria (i sarabaiti) e aggiunge la quarta dei girovaghi, meno sviluppata ai tempi di Girolamo e di Cassiano, ma ricordata da Agostino.

Prima specie: i cenobiti La prima specie è quella dei cenobiti, coloro che vivono in monastero, cioè insieme. “Cenobita” – in Cassiano “cenobiota” – viene dal greco “koinos” = comune e “bios” = vita. È la prima specie anche per Cassiano, non tanto forse nella valutazione (Cassiano, e anche SB, probabilmente, hanno una stima superiore della vita eremitica), ma sopratutto perché ritenuta più adatta e più sicura per la maggioranza degli uomini; prima anche cronologicamente perché – dice Cassiano – ebbe i suoi inizi nella comunità apostolica di Gerusalemme. Quando la maggior parte dei monaci abbracciarono la vita comune, il termine “cenobita” e “cenobio” furono usati più raramente e furono sostituiti da “monaco” e “monastero”.

Militando sotto la Regola e l'abate Per il verbo “militando”, vedi il concetto della vita monastica come milizia nel commento al prologo (incluso nel concetto di “schola”).Il cenobitismo si basa su due colonne: la Regola e l'abate. La prima, la Regola, è una legge scritta costituita da usanze tradizionali, la “disciplina coenobiorum” di cui parla Cassiano, tramandata oralmente e poi fissata nello scritto; ha il carattere di stabilità e di autorità; la mancanza di essa è un pericolo per gli eremiti che non siano ben formati e la causa principale della cattiva condotta dei sarabaiti e girovaghi. La seconda colonna, l'abate, è la regola vivente, una persona costituita in autorità che interpreta la legge scritta.

Seconda specie: gli anacoreti o eremiti La RB non distingue tra i due nomi. Essi formano, come per S. Girolamo e per Cassiano, la seconda specie. “Anacoreta” viene dal greco “ana”, che significa lontananza e “koreo”, che significa abitare e perciò significa “colui che vive in disparte”; “eremita” viene dal greco “eremos”, che significa luogo deserto. Praticamente i due termini sono sinonimi, anche se anacoreta si riserva per i grandi asceti del deserto. SB spiega chi sono questi eremiti: avendo vissuto da solo per tre anni nello speco sublacense, egli sa per esperienza i pericoli di quella vita che in se stessa è di alta perfezione.

La vita eremitica Tanto superiore al normale temperamento degli uomini, la vita eremitica esige particolarissima chiamata divina e formazione spirituale per non cadere in illusioni; perciò SB determina bene i requisiti dei veri eremiti. Non si tratta di gente che è al primo fervore della vita spirituale, ma di chi ha fatto un lungo tirocinio in monastero. Già S. Girolamo voleva lo stesso e così Cassiano; l'idea che gli eremiti debbano prima formarsi nei cenobi era comunissima nell'antico monachesimo, tanto che a volte il cenobio era considerato quasi unicamente come scuola di solitari (non è questo evidentemente il caso della RB). Figli legittimi dei cenobiti, gli eremiti costituiscono quasi un monachesimo di élite, un'aristocrazia monastica; hanno superato il livello comune e possono accedere al combattimento da soli nell'eremo.

L'idea della lotta, il tema della milizia cristiana domina in questo versetti: il monastero e considerato come una specie di accademia militare dove si debbono formare le unità speciali degli anacoreti. La comunità dei fratelli è come un esercito in combattimento attivo e continuo contro il demonio; i cenobiti si aiutano l'un l'altro come buoni compagni d'armi. Gli eremiti escono dalle loro file ben addestrati o equipaggiati o armati (tali sono i significati attribuibili al termine “instructi”) per il combattimento individuale nella vita del deserto. Quali nemici speciali dei solitari si citano i pensieri: è noto quanto gli eremiti dell'oriente dovettero lottare contro i pensieri, ed è chiaro che questo è un pericolo molto più grave per un eremita privo com'è, a differenza del cenobita, del sostegno dei fratelli e dei superiori. Allettamenti della carne: altro genere di lotta frequentissima presso i solitari; si ricordino le tentazioni di Antonio nel deserto e la lotta di SB a Subiaco (Dial.II, c.2). Dopo tanta insistenza sulla ormai acquisita sufficienza a combattere da soli, era necessaria questa aggiunta contro il pericolo di presunzione di sapore pelagiano; della necessità della grazia SB è convinto e la richiama ad ogni occasione.

Terza specie: i sarabaiti Con i “sarabaiti” irrompono nella RB i falsi monaci, per la degenerazione dei costumi che li rende una caricatura dei veri monaci. Secondo Herwegen, i sarabaiti sarebbero la corruzione del monachesimo di città, i girovaghi (quarta specie della RB) la corruzione del monachesimo di campagna. Il termine “sarabaita” deriva dall'egiziano “sar” = disperso e “abet” = monastero e significa “uno che vive per conto proprio”. Dice Cassiano: “Dal fatto che si staccavano dalle comunità dei cenobi e ognuno per conto suo badava ai propri bisogni, sono stati chiamati, con termine proprio della lingua egiziana, sarabaiti”. Secondo altri, deriverebbe dall'aramaico “sarab” = ribelle.

La tonsura, o taglio dei capelli, fu, fin dai primi secoli, un segno distintivo, benché ancora non esclusivo, dei chierici e dei monaci. Da principio significava solo portare i capelli corti. Ma almeno fin dal sec. VI, è in uso anche la “corona” di capelli lasciata sulla testa rasata; ma probabilmente i monaci usarono a lungo quella primitiva e a questa forse pensa SB. I preti diocesani usarono da molto tempo, fino a poco fa, la tonsura ridotta a un piccolo cerchio rasato al vertice del capo (volgarmente la “chierica” perché con la prima tonsura si entrava a far parte del clero). Presso i monaci e gli altri religiosi sono state varie fino ai tempi recenti le fogge della tonsura; presso i benedettini italiani, per es., essa consisteva in una sottile linea che incideva i capelli in senso orizzontale (la “corona”). La tonsura ha voluto sempre significare una speciale appartenenza a Dio e, specialmente per i monaci, la rinuncia alle vanità del mondo. Ciò spiega ancor meglio l'espressione di SB.

«Vivono a gruppi di due o tre...» È la frase di S. Girolamo e di Cassiano; gruppetti quindi molto esigui dove non si poteva svolgere una vita seriamente regolare e dove era facile mettersi d'accordo per seguire i propri comodi.

«...oppure da soli, senza pastore» È il caso dei falsi eremiti che SB raggruppa qui, mentre Cassiano ne fa la quarta specie di monaci. Non solamente sono senza Regola, ma anche senza un capo, appunto l'opposto dei cenobiti, che “militano sotto una regola e un abate” (v.2). SB, pur trattando male questi sarabaiti, usa però una certa moderazione nella sua critica e solo in questa ultima parte mostra il ridicolo del loro criterio di vita (v.9). S. Girolamo e Cassiano sono molto più duri e si dilungano nel bollare a fuoco e ridicolizzare questi monaci. Tuttavia ci si potrebbe porre il dubbio se questa critica non sia esagerata o ingiusta, per lo meno nel generalizzare in un modo così assoluto. Partendo dal cenobitismo ad oltranza, S. Girolamo e Cassiano mettono in ridicolo e criticano tutti quelli che non vivono secondo quelle leggi. Certamente, il monachesimo libero e vario che fioriva un po' dappertutto, poteva dar luogo ad abusi e sicuramente ne dava; certamente, molti di quei monaci erano ipocriti, Ma condannare in blocco tutta una maniera diversa di servire Dio nell'ascetismo, è un'altra cosa. In realtà pare che i sarabaiti non erano quelli che Cassiano (e SB) fanno apparire come cenobiti degenerati e rinnegati, ma la sopravvivenza, la naturale evoluzione dell'ascetismo premonastico, come è provato da molti testi dei secoli IV e V. Non perchè il cenobitismo stretto offre maggiori garanzie di andare a Dio, almeno teoricamente, si debbono disprezzare, in modo generale e assoluto, le altre specie di monaci (Colombas).

Quarta specie: i girovaghi Questa quarta specie è considerata la peggiore da SB. “Girovaghi” viene dal greco “ghiros” = giro e dal latino “vagus” = vagare. S. Agostino li chiama “circumcelliones”, cioè vaganti di cella in cella. SB bolla a fuoco questi vagabondi; l'intera vita la passano così: sono la scrocconeria e la fannullaggine divenuta sistema, schiavi dei propri capricci (è chiaro che non si sarebbero mai adattati a vivere sotto un abate!) e della propria golosità (è l'aspetto più degradante della loro vita). La RM indugia a lungo (ben 62 versetti) a descrivere i costumi e le arti degli ingordi girovaghi, ma con tono caricaturale e particolari esagerati, anche se pittoreschi, al cui confronto spicca la gravità e la sobrietà di SB. Anche qui si potrebbe fare l'osservazione, almeno come dubbio, fatta sopra per i sarabaiti. In realtà questi monaci chiamati girovaghi hanno una tradizione degna di tutto rispetto: il cosiddetto monachesimo itinerante che risale alle origini stesse della Chiesa. Effettivamente esisteva nella Chiesa primitiva una categoria speciale di cristiani i quali, senza patria, senza casa, viaggiava di città in città compiendo l'ufficio di predicatori ambulanti. Man mano poi che le comunità cristiane si consolidarono intorno ai vescovi stabili, questa classe di predicatori perse la sua ragion d'essere. Tuttavia alcuni continuarono questa vita errabonda non come predicatori del vangelo, ma per motivi ascetici. Questa pare l'origine dei girovaghi così strapazzati in RM e RB, monaci che volevano prendere sul serio l'imitazione di Gesù Cristo il quale “non aveva dove posare il capo” (Lc 9,58); soli o in piccoli gruppi praticavano la più stretta povertà, vivevano di ciò che davano loro o dei frutti che trovavano nelle campagne, passavano la notte in rifugi di fortuna o all'addiaccio e ritenevano un titolo di gloria essere chiamati vagabondi o pazzi.

Conclusione: la Regola è scritta per i cenobiti SB si ferma solo alla prima specie. È chiaro che esclude la terza e la quarta. Ma che dire degli eremiti? Senza dubbia è una categoria legittima; ma SB la considera superiore o inferiore ai cenobiti? La questione è dibattuta. Certamente, ispirandosi come fa a Cassiano, SB dovrebbe ritenere l'opinione comune secondo cui la vita ancoretica rappresenta la realizzazione più perfetta dello stato monastico; però non la ritiene la via più comune e sopratutto non adatta alla maggior parte degli uomini.

“Fortissima specie” o “la specie migliore”: SB è preso dall'eccellenza di questa specie, anche di fronte agli eremiti, appunto perché la virtù che lo stato cenobitico dà modo di esercitare continuamente, sopratutto l'obbedienza, la carità fraterna e la pazienza, lo rendono il più adatto di tutti, il più umano, il meno esposto alle illusioni.

“Valoroso” o “fortissimo” esprime la fortezza d'animo che questa categoria richiede, perché la pratica quotidiana e perseverante delle virtù monastiche, nella monotonia delle azioni e nella stabilità di luogo e di confratelli, costituisce veramente una continua sofferenza (che fecero paragonare la vita monastica vissuta integralmente a un lento martirio).

Iniziando la grande opera dell'organizzazione della vita del cenobio nei suoi elementi costitutivi, ascetici e disciplinari, SB si richiama all'aiuto do Dio, come ha raccomandato di fare al discepolo prima di iniziare qualunque opera buona (cf. Prol. 4)

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La vita monastica non è un fatto particolare del cristianesimo, ma è un fenomeno universale con caratteristiche simili in tutte le religioni e in tutti i tempi e luoghi. Nasce da alcune aspirazioni religiose e morali profondamente radicate nell'animo umano, aspirazioni a volte vaghe e deboli, ma che in alcuni individui riescono a superare gli istinti più forti della natura e a riempire tutta l'esistenza. Queste aspirazioni si possono ridurre a due:

a) ascetismo, che è la tendenza dell'uomo alla purificazione continua dei suoi peccati e al dominio delle passioni; b) misticismo, che è il desiderio di realizzare in qualche maniera, già da questo mondo, l’unione con la divinità.

Fuori del cristianesimo Il monachesimo, in definitiva, non è che la realizzazione pratica di queste aspirazioni o aneliti in uno stile di vita che permette di raggiungerli. In questo senso l'origine del fenomeno monastico si perde nella notte dei tempi. Le manifestazioni conosciute presentano una grande varietà. L'India, paese profondamente sensibile ai problemi della religione, della santità, della purificazione interiore, costituisce un esempio insigne: si conosce il monachesimo da tempo immemorabile, vere moltitudini di monaci di religione brahmanista o jainista o buddhista attraversano tutta la storia: il monachesimo hindu e buddhista è fiorente in molti paesi dell'oriente.

Nell'Antico Testamento Nell'AT si trovano dei precursori al monachesimo cristiano: le scoperte archeologiche a Qumran, vicino al Mar Morto, hanno suscitato nuovo interesse per la storia del monachesimo, rivelandoci qualcosa dei monaci esseni.

Presso i filosofi classici Non mancano elementi “monastici” neppure nella vita e nella dottrina dei filosofi classici, in particolare i pitagorici.

Nel cristianesimo L'apparizione del fenomeno monastico in seno al cristianesimo non è così facilmente databile. Sappiamo che la chiesa apostolica e quella dei martiri hanno avuto le loro vergini consacrate e i loro asceti, che si debbono considerare come autentici predecessori dei monaci: praticavano il celibato, conducevano vita povera e austera, si andavano raggruppando a poco a poco. Nella seconda metà del secolo III alcuni, particolarmente in Egitto, si ritirarono nel deserto. S. Antonio Abate (Antonio il Grande), anche se non fu il primo a ritirarsi, è considerato il padre dei monaci (250-356). Così si formò praticamente il monachesimo cristiano, man mano, senza che sia possibile assegnargli un fondatore, una data precisa, una culla determinata. Nacque un po' in tutte le parti come prodotto della santità e della fecondità delle diverse chiese locali.

Nel IV secolo Nel IV secolo, terminata l'era delle persecuzioni, all'inizio della libertà della chiesa, il movimento monastico assume uno sviluppo enorme, e ciò senza dubbio fu causato dall'ondata di profano e di mediocre che era penetrata nella chiesa. Infatti uno dei luoghi comuni del monachesimo primitivo era il richiamo continuo e l'entusiasmo ammirato verso la prima comunità di Gerusalemme; e in realtà i monaci si considerarono come gli eredi e i continuatori di quella comunità ideale. Cassiano lanciò la teoria che i cenobiti erano i discendenti in linea retta, per una successione ininterrotta, di quei primi credenti, i quali “stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (Atti 2,44-45) e “avevano un cuore solo e un'anima sola” (Atti 4,32).

In pieno secolo IV e V i nuovi asceti formavano un vero “maremagnum” variopinto e a volte un po' caotico; c'erano tutti i tipi e con le forme di vita le più varie; accanto a persone famose per virtù e santità non mancavano persone superbe che caddero nello scisma o nell'eresia, né i mediocri o i fanatici. A tutta questa schiera, dopo altri e diversi titoli, si cominciò a dare indistintamente il nome di monaci.

Il termine “monaco” presso i classici e i Padri Greci Il termine “monaco”, di origine greca (monakos), deriva dall'aggettivo “monos”, che vuol dire “solo”, “unico”; presso gli scrittori classici significa “in un unico modo”, “di un solo posto”, “semplice”, “unico nel suo genere”, “solitario”. Eusebio di Cesarea e Atanasio cominciarono ad usarlo per i nuovi asceti col significato tecnico di persona non sposata, celibe; ma per loro il monaco è anzitutto un imitatore di Cristo e del suoi apostoli in un distacco che separa, ma nello stesso tempo unisce (“separato da tutti e unito a tutti”, secondo l'espressione di Evagrio Pontico). Comunque, nella letteratura del IV secolo – l'epoca d'oro del monachesimo – il termine tecnico “monakos” significa “separato” e “celibe”.

Il termine “monaco” presso i Latini Il termine greco “monakos” fu latinizzato in “monachus” ed esprimeva essenzialmente la condizione del solitario, del separato dalla gente del mondo. Nello stesso tempo si parla anche dell'idea di unità che il termine racchiude: unità di pensiero, unità di proposito, unità di condotta. Così gradualmente il significato di “monachus” si andò allargando fino a comprendere praticamente tutte le classi di asceti. Il doppio concetto di “solo” e di “uno” era verificato nell'isolamento dal secolo e nell'unità fisica o morale in cui si viveva; perciò si applicò anche a quelli che vivevano in comune. Il termine “monaco”, assente dalle Regole madri (Pacomio, Basilio, Agostino) che usano frater, predomina però negli scritti di Cassiano e appare già nella generazione seguente.

Il termine “monaco” in S. Benedetto S. Benedetto usa frequentemente il termine “monachus” – insieme a quello di “frater” – fin dal primo capitolo della Regola. Ormai il termine aveva acquistato una pienezza di significato ed era una specie di titolo di nobiltà spirituale. Lo avevano glorificato con la loro vita personaggi eminenti come Antonio e tanti altri e lo avevano esaltato con i loro scritti Atanasio, Girolamo, Palladio, Rufino, Agostino, Cassiano, ecc. Il monaco non era più solamente il “celibe”, il “separato”, il “solitario”; era anche il “saggio” per antonomasia, l'“atleta”, il “soldato di Cristo”, il nuovo “martire”, il “compagno degli angeli”, insomma il tipo dell'uomo nuovo come appare agli occhi della fede, l'uomo che aspira a ricopiare sempre più pienamente l'immagine di Cristo morto e risorto. In questo contesto il termine “monachus” nella RB ha delle esigenze, è un titolo che obbliga, un programma di santità e costituisce un rimprovero continuo per chi lo porta indegnamente.

Il termine “monaco” oggi Col sorgere di nuovi istituto religiosi nel medioevo e dopo, il termine “monaco” è venuto a restringersi designando, in occidente, solo i figli di S. Benedetto e i certosini, per distinguerli dai “frati” (francescani, domenicani, agostiniani...) e dai membri degli ordini e congregazioni moderne (gesuiti, passionisti, redentoristi, salesiani, ecc.).

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Necessità di ascoltare la parola di Dio e di obbedirgli 1 Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno, 2 in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell’obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l’ignavia della disobbedienza. 3 Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell’obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore. 4 Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere, 5 affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta. 6 Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato, 7 ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria. 8 Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l’incitamento della Scrittura che esclama: «È ora di scuotersi dal sonno!» 9 e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio: 10 «Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!» 11 e ancora: «Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!». 12 E che dice? «Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. 13 Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte».

Che cosa ci dice il Signore (Sal 33 e 14) 14 Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo: 15 «Chi è l’uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?». 16 Se a queste parole tu risponderai: «Io!», Dio replicherà: 17 «Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall’iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila». 18 Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: «Ecco sono qui!». 19 Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama? 20 Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita! 21 Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno. 22 Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene. 23 Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: «Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?». 24 E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda: 25 «Chi cammina senza macchia e opera la giustizia; 26 chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua; 27 chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l’ingiuria lanciata contro di lui»; 28 chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall’intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere; 29 gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c’è in essi non è opera loro, ma di Dio, 30 lo esaltano proclamando col profeta: «Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!». 31 Come fece l’apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:» Per grazia di Dio sono quel che sono» 32 e ancora: «chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore». 33 Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: «Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia. 34 E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia».

Il Signore aspetta la nostra risposta 35 Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni. 36 Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita 37 secondo le parole dell’Apostolo: «Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?» 38 Difatti il Signore misericordioso afferma: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva». 39 Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto. 40 Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza. 41 Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia. 42 E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell’inferno, 43 finché c’è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni, 44 dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l’eternità.

La “scuola del servizio del Signore”: il monastero come “scuola” 45 Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore 46 nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso; 47 ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia, 48 non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida. 49 Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore. 50 Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.

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Approfondimenti

Benedetto nacque a Norcia verso il 480. Mandato a studiare a Roma, a 20 anni circa, verso il 500, fuggì la corruzione e la miseria del mondo e si rifugiò dapprima in un piccolo borgo, Affile, a 50 km da Roma, ove pensava di vivere con altre pie persone in forma ascetica. Cerca poi la solitudine nella valle dell'Aniene, sui monti Simbruini, desiderando di piacere solo a Dio.

Inizia così in una grotta l'esperienza eremitica nella sua forma più pura, tra incredibili asperità e penitenze per vari anni: lotta contro il demonio, lotta con se stesso, preghiera, macerazioni. Così egli pensa di vivere per sempre.

Ma il Signore ha altri disegni: molti, attirati dalla sua santità, vogliono mettersi sotto la sua guida, e allora l'anacoreta inizia la sua esperienza di cenobita e di padre di monaci. Costruisce a Subiaco o meglio nella valle sublacense 12 piccoli monasteri, con dodici monaci ciascuno, retti ognuno da un proprio capo, ma tutti dipendenti da Benedetto stesso.

Nel corso degli anni matura nel santo un altro ideale di organizzazione e di vita cenobitica. Verso il 529 si reca a Montecassino, dove fonda il grandioso monastero. Qui, nella piena maturità degli anni e del pensiero, egli scrive la Regola con una organizzazione che consenta a tutti di vivere e lavorare nel recinto della clausura, con una costituzione che poggi sulla stabilità dei monaci. Dalla Regola, che è il riflesso fedele della sua vita – come dice S. Gregorio Magno – appare che l'autore:

  • è un innamorato di Cristo, Signore e Re, e insieme di Cristo sofferente e paziente, obbediente al Padre;
  • è convinto che nella vita quotidiana in seno alla comunità si può trovare Dio, oggetto della sua ricerca, poichè nella comunità stessa si realizza il mistero pasquale di Cristo morto e risorto.

Benedetto muore a Montecassino nel 547 o qualche anno dopo.

S. Benedetto non compose la Regola di getto, ma durante la sua vita, un po' per volta, aggiungeva un nuovo pensiero che modificava o precisava il pensiero precedente; questa elaborazione continua durò fino al termine della sua vita, perché cambiavano le circostanze e maturava le sue esperienze di vita monastica.

S. Benedetto, come qualsiasi altro autore monastico del VI secolo, non aveva la pretesa di fare un'opera nuova e originale; le regole cenobitiche si proponevano di codificare dottrine ascetiche e usi-tradizioni per i monasteri. S. Benedetto, attraverso uno studio profondo ed assiduo, aveva familiare oltre la Bibbia, la precedente letteratura patristica e monastica.

Il latino usato da S. Benedetto non è classico, libresco o artificiale, come quello di Cassiodoro o di Boezio, né fiorito e ornato come quello di Cassiano, ma è la lingua viva del sec. VI come si parlava in Italia, ricca di vitalità e facile a capirsi da tutti, senza per altro essere una lingua veramente “volgare”.

Alla Regola è preposto un lungo Prologo di 50 vv., in cui S.B. prepara l'animo del monaco ad accogliere con cuore largo e docile gli insegnamenti in essa contenuti.

Il Prologo della RB – uno dei documenti più belli del monachesimo antico – è una catechesi, una istruzione religiosa in cui si descrive la vocazione del monaco e le grandi prospettive del suo itinerario spirituale.

Ha una forma letteraria e un sapore marcatamente sapienziale, con i termini di padre e figlio, l'invito a seguire attentamente le esortazioni del maestro, l'uso dell'imperativo, il tema delle due strade, quello della morte e della vita.

L'uso dei verbi all'imperativo (ascolta, apri, accogli, chiedi al Signore...) eè caratteristico del genere sapienziale; non è un imperativo severo o proprio del giudice: S.B. appare un “ottimista” nei confronti di Dio, come i saggi dell'A.T., vede sopratutto la dolcezza della chiamata di Dio e la bellezza dell'ideale che mostra al discepolo.

Tre persone compaiono nel Prologo: Cristo, l'autore, il candidato. Quest'ultimo ha solo il ruolo dell'ascolto; l'autore si eclissa presto per riapparire solo nel finale; è CRISTO che appare come il vero protagonista, la sua persona domina tutto il discorso. Cristo è l'autentico maestro che va scoprendo al discepolo il “cammino che conduce alla vita” in un dialogo bellissimo, del quale egli conserva l'iniziativa.

In tal modo la vocazione monastica appare come l'incontro con una persona, Gesù Cristo, sempre vivo, sempre presente, e l'esistenza del monaco consiste in un dialogo con Lui: difatti Egli chiama il monaco, lo interroga personalmente, risponde alla sua preghiera.

La “scuola del servizio del Signore”: il monastero come “scuola”

«Dobbiamo dunque istituire una “scuola del servizio del Signore”». Abbiamo qui il concetto di monastero come scuola: la frase richiama la parola di Gesù in Mt 11,29: «Imparate da me...». Nel monastero si è discepoli dell'unico e vero Maestro che è Cristo, come nella grande scuola che è la Chiesa (parallelo tra monastero e Chiesa).

Ma il termine scuola ha un significato più ampio. La parola nel senso originario designava un luogo o una condizione di nobile agio e riposo, dove si praticava l'otium dei romani. Poi è passata a significare una sala di riunione per diversi gruppi: soldati, studenti, operai, ecc., o ancora l'associazione stessa e le sue attività. Più in particolare, il termine stesso designa un corpo di militari o di funzionari al servizio dello stato o del re. Questo significato è compreso nella frase “una scuola per il servizio del Signore”; in quanto alla milizia, abbiamo già visto la frase all'inizio del prologo (v.3). Quindi il termine “schola” comprende tutti e tre i significati delle tre cose, e cioè:

  • luogo dove si apprende e si imita;
  • luogo dove si serve il padrone;
  • luogo dove si milita sotto il sovrano

e qui si tratta di obbedire e di agire, quindi luogo di metodica e disciplinata esercitazione con incluso il concetto di libertà da altre occupazioni.

Inoltre, il servizio del funzionario e soprattutto del soldato non avviene senza lotta, senza fatica, senza pericoli; militare implica non solamente l'azione ma anche la pena e la sofferenza, concetti che saranno espressi poco piuù avanti (v. 50) come partecipazione alle sofferenze di Cristo per mezzo della pazienza. Questo tema della pazienza avrà poi uno sviluppo meraviglioso nei capitoli sull'obbedienza (RB 5) e sull'umiltà (RB 7).

Ci appare così tutta la ricchezza del termine schola, che è anche palestra e corpo militare e officina (RB 4) e ci richiama volta per volta:

  • la docilità dell'allievo,
  • l'obbedienza del soldato,
  • l'attività e l'impegno dell'operaio e del funzionario;

così ci permette di avere sempre presente la persona di Cristo sotto tre aspetti complementari:

  1. il Maestro che insegna,
  2. il Sovrano che comanda,
  3. il Redentore sulla croce.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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XII. La vera scienza 1. Attendendo e ascoltando con cura, conoscerete quali cose Dio prepara a quelli che lo amano rettamente. Diventano un paradiso di delizie e producono in se stessi, ornati di frutti vari, un albero fruttuoso e rigoglioso. 2. In questo luogo, infatti, fu piantato l'albero della scienza e l'albero della vita; non l'albero della scienza, ma la disubbidienza uccide. 3. Non è oscuro ciò che fu scritto: che Dio da principio piantò in mezzo al paradiso l'albero della scienza e l'albero della vita, indicando la vita con la scienza. Quelli che da principio non la usarono con chiarezza, per l'inganno del serpente furono denudati. 4. Non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino. 5. L'apostolo, comprendendo questa forza e biasimando la scienza che si esercita sulla vita senza la norma della verità, dice: «La scienza gonfia, la carità, invece, edifica». 6. Chi crede di sapere qualche cosa, senza la vera scienza testimoniata dalla vita, non sa: viene ingannato dal serpente, non avendo amato la vita. Lui, invece, con timore conosce e cerca la vita, pianta nella speranza aspettando il frutto. 7. La scienza sia il tuo cuore e la vita la parola vera recepita. 8. Portandone l'albero e cogliendone il frutto abbonderai sempre delle cose che si desiderano davanti a Dio, che il serpente non tocca e l'inganno non avvince; Eva non è corrotta ma è riconosciuta vergine. Si addita la salvezza, gli apostoli sono compresi, la Pasqua del Signore si avvicina, si compiono i tempi e si dispongono in ordine, e il Verbo che ammaestra i santi si rallegra. Per lui il Padre è glorificato; a lui la gloria nei secoli. Amen.

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Approfondimenti

Al capitolo XII troviamo un'interpretazione allegorica dei due alberi del paradiso terrestre che serve a definire il corretto rapporto tra scienza e pratica di vita: “non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino”.

Un’interpretazione letterale della frase riportata ci offre una sintesi della capacità di conoscenza degli uomini di progredire nel sapere scientifico e alla ricerca di senso del concreto quotidiano, immerso come è nella gioia e nei problemi da affrontare nel vissuto. Il progredire della tecnologia impone di definire un corretto rapporto tra scienza e pratica di vita.

Una componente essenziale della natura umana è la ricerca di senso che da sempre ogni uomo, credente e non credente, cerca di capire. L’esistenza è un problema sempre aperto, un’esperienza continua, che non può mai concludersi definitivamente. Essa è costantemente protesa verso il futuro di cui l’uomo è continuamente preoccupato.

L’uomo deve accettare il suo destino di essere mortale per poter vivere meglio e deve riconoscere che sa ben poco, che la ragione ha dei limiti, che la scienza può sbagliare. Il problema è: quanto e che cosa si può e si deve fare.

Il sapere umano deve aiutare a relativizzare la ragione e ad essere consapevole che «dal cuore degli uomini escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza», per usare le parole di Mc 7,21-23, in modo da cercare i segni di una fraternità, all’insegna di una comune miseria, fra gli uomini di tutti i tempi e paesi.

In questo senso, la storia si scopre così una miniera di insegnamenti sulla natura debole e inferma dell’uomo, sulla sua condizione tanto ridicola quanto risibile.

Il senso di assurdità del vivere e il continuo risorgere nella speranza e nell’impegno è tipico dell’etica cristiana che aiuta la ricerca del meglio, spogliato dai fronzoli dell’enfasi, del clamore, dell’ostentazione per vivere con semplicità e pensare con grandezza.

La Lettera di Diogneto è un invito alla ricerca di una felicità e nel modo migliore per conseguirla: da qui l’abbandono di ogni orgoglio intellettuale, l’accettazione dell’esistenza nei suoi vari aspetti, della tolleranza verso le nostre fragili illusioni, le nostre piccinerie per accettare appunto i piaceri che la vita ci può offrire, sopportando i mali e le avversità.

Tratto da: La vita e la scienza nella Lettera a Diogneto – di Bonaventura Marino


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XI. Il loro maestro 1. Non dico stranezze né cerco il falso, ma, divenuto discepolo degli apostoli, divento maestro delle genti e trasmetto in maniera degna le cose tramandate a quelli che si son fatti discepoli della verità. 2. Chi infatti, rettamente istruito e fattosi amico del Verbo, non cerca di imparare saggiamente le cose che dal Verbo furono chiaramente mostrate ai discepoli? Non apparve ad essi il Verbo, manifestandosi e parlando liberamente, quando dagli increduli non fu compreso, ma guidando i discepoli che, da lui ritenuti fedeli, conobbero i misteri del Padre? 3. Egli mandò il Verbo come sua grazia, perché si manifestasse al mondo. Disprezzato dal popolo, annunziato dagli apostoli, fu creduto dai pagani. 4. Egli fin dal principio apparve nuovo ed era antico, e ognora diviene nuovo nei cuori dei fedeli. 5. Egli eterno, in eterno viene considerato figlio. Per mezzo suo la Chiesa si arricchisce e la grazia diffondendosi nei fedeli si moltiplica. Essa ispira saggezza, svela i misteri, preannuncia i tempi, si rallegra per i fedeli, si dona a quelli che la cercano, senza infrangere i giuramenti della fede né oltrepassare i limiti dei padri. 6. Si celebra poi il timore della legge, si riconosce la grazia dei profeti, si conserva la fede dei Vangeli, si conserva la tradizione degli apostoli e la grazia della Chiesa esulta. 7. Non contristando tale grazia, saprai ciò che il Verbo dice per mezzo di quelli che vuole, quando vuole. 8. Per amore delle cose rivelateci vi facciamo partecipi di tutto quanto; per la volontà del Verbo che lo ordina, fummo spinti a parlare con zelo.

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Approfondimenti

I capitoli VII-XII della Lettera a Diogneto si concentrano sulla presentazione di ciò che permette ai cristiani di vivere la loro vita sociale in modo mirabile e paradossale: la fede in Dio, autore della creazione, che si è fatto uomo per amore dell’umanità. Sono stati molto ripresi e commentati i capp. V-VI, tuttavia essi possono essere compresi appieno solo tenendo conto dello sviluppo teologico dei successivi capitoli.

Il testo della Lettera a Diogneto è un testimone fedele di un periodo di persecuzioni, in cui il cristianesimo è una minoranza, sovente disprezzata e conosciuta approssimativamente, dando spazio alla realtà delle minacce rivolte ai cristiani. Tuttavia non ne fa motivo di recriminazione, ma la legge a partire dalla fede, nutrita dalle Scritture e dall’attesa escatologica: il mondo non è giudicato ostile, ma è riconosciuto come il luogo in cui operare perché siano sempre più visibili e vissuti l’amore e la giustizia del Vangelo. Tutto ciò prende corpo nella quotidianità dei cristiani in un impegno a vivere e agire secondo la propria fede. Si tratta, dunque, di un pensiero maturato nel confronto con un tempo e un contesto socioculturale ben precisi, ma elaborato a partire dalla prospettiva della fede cristiana.

I cristiani nel mondo sono chiamati a “vegliare” nel duplice significato di questo termine. Da una parte, si prendono cura della creazione; dall’altro, attendono con impazienza la parusia, la venuta del Signore. Sono, perciò, come la sentinella che attende l’aurora (Salmo 130,6): nelle tenebre della notte aspetta fiduciosa l’avvento della prima luce del giorno.

Così, i cristiani custodiscono il mondo e lo scrutano per potervi riconoscere i segni della presenza di Dio all’opera. Inoltre sono chiamati a risvegliare l’umanità, distogliendola dal torpore della routine e delle piccole preoccupazioni in cui rischia di smarrirsi, per rimettere al centro il rispetto dei valori fondamentali della dignità della persona e della convivenza civile.

L’esercizio di questo duplice compito non è di certo slegato dalla realtà in cui si è inseriti. Rifuggendo da ogni astrazione o teoria, i cristiani, come singoli e come comunità, sono chiamati a confrontarsi con le questioni problematiche presenti nei Paesi in cui vivono (dall’educazione alla legalità, dalla lotta alla povertà alla promozione di uno sviluppo giusto e sostenibile), per riconoscere quali siano prioritarie e cercare di dare una risposta efficace e concreta, o, in altri termini, incarnata.

Così facendo, i cristiani diventano cooperatori di Dio immettendo nel mondo uno spirito nuovo, un dinamismo di vita capace di trasformare la realtà e aprire la strada a una comprensione rinnovata e liberante della vita, intesa come dono ricevuto da condividere.


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X. La carità 1. Se anche tu desideri questa fede, per prima otterrai la conoscenza del Padre. 2. Dio, infatti, ha amato gli uomini. Per loro creò il mondo, a loro sottomise tutte le cose che sono sulla terra, a loro diede la parola e la ragione, solo a loro concesse di guardarlo, lo plasmò secondo la sua immagine, per loro mandò suo figlio unigenito, loro annunziò il Regno nel cielo e lo darà a quelli che l'hanno amato. 3. Una volta conosciutolo, hai idea di qual gioia sarai colmato? Come non amerai colui che tanto ti ha amato? 4. Ad amarlo diventerai imitatore della sua bontà, e non ti meravigliare se un uomo può diventare imitatore di Dio: lo può volendolo lui (l'uomo). 5. Non si è felici nell'opprimere il prossimo, nel voler ottenere più dei deboli, arricchirsi e tiranneggiare gli inferiori. In questo nessuno può imitare Dio, sono cose lontane dalla Sua grandezza! 6. Ma chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l'inferiore; chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio. 7. Allora stando sulla terra contemplerai perché Dio regna nei cieli, allora incomincerai a parlare dei misteri di Dio, allora amerai e ammirerai quelli che sono puniti per non voler rinnegare Dio. Condannerai l'inganno e l'errore del mondo quando conoscerai veramente la vita nel cielo, quando disprezzerai quella che qui pare morte e temerai la morte vera, riservata ai dannati al fuoco eterno che tormenta sino alla fine coloro che gli saranno consegnati. 8. Se conoscerai quel fuoco ammirerai e chiamerai beati quelli che sopportarono per la giustizia il fuoco temporaneo.

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Approfondimenti

La lettera a Diogneto testimonia il modo di vivere la fede cristiana senza ridurla a una lista di precetti e divieti. Il “credo” cristiano non viene presentato come una “formula” da imparare a memoria, ma come una disposizione d’animo; così è stata vissuta dalle prime comunità cristiane immerse nel mondo pagano, ma poi questa attitudine è andata perduta nel tempo con l’affermarsi della cristianità.

La lettera a Diogneto è un testo importante per educare il popolo di Dio; nei suoi dodici brevi capitoli sul come essere e vivere da cristiani, mantiene un suo fascino e genera risorse spirituali. È forse la sobria capacità nell’esprimere la fede che ci spinge a tornare spesso su quest’opera, per approfondirne sempre di più il suo segreto fascino. In meno di 300 righe e 12 asciutti capitoletti custodisce l’essenza del cristianesimo!

Con il cap. X la lettera potrebbe dirsi conclusa sull'esortazione rivolta a Diogneto di abbracciare la nuova fede: i due capitoli finali (X-XI) sono ritenuti un'aggiunta.


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IX. L'economia divina 1. (Dio) dunque avendo da sé tutto disposto con il Figlio, permise che noi fino all'ultimo, trascinati dai piaceri e dalle brame come volevamo, fossimo travolti dai piaceri e dalle passioni. Non si compiaceva affatto dei nostri peccati, ma ci sopportava e non approvava quel tempo di ingiustizia. Invece, preparava il tempo della giustizia perché noi fossimo convinti che in quel periodo, per le nostre opere, eravamo indegni della vita, e ora solo per bontà di Dio ne siamo degni, e dimostrassimo, per quanto fosse in noi, che era impossibile entrare nel regno di Dio e che solo per sua potenza ne diventiamo capaci. 2. Dopo che la nostra ingiustizia giunse al colmo e fu dimostrato chiaramente che come suo guadagno spettava il castigo e la morte, venne il tempo che Dio aveva stabilito per manifestare la sua bontà e la sua potenza. O immensa bontà e amore di Dio. Non ci odiò, non ci respinse e non si vendicò, ma fu magnanimo e ci sopportò e con misericordia si addossò i nostri peccati e mandò suo Figlio per il nostro riscatto; il santo per gli empi, l'innocente per i malvagi, il giusto per gli ingiusti, l'incorruttibile per i corrotti, l'immortale per i mortali. 3. Quale altra cosa poteva coprire i nostri peccati se non la sua giustizia? 4. In chi avremmo potuto essere giustificati noi, ingiusti ed empi, se non nel solo Figlio di Dio? 5. Dolce sostituzione, opera inscrutabile, benefici insospettati! L'ingiustizia di molti viene riparata da un solo giusto e la giustizia di uno solo rende giusti molti. 6. Egli, che prima ci convinse dell'impotenza della nostra natura per avere la vita, ora ci mostra il salvatore capace di salvare anche l'impossibile. Con queste due cose ha voluto che ci fidiamo della sua bontà e lo consideriamo nostro sostentatore, padre, maestro, consigliere, medico, mente, luce, onore, gloria, forza, vita, senza preoccuparsi del vestito e del cibo.

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Approfondimenti

La fede cristiana non è frutto d'invenzione umana, ma è la rivelazione dell'amore divino, che nell'invio del Figlio ha riscattato gli uomini dall'abisso in cui la loro incapacità di compiere il bene li aveva gettati. Dio non ha preteso che fossero loro a uscirne, ma il suo stesso apparente ritardo nell'intervenire ha permesso loro di sperimentare più a fondo la sua bontà.


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VIII. L'incarnazione 1. Chi fra tutti gli uomini sapeva perfettamente che cosa è Dio, prima che egli venisse? 2. Vorrai accettare i discorsi vuoti e sciocchi dei filosofi degni di fede? Alcuni affermavano che Dio è il fuoco, ove andranno essi chiamandolo Dio, altri dicevano che è l'acqua, altri che è uno degli elementi da Dio creati. 3. Certo, se qualche loro affermazione è da accettare si potrebbe anche asserire che ciascuna di tutte le creature ugualmente manifesta Dio. 4. Ma tutte queste cose sono ciarle e favole da ciarlatani. 5. Nessun uomo lo vide e lo conobbe, ma egli stesso si rivelò a noi. 6. Si rivelò mediante la fede, con la quale solo è concesso vedere Dio. 7. Dio, signore e creatore dell'universo, che ha fatto tutte le cose e le ha stabilite in ordine, non solo si mostrò amico degli uomini, ma anche magnanimo. 8. Tale fu sempre, è e sarà: eccellente, buono, mite e veritiero, il solo buono. 9. Avendo pensato un piano grande e ineffabile lo comunicò solo al Figlio. 10. Finché lo teneva nel mistero e custodiva il suo saggio volere, pareva che non si curasse e non pensasse a noi. 11. Dopo che per mezzo del suo Figlio diletto rivelò e manifestò ciò che aveva stabilito sin dall'inizio, ci concesse insieme ogni cosa, cioè di partecipare ai suoi benefici, di vederli e di comprenderli. Chi di noi se lo sarebbe aspettato?

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Approfondimenti

L’autore per spiegare l’incarnazione fa riferimento alla filosofia greca. Alcuni filosofi affermavano che Dio era il fuoco, altri che Dio era l’acqua. Invece i cristiani si allontanano dalla filosofia greca delle origini. In questo capitolo si fa riferimento alla rivelazione. Il Dio unico dei cristiani non tiene per se “la Parola” (Logos) ma si rivela. La rivelazione avviene attraverso il figlio.

Pur provenendo dal mondo giudaico, il cristianesimo si rivolge a tutti gli uomini, in modo universale: una rivelazione che è svelamento di un “mistero” (8.10), un inatteso inaudito.

Emergono due concetti importanti del cristianesimo, da una parte, la divinità come provvidente, al contrario del pensiero greco; dall’altra, la pienezza dei tempi.


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VII. Dio e il Verbo 1. Infatti, come ebbi a dire, non è una scoperta terrena da loro tramandata, né stimano di custodire con tanta cura un pensiero terreno né credono all'economia dei misteri umani. 2. Ma quello che è veramente signore e creatore di tutto e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo, tra gli uomini, la verità, la parola santa e incomprensibile e l'ha riposta nei loro cuori. Non già mandando, come qualcuno potrebbe pensare, qualche suo servo o angelo o principe o uno di coloro che sono preposti alle cose terrene o abitano nei cieli, ma mandando lo stesso artefice e fattore di tutte le cose, per cui creò i cieli e chiuse il mare nelle sue sponde e per cui tutti gli elementi fedelmente custodiscono i misteri. Da lui il sole ebbe da osservare la misura del suo corso quotidiano, a lui obbediscono la luna che splende nella notte e le stelle che seguono il giro della luna; da lui tutto fu ordinato, delimitato e disposto, i cieli e le cose nei cieli, la terra e le cose nella terra, il mare e le cose nel mare, il fuoco, l'aria, l'abisso, quello che sta in alto, quello che sta nel profondo, quello che sta nel mezzo; lui Dio mandò ad essi. 3. Forse, come qualcuno potrebbe pensare, lo inviò per la tirannide, il timore e la prostrazione? 4. No certo. Ma nella mitezza e nella bontà come un re manda suo figlio, lo inviò come Dio e come uomo per gli uomini; lo mandò come chi salva, per persuadere, non per far violenza. A Dio non si addice la violenza. 5. Lo mandò per chiamare non per perseguitare; lo mandò per amore non per giudicare. 6. Lo manderà a giudicare, e chi potrà sostenere la sua presenza? 7. Non vedi (i cristiani) che gettati alle fiere perché rinneghino il Signore, non si lasciano vincere? 8. Non vedi, quanto più sono puniti, tanto più crescono gli altri? 9. Questo non pare opera dell'uomo, ma è potenza di Dio, prova della sua presenza.

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Approfondimenti

In un quadro sociale e culturale assai simile al nostro, la lettera a Diogneto – che cercava di conoscere le peculiarità della nuova religione diffusasi rapidamente nell’impero romano – presenta l’immagine del Dio dei cristiani. Dall’identità divina esposta nello scritto scaturisce un particolare profilo dei credenti che trova nella pluralità, nella complessità e nella diversità delle occasioni favorevoli per l’annuncio evangelico.

Per l’autore, il Dio unico dei cristiani è diverso da quello dei pagani poiché si è unito al suo popolo – cioè all’umanità – con amore. Questo è reso possibile dal fatto che Dio ha condiviso in Cristo la condizione delle creature ed è divenuto straniero e partecipe in tutto alla vita degli uomini. Questa immagine della divinità genera uno stile particolare che i credenti sono destinati a vivere e a diffondere nella terra. I cristiani, infatti, non usano la violenza per convertire ma propongono la loro novità con la vita vissuta nel quotidiano attraverso scelte ispirate al messaggio evangelico: chi prende su di sé il peso del prossimo e in ciò che è superiore cerca di beneficare l’inferiore; chi, dando ai bisognosi ciò che ha ricevuto da Dio, è come un Dio per i beneficati, egli è imitatore di Dio.

Dall’A Diogneto emerge chiaramente una verità che consiste nello stretto legame fra l’identità divina e l’agire dei cristiani nel mondo. La vita dei credenti è intesa come un vero e proprio luogo teologico nel quale vivere concretamente l’amore donato da Dio. In tal modo i discepoli del Cristo si lasciano plasmare dal Signore nel quale credono sino ad apparire – rispetto agli altri uomini – diversi e rinnovati poiché non fanno il male e si occupano del prossimo. Allora, il profilo dei cristiani nel mondo genera una forma particolare di cittadinanza contraddistinta non dalla paura della diversità o dal semplice rispetto delle leggi bensì dal tentativo di agire per imitare Dio.

Tratto da: La lezione dell’A Diogneto a servizio della Chiesa che verrà


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VI. L'anima del mondo 1. In una parola: i cristiani sono nel mondo quello che è l'anima nel corpo. 2. L'anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo. 3. L'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo. L'anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile. 5. La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all'anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri carnali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male. 6. Sebbene ne sia odiata, l'anima ama la carne e le sue membra, così anche i cristiani amano coloro che li odiano. 7. L'anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo. 8. L'anima immortale abita in una tenda mortale, così anche i cristiani sono come dei pellegrini in viaggio tra cose corruttibili, ma aspettano l'incorruttibilità celeste. 9. L'anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore. Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. 10. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è permesso a loro di abbandonarlo.

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Approfondimenti

La prima menzione dell'A Diogneto, nei documenti conciliari (che è forse la più importante e certo la più nota) è quella contenuta in Lumen gentium 38, ossia il numero conclusivo del capitolo 4 sui laici: «Ogni laico deve essere davanti al mondo il testimone della ri­surrezione e della vita del Signore Gesù e il segno del Dio vivo. Tutti insieme, e ognuno per la sua parte, devono alimentare il mondo con i frutti spirituali (cf. Gal 5,22) e in esso diffondere lo spirito, da cui sono animati i poveri, i miti e i pacifici, che il Signore nel vangelo proclamò beati (cf. Mt 5,3-9). In una parola: “ciò che l’anima è nel corpo, questo siano nel mondo i cristiani”: Lettera a Diogneto 6)». Il testo conciliare pare quindi quasi riassumere tutto l’insegnamento sulla missione laicale con le parole del nostro scritto sulla famosa opposizione dialettica anima-corpo / cristiani-mondo.

La citazione di A Diogneto VI,1 menzionata da Lumen gentium 38 viene poi richiamata in Gaudium et spes 40 (la Chiesa è «quasi l’anima della società umana»). Se la forma dell’accenno è allusiva, esplicita è invece l’intenzione dei padri conciliari, come si evince dalla nota che accompagna il documento, che rimanda espressamente al testo e alla nota di Lumen gentium 38 in oggetto: «Perciò la Chiesa, che è insieme società visibile e comunità spirituale, cammina insieme con l’umanità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena; essa è come il fermento e quasi l’anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio».

Anche in Ad Gentes 15 si propone una significa­tiva menzione del nostro scritto. Essa comunque si presenta legger­mente adattata al contesto generale del discorso e piegata alle finalità missionarie ed ecumeniche del tempo: «I fedeli, che da tutti i popoli sono riuniti nella Chiesa, “non sono separati dagli altri uomini né per governo, né per lingua né per istituzioni politiche” (Lettera a Diogneto 5); perciò debbono vivere per Iddio e per il Cristo secondo le usanze e il comportamento del loro paese: come buoni cittadini essi debbono coltivare un sincero e fattivo amor di patria, evitare ogni forma di razzismo e di nazionali­smo esagerato e promuovere l’amore universale tra i popoli».

Le menzioni conciliari dello scritto conservano la loro massima importanza, in quanto il Vaticano II e tutta la sua preparazione sono stati per eccellenza “luogo” di ripensamento in toto della fede cristiana, ossia della presenza evangelizzatrice dei cristiani nel mondo, dove “mondo” significa in primo luogo società, cultura e politica.

Tratto da: L’A Diogneto: una perla della letteratura cristiana antica in alcuni documenti del Concilio Vaticano II


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V. Il mistero cristiano 1. I cristiani non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita. 2. Infatti non abitano città particolari, né parlano qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. 3. La loro dottrina non è stata inventata per riflessione e indagine di uomini amanti delle novità, né essi si appoggiano, come taluni, sopra un sistema filosofico umano. 4. Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, per ammissione di tutti, incredibile. 5. Abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio. Ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera. 6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. 7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. 8. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. 9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. 10. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, superano le leggi. 11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. 12. Sono sconosciuti eppure condannati. Sono mandati a morte, ma con questo ricevono la vita. 13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. 14. Sono disprezzati, ma nel disprezzo trovano la loro gloria. Sono oltraggiati e intanto si rende testimonianza alla loro giustizia. 15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano. 16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. 17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e i pagani li perseguitano. Ma quanti li odiano non sanno dire il motivo della loro inimicizia.

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Approfondimenti

Quale vita i cristiani vivono nel mondo? E cosa significa che «ogni terra straniera è patria loro, e ogni patria è terra straniera»?

Per far luce sulla vita dei cristiani in mezzo a tutte le altre persone, bisogna anzitutto guardare alla vita di Gesù, cui i suoi discepoli fin dai primi secoli si sono ispirati. Gesù ha condiviso con discepoli e discepole la sua itineranza, a partire dalla Galilea, passando per città e villaggi, fino alla morte a Gerusalemme. Nel suo peregrinare ha incontrato tutti: giusti e peccatori, malati e sani, giovani e vecchi, giudei e pagani.

La comunità cristiana comincia a delineare il suo rapporto con il mondo a partire dall’esempio di Gesù: una comunità aperta a tutti dunque, senza discriminazioni di lingua, cultura o status sociale. La fede in Gesù Cristo implica una testimonianza concreta nella società, anche attraverso azioni, scelte, comportamenti che hanno un’incidenza politica, sociale ed economica: «[I cristiani] obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, superano le leggi». Ogni terra straniera è per loro patria, perché la fraternità che si sentono chiamati a costruire supera i confini tracciati dalla politica; e ogni patria è per loro terra straniera, perché in ultima istanza questa fraternità e solidarietà assaporate oggi attendono una pienezza che sarà possibile solo nel compimento del regno di Dio, vera “patria” del cristiano e di ogni uomo e di ogni donna, dove la morte e il male non ci saranno più e si gusterà solo una vita traboccante di gioia condivisa in cui tutti sono inclusi.


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