📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

Venuta del Signore come redentore 1Ecco, non è troppo corta la mano del Signore per salvare; né troppo duro è il suo orecchio per udire. 2Ma le vostre iniquità hanno scavato un solco fra voi e il vostro Dio; i vostri peccati gli hanno fatto nascondere il suo volto per non darvi più ascolto. 3Le vostre palme sono macchiate di sangue e le vostre dita di iniquità; le vostre labbra proferiscono menzogne, la vostra lingua sussurra perversità. 4Nessuno muove causa con giustizia, nessuno la discute con lealtà. Si confida nel nulla e si dice il falso, si concepisce la malizia e si genera l’iniquità. 5Dischiudono uova di serpente velenoso, tessono tele di ragno; chi mangia quelle uova morirà, e dall’uovo schiacciato esce un aspide. 6Le loro tele non servono per vesti, essi non possono coprirsi con le loro opere; le loro opere sono opere inique, il frutto di oppressioni è nelle loro mani. 7I loro piedi corrono al male, si affrettano a spargere sangue innocente; i loro pensieri sono pensieri iniqui, desolazione e distruzione sono sulle loro strade. 8Non conoscono la via della pace, non c’è giustizia nel loro procedere; rendono tortuosi i loro sentieri, chiunque vi cammina non conosce la pace. 9Per questo il diritto si è allontanato da noi e non ci raggiunge la giustizia. Speravamo la luce ed ecco le tenebre, lo splendore, ma dobbiamo camminare nel buio. 10Tastiamo come ciechi la parete, come privi di occhi camminiamo a tastoni; inciampiamo a mezzogiorno come al crepuscolo, nel pieno vigore siamo come i morti. 11Noi tutti urliamo come orsi, andiamo gemendo come colombe; speravamo nel diritto ma non c’è, nella salvezza ma essa è lontana da noi. 12Poiché sono molti davanti a te i nostri delitti, i nostri peccati testimoniano contro di noi; poiché i nostri delitti ci stanno davanti e noi conosciamo le nostre iniquità: 13prevaricare e rinnegare il Signore, cessare di seguire il nostro Dio, parlare di oppressione e di ribellione, concepire con il cuore e pronunciare parole false. 14È trascurato il diritto e la giustizia se ne sta lontana, la verità incespica in piazza, la rettitudine non può entrarvi. 15La verità è abbandonata, chi evita il male viene spogliato. Ha visto questo il Signore ed è male ai suoi occhi che non ci sia più diritto. 16Egli ha visto che non c’era nessuno, si è meravigliato perché nessuno intercedeva. Ma lo ha soccorso il suo braccio, la sua giustizia lo ha sostenuto. 17Egli si è rivestito di giustizia come di una corazza, e sul suo capo ha posto l’elmo della salvezza. Ha indossato le vesti della vendetta, si è avvolto di zelo come di un manto. 18Egli ricompenserà secondo le opere: sdegno ai suoi avversari, vergogna ai suoi nemici; alle isole darà la ricompensa. 19In occidente temeranno il nome del Signore e in oriente la sua gloria, perché egli verrà come un fiume impetuoso, sospinto dal vento del Signore. 20Un redentore verrà per Sion, per quelli di Giacobbe convertiti dall’apostasia. Oracolo del Signore. 21«Quanto a me – dice il Signore – ecco la mia alleanza con loro: il mio spirito che è sopra di te e le parole che ho posto nella tua bocca non si allontaneranno dalla tua bocca né dalla bocca dei tuoi discendenti né dalla bocca dei discendenti dei tuoi discendenti – dice il Signore – ora e sempre».

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Approfondimenti

Venuta del Signore come redentore 59,1-21 Se si prescinde dall'aggiunta del v. 21 (in prosa), il capitolo contiene a prima vista uno sviluppo organico: il popolo è accusato delle sue infedeltà (vv. 1-8), si riconosce colpevole (vv. 9-15a) e riceve la promessa della salvezza (15b-20). Le situazioni presupposte dalle tre parti sono però tra loro molto diverse. Inoltre i vv. 5-8 sono un'aggiunta come risulta dal fatto che l'accusa del profeta contro il popolo (vv. 2-4) è reinterpretata e riferita solo al gruppo dei Giudei infedeli.

Il capitolo, quindi, si configura come un'unità redazionale nella quale sono stati connessi tre brani originariamente autonomi: una disputa relativa alla colpevolezza del popolo (vv. 1-4); una confessione dei peccati (vv. 9-15a) e una promessa di salvezza (vv. 15b-20). Il primo e il terzo brano infine sono stati ampliati rispettivamente con l'aspra accusa dei vv. 5-8 e con la solenne promessa del v. 21.

1-4. Il testo suppone una situazione simile a quella di Is 58,3a. La comunità si lamenta mettendo in dubbio sia la potenza («mano») del Signore, sia la possibilità che egli ascolti la preghiera. Il profeta risponde al lamento con parole che richiamano 50,1-3. La situazione problematica che affligge la comunità non ha la sua causa nell'agire di JHWH, ma nella condotta del popolo (v. 1). Nell'affermazione che le colpe del popolo creano una separazione totale e permanente tra lui e il suo Dio (v. 2) si condensa una profonda intuizione. L'autore ricorre qui alla stessa forma verbale che descrive la separazione primordiale tra la luce e le tenebre (Gn 1,1) e tra le acque «sotto il firmamento» e le acque «sopra il firmamento» (Gn 1,7). L'infedeltà spezza il vincolo dell'alleanza e pone il popolo in una situazione polarmente antitetica rispetto al Signore. La conseguenza esistenziale di tale situazione è la mancata salvezza espressa con l'immagine suggestiva del Signore che «nasconde il suo volto». La descrizione delle colpe del popolo (v. 3) focalizza la violenza, la menzogna e la perfidia. Le espressioni, tratte dal linguaggio della tradizione (cfr. 1,15; Sal 101,7; 109,2; 120,2; Gb 27,4), riflettono già la tendenza – molto diversa dall'accusa circostanziata della profezia preesilica – a creare un quadro tipologico della figura dell'empio.

5-8. L'aggiunta si aggancia alla metafora del v. 4b («si concepisce... si genera») per sviluppare un'accusa implacabile contro un gruppo della comunità. Anche se il gruppo non è esplicitamente nominato, si tratta certamente di Giudei che non vivono secondo la torah e perciò appartengono alla categoria degli «empi».

9-15a. Il brano, che in origine era unito ai vv. 1-4 dalla locuzione «Per questo», contiene una confessione dei peccati (vv. 12-15a). La precede una lamentazione nella quale la comunità grida il proprio dolore, carico di amarezza, per la gravità della sua situazione. Una suggestiva inclusione conferisce forte espressività al lamento dei vv. 9-11. La comunità riconosce di non essere ancora raggiunta dall'intervento liberatore («diritto») del Signore e dalla conseguente liberazione («giustizia»). Questa affermazione del v. 9a è riecheggiata dal v. 11b dove si constata l'assenza del «diritto» e la lontananza della «salvezza». Qui i termini «diritto», «giustizia», «salvezza» presentano lo stesso significato salvifico già incontrato nella predicazione deuteroisaiana. In particolare il testo allude quasi sicuramente a 46,13 per sottolineare che la promessa ivi annunciata non si è ancora adempiuta. L'inclusione è resa eloquente dalla tensione che si sviluppa tra la consapevolezza della salvezza, che «è lontana» (cerchio esterno), e l'intensità della speranza («speravamo»), che risulta drammaticamente delusa (cerchio interno). L'amarezza della delusione non sfocia nella disperazione, ma culmina nella confessione dei peccati (vv. 12-13). L'immagine dei peccati che «testimoniano» contro i membri della comunità (o forse «parlano» in essi facendo sentire, insieme alla voce, la loro presenza), accentuata dall'affermazione che le ribellioni sono “con” essi, attesta la profonda prospettiva alla quale la fede di Israele è giunta nella comprensione e nella confessione dei peccati del popolo. I vv. 14-15a contengono una riflessione in terza persona nella quale si delinea la conseguenza di un simile agire. Il vocabolario dei vv. 9a e 11b ricompare ora, ma con il significato consueto, nei cc. 56-66. Il «diritto» e la «giustizia», la fedeltà e la sincerità, vale a dire i valori che caratterizzano la risposta del popolo al dono della salvezza, sono assenti sia nell'ambito privato che in quello pubblico («in piazza»). L'assenza della fedeltà e la persecuzione di chi evita «il male» (v. 15a) lasciano intravedere il baratro nel quale il popolo del Signore sprofonda quando “si ribella” al suo Dio.

15b-20. La pericope si articola in due parti. La prima (vv. 15b-16a) annuncia che il Signore vede la situazione nella quale si trova il suo popolo, mentre la seconda (vv. 16b-20) descrive il suo intervento salvifico. Il detto presenta anzitutto il Signore nella prospettiva della tradizione dell'esodo, richiamata nei salmi di lamentazione. Come il Signore «ha visto» l'oppressione del suo popolo reso schiavo dagli Egiziani (cfr. Es 3,9) ed è invocato, nel tempo di una calamità nazionale, perché «veda» la sua «vigna» (cfr. Sal 80, 15), così ora egli “vede” la situazione di sventura che colpisce il suo popolo (vv. 15b-16a). L'intervento divino è descritto con un linguaggio che si ispira a 63,5. Il Signore interviene da solo con la potenza vittoriosa già manifestata nell'esodo («il suo braccio»), mostrando così che egli è sempre spinto, nel suo agire, dalla fedeltà alle promesse («giustizia») con cui ha suggellato per sempre l'alleanza con il suo popolo. Questo intervento è descritto con i caratteri tipici di una teofania che coinvolge non solo le genti, ma gli stessi elementi della creazione. La lotta vittoriosa contro gli avversari rivela il Signore come «redentore» in quanto libera la sua famiglia «Sion» e si configurano come «quelli di Giacobbe convertiti dall’apostasia» (v. 20). Tale locuzione testimonia una distinzione netta tra il vero Israele, erede delle promesse, e l'Israele fenomenologico, di cui un gruppo rimane ostinatamente ribelle al Signore. Si delinea così una prospettiva densa di conseguenze. L'Israele futuro sarà caratterizzato in modo essenziale dal dono della conversione al Signore.

21. Con un linguaggio simile a quello della redazione sacerdotale (P) il testo annuncia una solenne “promessa” di alleanza. Il tema dello spirito, che richiama Is 61,1, e la locuzione «le parole che ti ho messo in bocca», che rinvia a 50,4 (cfr. anche Ger 1,9), sono fondamentali per comprendere il contenuto della promessa divina. Poiché i testi richiamati si riferiscono a esperienze profetiche ne segue che il versetto, nella linea di Gl 2,28-29, annuncia al popolo rinnovato dalla salvezza divina il dono profetico dello spirito e della parola (cfr. 51,16). Questa promessa, destinata ad attualizzarsi di generazione in generazione, richiama l'alleanza di pace di Is 54,10 e costituisce un importante sviluppo nella tradizione della nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34; Ez 36,24-28; Dt 30,6-14).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il sabato e il digiuno 1Grida a squarciagola, non avere riguardo; alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati.

2Mi cercano ogni giorno, bramano di conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio: 3«Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai?».

Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. 4Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso.

5È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? 6Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? 7Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? 8Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. 9Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!».

Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, 10se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. 11Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa; sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono. 12La tua gente riedificherà le rovine antiche, ricostruirai le fondamenta di trascorse generazioni. Ti chiameranno riparatore di brecce, e restauratore di strade perché siano popolate.

13Se tratterrai il piede dal violare il sabato, dallo sbrigare affari nel giorno a me sacro, se chiamerai il sabato delizia e venerabile il giorno sacro al Signore, se lo onorerai evitando di metterti in cammino, di sbrigare affari e di contrattare, 14allora troverai la delizia nel Signore. Io ti farò montare sulle alture della terra, ti farò gustare l’eredità di Giacobbe, tuo padre, perché la bocca del Signore ha parlato.

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Approfondimenti

Il sabato e il digiuno 58,1-14 Questo capitolo è costruito come una requisitoria di JHWH contro il lamento del popolo. Il nucleo originario è rappresentato dai vv. 1-3a.5-9a. Il profeta denuncia la mancanza di solidarietà con i poveri come causa della situazione del popolo che, nonostante l'osservanza del digiuno, non sperimenta l'intervento salvifico del Signore. I vv. 9b-12 sono molto probabilmente un'aggiunta poiché, nonostante la struttura affine, presentano notevoli differenze rispetto ai vv. 5-9a (nessuna menzione del digiuno, il motivo dell'accusa legale, la contrapposizione esplicita tra luce e tenebre, infine la promessa del v. 12). Un'altra aggiunta è costituita dai vv. 13-14 che sottolineano la necessità dell'osservanza del sabato come condizione perché il popolo possa di nuovo sperimentare la salvezza. Infine anche i vv. 3b-4 rappresentano un interpolazione che applica al giorno dell'espiazione l'insegnamento della giustizia sociale dei vv. 5-9a e, probabilmente, anche il motivo del riposo dei vv. 13-14. Questa aggiunta è, quindi, la più recente nella storia della formazione del testo.

1. L'immagine della tromba (cfr. Os 8,1), che richiama un contesto cultuale, sottolinea non solo che la parola del profeta deve risuonare con forza, ma che il suo messaggio ha di mira l'incontro salvifico del popolo con il suo Dio (cfr. Es 19,16.19). Il tema dell'alleanza costituisce lo sfondo di tutto il messaggio come si evince dai titoli «mio popolo» e «casa di Giacobbe» (cfr. Es 19,3-6).

2-3a. Il v. 2 presenta una costruzione compatta che ha come base una struttura concentrica con la particolarità, però, che il secondo elemento (b) presenta anche lo stesso verbo del quarto (a'): a. Mi cercano ogni giorno b. bramano di conoscere le mie vie, c. come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; b'. mi chiedono giudizi giusti, a'. bramano la vicinanza di Dio. Il popolo cerca ogni giorno il Signore. Il verbo «cercare» non ha qui un significato cultuale (recarsi al santuario), ma esistenziale, come risulta dall'espressione parallela «bramano conoscere le mie vie». Questo desiderio è ripreso con enfasi nell'ultimo stico del v. 2 che sottolinea sia l'aspirazione a conoscere la volontà divina nella vita della comunità e dei suoi membri («giudizi giusti»), sia l'anelito di essere vicini a Dio (cfr. Sal 73,28). Lo stico centrale, che riceve particolare enfasi dalla struttura concentrica del versetto, mostra però che il popolo non ha realizzato il suo desiderio nel concreto della propria esistenza. Grazie alla struttura concentrica, il lamento del popolo per l'apparente insignificanza del suo digiuno (v. 3a) si trova connesso direttamente con la sua sete di essere vicino a Dio.

3b-4. «giorno del vostro digiuno»: si tratta del solenne giorno dell'Espiazione Yôm Kippur nel quale, oltre i riti previsti da Lv 16, erano prescritti sotto pena di morte sia il digiuno, sia il riposo sabatico (cfr. Lv 16,29-31; 23,26-32). I versetti sono un'aggiunta che riprende il messaggio dell'intera pericope e lo applica al giorno dell'espiazione.

5-9a. Si incontra qui la risposta originaria al lamento del popolo contenuto nel v. 3a.

9b-12. Questi versetti sono un'aggiunta che, seguendo la forma dei vv. 6-9a, dà rilievo alla promessa salvifica del Signore precisando ulteriormente le condizioni richieste. Tre di tali condizioni sono negative (v. 9b) e presuppongono il v. 6: rimuovere ogni oppressione sociale («giogo»), le false accuse nei tribunali (è questo il significato dell'espressione tecnica «puntare il dito»; cfr. Prv 6,2-14; Am 5,7) e gli attacchi verbali («il parlare empio») che mirano a distruggere socialmente l'avversario. Le due condizioni positive, che richiamano quelle annunciate nel v. 7, sono espresse nel primo stico del v. 10 con due espressioni tra loro strettamente connesse e cariche di significato: dare all'affamato ciò che appartiene alla propria vita e saziare la vita “piegata” dalla violenza e dall'oppressione. Per coloro che adempiono queste condizioni il nostro testo rinnova le radiose promesse dei vv. 8-9a. La promessa culmina prospettando la ricostruzione delle «antiche rovine». Si tratta dello stesso annuncio che si incontra in 61,4 e in 64,10 e che richiama il programma di ricostruzione e consolidamento della città di Gerusalemme e delle sue mura ad opera di Neemia. Al gruppo fervente dei Giudei che lo coadiuvò si riferiscono i titoli «riparatore di brecce» e «restauratore di strade perché siano popolate», titoli che esprimono sia l'entusiasmo per il nuovo volto che assumeva Gerusalemme, sia la consapevolezza (teologica) di una grande svolta nella storia del popolo del Signore.

13-14. Anche se la struttura di questi versetti («Se... se... se... allora») è simile a quella dei vv. 9b-12, essi sono da ritenere un'aggiunta. Nel quadro di una comunità che sperimenta la salvezza promessa e, quindi, vive orientata ai valori di giustizia e solidarietà annunciati nei vv. 1-12, un autore ha ritenuto importante inserire la necessità dell'osservanza del sabato (cfr. 56, 2) collegando ad essa la realizzazione della salvezza divina. Il sabato appare qui come il giorno santo per il Signore, quindi il giorno di cui il popolo riconosce la “gloria” e nel quale trova la propria «delizia». In altri termini la santità del sabato è la confessione della santità di JHWH e quindi della sua signoria salvifica. L'astensione dal curare i propri «affari» (o “ciò che piace”) è appunto il segno di una «delizia» che scaturisce dal Dio dell'esodo e si esprime nella vita che non si fonda solo sugli interessi economici, perseguiti a ogni costo, ma si costruisce sulla fraternità e sulla solidarietà. E questa la prospettiva dischiusa dalla promessa del v. 14 che, con l'espressione «trovare la delizia nel Signore», delinea l'esperienza di una liberazione che strappa l'uomo dalla schiavitù e dalla morte e lo situa nella via della libertà e della vita.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Perisce il giusto, nessuno ci bada. I pii sono tolti di mezzo, nessuno ci fa caso. Il giusto è tolto di mezzo a causa del male. 2Egli entra nella pace: riposa sul suo giaciglio chi cammina per la via diritta. 3Ora, venite qui, voi, figli della maliarda, progenie di un adultero e di una prostituta. 4Di chi vi prendete gioco? Contro chi allargate la bocca e tirate fuori la lingua? Non siete voi forse figli del peccato, prole bastarda? 5Voi, che spasimate fra i terebinti, sotto ogni albero verde, che sacrificate bambini nelle valli, tra i crepacci delle rocce. 6Tra le pietre levigate del torrente è la parte che ti spetta: esse sono la porzione che ti è toccata. Anche ad esse hai offerto libagioni, hai portato offerte sacrificali. E di questo dovrei forse avere pietà? 7Su un monte alto ed elevato hai posto il tuo giaciglio; anche là sei salita per fare sacrifici. 8Dietro la porta e gli stipiti hai posto il tuo emblema. Lontano da me hai scoperto il tuo giaciglio, vi sei salita, lo hai allargato. Hai patteggiato con coloro con i quali amavi trescare; guardavi la mano. 9Ti sei presentata al re con olio, hai moltiplicato i tuoi profumi; hai inviato lontano i tuoi messaggeri, ti sei abbassata fino agli inferi. 10Ti sei stancata in tante tue vie, ma non hai detto: «È inutile». Hai trovato come ravvivare la mano; per questo non ti senti esausta. 11Chi hai temuto? Di chi hai avuto paura per farti infedele? E di me non ti ricordi, non ti curi? Non sono io che uso pazienza da sempre? Ma tu non hai timore di me. 12Io divulgherò la tua giustizia e le tue opere, che non ti gioveranno. 13Alle tue grida ti salvino i tuoi idoli numerosi. Tutti se li porterà via il vento, un soffio se li prenderà. Chi invece confida in me possederà la terra, erediterà il mio santo monte.

Promesse di consolazione 14Si dirà: «Spianate, spianate, preparate la via, rimuovete gli ostacoli sulla via del mio popolo». 15Poiché così parla l’Alto e l’Eccelso, che ha una sede eterna e il cui nome è santo. «In un luogo eccelso e santo io dimoro, ma sono anche con gli oppressi e gli umiliati, per ravvivare lo spirito degli umili e rianimare il cuore degli oppressi. 16Poiché io non voglio contendere sempre né per sempre essere adirato; altrimenti davanti a me verrebbe meno lo spirito e il soffio vitale che ho creato. 17Per l’iniquità della sua avarizia mi sono adirato, l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; eppure egli, voltandosi, se n’è andato per le strade del suo cuore. 18Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni. E ai suoi afflitti 19io pongo sulle labbra: “Pace, pace ai lontani e ai vicini – dice il Signore – e io li guarirò”». 20I malvagi sono come un mare agitato, che non può calmarsi e le cui acque portano su melma e fango. 21«Non c’è pace per i malvagi», dice il mio Dio.

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Approfondimenti

Capi indegni e progenie idolatra 56,9-57,13 57,1-2 I versetti collegano il detto precedente con quello che segue. A causa dell'irresponsabilità delle guide del popolo, «perisce il giusto, nessuno ci bada». I passi paralleli di Sal 12,2 e Mic 7,2 mostrano che qui ci si riferisce alla violenza degli empi che mirano ad eliminare i giusti. Questa contrapposizione, già attestata nell'opera del Cronista, non si situa a livello sociologico tra empio e povero, come nei profeti preesilici, ma a livello teologico tra coloro che sono venuti meno all'alleanza (empi) e coloro che vi rimangono fedeli.

3-5. Le espressioni «figli della maliarda» e «progenie di un adultero e di una prostituta» indicano che gli apostrofati persistono nelle colpe dei loro padri, già condannate dal profeti: la magia (Is 2,6; Mic 5,11; Ger 27,9) e l'idolatria. Quest'ultima è marchiata con i termini di «adulterio» e «prostituzione» non solo per le pratiche sessuali che ne accompagnavano il culto, ma soprattutto perché era considerata un'infedeltà all'amore sponsale del Signore (cfr. Os 1-3; Ger 3; 3,1-5; Ez 16;23). Il v. 5, forse un'aggiunta analoga a quelle di 1,28-31; 65,3-5.7b.11b; 66,3-7.17, specifica ulteriormente l'accusa menzionando due pratiche idolatriche: i riti sessuali di fertilità e il sacrificio dei bambini. Il plurale «valli» suggerisce che questi sacrifici non erano praticatati solo nella valle di Ben-In-nom, o Geenna (cfr. Ger 2,23; 7,31; Ez 20,26-31), ma anche in altre località.

6-13. L'accusa si riferisce anzitutto a delle pratiche idolatriche nelle valli (le «pietre levigate» alludono forse a emblemi connessi al culto della fertilità) di cui si presenta l'indicibile gravità (v. 6). Il popolo, che ha il Signore come «sua parte di eredità» e suo «calice» (cfr. Sal 16,5), pone la propria sicurezza e il proprio destino nel culto degli idoli. Con il v. 7 la descrizione si sposta su «un monte imponente ed elevato», un monte che riceve gli attributi divini (cfr. Is 6,1) e perciò è l'anti-Sion per antonomasia, il simbolo di tutti gli alti luoghi contaminati dai culti idolatrici. Simili culti sono penetrati addirittura nelle case (v, 8a). Dietro «la porta e gli stipiti», dove avrebbero dovuto essere collocate le parole di JHWH che Israele è chiamato ad ascoltare (cfr. Dt 6,4-9; 11,20), si trova invece un «emblema», simbolo di fertilità secondo la tradizione religiosa cananea. Per il nostro autore ciò è segno di un'infedeltà che non solo ha colpito la società, ma ha raggiunto lo stesso ambito familiare. Il popolo, ormai lontano dal Signore, con un atto di volontaria apostasia ha sostituito l'alleanza che l'univa al suo Dio con numerose espressioni idolatriche caratterizzate da forti componenti sessuali (v. 8bc). Il v. 9 ricorda infine le pratiche cultuali in onore del dio Melek, penetrate in Giuda dalla vicina Fenicia (Tiro), e forse contiene anche un'allusione sarcastica al culto del dio fenicio Mot (Morte) e alle pratiche negromantiche che esso comportava. Questa continua ricerca di nuovi culti idolatrici avrebbe dovuto portare il popolo a comprendere che gli idoli non offrono la sicurezza desiderata (v. 10). Il popolo, però, invece di constatare l'insipienza della propria condotta, vi si è dedicato ancora più assiduamente lasciandosi irretire dai riti a sfondo sessuale e, quindi, dall'illusione di una prosperità immediata (il termine «mano» del v. 10b ha probabilmente lo stesso significato già incontrato nel v. 8c). I vv. 12-13a accennano alla sentenza di condanna. Ricorrendo all'espressione con cui nei Salmi si connota la proclamazione della giustizia salvifica di Dio, l'autore presenta il Signore che annuncia la «giustizia» del suo popolo. Il contesto non lascia dubbi sul significato ironico dell'espressione che, mentre denuncia l'infedeltà del popolo, richiama i prodigi incommensurabili dell'amore divino. Davanti all'intervento del Signore crolleranno le false speranze del popolo infedele, che infatti non troverà la salvezza né nelle sue opere, che alla luce del Signore mostrano la loro inutilità, né nei suoi dei.

Promesse di consolazione 57,14-21 La pericope contiene il primo annuncio di salvezza che si incontra nei cc. 56-66. Benché lo stile presenti notevoli affinità con quello del Deuteroisaia e vi siano vari richiami ai cc. 40-55 (cfr. v. 14 con 40,3; v. 17 con 44,8; v. 18 con 40,1; v. 19 con 43,5-6 e 49,12), il testo appare con un'individualità propria. Il motivo della consolazione (v. 18) orienta a porre la sua composizione in rapporto all'opera di Neemia. Il brano si articola nelle seguenti parti: appello a preparare la via (v. 14); dichiarazione che il tempo dell'ira è finito (vv. 16-17); annuncio dell'intervento divino che guarisce e consola il suo popolo (vv. 18-19); esclusione degli empi dalla promessa (vv. 20-21).

16-17. La parola originaria del profeta compare nel v. 16. Qui il Signore comunica la sua volontà di non conservare per sempre la sua ira perché ogni spirito da lui creato (cfr. 42,5) possa sviluppare la propria vita nella comunione dell'alleanza e quindi nella pienezza dell'amore. Questa profonda riflessione, che ha forse la sua origine con il profeta Geremia (cfr. Ger 3,4.12), si trova ampiamente sviluppata nei salmi postesilici (cfr. Sal 103,3. 8-10; 130,9). In realtà le infedeltà (indicate con un termine che richiama la rapina, e quindi la violenza e l'ingiustizia sociale) avevano spinto il Signore a intervenire per punire il suo popolo v. 17). Oltre le prove sperimentate nella storia e compendiate nella locuzione «l'ho percosso», il testo richiama anche il “nascondimento” di Dio con un linguaggio che rievoca Is 54,7 e che racchiude un significato profondo. Se la confessione del Dio «nascosto» è esperienza somma di salvezza (cfr. 45,15), il silenzio del “nascondimento” divino delinea l'esistenza del popolo che si chiude al dono dell'amore e si ostina a rimanere in balia di se stesso, camminando verso la propria rovina. Gli interventi di JHWH scaturivano, paradossalmente, da un progetto d'amore che mirava alla conversione del popolo. Essi, però, non ottennero l'effetto sperato in quanto il popolo continuò a camminare secondo le proprie scelte («per le strade del suo cuore»).

18-19. In tale contesto si inserisce l'annuncio positivo della salvezza. Il Signore conosce le vie del suo popolo e, proprio per questo, si manifesta ora in modo nuovo (v. 18). Egli non percuote più! Al contrario interviene con amore (cfr. Is 54,7-8) per «guarire» il suo popolo (cfr. Os 6,1; 7,1; 11,3; 14,5; Ger 3,22; 6,14; 30,17; 33,6; Sal 103,3), per «guidarlo» (cfr. Ne 9,12-19; inoltre Es 15,13; Sal 27,11; 31,4; 73,24; 139,2) e per dargli l'abbondanza delle sue consolazioni (cfr. 40,1-2). Sulle labbra di coloro che sono «afflitti», come afferma il v. 18, il Signore crea una parola (frutto delle «labbra») che esprime una realtà nuova: «Pace». Questa promessa, che dischiude l'alleanza di pace (cfr. 54,10) e, quindi, l'era della benedizione (cfr. Nm 6,24-26), riguarda sia i vicini, che vivono in Gerusalemme e Giuda, sia i lontani che si trovano nella diaspora. Il Targum ha reinterpretato la categoria spaziale in prospettiva cronologica. La promessa si riferisce sia al «giusto che ha osservato da sempre la mia legge», sia al «pentito che è ritornato da poco alla mia legge».

20-21. L'annuncio della salvezza è stato successivamente reinterpretato con l'aggiunta dei vv. 20-21. La salvezza promessa, si puntualizza, non riguarda gli «empi» in quanto persistono nella loro apostasia da JHWH e tentano con ogni mezzo di ridurre al silenzio i giusti.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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LA NUOVA SION E I POPOLI

La salvezza senza frontiere 1Così dice il Signore: «Osservate il diritto e praticate la giustizia, perché la mia salvezza sta per venire, la mia giustizia sta per rivelarsi». 2Beato l’uomo che così agisce e il figlio dell’uomo che a questo si attiene, che osserva il sabato senza profanarlo, che preserva la sua mano da ogni male. 3Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: «Certo, mi escluderà il Signore dal suo popolo!». Non dica l’eunuco: «Ecco, io sono un albero secco!». 4Poiché così dice il Signore: «Agli eunuchi che osservano i miei sabati, preferiscono quello che a me piace e restano fermi nella mia alleanza, 5io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome più prezioso che figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato. 6Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, 7li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saranno graditi sul mio altare, perché la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli». 8Oracolo del Signore Dio, che raduna i dispersi d’Israele: «Io ne radunerò ancora altri, oltre quelli già radunati».

Capi indegni e progenie idolatra 9Voi tutte, bestie dei campi, venite a mangiare; voi tutte, bestie della foresta, venite. 10I suoi guardiani sono tutti ciechi, non capiscono nulla. Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi. 11Ma questi cani avidi, che non sanno saziarsi, sono i pastori che non capiscono nulla. Ognuno segue la sua via, ognuno bada al proprio interesse, senza eccezione. 12«Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora».

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Approfondimenti

La salvezza senza frontiere 56,1-8 Con questa pericope inizia la terza parte del libro di Isaia (cc. 56-66). Il suo carattere peculiare, quanto al contenuto e alle prospettive teologiche, appare già dal fatto che i termini salvifici dei cc. 40-55 si presentano ora con una nuova accezione (cfr. v. 1b con 46,13; v. 5b con 55,13). Non si tratta di un fenomeno isolato, ma di una reinterpretazione dei capitoli 40-55 che è percepibile in modo quasi sistematico. Il nucleo della nostra pericope è costituito dai vv. 3-7, che sono un insegnamento (torah) profetico relativo all'accoglienza dello straniero e dell'eunuco nella comunità di JHWH. I vv. 1-2 formano un raccordo redazionale tra i cc. 40-55 e i vv. 3-7. Il v. 8 pone i cc. 56-66 nella luce del Signore che «raduna i dispersi di Israele».

1-2. Nel comando di «osservare il diritto e praticare la giustizia» appare una visuale diversa rispetto al Deuteroisaia, che non chiede mai all'uomo di praticare il diritto e la giustizia, ma di attenderli come opera salvifica del Signore. Inoltre nei cc. 40-55 la vicinanza della salvezza (cfr. 46,13) costituisce il messaggio gioioso che apre un futuro di speranza al popolo. Nel nostro testo, invece, la prossimità della salvezza fonda la risposta del popolo, chiamato a rimanere fedele all'alleanza in tutti gli ambiti della sua esistenza.

3-7. Secondo la legge di Dt 23,2-9, gli eunuchi e, salve poche eccezioni, gli stranieri erano esclusi dalla comunità cultuale di Gerusalemme. Il problema si presentò in termini nuovi dopo l'esilio quando in Giuda non solo aumentarono gli stranieri, ma crebbe anche il numero degli eunuchi. Tra coloro che fecero ritorno a Gerusalemme, infatti, si trovavano anche dei deportati che erano stati assunti al servizio della corte babilonese e, successivamente, da quella persiana e che, per questo motivo, avevano dovuto subire la castrazione. Le misure di Neemia e di Esdra, che sanzionarono la separazione della comunità dagli stranieri, contribuirono a rendere la questione ancora più drammatica (cfr. Esd 9,1-2; 10; Ne 9,2). Il v. 3 presuppone il problema sociale e religioso di questi due gruppi e prospetta che il tempo del loro lamento è finito. Il motivo di questo messaggio è indicato, con ordine chiastico, nei vv. 4-5 (per gli eunuchi) e nei vv. 6-7 (per gli stranieri). In entrambi i casi, seguendo uno stesso schema bipartito, si precisano anzitutto le condizioni richieste e, quindi, si proclama la promessa che offre una nuova soluzione al problema.

8. Nell'attuale contesto il raduno dei dispersi di Israele assicura il futuro del popolo dell'alleanza e, conseguentemente, il futuro del tempio, destinato ad essere per tutti i popoli il luogo della comunione con il Signore (cfr. v. 7). Perciò alla proclamazione tradizionale del Signore «che ha fatto uscire il suo popolo dal paese di Egitto» (cfr. Dt 5,6), si affianca ora la formula che confessa JHWH come il Dio «che raduna i dispersi di Israele». L'ardente preghiera di Sal 106,4 e l'attesa di un popolo riunito da tutta la terra (cfr. Ez. 36,24) trovano in questa confessione non solo il proprio fondamento, ma anche la sicurezza di essere esaudite.

Capi indegni e progenie idolatra 56,9-57,13 Nella presente sezione sono raccolti tre detti profetici. Il loro tema è l'annuncio del giudizio: contro i capi indegni del popolo (56,9-12); contro le deviazioni cultuali di natura idolatrica (57,3-5); contro le pratiche idolatriche (v. 5-13a). La loro unione redazionale è stata effettuata con l'aggiunta di 57,1-2.13b. Circa la datazione dei singoli detti, il parere degli esegeti è discorde. A motivo del loro carattere di giudizio alcuni li ritengono preesilici. Tuttavia le motivazioni addotte non sono determinanti dato che il lamento per i capi indegni e la lotta contro le deviazioni idolatriche non terminarono con l'esilio. Il commento indicherà i motivi favorevoli a una datazione postesilica. In ogni caso la loro “composizione” redazionale riflette il periodo in cui nella comunità di Gerusalemme si era già formata la contrapposizione tra i “giusti” e gli “empi”.

56,10-11. Il termine «guardiani» in senso traslato è riferito soprattutto ai profeti (cfr. Os 9,8; Mic 7,7; Ab 2,1; Ger 6,17; Ez 33,2). Il nostro brano denuncia quindi, in primo luogo, la cecità, l'incapacità di discernimento e il silenzio delle guide spirituali, la cui colpa risulta aggravata dalla loro irresponsabile indolenza e inoperosità (v. 10). La stessa condanna riguarda anche i «pastori», cioè i capi della comunità. Anch'essi sono incapaci di discernimento, anzi ciascuno, spinto da avidità, ha di mira non il bene del popolo, ma il proprio tornaconto; detto in altri termini, segue la propria via.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il banchetto della vita 1O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite, comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. 2Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. 3Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete. Io stabilirò per voi un’alleanza eterna, i favori assicurati a Davide. 4Ecco, l’ho costituito testimone fra i popoli, principe e sovrano sulle nazioni. 5Ecco, tu chiamerai gente che non conoscevi; accorreranno a te nazioni che non ti conoscevano a causa del Signore, tuo Dio, del Santo d’Israele, che ti onora.

I pensieri del Signore 6Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino. 7L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signore che avrà misericordia di lui e al nostro Dio che largamente perdona. 8Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Oracolo del Signore. 9Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri.

La parola del Signore 10Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, 11così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata. 12Voi dunque partirete con gioia, sarete ricondotti in pace. I monti e i colli davanti a voi eromperanno in grida di gioia e tutti gli alberi dei campi batteranno le mani. 13Invece di spini cresceranno cipressi, invece di ortiche cresceranno mirti; ciò sarà a gloria del Signore, un segno eterno che non sarà distrutto.

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Approfondimenti

Il banchetto della vita 55,1-5 La pericope è composta di due parti. La prima (v. 1-3a) richiama, per la forma, l'invito della sapienza a partecipare al suo banchetto per avere la pienezza della vita (cfr. Prv 9,5-6; Sir 24,19-21). Nel nostro caso, però, non è la sapienza a invitare, ma il Signore stesso. La seconda parte (3b-5) interpreta questa pienezza di vita nella prospettiva della fedeltà del Signore all'alleanza davidica.

1-3a. Gli inviti divini a «tutti gli assetati» sono accompagnati da un'espressione che sottolinea la gratuità dei doni promessi, offerti a «chi non ha denaro» e dei quali chi è «senza denaro» può partecipare «senza spesa». Ora il Signore dona gratuitamente i beni fondamentali della vita (acqua e pane) e quelli che simboleggiano l'abbondanza e quindi la pienezza della vita («vino e latte»). Il testo inizia con il vocativo «assetati» per sviluppare non il simbolismo dell'«acqua», ma quello della sete. Questa esigenza, fondamentale per ogni vivente, nella scrittura esprime simbolicamente l'anelito ardente e la tensione appassionata del credente verso Dio che, nella fede, è sperimentato come unica e insostituibile sorgente di vita (cfr. Sal 36,10; 42,2; 63,2).

3b-5. Il Signore annuncia che «stabilirà un'alleanza eterna», consistente nella realizzazione dei suoi «favori» che hanno come riferimento Davide e la sua discendenza (cfr. Sal 89,50). La locuzione «i favori assicurati da Davide» prova che l'annuncio riguarda la promessa della discendenza o del nuovo Davide (cfr. Ez 34,23). L'«alleanza eterna» che il Signore stabilisce con il popolo consiste nell'assicurazione che le promesse relative al nuovo Davide si compiranno. Il futuro Davide è delineato in una funzione universale analoga a quella del servo di JHWH (cfr. Sal 18,1). Egli è costituito da Dio come «testimone» per i popoli tra i quali proclama le lodi di JHwH (cfr. Sal 18,50-51; 2Sam 22,50). Per questo egli opera non solo come capo di Israele (cfr. 1Cr 17,7), ma come «sovrano» dei popoli (v. 4). Nel tempo del nuovo Davide il popolo della nuova Gerusalemme potrà accogliere tutti i popoli che accorrono (v. 5; cfr. 54,2-3) per partecipare della salvezza che Dio farà risplendere sul suo popolo.

I pensieri del Signore 55,6-9 Nell'ultima parte del c. 55 sono particolarmente visibili i segni dell'attività redazionale che ha inteso i cc. 40-55 come un'unità sviluppatasi intorno al messaggio del Deuteroisaia e all'annuncio della nuova Gerusalemme. Così in 55,6-13 incontriamo i principali temi introdotti nel c. 40:

  • la potenza della parola del Signore (40,8 e 55,10-11);
  • il perdono (40, 2 e 55, 6-7);
  • il ritorno (40, 3-5 e 55, 12a);
  • la partecipazione della natura alla salvezza del popolo (40, 4 e 55, 12b).

La nostra pericope risale al tempo del Cronista. Ciò è confermato da vari motivi: il tema della ricerca del Signore, che nell'opera del Cronista ha il valore di comandamento fondamentale (cfr. 2Cr 12,14; 14,3.6; 15,2.4.12-15; 16,12; 17,3-4; 19,3; 20,33; 22,9; 26,5); la connessione della ricerca del Signore con la sicurezza che egli si lascia trovare (cfr. 2Cr 15,1-5); infine la dimensione esistenziale della ricerca del Signore che si esprime nella fedeltà della vita (cfr. 2Cr 12,14; 20,32-33; 26,4-5).

6-7. L'invito all'ascolto del Signore (vv. 1-5) si arricchisce ora con l'esortazione profetica a «cercare il Signore», Dio dell'alleanza. Se l'espressione in origine aveva un significato cultuale (cfr. Gn 25,22; 1Re 22,5ss.; 2Re 3,11; Ger 37,7; Ez 14,7; 2Cr 1,5), essa aveva assunto, lungo la storia di Israele, una connotazione profonda, indicando sia la dimensione esistenziale della fede che si concretizza in una vita di giustizia e fraternità (cfr. Am 5,4.6; Os 10,12; Is 9,12; 31,1), sia l'atteggiamento di chi conosce il Signore e perciò non abbandona lui, fonte di acqua viva, ma accoglie il dono dell'alleanza incarnandolo in ogni situazione della storia (cfr. Ger 10,21), sia infine l'apertura incondizionata al Signore in un cammino di totale fedeltà a lui (Dt 4,29). Con questo denso significato l'espressione al tempo del Cronista serve per indicare l'esigenza del comandamento fondamentale.

La parola del Signore 55,10-13 Nell'ultima pericope dei cc. 40-55 si incontra un detto del Deuterosaia, che è stato collocato a questo punto in modo da formare un'inclusione con 40,6-8. La parola del Signore costituisce l'arco che avvolge sia la promessa dell'uscita da Babilonia che l'annuncio della nuova Gerusalemme, simbolo di un futuro nel quale il popolo, rinnovato dal perdono, vive nell'alleanza della «pace». La pericope si divide in due parti. I vv. 10-11 descrivono l'efficacia della parola del Signore, mentre i vv. 12-13 annunciano, come conseguenza, l'uscita del popolo dalla sua schiavitù.

10-11. La pioggia e la neve, che scendono dal cielo, non vi ritornano senza aver compiuto un'opera fondamentale alla vita sul nostro pianeta: esse «irrigano» la terra, la rendono feconda, favoriscono la germinazione in modo da assicurare l'attività produttiva dell'uomo. La descrizione si manifesta nella sua valenza simbolica in rapporto alla discesa della parola del Signore. La parola, che esce dalla bocca di JHWH (cfr. Dt 8,3), compie in coloro che l'accolgono la sua opera efficace e feconda. Essa non ritorna al Signore “vuota”; al contrario realizza l'opera che costituisce l'oggetto della compiacenza divina e l'obiettivo stesso per il quale è stata mandata, ossia la liberazione del popolo e la sua vita nell'alleanza con il suo Dio (v. 11).

12-13. Alla sicura efficacia della parola si deve la certezza dell'esodo, che qui è descritto in modo da costituire la solenne conclusione dei cc. 40-55. Il “Voi” del v. 12 riguarda anzitutto gli esuli, ma nella redazione finale del libro si rivolge anche al popolo che accoglie la parola come promessa del Signore, Il profeta contempla gli esuli che sperimentano l'esodo perché sono guidati dal Signore e dalla sua parola nel cammino della propria libertà. L'esodo salvifico dei redenti è in profondità l'opera per la quale il Signore manda la sua parola. Perciò la sua realizzazione manifesta il nome del Signore che appare come il Dio fedele che guida la storia secondo il suo disegno di amore e di salvezza. In quest'ottica l'esodo da Babilonia (anzi ogni esodo) è un segno eterno di colui che rivela il suo nome operando la salvezza dell'uomo: un segno che non potrà mai scomparire.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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L'alleanza di pace 1Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. 2Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, 3poiché ti allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza possederà le nazioni, popolerà le città un tempo deserte. 4Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza. 5Poiché tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti è il suo nome; tuo redentore è il Santo d’Israele, è chiamato Dio di tutta la terra. 6Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, ti ha richiamata il Signore. Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? – dice il tuo Dio. 7Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti raccoglierò con immenso amore. 8In un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te, dice il tuo redentore, il Signore. 9Ora è per me come ai giorni di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque di Noè sulla terra; così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti. 10Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia.

Gerusalemme ricostruita e sicura 11Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffìri pongo le tue fondamenta. 12Farò di rubini la tua merlatura, le tue porte saranno di berilli, tutta la tua cinta sarà di pietre preziose. 13Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore, grande sarà la prosperità dei tuoi figli; 14sarai fondata sulla giustizia. Tieniti lontana dall’oppressione, perché non dovrai temere, dallo spavento, perché non ti si accosterà. 15Ecco, se ci sarà un attacco, non sarà da parte mia. Chi ti attacca cadrà contro di te. 16Ecco, io ho creato il fabbro che soffia sul fuoco delle braci e ne trae gli strumenti per il suo lavoro, e io ho creato anche il distruttore per devastare. 17Nessun’arma affilata contro di te avrà successo, condannerai ogni lingua che si alzerà contro di te in giudizio. Questa è la sorte dei servi del Signore, quanto spetta a loro da parte mia. Oracolo del Signore.

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Approfondimenti

L'alleanza di pace 54,1-10 Attraversato da forti imperativi e da armoniose paranomasie, il brano si rivolge a Sion che, senza essere nominata, è contemplata come la sposa del Signore (cfr. 49,14-21; 50,1; 51,1-3; 51,17-52,9). Il capitolo si collega così, tematicamente, al c. 52 formando un'inclusione che ingloba il quarto canto del servo del Signore. La discendenza del servo è dunque la comunità di Gerusalemme che, rinnovata dalla salvezza, vive per sempre nell'esperienza dell'amore sponsale del suo Dio. La presente pericope, che risale forse al tempo di Neemia, si divide in quattro parti: Sion, già sterile, diventa madre di una posterità innumerevole (vv. 1-3); essa sperimenta così l'amore creatore del suo sposo (vv. 4-5), che la riprende con immensa tenerezza (vv. 6-8) e la unisce a sé in un'eterna «alleanza di pace» (vv. 9-10).

1-3. Con l'esilio e le sue amare conseguenze, Sion, priva dei propri figli e di un futuro, ha sperimentato la sterilità. Ora, però, il Signore, suo sposo, rinnova in lei l'intervento prodigioso che diede la maternità alla matriarca.

4-5. Sion «non dovrà più arrossire» perché dimenticherà sia «la vergogna della sua giovinezza» che «il disonore della sua vedovanza». La prima immagine evoca la condizione di Israele prima del suo incontro con il Signore sigillato dall'alleanza del Sinai (cfr. Os 2,17; Ger 2,2; Ez 16,8), mentre la seconda connota l'infedeltà all'alleanza che ha avuto il suo contrassegno nella caduta di Gerusalemme e nell'esilio babilonese con tutte le conseguenze che ne derivarono. Nel primo caso Sion si trovava nel «disonore» di non avere ancora lo sposo, nel secondo caso era nella «vergogna» per il suo peccato che l'aveva separata dallo sposo.

6-8. L'immagine di una donna «abbandonata e con l'animo afflitto» esprime la profonda comprensione che il profeta ha della storia del suo popolo. Anche se il popolo ha abbandonato il Signore, nell'amarezza della sua condizione (esilio; condizioni difficili del periodo postesilico) si sente abbandonato dal suo Dio. La parola del Signore si rivolge proprio a lui, che vive questa amara esperienza di abbandono, per rinnovargli la gioia della prima chiamata e del primo amore.

9-10. La promessa che Dio fa alla sua sposa ha il suo parallelo nel giuramento fatto a Noè di non mandare più le acque del diluvio sulla terra (v. 9). Anzi la promessa divina ha una stabilità ancora più forte e profonda. L'esistenza del mondo testimonia la fedeltà del Signore all'alleanza stipulata con Noè. Però, come afferma il v. 10, con una costruzione parallela di grande effetto, anche nell'ipotesi che si ritirassero i monti e «vacillassero i colli», l'amore del Signore non si ritirerà mai dal suo popolo, né vacillerà la sua «alleanza di pace». Il termine tradotto con «alleanza» (berît) nel nostro contesto ha lo stesso significato di «promessa» che esso presenta nell'opera Sacerdotale (cfr. Es 6,2-8). Poiché il brano prospetta una situazione salvifica permanente, la promessa dischiude un rapporto stabile che si realizza tra il Signore e il suo popolo, un rapporto che è caratterizzato dal dono della salvezza con tutti i suoi effetti di vita, libertà, benessere, gioia e sicurezza.

Gerusalemme ricostruita e sicura 54,11-17 La pericope si divide in due parti: la prima (vv. 11-13) riguarda lo splendore della nuova Gerusalemme; la seconda (vv. 14-17) prospetta alla città ricostruita la stabilità interna nella giustizia e la sicurezza esterna dai nemici.

11-13. Il tema della ricostruzione della città presenta notevoli affinità con Ezechiele (cfr. Ez 43,1-9), ma non contiene nessun riferimento al tempio, un chiaro indizio che il brano va collocato probabilmente al tempo di Neemia. L'autore vede nella sicurezza raggiunta dalla città con la ricostruzione delle sue mura il segno di un nuovo futuro. E difficile identificare tutti i metalli preziosi che formano la nuova Gerusalemme. Invece è chiaro l'intento simbolico di questa descrizione. Lo splendore della città, le cui fondamenta riflettono il verde e l'azzurro cupo del cielo, mentre l'oro delle porte richiama il fulgore del sole, sottolinea che la nuova Gerusalemme è opera del Signore. L'intervento prodigioso di JHWH si esprime soprattutto nei figli di Sion che sono «discepoli del Signore». Questa espressione, che si richiama a Ger 31,34, segna il passaggio dalla descrizione simbolica all'annuncio teologico. La nuova Gerusalemme è la città della nuova alleanza nella quale tutti sono «discepoli» del Signore (cfr. Is 50,4), vivono nell'accoglienza del suo amore e dei suoi doni e perciò sperimentano in forma abbondante la nuova condizione di sicurezza, libertà, benessere e prosperità (pace).

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

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Approfondimenti

La morte salvifica del servo 52,13-53,12 53,1-3. Il v. 1 funge da transizione che lega la conclusione del prologo («ciò che mai avevano udito») con quanto ora viene fatto udire dall'annuncio di un gruppo anonimo nel quale la voce dell'autore si confonde con quella della sua comunità e di coloro che ne condivideranno l'esperienza di fede. Ora inizia la descrizione del servo (v. 2). Egli cresce alla presenza del Signore come virgulto e come radice. Queste immagini rievocano le promesse messianiche, in particolare Is 11, 1-4 (cfr. Ger 23,5; Ez 17,6.22; Zc 3,8). Fin da questo richiamo, però, si sprigiona la novità. Il protagonista del nostro poema non può sviluppare la gloria e la potenza perché è come «una radice in terra arida» che non offre possibilità di sviluppo; non ha né bellezza né splendore e perciò è privo dei segni della benedizione divina (cfr. Gn 39,6; 1 Sam 16,18 e, soprattutto, Sal 45,3-4). Il quadro desolato si riempie ora con l'accenno alle sue sofferenze (v. 3) che sono descritte con il linguaggio proprio delle lamentazioni. L'inclusione costituita dal termine «disprezzato» orienta a vedere nel disprezzo e nel rifiuto degli uomini l'elemento che caratterizza in modo determinante le sofferenze del protagonista. Egli è «uomo dei dolori che ben conosce il patire» perché vive nella propria persona il dramma dell'abbandono e della perdita di ogni stima che rendono la sua presenza nella comunità priva di significato e di valore.

4-6. La seconda strofa contiene la spiegazione dell'enigma del servo. La riflessione parte dal gruppo che si identifica con il “noi” (v. 4), si dirige sul protagonista (“Egli”, v. 5), per ritornare al “Noi” (v. 6a) e culminare nella confessione dell'opera del Signore (v. 6b). Nei salmi di lamentazione l'orante può riconoscere la sventura come conseguenza del proprio peccato e invocarne il perdono (cfr. 38,5.19; Lam 3,40.42). Qui invece proprio la comunità che, come gli amici di Giobbe, considerava il protagonista «castigato», «percosso» e «umiliato» da Dio, ne proclama ora l'innocenza. In realtà, come afferma il v. 4, il servo ha portato le sofferenze che la comunità aveva attirato su di sé con le proprie colpe. Questa constatazione prepara così la confessione centrale del v. 5: la legge ferrea della colpa e della punizione viene qui spezzata. Con novità inaudita il testo afferma che la colpa grava sulla comunità (“noi”), mentre la sofferenza colpisce il servo. Non si tratta di cieca fatalità, ma di incommensurabile solidarietà, Su di lui, infatti, si è abbattuta la punizione (l'ebraico mûsār denota un'azione che tende alla formazione pedagogica delle persone nei valori della rettitudine e della giustizia propri della sapienza) che porta alla comunità il benessere della salvezza (pace). Giunge così la conseguenza che nulla perde del suo carattere ardito nonostante le premesse che l'hanno preparata: «per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Il v. 6 riprende le affermazioni paradossali del v. 5 per situarle in una prospettiva nella quale fede, teologia e vita si incontrano in una sintesi incomparabilmente feconda. La comunità confessa la propria situazione paragonabile a un gregge disperso (immagine tipica dell'esilio, cfr. Ez 34,5-16; Ger 50,6; Is 40,11). Con una costruzione pregnante si afferma che ciascuno aveva rivolto la sua faccia verso la propria strada così che, proseguendo il cammino, si sarebbe trovato sempre più lontano dagli altri. La sofferenza del servo guarisce la comunità da questo processo di dispersione e disgregazione che altrimenti sarebbe stato inarrestabile. Tutto ciò ha la sua fonte e la sua spiegazione nel disegno di JHWH, come confessa la comunità rinnovata: «il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti». La forma causativa del verbo ebraico molto probabilmente ha, nella nostra frase, il significato causativo interno; la frase allora può tradursi: «il Signore ha accettato (per sé) che la colpa di noi tutti ricadesse su di lui». La sofferenza e la morte del servo non hanno segnato la fine assurda di un'esistenza votata a infondere speranza nel popolo, ma, per la volontà del Signore, diventano sorgente di guarigione, di ritrovata coesione e unione, di vita. La solidarietà che unisce la comunità al servo non è frutto di una scelta umana, ma è opera di Dio.

7-9. Il quadro teologico appena delineato conduce la terza strofa a contemplare il servo nella realtà della sua sofferenza. Egli è fatto oggetto di violenza fisica (lo stesso verbo, «maltrattare», connota l'oppressione egiziana, cfr. Es 3,7), tuttavia accetta nel silenzio il suo destino. Con le immagini dell'«agnello condotto al macello», e della «pecora muta di fronte ai suoi tosatori», l'autore accenna al processo e alla condanna e rievoca la solidarietà del servo con il popolo (disperso come un gregge). Al tempo stesso le due immagini conferiscono al poema particolare ricchezza di contenuto e bellezza stilistica. Esse pongono il silenzio del servo nella prospettiva feconda della persecuzione dei profeti (cfr. Ger 11, 19) e coestensivamente gli conferiscono un “pathos” umano che non conosce confini. Nonostante le particolari difficoltà del v. 8 è possibile arguire che il testo parla di un'azione forense contro il servo svoltasi in modo iniquo e conclusasi con la sentenza capitale. Il v. 8b ribadisce che la sua eliminazione dalla terra dei viventi è dovuta alla colpa del popolo. Forse il suffisso «mio» aggiunto al sostantivo «popolo» è opera di uno scriba che vedeva in questa dichiarazione una sentenza del Signore. Il disprezzo e l'oltraggio del servo non si arrestano nemmeno con la sua morte. Egli è gettato nella fossa comune dei giustiziati (v. 9a). La frase «con il ricco (i ricchi) fu il suo tumulo» è probabilmente una locuzione stereotipata nella quale il termine «ricco» è usato in senso ironico e dispregiativo per indicare i malfattori. Nel momento in cui l'ingiustizia ha sviluppato la propria opera contro il servo, la sua innocenza viene riconosciuta e proclamata esplicitamente: egli non è stato né un criminale, né un ingannatore (9b). Con una simile dichiarazione di innocenza il poema acquista in coesione interiore e potenza espressiva. La comunità che aveva ritenuto il servo colpito da Dio ora lo riconosce vittima di trame inique e macchinazioni violente. La fede nel Dio dell'esodo non può mai trasformare la sofferenza dell'innocente in un narcotico dell'ingiustizia umana. La coesione, che la comunità ritrova grazie al servo, si consolida in un cammino che non legittima nessun compromesso con l'ingiustizia.

10-11a. La comunità, dopo la morte del servo, riconosce e confessa la sua glorificazione. Anzitutto si afferma che il Signore ha posto il suo compiacimento nel servo colpito. Ciò significa che, contrariamente alle apparenze, il Signore è sempre stato con il suo servo e dalla sua parte. La vicinanza del Signore al servo non si arresta con la morte. Ne è una prova la sua esaltazione, anticipata nel prologo e qui chiaramente presupposta e riconosciuta. Rimane però difficile precisare come l'autore abbia inteso questa esaltazione. Le espressioni «vedere una discendenza», «vivere a lungo» rievocano il linguaggio dei Salmi recitati in occasione del sacrificio di lode, quando si ringraziava il Signore che aveva liberato l'orante dalla morte (cfr. Sal 22,30c-31). Non pochi esegeti in passato hanno letto in queste espressioni l'annuncio della risurrezione del servo dai morti. Certo il testo parla di una glorificazione del servo dopo la sua morte, però la sua risurrezione non è affermata con una chiarezza capace di fugare ogni dubbio. Anche se questa pagina si presta in modo particolare ad essere reinterpretata nella prospettiva della risurrezione (attestata nella versione dei LXX), l'esegesi non può riferire automaticamente tale interpretazione posteriore al significato originario del testo. Un dato si impone, comunque, con chiarezza. La sofferenza del servo, culminata nella sua morte, ha il valore di un sacrificio di espiazione. Con questa categoria il compiacimento del Signore manifesta tutto il suo significato concreto e salvifico. Per la Scrittura, infatti, il sintagma “espiare i peccati” connota l'azione divina che sottrae l'uomo dalla condizione di morte, dalla quale era stato catturato con il peccato, e lo situa nuovamente nella comunione con JHWH, il Dio vivente. Solo il Signore “espia il peccato” perché solo lui può liberare l'uomo dall'ambito della morte e introdurlo nello spazio vitale del suo amore. La morte del servo è dunque resa da Dio strumento di espiazione per il suo popolo e per l'umanità (cfr. il prologo e l'epilogo), strumento mediante il quale il Signore realizza il proprio disegno di vita. La discendenza, che il servo vedrà dopo il suo «tormento», è il segno che la radice nel terreno arido è divenuta albero fecondo di frutti (v. 11a).

11b-12. Nell'epilogo ritorna la voce del Signore che conferma il messaggio della parte centrale relativa al suo servo. Il servo non solo è innocente, ma con la sua espiazione solidale rende possibile alla totalità delle moltitudini di partecipare alla giustizia e, quindi, alla salvezza (v. 11b; cfr. Dn 12,3 che è stato influenzato dal nostro testo). Il v. 12 riassume il prologo e la parte centrale ripresentando la grandezza del servo in stretto rapporto con il valore salvifico della sua morte.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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1Svégliati, svégliati, rivèstiti della tua magnificenza, Sion; indossa le vesti più splendide, Gerusalemme, città santa, perché mai più entrerà in te l’incirconciso e l’impuro. 2Scuotiti la polvere, àlzati, Gerusalemme schiava! Si sciolgano dal collo i legami, schiava figlia di Sion! 3Poiché dice il Signore: «Per nulla foste venduti e sarete riscattati senza denaro». 4Poiché dice il Signore Dio: «In Egitto è sceso il mio popolo un tempo, per abitarvi come straniero; poi l’Assiro, senza motivo, lo ha oppresso. 5Ora, che cosa faccio io qui? – oracolo del Signore. Sì, il mio popolo è stato deportato per nulla! I suoi dominatori trionfavano – oracolo del Signore – e sempre, tutti i giorni, il mio nome è stato disprezzato. 6Pertanto il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: “Eccomi!”».

Il messaggero di pace 7Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio». 8Una voce! Le tue sentinelle alzano la voce, insieme esultano, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore a Sion. 9Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. 10Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutte le nazioni; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio.

L'esodo rinnovato 11Fuori, fuori, uscite di là! Non toccate niente d’impuro. Uscite da essa, purificatevi, voi che portate gli arredi del Signore! 12Voi non dovrete uscire in fretta né andarvene come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il Signore, il Dio d’Israele chiude la vostra carovana.

La morte salvifica del servo 13Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. 14Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.

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Approfondimenti

Il dono della liberazione 51,9-52,6 52,1-2. Gerusalemme appare come la «città santa», definitivamente liberata dagli incirconcisi e dagli «impuri», vale a dire da coloro che non possono partecipare al suo culto (v. 1), Si delinea così, nel simbolo della città, la nuova condizione del popolo. La serie degli otto imperativi che ricorrono in questi versetti trova proprio qui la sua sintesi e il suo significato. Lo splendore del popolo del Signore è la sua stessa libertà, che è dono divino e, conseguentemente, conquista dell'uomo quando si apre con fiducia alla parola del suo Dio.

3-6. Si incontrano qui varie glosse inserite per commentare l'annuncio della liberazione culminante in 52, 1-2. Il v. 3 richiama la problematica sollevata da 50,1 per sottolineare che la schiavitù di Israele non era dettata da nessuna motivazione che non fosse la sua colpa. Un ulteriore commento è contenuto nei vv. 4-6. In rapida successione la riflessione scandisce le tappe “storiche” emblematiche della schiavitù di Israele: Egitto, Assiria (v. 4), per concentrarsi in modo particolare sull'ultima, Babilonia.

Il messaggero di pace 52,7-10 Al poema di 51,9-52,2(3-6) segue questo brano che condensa in poco spazio immagini poetiche e motivi teologici di straordinaria ricchezza. Il brano, pervaso dall'inizio alla fine da una gioiosa esperienza di salvezza, si articola in due parti. I vv. 7-8 proclamano il ritorno del Signore a Sion con l'immagine del re che entra nella sua capitale dopo aver realizzato la vittoria decisiva sui suoi nemici. I vv. 9-10 sono, invece, un inno di lode che svolge una funzione analoga agli altri distribuiti nei cc. 40-55 e quindi costituisce la degna conclusione della presente sezione. La somiglianza del v. 7 con Na 2,1 e l'affinità dei vv. 9-10 con 40,9-11 costituiscono un forte indizio per ritenere che il nostro versetto non appartenga al Deuteroisaia, ma sia da mettere in rapporto con l'entusiasmo suscitato dall'opera di Neemia.

7-8. Nella gioia di un evento fondamentale per Gerusalemme il poeta contempla il messaggero che sui monti reca il lieto annuncio (v. 7). Questo “vangelo” si caratterizza anzitutto con tre sostantivi nei quali si condensa la speranza di Sion: «pace», «bene», «salvezza». Il vertice e la sintesi del lieto annuncio sono costituiti dall'acclamazione «Regna il tuo Dio». La formula consueta «Il Signore regna» (Sal 93,1; 97,1; 99,1; 96,10 (cfr. 1Cr 16,31) o «Regna il Signore» (cfr. Sal 47,9; Sof 3,15; Is 24,33) è qui modificata in modo che colui che si manifesta come re salvatore e vittorioso appaia come il Dio che si unisce con il vincolo dell'alleanza alla sua città e, conseguentemente, al suo popolo («il tuo Dio»).

L'esodo rinnovato 52,11-12 Incontriamo il messaggio fondamentale verso cui tende tutta la predicazione del Deuteroisaia. Attraverso una serie di imperativi, il profeta contempla il momento della grande svolta quando si effettuerà l'esodo annunciato. L'imperativo «Uscite da essa» si riferisce indubbiamente a Babilonia, che forse era menzionata nel contesto originario del detto o addirittura in un distico che nella redazione fu lasciato cadere. La processione, nella quale sono portati gli arredi del Signore per il nuovo tempio di Gerusalemme (v. 11; cfr. 2Cr 36,7.10.18-19), è un'immagine emblematica del nuovo esodo. In questa visuale si situano le affermazioni del v. 12 secondo cui l'uscita non avviene «in fretta» (cfr. Es 12,11; Dt 16,3), come se si trattasse di fuga (cfr. Es 14,5). Nonostante gli ostacoli l'esodo si compie nella pace e nella sicurezza, perché il Signore cammina davanti alla schiera dei redenti per combattere in loro favore (cfr. Dt 20,4) ed egli stesso ne chiude la carovana (cfr. Es 14,19) per liberare i suoi da ogni pericolo.

La morte salvifica del servo 52,13-53,12 Il quarto canto del servo di JHWH è il carme nel quale sono confluite le prospettive più alte della fede di Israele. La struttura generale del poema è semplice. Il prologo (52,13-15) e l'epilogo (53,11-12) contengono una parola del Signore che presenta il servo, anticipando il senso della missione e confermando, alla fine, il valore salvifico della sua sofferenza e morte. La parte centrale (53,1-10), composta da quattro strofe (vv. 1-3; 4-6; 7-9; 10) è un intreccio narrativo dove, oltre il nome del Signore, entrano in scena il pronome plurale “noi” e il pronome singolare “egli”. Il prologo e l'epilogo assicurano che il testo parla del servo. Molto più problematica è invece l'individuazione del «noi». A nostro avviso il quarto canto del servo proviene dallo stesso autore del primo (Is 42,1-4) come si evince dai contatti letterari che l'esegesi ha rilevato. In entrambi i casi l'autore si è ispirato al secondo (Is 49,1-6) e al terzo canto (Is 50,4-9a) dove parla l'“io” stesso del profeta (Deuteroisaia). Così se il primo canto sottolinea la dimensione universale del messaggio del servo (cfr. Is 49,1-6), anche l'ultimo si muove indubbiamente in un orizzonte che abbraccia la moltitudine dei popoli. Tuttavia tale orizzonte ha come motivo centrale la sofferenza del servo (cfr. Is 50,4-9a). Mentre nel terzo canto la sofferenza è illuminata dall'esperienza interiore del profeta che accoglie l'insegnamento divino, qui è interpretata dalla parola di JHWH (prologo ed epilogo) e questa, a sua volta, è mediata dalla testimonianza della stessa comunità di Israele che ha trovato nella fedeltà del servo la sorgente della propria conversione (cfr. Is 49,6a). Certamente l'autore del quarto canto ha creato un testo aperto e ogni lettore può trovarsi inserito nel “Noi”, che passa dall'incomprensione alla confessione del servo. Tuttavia le precedenti osservazioni orientano a ritenere che nel “Noi” di Is 53,1-10 parla l'autore stesso del canto, in quanto portavoce di quella parte del popolo che vive la propria fede nella conversione e, quindi, nella fedeltà al Signore.

52,13-15. Il discorso divino del prologo presenta lo stesso inizio del primo canto: «Ecco, Il mio servo» (Is 42,1). La connessione letteraria, chiaramente intenzionale, ha una significativa rilevanza teologica. Il Signore ha presentato il servo all'inizio della sua missione e lo presenta ora quando si parla della sua fine. Nel primo caso la parola divina ha dischiuso il contenuto della missione del servo e la sua irradiazione universale. Qui si conferma la dimensione universale prospettando al tempo stesso il significato salvifico della sua morte. La meraviglia di cui parla la finale del v. 15 è suscitata proprio dalla novità rappresentata dal destino del servo glorificato, novità che permette ora all'umanità di «vedere» e «comprendere» un evento che supera ogni racconto e ogni dato della tradizione. Questa novità costituisce appunto il tema sviluppato dal poema che qui è stato introdotto.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Trionfo della liberazione divina 1Ascoltatemi, voi che siete in cerca di giustizia, voi che cercate il Signore; guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. 2Guardate ad Abramo, vostro padre, a Sara che vi ha partorito; poiché io chiamai lui solo, lo benedissi e lo moltiplicai. 3Davvero il Signore ha pietà di Sion, ha pietà di tutte le sue rovine, rende il suo deserto come l’Eden, la sua steppa come il giardino del Signore. Giubilo e gioia saranno in essa, ringraziamenti e melodie di canto! 4Ascoltatemi attenti, o mio popolo; o mia nazione, porgetemi l’orecchio. Poiché da me uscirà la legge, porrò il mio diritto come luce dei popoli. 5La mia giustizia è vicina, si manifesterà la mia salvezza; le mie braccia governeranno i popoli. In me spereranno le isole, avranno fiducia nel mio braccio. 6Alzate al cielo i vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo, la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve. Ma la mia salvezza durerà per sempre, la mia giustizia non verrà distrutta. 7Ascoltatemi, esperti della giustizia, popolo che porti nel cuore la mia legge. Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; 8poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come lana, ma la mia giustizia durerà per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione.

Il dono della liberazione 9Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza, o braccio del Signore. Svégliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni passate. Non sei tu che hai fatto a pezzi Raab, che hai trafitto il drago? 10Non sei tu che hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso, e hai fatto delle profondità del mare una strada, perché vi passassero i redenti? 11Ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con esultanza; felicità perenne sarà sul loro capo, giubilo e felicità li seguiranno, svaniranno afflizioni e sospiri. 12Io, io sono il vostro consolatore. Chi sei tu perché tu tema uomini che muoiono e un figlio dell’uomo che avrà la sorte dell’erba? 13Hai dimenticato il Signore tuo creatore, che ha dispiegato i cieli e gettato le fondamenta della terra. Avevi sempre paura, tutto il giorno, davanti al furore dell’avversario, perché egli tentava di distruggerti. Ma dov’è ora il furore dell’avversario? 14Il prigioniero sarà presto liberato; egli non morirà nella fossa né mancherà di pane. 15Io sono il Signore, tuo Dio, che agita il mare così che ne fremano i flutti – Signore degli eserciti è il suo nome. 16Io ho posto le mie parole sulla tua bocca, ti ho nascosto sotto l’ombra della mia mano, quando ho dispiegato i cieli e fondato la terra, e ho detto a Sion: «Tu sei mio popolo». 17Svégliati, svégliati, àlzati, Gerusalemme, che hai bevuto dalla mano del Signore il calice della sua ira; la coppa, il calice della vertigine, hai bevuto, l’hai vuotata. 18Nessuno la guida tra tutti i figli che essa ha partorito; nessuno la prende per mano tra tutti i figli che essa ha allevato. 19Due mali ti hanno colpito, chi avrà pietà di te? Desolazione e distruzione, fame e spada, chi ti consolerà? 20I tuoi figli giacciono privi di forze agli angoli di tutte le strade, come antilope in una rete, pieni dell’ira del Signore, della minaccia del tuo Dio. 21Perciò ascolta anche questo, o misera, o ebbra, ma non di vino. 22Così dice il Signore, tuo Dio, il tuo Dio che difende la causa del suo popolo: «Ecco, io ti tolgo di mano il calice della vertigine, la coppa, il calice della mia ira; tu non lo berrai più. 23Lo metterò in mano ai tuoi torturatori che ti dicevano: “Cùrvati, che noi ti passiamo sopra”. Tu facevi del tuo dorso un suolo e una strada per i passanti».

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Approfondimenti

Trionfo della liberazione divina 51,1-8 La triplice esortazione «Ascoltatemi» (v. 1), «porgetemi l'orecchio» (v. 4), «Ascoltatemi» (v.7) divide il testo in tre parti, unite insieme solo a livello redazionale. Il popolo del Signore è invitato a ricordare l'elezione che si pone all'inizio della sua storia (vv. 1-2; il v. 3 è un frammento innico inserito come conferma dell'invito rivolto al popolo). L'invito è quindi indirizzato ai popoli perché abbiano fiducia nella salvezza del Signore (vv. 4-6). Infine JHWH si rivolge al suo popolo rinnovato dalla nuova alleanza perché affronti le prove, sicuro che la giustizia salvifica del suo Dio durerà per sempre (vv. 7-8). Le tre parti sono recenti in quanto riflettono sia l'inaugurazione della torah ad opera di Esdra, sia la teologia del Cronista. Esse rappresentano perciò una preziosa testimonianza dell'interesse suscitato dalla «Visione di Isaia» e, in particolare, dal messaggio di liberazione e speranza del Deuteroisaia.

1-3. La locuzione «cercare il Signore» diventa al tempo del Cronista la formula con cui si esprime il comandamento fondamentale, vale a dire l'orientamento totale, esclusivo e permanente del popolo dell'alleanza al suo Dio. Il popolo è invitato a guardare alla solidità delle proprie origini. Tale solidità, che il testo esprime con le immagini eloquenti della «roccia» e della «cava», non è dovuta alla potenza umana (Sara non poteva avere figli), ma unicamente al Signore che chiamò Abramo e lo benedisse donandogli da Sara il figlio Isacco e, in lui, la discendenza promessa (v. 2). Un simile invito è quindi palesemente orientato a rinnovare, nel popolo, la fiducia nel Signore e nella sua promessa, una fiducia che è capace di attendere, nella consapevolezza delle impossibilità umane, le opere della potenza divina. Questa prospettiva è accentuata dall'aggiunta del frammento innico che delinea la ricostruzione di Gerusalemme e dei suoi dintorni come l'opera del Signore che «ha consolato» Sion con tutte le sue rovine.

4-6. La prospettiva e il linguaggio richiamano da vicino l'universalismo del primo canto del servo (in particolare il v. 5b riproduce quasi alla lettera 42,4) e di Is 2,1-4.

7-8. Il popolo è qui caratterizzato come colui che ha sperimentato e continua a sperimentare la vittoria del Signore. Una simile caratteristica, come indica la frase parallela, è dovuta al fatto che il popolo ha la torah del Signore nel suo cuore (v. 7a) e, quindi, vive nell'esperienza della nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34). Con la formula di incoraggiamento il popolo è invitato a non temere «l'insulto» e «gli scherni» degli uomini (v. 7b). Da Sof 2,8 risulta che questi due sostantivi si riferiscono alle vessazioni dei nemici di Israele.

Il dono della liberazione 51,9-52,6 Si tratta di una composizione redazionale le cui unità sono scandite da una triplice serie di imperativi duplicati: «Svegliati, svegliati» (51,9); «Svegliati, svegliati» (51,17); «Svegliati, svegliati» (52,1).

  • La prima strofa è una supplica al Signore perché rinnovi i prodigi della salvezza (51,9-11), cui seguono delle aggiunte sotto forma di risposta divina al grido di aiuto del popolo (51, 12-14. 15-16).
  • La seconda strofa (51,17-23) è invece un invito a Gerusalemme perché si ridesti davanti al Signore che interviene per difendere la causa del suo popolo.
  • Infine la terza strofa (52,1-2) contiene l'invito a Sion a vivere nella libertà.

I vv. 3-6, in prosa, sono invece un'aggiunta che offre un'interpretazione particolarmente rilevante per la sua ricchezza teologica.

9-11. Nei vv. 9-10 si incontra il linguaggio proprio dei Salmi della supplica collettiva. Essa è caratterizzata dall'invocazione di aiuto e dalla memoria degli interventi salvifici con cui si intende rafforzare la preghiera. Nel nostro brano la supplica è rivolta con una vigorosa apostrofe al «braccio di JHWH», un'espressione che richiama la potenza salvifica del Signore, che si è manifestata in modo paradigmatico nell'esodo (cfr. Es 6,6; 15,15-16; Dt 4,34; 5,15; 7,19; 9,29; 11,2; 26,8) e che continua a perpetuarsi nella storia (cfr. 1Re 8,42; 2Cr 6,32). La potenza del Signore nella creazione è richiamata, simbolicamente, con le immagini mitiche dell'Antico Oriente (vv. 9b-10a). Il motivo dell'esodo, invece, è descritto con il linguaggio poetico di Es 15,8.14 (v. 10b). Il v. 11 riproduce quasi alla lettera 35,10 ed è un'aggiunta inserita come interludio per puntualizzare che il prodigio dell'esodo si rinnoverà in favore di tutti coloro che il Signore ha riscattato. Per costoro il ritorno a Sion segnerà l'inizio della gioia escatologica, libera da ogni afflizione.

12-16. La risposta di JHWH all'invocazione di Israele suppone un articolato processo redazionale. Ciò appare fin dai vv. 12-13, dove, nel testo ebraico, il Signore interpella Israele prima con il plurale maschile (“voi”), poi con il femminile singolare e infine con il maschile singolare. Il motivo della consolazione permette di datare il nucleo fondamentale del detto al tempo di Neemia. La forte contrapposizione tra «Io, io sono» e «Chi sei tu...?» evidenzia l'infondatezza della paura di Israele verso degli uomini che, nonostante la loro potenza, sono dei semplici mortali e, quindi, effimeri come l'erba (v. 12b; cfr. 40,6-8; Sal 90,5). A livello teologico la paura è segno di una realtà ben più profonda: Israele ha dimenticato il Signore la cui potenza non si è esplicata solo nello stendere i cieli e nel porre le fondamenta della terra, ma anche nella formazione del popolo di cui è quindi il creatore.

17-20. Con un linguaggio mutuato dalle lamentazioni collettive il profeta descrive Sion costretta a bere il «calice dell'ira» del Signore (v. 17). Questa metafora, che appare in forma grandiosa in Ger 25,15-29, connota la condizione di coloro che si trovano sotto l'ira divina ed è riferita sia a Gerusalemme (come nel nostro caso), sia ad altri popoli (Moab, Babilonia, Edom), sia alla totalità delle nazioni. Il v. 18 per ragioni metriche e di contenuto appare un'aggiunta che vede nella mancanza di guide e di attenzione alle necessità della comunità un segno dell'ira divina nella quale si trova Gerusalemme. Che cosa il profeta intenda esprimere con la metafora del «calice dell'ira divina» è esplicitato nei vv. 19-20. La città è stata colpita da due mali: la desolazione e la distruzione da una parte (cfr. 59,7; 60,18; Ger 48,3), la fame e la spada dall'altra.

23. L'immagine dei vincitori che camminano sul «dorso» dei popoli sconfitti, attestata da vari bassorilievi dell'Oriente Antico e conosciuta anche dai testi biblici (cfr. Gs 10,24; 1Re 5,17; Sal 66,12; 110,1), esprime eloquentemente l'umiliazione dei vinti e la loro incapacità a sollevarsi. Per questo essa manifesta con suggestiva efficacia la potenza della liberazione divina che caratterizza il futuro del popolo del Signore.

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giudizio e liberazione 1Dice il Signore: «Dov’è il documento di ripudio di vostra madre, con cui l’ho scacciata? Oppure a quale dei miei creditori io vi ho venduti? Ecco, per le vostre iniquità siete stati venduti, per le vostre colpe è stata scacciata vostra madre. 2Per quale motivo non c’è nessuno, ora che sono venuto? Perché, ora che chiamo, nessuno risponde? È forse la mia mano troppo corta per riscattare oppure io non ho la forza per liberare? Ecco, con una minaccia prosciugo il mare, faccio dei fiumi un deserto. I loro pesci, per mancanza d’acqua, restano all’asciutto, muoiono di sete. 3Rivesto i cieli di oscurità, do loro un sacco per mantello».

Il servo, discepolo del Signore 4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?

Ascoltare la voce del servo Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alle fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giunto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.

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Approfondimenti

Giudizio e liberazione 50,1-3 La breve pericope, che si conclude in modo repentino e forse anche incompleto, appartiene letterariamente a una contesa giudiziaria nella quale JHWH si difende dalle accuse mossegli dagli Israeliti (cfr. 42,18-25 e 43,22-28). Tanto il genere letterario quanto il contenuto orientano a ritenere che il detto rifletta l'esperienza dolorosa dell'esilio. Si tratta quindi di un detto autentico del Deuteroisaia che il redattore finale ha premesso come introduzione al terzo canto del «servo» di JHWH.

1-2a. Il rimprovero si sviluppa ispirandosi a due disposizioni del diritto israelitico. Secondo la prima, l'uomo, in caso di divorzio, doveva dare alla moglie il libretto di ripudio e quindi scacciarla di casa. Se la donna fosse andata sposa a un altro uomo non avrebbe più potuto essere ripresa dal primo marito (cfr. Dt 24,1-4). Un'altra disposizione contemplava il caso di un uomo costretto a vendere i propri figli per saldare i debiti con i suoi creditori (cfr. Es 21,7; 2Re 4,1; Ne 5,5). Anche in questo caso l'uomo non poteva più rivendicare per sé i figli venduti. La risposta del Signore assume questo linguaggio giuridico apportandovi, però, due modifiche significative. Il popolo certo è stato «scacciato» lontano dal suo Dio (esilio), ma il Signore non ha dato il libretto di ripudio e quindi Israele continua ad appartenere al Signore. Inoltre non esistono dei «creditori» ai quali JHWH sia stato costretto a vendere i suoi figli. Appare così che l'esilio non è segno della volontà del Signore di allontanare da sé il suo popolo, ma è la conseguenza dell'infedeltà di quest'ultimo.

Il servo, discepolo del Signore 50,4-9a Questa pericope presenta vari elementi affini anzitutto a Is 49,1-6 e inoltre a Is 42,1-4 e 52,13-53,12: il motivo della prova, la perseveranza nella missione e la consapevolezza della validità della propria opera davanti al Signore. Per questo il nostro passo, anche se non contiene il termine «servo», è stato giustamente riconosciuto come il “terzo canto del servo di JHWH”. L'uso della prima persona singolare mostra che si tratta di una composizione nella quale, come in 49,1-6, si riflette l'esperienza interiore del profeta, convenzionalmente chiamato Deuteroisaia, di fronte alle crescenti difficoltà incontrate nel suo ministero. La pericope, il cui campo è dominato dall'espressione «Il Signore Dio» (vv. 4.5.7.9), si divide in due parti: – la prima (vv. 4-6) richiama l'opera del Signore, che è all'origine della missione del servo e della sua fedeltà nelle persecuzioni; – la seconda (vv. 7-9a) sottolinea l'aiuto che il Signore dona al servo, rendendolo sicuro della sua innocenza.

4-6. L'inizio del canto (v. 4) è dominato dal vocabolario dell'ascolto e della parola, come si evince dalla locuzione originale «lingua da discepolo»: il profeta è l'uomo che comunica la parola divina per sostenere coloro che sono privi di fiducia e speranza. Egli ha questa capacità perché è discepolo che annuncia quanto egli stesso ascolta ogni giorno dal suo Dio, affrontando, per la parola di JHWH, gli oltraggi umilianti di una dura persecuzione.

7-9a. L'espressione «Il Signore Dio mi assiste» forma un'inclusione che conferisce particolare forza alla seconda parte del canto. Il profeta sperimenta l'aiuto di colui che gli desta l'orecchio ogni mattina, perciò accetta le sofferenze causategli dagli avversari, avendo la sicurezza di essere nel disegno del Signore e quindi di non restare mai «confuso». La locuzione «rendo la mia faccia dura come pietra», che si ispira a Ez 3,8-9, sottolinea che proprio questa sicurezza comunica al profeta la forza di affrontare tutte le prove.

Ascoltare la voce del servo 50,9b-11 Questi versetti rappresentano diverse aggiunte con cui si è inteso offrire un commento al “canto del servo del Signore”. I vv. 9b-10 formano la prima aggiunta di stampo sapienziale (cfr. Gb 13,28). Per comprendere il v. 11 è importante la locuzione «accendete il fuoco e tenete tizzoni accesi», con cui si richiamano le ingiurie e le persecuzioni degli empi contro i «pii» (cfr. Sal 57,5). Si tratta, quindi, di un'aggiunta recente che si incontra più volte nella «Visione di Isaia».

(cf. GIANNI ODASSO, Isaia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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