📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

SECONDA PARTE: I TRE SETTENARI (4,1-22,5)

LA VISIONE INTRODUTTIVA (4,1-5,14) AL SETTENARIO DEI SIGILLI (6,1-8,1)

Prima tavola: la creazione 1Poi vidi: ecco, una porta era aperta nel cielo. La voce, che prima avevo udito parlarmi come una tromba, diceva: «Sali quassù, ti mostrerò le cose che devono accadere in seguito». 2Subito fui preso dallo Spirito. Ed ecco, c’era un trono nel cielo, e sul trono Uno stava seduto. 3Colui che stava seduto era simile nell’aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile nell’aspetto a smeraldo avvolgeva il trono. 4Attorno al trono c’erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro anziani avvolti in candide vesti con corone d’oro sul capo. 5Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; ardevano davanti al trono sette fiaccole accese, che sono i sette spiriti di Dio. 6Davanti al trono vi era come un mare trasparente simile a cristallo. In mezzo al trono e attorno al trono vi erano quattro esseri viventi, pieni d’occhi davanti e dietro. 7Il primo vivente era simile a un leone; il secondo vivente era simile a un vitello; il terzo vivente aveva l’aspetto come di uomo; il quarto vivente era simile a un’aquila che vola. 8I quattro esseri viventi hanno ciascuno sei ali, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte non cessano di ripetere: «Santo, santo, santo il Signore Dio, l’Onnipotente, Colui che era, che è e che viene!». 9E ogni volta che questi esseri viventi rendono gloria, onore e grazie a Colui che è seduto sul trono e che vive nei secoli dei secoli, 10i ventiquattro anziani si prostrano davanti a Colui che siede sul trono e adorano Colui che vive nei secoli dei secoli e gettano le loro corone davanti al trono, dicendo: 11«Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, per la tua volontà esistevano e furono create».

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

I TRE SETTENARI Dopo l'introduzione e le sette lettere, inizia al capitolo 4 la parte centrale dell'Apocalisse che si estende fino a 22,5. Troviamo in questa sezione i tre grandi settenari, ognuno dei quali è introdotto da una visione inaugurale che ne anticipa il tema e la portata simbolica. Ai capitoli 4-5 è affidato sia il compito di introduzione generale sia il ruolo di apertura per il settenario dei sigilli (6,1-8,1).

LA VISIONE INTRODUTTIVA (4,1-5,14) AL SETTENARIO DEI SIGILLI (6,1-8,1) I due capitoli introduttivi costituiscono un'unità letteraria omogenea e ben costruita, un'autentica ouverture che annuncia e prepara i temi principali. I motivi annunciati si presentano sotto forma di simboli; tre sono quelli fondamentali:un trono, un libro e un agnello.

L'immagine generale richiama una scena della corte celeste, in cui il veggente viene prodigiosamente accolto, per essere spettatore di un fatto straordinario che dovrà comunicare ai suoi destinatari, secondo uno schema narrativo comune ai profeti e agli apocalittici.

La descrizione dei diversi elementi e lo svolgimento dell'azione determinano chiaramente due scene distinte e collegate: una specie di dittico dominato, da una parte, dal trono (4,2-11) e, dall'altra, dall'Agnello. Al centro di questi due quadri principali compare, come fondamentale motivo di raccordo, il libro (5,1-5).

L'unica azione, infatti, consiste nella consegna di questo libro da Colui che siede sul trono all'Agnello.

Attraverso gli elementi simbolici, la prima tavola del dittico presenta come motivo teologico la creazione e la regalità di Dio su essa; il canto di lode (4,11) che conclude la presentazione lo rende esplicito.

La seconda, invece, caratterizzata dalla presenza dell'Agnello, celebra l'evento decisivo della redenzione; anche in questo caso è il canto di lode, strutturalmente simile al precedente, che chiarifica il motivo dominante (5,9).

Il libro con i sette sigilli unisce i due quadri: inserito tra creazione e redenzione, il grande simbolo compendia in modo mirabile tutto il piano divino della salvezza.

Prima tavola: la creazione L'intera pericope si articola in tre momenti. Dapprima un'introduzione narrativa (v. 1) presenta il movimento del veggente che – invitato a salire in cielo attraverso una porta aperta – è accolto nella corte celeste. La parte centrale (vv. 2-8) descrive minuziosamente la sala del trono e i personaggi che vi sono presenti. L'ultima (vv. 9-11) comprende un quadro liturgico di lode e adorazione.

Introduzione nella corte celeste Il v. 1 ha la funzione di cerniera tra la prima e la seconda parte dell'Apocalisse; introduce la nuova scena ed è solenne e ridondante. Da notare l'inclusione della formula «dopo queste cose», espressione tecnica del linguaggio apocalittico per indicare un cambiamento di argomento senza valore cronologico. Essa, infatti, non indica il passaggio dal presente alla previsione del futuro, ma è l'indizio narrativo di un cambiamento di sezione; la stessa funzione è svolta dalla presenza del verbo «guardai» e dell'avverbio «ecco». Nel cielo – il mondo di Dio – Giovanni vede una porta aperta: l'accesso, dunque, è possibile. Anzi, la stessa voce del Cristo risorto (cfr. 1,10) lo invita a salire, a entrare in contatto personale con Dio, cosi da poter ricevere la rivelazione: l'allusione alla tromba e l'invito a salire ricordano il prototipo della rivelazione biblica, cioè la teofania del Sinai (Es 19,19-20). Come Mosè, anche Giovanni ha la possibilità di incontrare Dio nella sua gloria; ma, grazie all'intervento di Gesù Cristo, il profeta cristiano ha la possibilità di comprendere molto di più.

Descrizione della sala del trono Per esprimere la dimensione spirituale della propria esperienza e sottolineare un collegamento con la visione iniziale, Giovanni ripete una sua formula originale («Mi ritrovai nello Spirito»; cfr. 1,10): attraverso il profeta è la stessa comunità liturgica che vive la presenza dello Spirito e, immersa nella sua luce, può comprendere la propria storia. Il «trono» appartiene al simbolismo antropologico e indica il potere e l'esercizio di governo: strettamente connesso con Dio, ne evoca il ruolo di Signore dell'universo, creatore e governatore di tutte le cose. Il trono è presentato come un dato acquisito («c'era»), non come risultato di un'azione (cfr. Dn 7,9); non è vacante, ma c'è chi governa. Tuttavia, il personaggio seduto non è rappresentato. La scena, infatti, pur essendo costruita su alcuni modelli dell'Antico Testamento(cfr. Is 6 e Ez 1), è molto più sobria. Viene solo evocata un'impressione luminosa: l'aspetto di Colui che siede sul trono non è descritto, bensì paragonato alla meraviglia di luce prodotta dai riflessi di diverse pietre preziose: il rosso della cornalina, il verde dello smeraldo e i mille riflessi colorati del diaspro. Il seguito della presentazione si sofferma sugli elementi che fanno corona al trono e contribuiscono a chiarirne il valore simbolico e, in modo particolare, sui ventiquattro anziani (4,4) e sui quattro esseri viventi (4,6b-8a), separati da tre brevi annotazioni simboliche (4,5a.Sb.6a).

I ventiquattro anziani sono vistosamente associati a Colui che siede sul trono. Il vestito è sempre simbolo di relazione e il colore bianco è legato al mistero della risurrezione di Cristo; inoltre, la corona dice riconoscimento per un'impresa compiuta e l'oro è il classico metallo legato alla divinità. Si tratta, quindi, di personaggi autorevoli e storici, accomunati a Dio nel governo del mondo e partecipi della sua vita. Tuttavia una loro esplicita identificazione non è facile; le moltissime interpretazioni proposte si possono ridurre a tre modelli:

a) esseri celesti: angeli o stelle; b) uomini glorificati: ventiquattro personaggi dell'Antico Testamento o del Nuovo Testamento; oppure dodici patriarchi e profeti dell'Antico Testamento e dodici apostoli del Nuovo Testamento; c)autentici simboli, ovvero schemi da interpretare e colmare con la propria esperienza.

Quest'ultima modalità interpretativa è preferibile; i ventiquattro anziani, infatti, non sembrano rinviare a persone precise, ma piuttosto evocare coloro che collaborano al piano di Dio e hanno un ruolo attivo nella storia della salvezza. In base all'insistenza sul numero ventiquattro vi si può riconoscere un'allusione alla tradizione giudaica dei libri ispirati o alle classi sacerdotali: sono coloro che hanno «fatto la storia» e, con un concetto moderno, potremmo dire che sono il simbolo stesso della storia.

Tre note simboliche presentano la figura di Dio come colui che entra in relazione con il mondo.

  1. Il primo elemento è costituito da un tipico simbolismo della rivelazione e dell'intervento storico dell'Onnipotente: l'uscita dal trono di lampi, voci e tuoni (cfr. 8,5; 11,19; 16,18) ha un significato teofanico con rimando all'alleanza sinaitica (cfr. Es 19,16) e indica che il trono non è isolato in sé, ma che Dio entra in contatto con il mondo.
  2. Il secondo elemento è quello centrale e riprende un'immagine dell'introduzione (1,4): l'autore stesso offre la spiegazione del simbolo delle sette fiaccole. Più che di angeli, sembra che si parli dello Spirito Santo nella sua pienezza sotto la figura del fuoco che scalda, illumina, purifica e consuma. Il contatto di Dio con il mondo è operato dal suo Spirito.
  3. Infine il terzo elemento è costituito da un mare di cristallo che evoca il mostro caotico primitivo: il simbolo del male, dell'inconsistenza e della negazione di vita è dominato da Dio e perciò è descritto come solido e trasformato in supporto del trono. Attraverso il riferimento a un particolare della teofania descritta da Ezechiele (cfr. Ez 1,22), la base del trono divino richiama il «firmamento» di cui si parla nel poema della creazione (Gen 1,6): in tal modo questo piccolo frammento unisce l'evento creatore alla definitiva sconfitta del «mare» simbolo del male (Ap 21,1).

I quattro esseri viventi. L'altro gruppo che circonda il trono è ripreso da descrizioni di Ezechiele e Isaia. L'autore, proponendo diversi particolari, non vuole farne una descrizione complessiva, ma elabora una sottile evocazione concettuale: il modello ispiratore di tali figure si trova nella visione di Ez 1,5-10; tuttavia Giovanni ha rielaborato liberamente le immagini, creando una descrizione simbolica complessa e discontinua. Il lettore, perciò, deve decodificare ogni simbolo prima di procedere con quello successivo. I sei tratti rappresentativi sono posti in modo concentrico, così che questi quattro esseri viventi risultino al centro dell'azione di Dio; essi riconoscono la sua trascendenza («santo») insieme al suo intervento storico («colui che viene»); sono totalmente segnati dallo Spirito di Dio, simboleggiato dagli occhi (cfr. 5,6), come già Ezechiele sottolineava il rapporto tra Spirito ed esseri viventi (cfr. Ez 1,20-21); hanno le forme tipiche del mondo umano (cfr. Ez 1,10), ma sono anche dotati di ali (cfr. Is 6,2) che caratterizzano invece il cielo, il mondo di Dio. Come per gli anziani, la loro identificazione non è facile. Le diverse opinioni si possono così riassumere:

a) esseri angelici: i cherubini di Ezechiele o i serafini di Isaia: b) i simboli degli evangelisti (secondo l'opinione di Ireneo); c) autentici simboli o schemi da riempire.

Seguiamo la terza proposta ipotizzando che questi personaggi rappresentino la creazione, il dinamismo cosmico, l'universo creato e conservato da Dio nella sua molteplice varietà. Sempre utilizzando un altro concetto moderno potremmo dire che essi sono simbolo della natura.

Liturgia di adorazione La prima scena termina senza azione; si conclude con un'anticipazione di ciò che verrà descritto alla fine della seconda tavola (cfr. 5,8-14). La costruzione grammaticale non è consueta; sembra che con i quattro verbi al futuro l'autore intenda non tanto descrivere quello che la corte celeste fa abitualmente, quanto preparare la grandiosa scena seguente. Tale sfumatura narrativa è importante perché vuole esprimere la tensione della creazione verso l'evento decisivo della redenzione. L'espediente letterario mira anche a creare tensione e attesa: la seconda parte del dittico, con al centro l'Agnello, sarà quella decisiva. Al v. 1 il canto, anticipando la formula di 5,9, esplicita il contenuto di tutta questa pagina: «Tu hai creato tutte le cose». L'opera del Dio Creatore tende, però, alla salvezza e desidera l'intervento del Dio Salvatore. Sarà il tema dei versetti seguenti.


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I MESSAGGI ALLE SETTE CHIESE 2/2

Alla Chiesa che è a Sardi 1All’angelo della Chiesa che è a Sardi scrivi: “Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle. Conosco le tue opere; ti si crede vivo, e sei morto. 2Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. 3Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora io verrò da te. 4Tuttavia a Sardi vi sono alcuni che non hanno macchiato le loro vesti; essi cammineranno con me in vesti bianche, perché ne sono degni. 5Il vincitore sarà vestito di bianche vesti; non cancellerò il suo nome dal libro della vita, ma lo riconoscerò davanti al Padre mio e davanti ai suoi angeli. 6Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.

Alla Chiesa che è a Filadèlfia 7All’angelo della Chiesa che è a Filadèlfia scrivi: “Così parla il Santo, il Veritiero, Colui che ha la chiave di Davide: quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre. 8Conosco le tue opere. Ecco, ho aperto davanti a te una porta che nessuno può chiudere. Per quanto tu abbia poca forza, hai però custodito la mia parola e non hai rinnegato il mio nome. 9Ebbene, ti faccio dono di alcuni della sinagoga di Satana, che dicono di essere Giudei, ma mentiscono, perché non lo sono: li farò venire perché si prostrino ai tuoi piedi e sappiano che io ti ho amato. 10Poiché hai custodito il mio invito alla perseveranza, anch’io ti custodirò nell’ora della tentazione che sta per venire sul mondo intero, per mettere alla prova gli abitanti della terra. 11Vengo presto. Tieni saldo quello che hai, perché nessuno ti tolga la corona. 12Il vincitore lo porrò come una colonna nel tempio del mio Dio e non ne uscirà mai più. Inciderò su di lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio, della nuova Gerusalemme che discende dal cielo, dal mio Dio, insieme al mio nome nuovo. 13Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.

Alla Chiesa che è a Laodicèa 14All’angelo della Chiesa che è a Laodicèa scrivi: “Così parla l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio. 15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! 16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. 17Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. 18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi e recuperare la vista. 19Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo. Sii dunque zelante e convèrtiti. 20Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. 21Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono, come anche io ho vinto e siedo con il Padre mio sul suo trono. 22Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”».

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Alla Chiesa che è a Sardi Il giudizio sulla Chiesa (vv. 1c e 4) è particolarmente severo poiché a un'apparenza di vita si contrappone una realtà di morte. Nella comunità è presente. tuttavia, un resto che non è ancora «morto» perché non si è contaminato con l'idolatria. L'esortazione (vv. 2-3) insiste sulla vigilanza, invitando la comunità a risvegliarsi dal torpore del conformismo idolatrico che la uccide e a prendere coscienza della vitale tradizione apostolica. La promessa al vincitore (v. 5) richiama l'immagine delle vesti (v. 4): coloro che non si sono abbandonati all'idolatria si rivelano strettamente uniti alla vita del Cristo risorto e il dono iniziale ricevuto è da conservare fino allo splendore finale nella gloria. Allo stesso modo la loro coerente adesione al Signore li conserva nel numero degli eletti e li farà riconoscere ufficialmente come tali nella manifestazione ultima. In questo messaggio si insiste sul termine «nome», che ricorre in 3.1 col senso di «fama» e ancora in 3,5 nella promessa di conservarlo nel «libro della vita»: questa immagine riprende un tema classico del giudaismo apocalittico (cfr. Ml 3,16; Dn 12,1), secondo cui esiste una specie di registro divino nel quale sono segnati i nomi degli eletti. Ritornerà più volte nel seguito dell'opera (13,8; 17,8; 20.12.15: 21,27). Il nome indica la persona in una dimensione di conoscenza: al «nome» – intende dire Giovanni – deve corrispondere una sostanza.

Alla Chiesa che è a Filadèlfia Il Cristo si presenta in modo nuovo rispetto alle formule dell'introduzione, utilizzando cioè titoli non ancora adoperati per ribadire il proprio ruolo messianico, potente e universale, che lo avvicina a Dio stesso. Il giudizio sulla Chiesa (vv. 8-10) è totalmente positivo. Punto di partenza è l'immensa possibilità che il Cristo le ha donato e l'irrilevanza sociale della comunità è tutt'altro che contraria a questa potenzialità: la sua forza sta, infatti, nel rapporto costante con la Parola e la persona del Cristo. Ciò che gli antichi profeti dicevano dei popoli pagani nei confronti di Gerusalemme (cfr. Is 45,14; 49,23; e soprattutto Is 60,14), ora viene applicato a sedicenti Giudei che «vengono e si prostrano» nella comunità cristiana. Tale cambiamento di prospettiva è molto significativo; la situazione della Chiesa è descritta con le caratteristiche della comunità di Israele nell'ottimistica fase della ricostruzione post-esilica e l'ingresso di alcuni Giudei nella comunità cristiana diventa segno escatologico di un progetto finalmente realizzato. L'esortazione (v. 11) è brevissima e corrisponde a un cordiale invito a perseverare nel bene. La promessa al vincitore (v. 12) rievoca l'immagine della costruzione di Gerusalemme e del tempio, ma il tutto è trasfigurato secondo la rilettura cristiana: Gesù Cristo è il tempio di Dio e il cristiano è strettamente unito a lui in una relazione definitiva con il Padre, in un rapporto personale assolutamente nuovo e donato. Va notata, infatti, la particolare insistenza sull'aggettivo «nuovo», che indica la novità qualitativa: è «nuova» Gerusalemme ed è «nuovo» il nome del Cristo. Tale novità viene scritta sul vincitore stesso che diventa una colonna nel nuovo tempio, ricevendo la possibilità di una nuova relazione con Dio.

Alla Chiesa che è a Laodicèa Il giudizio (vv. 15-17) sulla Chiesa è molto duro: in realtà è l'unico esclusivamente negativo. Il problema di Laodicèa è rappresentato dalla mediocrità, dall'incoerenza e dall'indecisione: un'orgogliosa ed erronea coscienza di sé non le permette di comprendere la sua reale miseria. L'esortazione (vv. 18-20) è, di conseguenza, molto articolata e incisiva. L'autosufficienza della Chiesa può essere superata solo con il riconoscimento della dipendenza da Cristo e con l'accoglienza dei suoi doni, simbolicamente espressi: l'autentica relazione con Dio («l'oro purificato»), la partecipazione al mistero della risurrezione («le vesti bianche»), l'intelligenza spirituale (l'unzione col «collirio»). Proprio perché le vuole bene, il Cristo si impegna a correggere la sua comunità e a educarla; da parte sua i fedeli devono accogliere questo intervento con entusiasmo e disponibilità. Se nella sesta lettera era comparsa la formula «vengo presto» (v. 11), ora viene aggiunta e sottolineata un'affermazione di presenza del Cristo, che con un tono di vivace provocazione tende all'incontro conviviale e alla comunione personale. L'evoluzione delle immagini anticotestamentarie sottese alle sette lettere e l'esplicito finale sulla comunione con il Cristo risorto fanno pensare a un riferimento alla condizione della comunità contemporanea dell'autore, orgogliosa e mediocre, chiusa all'autentica accoglienza del Messia e perciò destinata, in breve, a essere «vomitata dalla bocca» di Dio (v. 16). Partecipe di altre vicende della storia di Israele, la comunità cristiana è esposta al reale pericolo derivante dal tiepido rifiuto operato da una parte del giudaismo. La promessa al vincitore (v. 21)è di carattere cristologico ed espande l'immagine di comunione annunciando la partecipazione del cristiano alla vittoria stessa del Messia. Il discorso che il Cristo rivolge a Giovanni arriva al suo culmine con questa proclamazione di vittoria e di intronizzazione. Secondo l'uso della predicazione apostolica (Mc 16,19; Ef 1,20), è adoperata l'immagine di Sal 110,1 applicata al re Messia, risorto e asceso al trono. È importante notare l'annuncio della partecipazione del fedele alla stessa glorificazione del Cristo («come anch'io»), sullo stesso trono che è quello del Padre.

Termina qui il discorso diretto iniziato in 1,17. L'evocazione finale del trono e della intronizzazione di Cristo prepara in modo adeguato il passaggio alla seconda parte dell'opera, tutta centrata su quest'ultimo motivo.


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I MESSAGGI ALLE SETTE CHIESE ½

Alla Chiesa che è a Efeso 1All’angelo della Chiesa che è a Èfeso scrivi: “Così parla Colui che tiene le sette stelle nella sua destra e cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro. 2Conosco le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza, per cui non puoi sopportare i cattivi. Hai messo alla prova quelli che si dicono apostoli e non lo sono, e li hai trovati bugiardi. 3Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. 4Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore. 5Ricorda dunque da dove sei caduto, convèrtiti e compi le opere di prima. Se invece non ti convertirai, verrò da te e toglierò il tuo candelabro dal suo posto. 6Tuttavia hai questo di buono: tu detesti le opere dei nicolaìti, che anch’io detesto. 7Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò da mangiare dall’albero della vita, che sta nel paradiso di Dio”.

Alla Chiesa che è a Smirne 8All’angelo della Chiesa che è a Smirne scrivi: “Così parla il Primo e l’Ultimo, che era morto ed è tornato alla vita. 9Conosco la tua tribolazione, la tua povertà – eppure sei ricco – e la bestemmia da parte di quelli che si proclamano Giudei e non lo sono, ma sono sinagoga di Satana. 10Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere per mettervi alla prova, e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita. 11Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte”.

Alla Chiesa che è a Pèrgamo 12All’angelo della Chiesa che è a Pèrgamo scrivi: “Così parla Colui che ha la spada affilata a due tagli. 13So che abiti dove Satana ha il suo trono; tuttavia tu tieni saldo il mio nome e non hai rinnegato la mia fede neppure al tempo in cui Antìpa, il mio fedele testimone, fu messo a morte nella vostra città, dimora di Satana. 14Ma ho da rimproverarti alcune cose: presso di te hai seguaci della dottrina di Balaam, il quale insegnava a Balak a provocare la caduta dei figli d’Israele, spingendoli a mangiare carni immolate agli idoli e ad abbandonarsi alla prostituzione. 15Così pure, tu hai di quelli che seguono la dottrina dei nicolaìti. 16Convèrtiti dunque; altrimenti verrò presto da te e combatterò contro di loro con la spada della mia bocca. 17Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve”.

Alla Chiesa che è a Tiàtira 18All’angelo della Chiesa che è a Tiàtira scrivi: “Così parla il Figlio di Dio, Colui che ha gli occhi fiammeggianti come fuoco e i piedi simili a bronzo splendente. 19Conosco le tue opere, la carità, la fede, il servizio e la costanza e so che le tue ultime opere sono migliori delle prime. 20Ma ho da rimproverarti che lasci fare a Gezabele, la donna che si dichiara profetessa e seduce i miei servi, insegnando a darsi alla prostituzione e a mangiare carni immolate agli idoli. 21Io le ho dato tempo per convertirsi, ma lei non vuole convertirsi dalla sua prostituzione. 22Ebbene, io getterò lei in un letto di dolore e coloro che commettono adulterio con lei in una grande tribolazione, se non si convertiranno dalle opere che ha loro insegnato. 23Colpirò a morte i suoi figli e tutte le Chiese sapranno che io sono Colui che scruta gli affetti e i pensieri degli uomini, e darò a ciascuno di voi secondo le sue opere. 24A quegli altri poi di Tiàtira che non seguono questa dottrina e che non hanno conosciuto le profondità di Satana – come le chiamano –, a voi io dico: non vi imporrò un altro peso, 25ma quello che possedete tenetelo saldo fino a quando verrò. 26Al vincitore che custodisce sino alla fine le mie opere darò autorità sopra le nazioni: 27le governerà con scettro di ferro, come vasi di argilla si frantumeranno, 28con la stessa autorità che ho ricevuto dal Padre mio; e a lui darò la stella del mattino. 29Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese”.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

I MESSAGGI ALLE SETTE CHIESE Senza soluzione di continuità, il discorso del Cristo risorto prosegue con la dettatura delle sette lettere annunciate (1,4. 11.19). Una questione letteraria molto dibattuta e non risolta riguarda l'ordine di successione delle epistole, perché risulta difficile stabilire se davvero esista un'intenzionale e significativa articolazione di questi sette testi: l'unico elemento sicuro è la centralità del Cristo e la sua parola rivolta, a raggiera, a tutte le comunità. I sette messaggi si susseguono in modo incalzante e sono distinti dai nomi dei destinatari che coincidono con sette comunità cristiane che abitano in città della provincia romana d'Asia; la serie parte dalla capitale Efeso e segue, poi, le strade principali cosicché, all'arrivo della settima Chiesa si è completato un cerchio. Tuttavia, esse non sono autentiche missive, raccolte successivamente come in un'antologia; si tratta, invece, di testi nati come insieme unitario, strettamente connessi tra loro e in profondo rapporto con ciò che precede e ciò che segue. Con questi messaggi, dettati dal Cristo risorto – ispirati dal suo mistero e dalla sua presenza nella Chiesa – l'autore si rivolge alle comunità cristiane legate a lui per un fine pastorale e formativo; tali istruzioni riflettono, pertanto, la situazione storica e religiosa delle Chiese d'Asia verso la fine del I secolo d.C. Il problema fondamentale che emerge è la presenza dell'errore all'interno delle comunità cristiane: si accenna, talvolta, ai Nicolaiti e in genere a persone che insegnano e compiono il male. Si può pensare a una diffusa mentalità sincretista, che fonde e confonde tradizioni giudaiche, credenze cristiane e usanze pagane: vi si può riconoscere come determinante un modo di pensare per cui gli elementi materiali sono insignificanti e di conseguenza è considerato normale e giusto l'adattamento a tutti gli aspetti della vita pagana. Giovanni, invece, combatte decisamente a nome di Cristo tale impostazione ibrida; rimprovera le comunità tiepide e arrendevoli, elogia quelle fedeli e decise; le esorta tutte alla costanza e a una coraggiosa coerenza. L'insieme delle lettere esprime un'esperienza ecclesiale del Cristo risorto e del suo Spirito: riunita per la celebrazione liturgica, la Chiesa vive la presenza attiva del Signore, si lascia interpellare e trasformare dalle sue esigenze, ne ottiene una purificazione che conforta e migliora. I vari elementi simbolici e allusivi dell'Antico Testamento sembrano delineare una continuità tra l'antica storia della salvezza e l'esperienza presente della Chiesa. Le lettere, dunque, svolgono, nell'insieme dell'opera, la funzione di rito penitenziale in grado di rendere la comunità cristiana capace di ascoltare e comprendere il grande messaggio sulla storia.

Alla Chiesa che è a Efeso La frase di giudizio (vv. 2-4) comprende un aspetto positivo e uno negativo: con fatica e costanza la comunità ha smascherato alcuni falsi apostoli e ha conservato integra la dottrina; tuttavia, le viene rimproverata – secondo un formulario caro ai profeti – una perdita di slancio e di entusiasmo amoroso. L'esortazione (vv. 5-6) evoca una caduta e potrebbe alludere, nell'ottica apocalittica, alla prima tappa della storia umana: la perdita dell'amore originale e la colpa dell'umanità. I fedeli devono cambiare visione, se non vogliono mettere a rischio la loro stessa esistenza cristiana, e l'opposizione alla mentalità pratica dei Nicolaiti è un buon punto di partenza. Il ritornello dell'ascolto (v. 7a) sottolinea che, attraverso i messaggi del Cristo, è lo Spirito stesso a interpellare e muovere le varie comunità; nell'ottica della teologia giovannea si riconosce il suo ruolo come continuatore dell'opera di Cristo. Infine, la promessa al vincitore (v. 7b) riprende un'immagine affine a quella della caduta e prospetta il libero accesso all'albero della vita, interdetto all'uomo dopo il peccato (cfr. Gen 3,22-24): colui che accoglie la vittoria di Cristo sul peccato e collabora attualmente alla sua opera può entrare nell'amicizia piena con Dio, simboleggiata dal giardino divino (cfr. Ap 22,2).

Alla Chiesa che è a Smirne La situazione della Chiesa (vv. 9-10a) è di povertà e sofferenza, ma questo stato di indigenza materiale nasconde una preziosa ricchezza spirituale. Sembra che il gruppo cristiano si sia scontrato con la forte comunità giudaica e ne stia sopportando gravi conseguenze: Giovanni approva e incoraggia questa decisa opposizione ai falsi Giudei; d'altra parte, la persecuzione contro la Chiesa avrà una durata limitata. Se la tradizione giudaica ricordava con insistenza i tempi dell'oppressione egiziana, adesso è la Chiesa di Cristo che vive una nuova esperienza dell'esodo, essendo oppressa da alcuni esponenti del giudaismo, che hanno preso il posto dell'Egitto (cfr. 11,8).L'esortazione (v. 10b) applica ai cristiani in difficoltà il mistero profondo della redenzione operata dal Cristo: la vita è dono divino attraverso la morte, l'esodo decisivo della pasqua cristiana. La promessa al vincitore (v. 11) rafforza, per contrasto, l'immagine della corona di vita (cfr. 1Cor 9,25; Gc 1,12; 1Pt 5,4) con l'esclusione della «morte seconda», che verrà precisata nel finale dell'opera (cfr. Ap 20,14; 21,8).

Alla Chiesa che è a Pèrgamo Il Cristo si presenta (v. 12b) riprendendo il simbolo della spada (1,16b) per evocare un'immagine di forza e di combattimento. Il giudizio sulla Chiesa (vv. 13-15) riguarda proprio il rapporto con la città, sede di un potere ritenuto satanico: senza espliciti riferimenti si afferma una prepotenza della cultura pagana ostile alla comunità cristiana. In questo difficile contesto viene elogiata la costanza della comunità che mantiene una vitale accoglienza («fede») della persona («nome») del Cristo. Esempio luminoso di fedeltà è stato Antipa, di cui non si conosce altro; nel VI secolo Andrea di Cesarea riporta nel suo commentario la notizia che Antipa era vescovo di Pergamo e fu immolato su un rogo acceso su un altare di bronzo a forma di toro durante il regno di Domiziano. I pericoli, però, sono anche all'interno della comunità: come il popolo d'Israele ha commesso il grave peccato di sincretismo religioso, qualificato dai profeti come «prostituzione», così anche i cristiani, per una volontà di conformismo, corrono il rischio di perdere i propri valori fondamentali. L'esortazione (v. 16) è un accorato invito al cambiamento di mentalità: la parola di Dio, simile a una spada affilata, è lo strumento decisivo per il discernimento spirituale e morale. Infine, la promessa al vincitore (v. 17) fa riferimento a doni simbolici: la manna, segno del nutrimento messianico (senso nascosto nell'antico pane del cammino; cfr. Gv 6,31.49), e un sassolino, simbolo della nuova relazione personale e amorosa con il Cristo risorto, possibile solo per chi lo accoglie.

Alla Chiesa che è a Tiàtira Il Cristo si presenta, unica volta nell'Apocalisse, con il titolo «Figlio di Dio»; le caratteristiche simboliche (riprese da 1,14b-15a) evocano profonda capacità di discernimento e sicura stabilità. Il giudizio sulla comunità (vv. 19-23) elogia il progresso nelle virtù, ma denuncia il consueto problema dell'eresia interna. Come la regina Gezabele aveva contribuito a rendere l'epoca dei re esempio negativo di infedeltà, così la mentalità sincretista – sostenuta da una parte di cristiani che, illudendosi, si ritengono profeti – rischia di compromettere la fedeltà della Chiesa. Il discernimento non è facile: ma il Signore conosce in profondità le intenzioni e i pensieri di ciascuno; perciò minaccia duramente tali deviazioni, in quanto molto pericolose per la stessa vita cristiana. L'esortazione (vv. 24-25) è rivolta al gruppo di fedeli non contaminati dall'idolatria che rifiutano le pretese rivelazioni degli eretici, considerando le demoniache e non divine: a costoro è chiesto solo di perseverare in tale retto comportamento. A partire da questa lettera, il ritornello dello Spirito è spostato alla fine del discorso (v. 29) e, di conseguenza, viene anticipata la promessa al vincitore (vv. 26-28). Dopo aver evocato l'antica monarchia come segno negativo, viene ora ripresa una terminologia regale positiva. Il fedele, unito a Cristo nella lotta e nella passione, gli è strettamente associato anche nella dignità regale e nell'esercizio della sua autorità universale: partecipa della sua risurrezione (simboleggiata dalla stella mattutina) e condivide con lui il compito di «pascolare le nazioni».


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PROLOGO LITURGICO

Titolo descrittivo 1Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, 2il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto.

Beatitudine 3Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino.

Dialogo liturgico introduttivo 4Giovanni, alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, e dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, 5e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, 6che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen. 7Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto. Sì, Amen! 8Dice il Signore Dio: Io sono l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!

PRIMA PARTE: I MESSAGGI DEL CRISTO RISORTO

La visione fondativa del Cristo risorto 9Io, Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. 10Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: 11«Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese: a Èfeso, a Smirne, a Pèrgamo, a Tiàtira, a Sardi, a Filadèlfia e a Laodicèa». 12Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro 13e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro. 14I capelli del suo capo erano candidi, simili a lana candida come neve. I suoi occhi erano come fiamma di fuoco. 15I piedi avevano l’aspetto del bronzo splendente, purificato nel crogiuolo. La sua voce era simile al fragore di grandi acque. 16Teneva nella sua destra sette stelle e dalla bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio, e il suo volto era come il sole quando splende in tutta la sua forza. 17Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, 18e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. 19Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito. 20Il senso nascosto delle sette stelle, che hai visto nella mia destra, e dei sette candelabri d’oro è questo: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese, e i sette candelabri sono le sette Chiese.

Approfondimenti

(cf APOCALISSE – introduzione, traduzione e commento di CLAUDIO DOGLIO © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Titolo descrittivo L'intera composizione è intitolata «rivelazione»: essa riguarda la figura di Gesù il Messia ed è, allo stesso tempo, opera sua. Tale comunicazione è qualificata, inoltre, come concessa in dono da Dio cosicché i suoi fedeli possano comprendere il senso degli eventi storici. Tutta la rivelazione infatti ha il Cristo («parola di Dio») come autore e si compendia nella sua persona e nella sua opera messianica; l'Apocalisse, infatti, parla del suo intervento storico e del mistero della sua Pasqua che hanno rivelato il progetto di Dio, cambiando radicalmente la storia dell'uomo. Tale dono si è realizzato con un intenso processo di trasmissione che coinvolge tutte le persone partecipi della storia di salvezza: Dio (la fonte primaria), Gesù Cristo (soggetto e oggetto principale della rivelazione), il suo angelo (l'interprete delle figure simboliche), il suo servo Giovanni (testimone della parola divina garantita da Gesù), i suoi servi (l'intera comunità dei cristiani). Questa rivelazione, inoltre, è stata donata per mezzo di segni e simboli: fin dall'inizio l'autore precisa cosi il proprio linguaggio e invita gli ascoltatori a impegnarsi nell'interpretazione.

Beatitudine Tra il titolo e l'inizio epistolare è inserita la prima delle sette beatitudini che compaiono nell'opera (14,13; 16,15; 19,9: 20,6; 22,7.14): di carattere tipicamente liturgico, questa prima formula richiama il tema della «profezia» e celebra la felicità che nasce dalla proclamazione comunitaria e dalla perseverante custodia del suo messaggio. Proprio questo annuncio di Gesù Cristo costituisce il momento buono, l'occasione decisiva che è a portata di mano.

Dialogo liturgico introduttivo Il lettore dà inizio al dialogo proclamando la formula introduttiva di saluto. L'intera opera si presenta come un'epistola indirizzata alla comunità cristiana; il mittente è Giovanni e destinatarie sono «le sette comunità (della provincia) d'Asia». Il numero sette, simbolo di pienezza, e l'uso dell'articolo determinativo stanno a indicare la totalità delle Chiese, ovvero ogni comunità cristiana di qualunque tempo e in qualsiasi luogo: le concrete e storiche comunità elencate più avanti (1,11) sono solo il punto di partenza del grande simbolo ecclesiale.

«Gesù Cristo» viene presentato con tre titoli derivati da Sal 88,28.38 LXX (TM 89,28.38) che ne evidenziano il ruolo salvifico decisivo. Attraverso la meditazione di questo salmo, Giovanni ha riconosciuto nel Cristo risorto l'adempimento delle antiche promesse fatte a Davide, individuando tre formule capaci di condensare in poche espressioni molti filoni tematici e teologici.

  1. Il Risorto è considerato «testimone degno di fede», cioè il mediatore accreditato presso Dio della nuova ed eterna alleanza, costituito stabilmente nella sua risurrezione, punto di riferimento oggettivo per tutti coloro che credono in lui e fonte dei beni definitivi che Dio intende concedere.
  2. È degno di fede proprio perché figlio, «primogerito dei morti» (1Cor 15,20; cfr. Col 1,18), generato nella risurrezione come primo tra molti fratelli, primizia di vittoria per tutti coloro che aderiscono a lui.
  3. Inoltre, in quanto intronizzato alla destra di Dio, è «principe dei re della terra»: ha assunto il potere universale ed è colui che regge le sorti del cosmo, nonostante le prepotenze di molti sovrani terreni.

Rivolgendosi a una comunità in crisi, l'autore scrive proprio per aiutare le persone che condividono la sua fede cristiana a rimanere fondate in Gesù Cristo, alzando lo sguardo verso di lui che ora regna glorioso e detiene il potere. L'assemblea risponde con una dossologia in onore del Cristo.

Interviene di nuovo il lettore confermando il ruolo del Cristo con un solenne oracolo che fonde, secondo un tipico procedimento giudaico, due testi anticotestamentari molto importanti nella rilettura cristiana: la visione del «Figlio dell'uomo» in Dn 7 e la misteriosa figura del «trafitto» in Zc 12. Tale formula ha il compito profetico di attirare l'attenzione sul Cristo glorioso e sulla sua presenza nella comunità, nel mondo e nella storia; l'elemento simbolico della trascendenza («le nubi») si unisce all'immediatezza dell'evento («viene») e la comunità è invitata a «vedere», cioè ad accorgersi di questa venuta gloriosa del Signore. Non si tratta tanto di un proclama sugli ultimi tempi, ma di una riflessione sapienziale sul senso del Cristo crocifisso e di proclamazione della sua gloria in quanto Risorto. L'oracolo costituisce un annuncio di salvezza e di conversione universale a Dio, piuttosto che una minaccia di punizione alla fine dei tempi: anche coloro che hanno disprezzato ed eliminato Gesù, lo potranno riconoscere con l'amara constatazione di essersi gravemente sbagliati, ma con la speranza di essere salvati. La comunità che ascolta risponde, esprimendo il proprio assenso e il proprio desiderio con una tipica formula liturgica.

Al termine del dialogo, interviene Dio stesso per la mediazione di un profeta che parla in suo nome: introdotta da un solenne «Io sono», la formula propone una definizione di Dio stesso per mezzo di tre espressioni parallele. La seconda fa inclusione con la formula iniziale di 1,4; le altre due, invece, sono originali e presentano il Signore Dio come colui che determina l'inizio, lo sviluppo e la conclusione di ogni storia, avendo in suo potere l'universo intero.

La visione fondativa del Cristo risorto Concluso il dialogo liturgico introduttivo, inizia la narrazione in prosa. Giovanni, in prima persona, racconta alla comunità una forte esperienza che egli ha vissuto e che ha determinato la composizione del libro stesso. Questa prima visione ha, pertanto, il ruolo fondante per tutta l'opera; l'incontro di Giovanni con il Cristo risorto, infatti, è l'elemento decisivo che permette all'autore e alla sua comunità di comprendere in profondità il senso del mistero pasquale e della signoria universale che l'Agnello ha ottenuto. Lo schema letterario di questo brano trae origine dai racconti di vocazione dei profeti ed è stato rivestito dal linguaggio tipico della letteratura apocalittica. Qui, però, non viene raccontata la chiamata dell'autore, bensì l'incarico che gli è stato affidato: trasmettere per iscritto la sua esperienza eccezionale. Questo evento introduce direttamente i sette messaggi che seguono, ma anche l'intera opera. L'intento di questa prima pagina è, soprattutto, quello di offrire una «divina legittimazione» al contenuto del libro: l'autore vuole rimarcare con decisione il proprio ruolo di profeta portavoce, che parla e scrive in quanto ha ricevuto da Gesù Cristo stesso questo preciso compito. Nel raccontare la propria esperienza, Giovanni utilizza immagini ed espressioni tratte prevalentemente da testi anticotestamentari e crea con intenzione un nuovo mosaico, utilizzando insiemi di tasselli preesistenti, cosicché da un linguaggio comune risulta, tuttavia, un messaggio decisamente nuovo. L'analisi attenta del sostrato tradizionale consente, quindi, di evidenziare la grande novità.

Giovanni si presenta alle Chiese, sottolineando l'aspetto di fratellanza e la condivisione comunitaria che unisce l'apostolo e i suoi fedeli. Così viene messo in evidenza il valore della solidarietà: in quanto uniti a Gesù i credenti si trovano tutti sottoposti a una pressione esterna, ma condividono anche un'importante responsabilità regale e, soprattutto, hanno la capacità di sostenere la prova. Proprio questa introduzione fa pensare che il soggiorno di Giovanni a Patmos non sia volontario, ma obbligato da un'autorità contraria. È evidente il riferimento alla difficile situazione, esterna e interna, vissuta dalle comunità giovannee in Asia Minore alla fine del I secolo.

All'indicazione spaziale (nell'isola di Patmos) vengono aggiunte altre due indicazioni, una mistica («nello Spirito»), l'altra temporale («nel giorno del Signore»). La situazione a cui Giovanni allude può essere designata come una particolare esperienza spirituale, cioè un incontro del profeta con lo Spirito Santo simile a un'immersione. Tale comunione, inoltre, si inserisce «nel giorno del Signore». Il riferimento alla «domenica» (termine che diventerà comune presso i Padri Apostolici e Giustino) è molto importante nella storia della liturgia: questo primo accenno denota il superamento dell'osservanza giudaica del sabato da parte della comunità cristiana che, invece «vive secondo la domenica» (Ignazio d'Antiochia, Lettera a i cristiani di Magnesia 9) e si riunisce in assemblea ogni primo giorno della settimana, moltiplicando nel tempo la dimensione festiva della pasqua, per celebrare il Cristo risorto e proclamarlo «Signore» nell'attesa del compimento definitivo.

L'esperienza di Giovanni è presentata in due fasi ben distinte, che corrispondono a due situazioni profetiche diverse e sono caratterizzate da due modalità di relazione: udire di spalle e vedere di fronte. La prima esperienza è l'ascolto di una voce potente che ordina di mettere per iscritto l'esperienza del veggente («Quello che vedi») e di comunicarlo alle sette comunità, già menzionate in 1,4 e ora nominate dettagliatamente. Il paragone con il suono di tromba, l'esperienza di spalle e l'ordine di scrivere evoca al manifestazione di Dio al Sinai (cfr. Es 19,16; 33,23; 34.27).

Perché abbia luogo la seconda esperienza – la visione del Figlio dell'uomo – è necessario un cambiamento di posizione da parte del soggetto. Nel v.12 ricorre due volte il verbo «voltarsi», termine che indica un cambiamento di posizione e talvolta richiama una conversione, soprattutto un ritorno a Dio. Lo stesso verbo è adoperato da Paolo in 2Cor 3,16 per indicare il movimento spirituale che permette di togliere il velo steso sul cuore dei Giudei e così contemplare la pienezza della rivelazione. Analogo è il racconto della Maddalena al sepolcro (Gv 20,14.16). Nel contesto simbolico dell'Apocalisse il gesto del «voltarsi» assume quindi una sfumatura significativa, indicando un processo di maggiore comprensione da parte di Giovanni, il quale attraverso un cambiamento ora riesce a vedere. Così, all'origine stessa dell'opera, l'autore vuole presentare la propria maturazione spirituale, soprattutto a proposito dell'interpretazione scritturistica: il velo è stato rimosso dal suo cuore e tale rivelazione gli consente di comprendere in senso nuovo e pieno le Scritture.

Il primo oggetto della visione è un simbolo liturgico, ma l'unico candelabro del tempio si è trasformato in sette lucernieri, che – come verrà spiegato (1,20b) – corrispondono alle sette Chiese: il nuovo ambiente liturgico, dunque, è l'insieme delle comunità cristiane.

Al centro delle comunità appare li personaggio decisivo che, senza dubbio, fa riferimento alla figura misteriosa della visione di Dn 7,13-14, e che è identificato con Gesù Cristo dalla teologia cristiana. Mediante le immagini tratte da vari testi anticotestamentari, l'Apocalisse descrive, in questa visione iniziale che dà il tono e il senso dell'opera, il Risorto presente nella sua Chiesa. La scena, come molte altre, non è raffigurabile visivamente: Giovanni propone un modo di vedere il mondo e la storia mediante un simbolismo discontinuo, in cui ogni particolare deve essere compreso, decodificato e superato. Grazie a questo quadro, simile a un intarsio di citazioni, l'autore intende presentare colui che è il grande rivelatore: è vestito come un personaggio potente, ha sguardo penetrante, capace di amore e di giudizio, è connotato da particolare forza e stabilità, mentre la sua presenza ha la forza illuminante e vittoriosa del sole che sorge. Inoltre, con un importante passaggio degli attributi da Dio al Figlio dell'uomo, la teologia simbolica dell'autore sembra alludere a una significativa equivalenza tra i due. Chi sia il personaggio non è detto chiaramente: potrebbe essere un angelo, il Cristo oppure Dio stesso. L'incertezza provoca interesse e tensione.

La reazione di Giovanni e il gesto incoraggiante del personaggio glorioso sono descritti con un formulario convenzionale (cfr. Ez 1,28-2,2: Dn 8,18; 10,9-10). Dopo l'invito a non aver paura – classico nelle scene di apparizione – il personaggio misterioso finalmente si presenta.

Il «dunque» (1,19) crea un legame di causalità tra la descrizione del Cristo risorto al centro delle comunità cristiane e il comando di scrivere a loro: Giovanni deve comunicare il mistero decisivo della risurrezione di Gesù Cristo e trasmettere quello che egli ha sperimentato, la realtà in sé e tutte le implicazioni e le conseguenze che si riflettono sulla storia dell'uomo.

Il v. 20 è indipendente da ciò che precede e ha l'aspetto di una parentesi a scopo di delucidazione. Due precedenti simboli non erano chiari e l'autore provvede a chiarirne il senso: lucernieri e stelle rinviano alla totalità della Chiesa, realtà storica della salvezza operata da Dio, strettamente connessa con l'autorità del Cristo risorto.

Il riferimento agli angeli delle sette comunità non è affatto chiaro: non si comprende facilmente chi siano o che cosa rappresentino. Ognuna delle seguenti lettere sarà indirizzata proprio a un angelo della Chiesa; l'espressione è tipica dell'Apocalisse e, proprio perché oscura, ne sono state proposte diverse spiegazioni, riconducibili sostanzialmente a tre:

a)l'angelo della comunità rappresenta un individuoceleste, autentico angelo custode o protettore della Chiesa, secondo un comune modo di pensare giudaico; b) è un individuo terrestre, ovvero un capo della comunità, probabilmente il vescovo che presiede alla vita cristiana; c) evoca la collettività stessa (l'angelo “che è” la Chiesa), chiamata così per sottolineare l'aspetto trascendente della sua natura ed evocare la sua missione di annuncio («angelo» significa «messaggero») e di illuminazione («stella/lucerniere»).

Anche se le prime due interpretazioni presentano degli aspetti da valorizzare, è preferibile la terza spiegazione che vede secondo una complessa idea teologica ogni Chiesa in forma angelica, cioè con una controparte celeste, per cui alla luce stellare in cielo corrisponde un luceriere in terra.


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Indirizzo e saluto 1Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo, a coloro che sono prediletti, amati in Dio Padre e custoditi da Gesù Cristo, 2a voi siano date in abbondanza misericordia, pace e carità.

Intenzione dell'autore e occasione dello scritto 3Carissimi, avendo un gran desiderio di scrivervi riguardo alla nostra comune salvezza, sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai santi una volta per sempre. 4Si sono infiltrati infatti in mezzo a voi alcuni individui, per i quali già da tempo sta scritta questa condanna, perché empi, che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo.

Gli impostori: i loro peccati e la loro condanna 5A voi, che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere 6e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora. 7Così Sòdoma e Gomorra e le città vicine, che alla stessa maniera si abbandonarono all’immoralità e seguirono vizi contro natura, stanno subendo esemplarmente le pene di un fuoco eterno. 8Ugualmente anche costoro, indotti dai loro sogni, contaminano il proprio corpo, disprezzano il Signore e insultano gli angeli. 9Quando l’arcangelo Michele, in contrasto con il diavolo, discuteva per avere il corpo di Mosè, non osò accusarlo con parole offensive, ma disse: Ti condanni il Signore! 10Costoro invece, mentre insultano tutto ciò che ignorano, si corrompono poi in quelle cose che, come animali irragionevoli, conoscono per mezzo dei sensi. 11Guai a loro! Perché si sono messi sulla strada di Caino e, per guadagno, si sono lasciati andare alle seduzioni di Balaam e si sono perduti nella ribellione di Core. 12Essi sono la vergogna dei vostri banchetti, perché mangiano con voi senza ritegno, pensando solo a nutrire se stessi. Sono nuvole senza pioggia, portate via dai venti, o alberi di fine stagione senza frutto, morti due volte, sradicati; 13sono onde selvagge del mare, che schiumano la loro sporcizia; sono astri erranti, ai quali è riservata l’oscurità delle tenebre eterne. 14Profetò anche per loro Enoc, settimo dopo Adamo, dicendo: «Ecco, il Signore è venuto con migliaia e migliaia dei suoi angeli 15per sottoporre tutti a giudizio, e per dimostrare la colpa di tutti riguardo a tutte le opere malvagie che hanno commesso e a tutti gli insulti che, da empi peccatori, hanno lanciato contro di lui». 16Sono sobillatori pieni di acredine, che agiscono secondo le loro passioni; la loro bocca proferisce parole orgogliose e, per interesse, circondano le persone di adulazione.

Esortazione ai fedeli 17Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. 18Essi vi dicevano: «Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni». 19Tali sono quelli che provocano divisioni, gente che vive di istinti, ma non ha lo Spirito. 20Voi invece, carissimi, costruite voi stessi sopra la vostra santissima fede, pregate nello Spirito Santo, 21conservatevi nell’amore di Dio, attendendo la misericordia del Signore nostro Gesù Cristo per la vita eterna. 22Siate misericordiosi verso quelli che sono indecisi 23e salvateli strappandoli dal fuoco; di altri infine abbiate compassione con timore, stando lontani perfino dai vestiti, contaminati dal loro corpo.

Dossologia conclusiva 24A colui che può preservarvi da ogni caduta e farvi comparire davanti alla sua gloria senza difetti e colmi di gioia, 25all’unico Dio, nostro salvatore, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, gloria, maestà, forza e potenza prima di ogni tempo, ora e per sempre. Amen.

Approfondimenti

(cf LETTERA DI GIUDA – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Indirizzo e saluto Per quanto riguarda la presentazione dell'autore, i due titoli riportati «servo di Gesù Cristo» e «fratello di Giacomo» sono molto significativi. Chi scrive afferma anzitutto il proprio legame con Cristo, la propria fedeltà a Lui; di più: la propria completa sottomissione. Come gli altri «fratelli» di Gesù, Giuda non fece parte del collegio apostolico (cfr. At 1,14) né usò per sé il titolo di «apostolo» (cfr. anche Gc 1,1), ma la designazione «servo di Gesù Cristo», che anche Paolo attribuiva a se stesso (Rm 1,1; Fil 1,1) insieme a quella più ufficiale di «apostolo» (1Cor 1,1; 2Cor 1,1; Gal 1,1; Ef 1,1), esprime di fatto la dimensione interiore che ogni mandato ecclesiale, compreso quello apostolico, presuppone, ossia l'adesione perfetta al Cristo. Da tale legame diretto con il Signore scaturisce l'autorità che questi uomini avevano nella Chiesa del I secolo, sottolineata in Gd 1 dall'affermazione della vicinanza e consanguineità dell'autore con una delle figure di maggiore spicco nella comunità cristiana di Gerusalemme di quel tempo: Giacomo, il fratello del Signore (At 12,17; 15,13; 21,18; Gal 2,9).

L'indirizzo rende evidente la dimensione teologica della vita cristiana: i credenti sono anzitutto degli «eletti», ossia persone scelte gratuitamente e immeritatamente da parte di Dio; questa loro elezione si concretizza nell'essere «amati» da parte sua e nell'essere «custoditi» dal Cristo. Con il procedere della lettera si comprenderà l'importanza di questo richiamo alla radice divina della vocazione cristiana: l'autore sta cercando di richiamare i suoi destinatari all'enorme responsabilità individuale che ogni credente ha di fronte alla fede consegnatagli da Dio. La salvezza è un dono che Dio elargisce universalmente a tutti gli uomini; la risposta però è nelle mani di ciascuno: alcuni colgono tale opportunità, altri la sottovalutano, altri ancora la rifiutano (cfr. Gd 4). L'autore esorterà quindi i suoi fedeli ascoltatori a «lottare in difesa della fede» (Gd 3) e a gettare su di essa le «fondamenta» della loro vita (Gd 20), conservandosi in quell'«amore di Dio» (Gd 21) che, in quanto «eletti», è già in loro possesso.

Intenzione dell'autore e occasione dello scritto L'autore inizia a manifestare le proprie intenzioni in un modo insolito, riferendo cioè un suo precedente desiderio che viene poi corretto. Ciò rende consapevoli i destinatari del fatto che chi scrive aveva già deciso di inviare loro una lettera contenente esortazioni generiche sulla vita cristiana e considerazioni riguardanti la comune salvezza dei credenti in Cristo, ma si vide poi costretto a correggere il tiro della missiva a causa di un avvenimento improvviso e grave esposto nel v. 4: l'arrivo nelle comunità da lui seguite di «alcuni individui» (espressione volutamente sprezzante), «gente empia» che dal punto di vista morale rovinava i doni di grazia ricevuti da Dio sprecandoli con una condotta scostumata, e da quello dottrinale rinnegava la fede cristiana nell'«unico padrone e signore Gesù Cristo». È interessante osservare anzitutto la presenza del tema della vita credente come «lotta», che in un senso puramente laico era già noto alla produzione filosofica greca, soprattutto stoica, la quale parlava del combattimento che l'uomo nobile deve ingaggiare per raggiungere la virtù. Lo stesso tema fu assai sfruttato anche dall'antica letteratura cristiana, vuoi in senso puramente morale (Lc 13,24), vuoi secondo metafore militari (Gv 18,36; 1Ts 5,8; 2Tm 4,7) o sportive (1Cor 9,24-27; Fil 3,12-14). La particolarità della lettera di Giuda è quella di non utilizzare il verbo «lottare» in senso polemico: chi scrive non esorta i suoi fedeli a combattere “contro qualcuno”, bensì a combattere “per qualcosa”. E questo qualcosa è la fede, intesa qui come deposito: l'insieme delle verità rivelate una volta per tutte da Dio all'umanità in Cristo, tramandate fedelmente nella predicazione apostolica e conservate gelosamente dalla Chiesa.

Gli impostori: i loro peccati e la loro condanna L'autore compone una sorta di midrash rabbinico, cioè un commento attualizzante della Scrittura, che da un lato evidenzia la gravità e la pericolosità del comportamento di tali falsi maestri, nonché la somiglianza tra le loro azioni e quelle di alcuni personaggi della Scrittura già incorsi in terribili punizioni divine, dall'altro rivolge contro di essi pesanti parole profetiche di giudizio.

Il compito del ricordo è fondamentale per la trasmissione e la conservazione della fede della Chiesa. È infatti azione teologica che suscita la fede nel cuore dei cristiani, poiché permette loro di rileggere alla luce della Pasqua la missione terrena del Cristo (cfr. Lc 24,6; Gv 2,22; 12,16) e di ricordare e trasmettere quanto ricevuto da principio (cfr. 1Cor 11,2; 2Tm 2,8.14; 2Pt 3,2).

L'autore cita brevemente tre casi tratti dalla tradizione di Israele in cui altrettanti comportamenti empi furono prontamente ed esemplarmente puniti da Dio: gli increduli dell'Esodo, gli angeli ribelli, Sodoma e Gomorra. Il secondo episodio citato fa riferimento a Gen 6,1-4, che racconta come ancor prima del diluvio, agli albori della storia umana, degli angeli, «figli di Dio», si invaghirono di alcune donne, «figlie degli uomini», e si unirono a esse. Frutto di tale unione furono i giganti, «i famosi eroi dell'antichità» (Gen 6,4). Questo mito viene trattato diffusamente in alcuni testi giudaici apocrifi (il Libro di Enok, il Libro dei Giubilei, l'Apocalisse di Baruc siriaca) secondo i quali, in seguito a tale azione, gli angeli vennero banditi dalle loro precedenti sedi celesti e cacciati nelle profondità della terra, dove ardono le fiamme di un fuoco eterno. La causa di questa punizione risiede nel fatto che con la loro azione gli angeli si erano ribellati all'ordine celeste posto da Dio, avevano disprezzato la posizione di sovranità loro concessa dal Creatore e, infine, si erano abbandonati a un uso innaturale della sessualità. Questo mito, che ebbe grande risonanza nella letteratura giudaica poiché vi si attingeva per spiegare la nascita del maligno e dell'inferno, nel Nuovo Testamento è poco utilizzato: se ne trovano solo vaghi accenni (cfr. 1Pt 3,19-20; 2Pt 2,4; 1Cor 11,10). Questi tre esempi di peccato sono prontamente applicati ai falsi maestri nel v. 8, che punta il dito contro tre loro comportamenti empi. Va subito detto che non è possibile trovare una corrispondenza precisa fra i tre peccati degli impostori e i tre esempi della storia di Israele, nonostante l'autore introduca il versetto con la formula «allo stesso modo anche costoro...». Il parallelismo va cercato andando al di là dei singoli peccati e scoprendo che la loro radice comune risiede in un arrogante atteggiamento oppositivo dell'uomo nei confronti di Dio e dell'ordine naturale posto da Lui a custodia della creazione.

Il secondo brano del midrash, più breve del precedente, contrappone al comportamento arrogante e blasfemo dei falsi maestri (v. 1O) l'esempio positivo dell'arcangelo Michele (v. 9). Se neppure l'arcangelo Michele, che è la prima e più perfetta creatura di Dio (cfr. Dn 12,1), osò accusare con parole blasfeme Satana, che è il primo dei dannati, tanto meno questi individui boriosi dovrebbero permettersi di mancare di rispetto a creature angeliche ancora in possesso della propria autorità nelle sfere celesti! In questo passo sembra emergere anche una possibile motivazione di tale comportamento empio e blasfemo: la totale mancanza di consapevolezza della dignità assegnata da Dio a quelle creature, che però è imputabile non tanto a una naturale ignoranza, quanto a un colpevole rifiuto. Questi soggetti, privi di conoscenza intellettuale («non conoscono»), da un lato non comprendono le realtà spirituali e finiscono per disprezzarle con ignorante tracotanza; dall'altro si avviano alla propria rovina materiale e spirituale, rimanendo invischiati in insane passioni animalesche – in particolare quelle relative all'esercizio sregolato della sessualità, come suggerito dal contesto – che sono esperienze sensoriali («imparano per istinto») e quindi unico mezzo di conoscenza rimasto alla loro portata. Per inquadrare l'evento della tradizione giudaica cui accenna qui l'autore, vale a dire il contenzioso tra l'arcangelo Michele e Satana in merito al corpo di Mosè, l'unico appiglio biblico è la breve narrazione consegnata da Dt 34,6 a proposito della sepoltura del grande personaggio. La tradizione religiosa di Israele tramanda in proposito racconti leggendari che ebbero grande risonanza nel tardo giudaismo e nel primo cristianesimo. La versione più diffusa è proprio quella della lotta tra l'arcangelo Michele e Satana per il possesso del corpo di Mosè, a cui fa qui riferimento la lettera di Giuda. Secondo tale versione Satana, usando parole sprezzanti nei riguardi sia dell'angelo che di Mosè, avanzava delle pretese su quest'ultimo, sostenendo che gli appartenesse perché aveva commesso un omicidio in gioventù (cfr. Es 2,11-15). A quest'assurda richiesta l'angelo avrebbe risposto senza parole offensive, bensì affidando Satana al giudizio divino: «Ti condanni il Signore» (Gd 9; cfr. Zc 3,2).

Il terzo brano del midrash inizia con un vero e proprio oracolo di sventura nei confronti dei falsi maestri («Guai a loro! Perché...» [v. 11]) e il quarto riporta una profezia di giudizio di Enok (vv. 14-15). L'oracolo di sventura di Gd 11 è completo, poiché consta di una parola di maledizione rivolta direttamente ai falsi maestri («Guai a loro!») seguita da tre frasi causali che danno la motivazione del giudizio di condanna, paragonando l'operato di questi individui a quello di tre peccatori assai noti della storia d'Israele: Caino, Balaam e Kore. La seconda parte del brano, quella che applica direttamente agli avversari il giudizio di condanna implicito nei tre esempi anticotestamentari, è il momento letterariamente più alto dell'epistola, caratterizzato da una vigorosa carica immaginifica. L'autore prende spunto dalla natura per tracciare con tinte forti un ritratto dell'immoralità e della pericolosità dei falsi maestri capace di rimanere indelebilmente impresso nella mente dei suoi destinatari.

Essendo il midrash costruito secondo un climax ascendente, i vv. 14-16 rappresentano il culmine della sezione dedicata dall'autore ai falsi maestri, ai quali in effetti applica il terribile giudizio di condanna che la tradizione giudaica attribuisce a Enok, uno dei progenitori dell'umanità, settimo tra i discendenti di Adamo. Enok, figura molto venerata nell'antichità, viene descritto dal libro della Genesi come un uomo integro, che camminò con Dio ricevendone in cambio un premio eccezionale: essere risparmiato dalla morte e venire rapito vivo nei cieli (cfr. Gen 5,21-24). Questa testimonianza biblica favorì il sorgere di favolose leggende sulla sua persona e la diffusione di vari scritti a suo nome, il più importante dei quali è sicuramente il cosiddetto Primo libro di Enok. Come spesso accadde in ambiente cristiano, la profezia di Enok, originariamente riferita a una teofania escatologica di Dio Padre – che nella versione enochica funge, infatti, da soggetto della frase, identificato con gli appellativi «Santo e Grande... Dominatore del mondo» (1Enok 1,3) –,viene applicata alla parusia di Gesù Cristo con la semplice introduzione del soggetto «il Signore», riferito proprio al Figlio (cfr., p. es., testi come Is 63,1-6 in Ap 19,13.15; Is 66,15 in 2Ts 1,7-8; Zc 14,5 in 1Ts 3,13). Entrando nel merito della profezia, essa presenta come certo il ritorno definitivo del Signore Gesù, il quale, accompagnato da innumerevoli schiere di angeli, sottoporrà al giudizio divino tutti i viventi, dimostrando in modo inconfutabile la colpevolezza degli empi riguardo a tutte le azioni malvagie commesse e a tutte le parole blasfeme pronunciate contro Dio Altissimo. È interessante anche notare come chi scrive ritorni qui sui peccati che i suoi avversari hanno commesso con la parola: pretendendo di essere maestri, sarà inevitabile per loro venire giudicati pure per tutto quanto avranno fatto uscire dalla loro bocca! A questo punto l'autore, per non lasciare adito a dubbi, passa all'accusa diretta dei falsi maestri (v. 16). Egli li definisce anzitutto «lamentosi mormoratori», usando due termini che richiamano, in modo assai preciso, quello che può essere considerato il peccato originale degli Israeliti nel deserto: la mormorazione contro Dio, ossia il pensare di essere in grado di gestire la propria vita meglio di quanto stesse facendo il loro liberatore. Tale mormorazione contro Dio, per di più, non rimane un puro affronto verbale: indica una totale perdita di fiducia nei suoi confronti, che si concretizza in primo luogo in un categorico rifiuto della sua parola e dei suoi comandamenti, istantaneamente sostituiti da parole e desideri umani. In tal modo la superbia e la caparbietà dell'uomo finiscono per farlo cadere nella schiavitù dei propri istinti (cfr. Ger 18,12). Ecco fin dove si sono spinti tali impostori: tranciato ogni legame con Dio, proferiscono contro di Lui bestialità di ogni sorta, accusandolo di ogni loro insoddisfazione, mentre blandiscono con parole suadenti i potenti del mondo, di cui sono pronti a coprire ogni colpa e ad assecondare ogni turpe disegno pur di ricavarne potere, ricchezza e fama.

Esortazione ai fedeli A conclusione del corpo della lettera, l'autore pone due brani di carattere esortativo (vv. 17-19.20-23). L'autore, è preoccupato di mantenere una netta separazione tra i suoi discepoli amati e gli empi impostori. Dopo aver dedicato quattro brani a descrivere il carattere, le empietà e il severo giudizio divino che aspetta i falsi maestri, ora l'autore desidera indicare ai suoi destinatari una rotta sicura, che possa condurre la loro nave fuori dalle secche rese insidiose dagli infidi scogli degli avversari (v. 12). Il fatto che dalle fila dei primi cristiani fossero usciti dei ribelli e stessero nascendo dei movimenti ereticali non doveva scandalizzare i credenti e nemmeno farli dubitare sulla realtà della Chiesa. Gli stessi apostoli avevano infatti predetto che tra i credenti sarebbero sorti degli impostori che avrebbero messo alla prova i fratelli e, schiavi dei propri istinti carnali, avrebbero tentato di sedurre chi invece viveva nella luce dello Spirito.

Gli avversari dei cristiani vengono definiti anzitutto «dileggiatori», termine che indica l'atteggiamento supponente di chi si fa beffe delle realtà più sacre con superba arroganza (cfr. vv. 8.10). La seconda caratteristica negativa di tali individui è il loro agire in balìa dei più «empi istinti»; il significato di questo aggettivo è chiarito dall'aggiunta «non ha lo Spirito» (v. 19): questi individui vivono a un livello puramente animale, preoccupati di saziare i loro più bassi appetiti.

In tal modo l'autore vibra un colpo mortale alla pretesa degli avversari di essere carismatici e di avere un rapporto speciale e diretto con Dio: il loro agire empio è una prova inconfutabile dell'infondatezza di tale presunzione. Un'ultima parola è dedicata al risultato inevitabile di tale comportamento libertino, arrogante ed elitario: la divisione introdotta da tali individui in seno alla Chiesa. Realtà dolorosa, ancor prima che scandalosa, va accettata come prova, secondo le parole del Cristo stesso (cfr. Mt 10,34; Lc 12,51): l'unità dei cristiani tra loro e con Dio sarà la meta agognata di un cammino lungo e faticoso, che i credenti potranno sperimentare solo come dono amorevole del Padre (cfr. Gv 17,11.20-23).

Dopo aver rassicurato i destinatari sull'affidabilità della fede testimoniata dalla Chiesa (vv. 17-19), l'autore fa una serie di esortazioni che rappresenta il culmine del messaggio che egli intende trasmettere ai propri discepoli: sono diversi i fattori che suggeriscono di prendere questa quadruplice esortazione come un compendio della fede e della vita cristiane secondo l'autore della Lettera di Giuda.

Chi si è separato definitivamente dalla comunità cristiana, avendo deciso di seguire la predicazione e l'indegna condotta morale dei maestri dell'errore viene trattato con una durezza che evidenzia quanto gli apostoli prendessero sul serio la realtà del peccato e quanto timore avessero le guide delle comunità che persone empie riuscissero a contagiare con i propri errori i fratelli più deboli. Questo fa capire quanto delicata sia la questione del rapporto tra i credenti e i peccatori: bisogna evitare che gli errori di questi ultimi possano contagiare la comunità cristiana, eppure, come fratelli caduti nell'errore, essi vanno trattati con pietà cristiana e affidati alla misericordia di Dio tramite una preghiera di intercessione.

Dossologia conclusiva L'autore conclude la propria lettera con una solenne dossologia (vv. 24-25), che si direbbe forse più adatta a un'omelia o a un'azione liturgica. In realtà non era inusuale in ambiente cristiano terminare uno scritto con formule liturgiche di lode a Dio. L'indirizzo della dossologia, è amplificato notevolmente e gli viene assegnata una doppia funzione: quella, diretta, di esprimere una personale professione di fede nel Padre celeste, che viene lodato a partire da quattro suoi attributi; secondariamente quella, implicita, di esortare i destinatari dello scritto ad affidarsi a Lui, che solo li può salvare. A quest'unico Dio, che solo può difendere il cammino degli uomini dagli attacchi del Maligno, che solo li può rendere degni di presentarsi senza macchia al suo cospetto, che solo li salva grazie al sacrificio del suo unico Figlio Gesù Cristo, la Lettera di Giuda proclama solennemente che appartengono «gloria, maestà, forza e potenza dall'eternità, ora e per tutti i secoli». Anche in questo caso l'autore sfrutta al massimo le possibilità della dossologia, inserendo addirittura quattro termini di lode e amplificando in modo personalissimo anche il tempo, del quale specifica tutte e tre le dimensioni: passato, presente e futuro. Concludendo la formula dossologica con l'acclamazione finale «Amen», che nel caso di una lettura pubblica del messaggio sarebbe stata pronunciata in forma assembleare, l'autore invita i propri destinatari a unirsi a lui in questa proclamazione di lode e ad affidare personalmente la propria vita al Dio di Gesù Cristo, unico vero Salvatore dell'uomo.


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Indirizzo e saluto 1Io, il Presbìtero, al carissimo Gaio, che amo nella verità. 2Carissimo, mi auguro che in tutto tu stia bene e sia in buona salute, come sta bene la tua anima.

Testimonianze di vita cristiana 3Mi sono molto rallegrato, infatti, quando sono giunti alcuni fratelli e hanno testimoniato che tu, dal modo in cui cammini nella verità, sei veritiero. 4Non ho gioia più grande di questa: sapere che i miei figli camminano nella verità. 5Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché stranieri. 6Essi hanno dato testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa; tu farai bene a provvedere loro il necessario per il viaggio in modo degno di Dio. 7Per il suo nome, infatti, essi sono partiti senza accettare nulla dai pagani. 8Noi perciò dobbiamo accogliere tali persone per diventare collaboratori della verità. 9Ho scritto qualche parola alla Chiesa, ma Diòtrefe, che ambisce il primo posto tra loro, non ci vuole accogliere. 10Per questo, se verrò, gli rinfaccerò le cose che va facendo, sparlando di noi con discorsi maligni. Non contento di questo, non riceve i fratelli e impedisce di farlo a quelli che lo vorrebbero e li scaccia dalla Chiesa. 11Carissimo, non imitare il male, ma il bene. Chi fa il bene è da Dio; chi fa il male non ha veduto Dio. 12A Demetrio tutti danno testimonianza, anche la stessa verità; anche noi gli diamo testimonianza e tu sai che la nostra testimonianza è veritiera.

Conclusione e saluti finali 13Molte cose avrei da scriverti, ma non voglio farlo con inchiostro e penna. 14Spero però di vederti presto e parleremo a viva voce. 15La pace sia con te. Gli amici ti salutano. Saluta gli amici a uno a uno.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Indirizzo e saluto Quest'apertura appare molto simile a quella incontrata in 2Giovanni, anche se eccezionalmente stringata: l'autore si limita infatti a indicare la propria persona con il titolo di «presbitero» e il destinatario con il nome proprio «Gaio». La concisione è comunque uno dei tratti caratteristici di questo scritto, che risulta il più breve di tutto il Nuovo Testamento! L'«amore nella verità» dell'autore per il destinatario, non è da intendersi come una semplice dichiarazione di autentico affetto, quanto piuttosto come un riferimento alla profonda comunione esistente tra coloro che credono nel Cristo, resi da questa fede fratelli perché figli dell'unico Padre celeste. La 3Giovanni ha tutte le caratteristiche di una missiva privata del presbitero a Gaio e assomiglia, in questo, al biglietto di Paolo a Filemone, che, rispetto ai più ufficiali scritti a Timoteo e a Tito, conserva un carattere spiccatamente personale. Ma 1 Gv presenta anche forti tratti teologici giovannei, oltre ad aprirci insoliti scorci sulla vita e sulle problematiche delle prime Chiese cristiane, soprattutto in merito al rapporto talora conflittuale tra le guide delle singole comunità e l'autorità apostolica.

Testimonianze di vita cristiana Il corpo della Terza lettera di Giovanni può essere diviso in tre paragrafi: vv. 3-8; vv. 9-10; vv. 11-12. Quello centrale è ben delimitato dall'inclusione ottenuta grazie alla ripetizione del termine «Chiesa» e del verbo «accogliere»: sono i vv. 9-10, che si differenziano dal resto anche per il contenuto, in quanto dedicati a Diotrefe e alla sua riprovevole condotta, ostile nei confronti del presbitero.

Come già in 2 Giovanni, l'autore si serve di una frase di rallegramento per passare dal prescritto al corpo della lettera. In questo caso il motivo della gioia del presbitero risiede nell'aver ascoltato la testimonianza di alcuni cristiani in favore della buona condotta di Gaio: questo è il significato che deve essere dato all'espressione «camminare nella verità». «Camminare nella verità» equivale dunque a camminare «come camminò Lui» (1Gv 2,6).

I vv. 5-8, introdotti dall'allocuzione «carissimo», esplicitano finalmente l'argomento della lettera e il contenuto concreto del «camminare nella verità» di Gaio: si tratta di una questione di ospitalità. Egli ha dimostrato la propria lealtà a Dio, alla Chiesa e al presbitero stesso offrendo ospitalità ai fratelli di altre comunità giovannee («stranieri», v. 5), inviati in missione tra i pagani «per amore del Nome» di Gesù (v. 7). L'autore vuole chiaramente rinforzare Gaio nella decisione di ospitare gli inviati della propria Chiesa ora che a essi è precluso il soggiorno nella Chiesa di Diotrefe (3Gv 10), l'aiuto di Gaio si rivela quanto mai prezioso e vitale. Mettendo insieme i dati fomiti dall'epistolario giovanneo nel suo complesso, è possibile concludere che la richiesta fatta a Gaio è quella di collaborare alla diffusione del Vangelo secondo la vera tradizione del Discepolo amato: in un momento in cui c'è estremo bisogno di combattere le false dottrine dei secessionisti (1Gv 2,18-19.22; 3,7; 4,1; 2Gv 7), il presbitero si serve di collaboratori che devono essere sostenuti dai suoi figli fedeli. Per questo l'aiuto di Gaio non investe solamente il campo della carità cristiana (3Gv 6), ma anche quello della verità (3Gv 8): ospitare i missionari inviati dal presbitero equivale a contribuire alla diffusione della vera dottrina cristiana ricevuta «da principio» (1Gv 1,1; 2,7.24; 3,11; 2Gv 5-6).

Con i vv. 9-10 si entra nella sezione polemica dello scritto. Qui l'autore, abbandonati i toni cordiali usati per complimentarsi con Gaio nel paragrafo precedente, affronta in modo diretto e senza mezzi termini una questione spinosa, che lo vede amareggiato e in forte disappunto: il comportamento ostile di Diotrefe. La brevità dello scritto non fornisce notizie sufficienti per ricostruire in modo dettagliato né l'oggetto del diverbio tra il presbitero e Diotrefe, né il ruolo preciso ricoperto dai due uomini all'interno della nascente Chiesa. Il fatto che 3Giovanni non accenni alle controversie dottrinali tanto centrali in 1 e 2Giovanni suggerisce però che Diotrefe non appartenga direttamente al gruppo dei secessionisti – gli «anticristi», «bugiardi», «ingannatori» e «falsi profeti» di 1Gv 2,4.18.22.26; 3,7; 4,1.3; 2Gv 7 – che stavano minando alla base l'integrità della predicazione giovannea. Sembra che la tensione tra queste due figure non dipenda tanto da posizioni teologiche differenti, quanto piuttosto da una questione di autorità. Nei fatti, però, il comportamento di Diotrefe ostacola l'opera di diffusione della vera dottrina cristiana messa in atto dal presbitero, con la conseguenza di lasciare libero il campo all'azione degli anticristi. La questione è seria, perché, da ciò che si legge in 3Giovanni, sembra di intendere che Diotrefe non solo «aspira a primeggiare», ma effettivamente esercita autorità nella propria Chiesa, al punto da ignorare le parole del presbitero e da allontanare dalla comunione ecclesiale chi non segue le proprie direttive. Nelle comunità giovannee l'autorità veniva concepita in modo molto arcaico come derivante dal contatto diretto con il «principio» e appartenente, non a caso, ad «anziani». Nella Terza lettera di Giovanni sembra dunque affiorare un conflitto tra il presbitero, il quale incarna l'autorità spirituale e carismatica della scuola del Discepolo amato, e Diotrefe, ricco e influente cristiano di una comunità giovannea, che si oppone a quest'antica concezione autoritativa, aspirando a un incarico ministeriale di guida nella Chiesa, simile, forse, a quello delle altre comunità apostoliche e paoline.

Al v. 11 l'autore torna a rivolgersi direttamente a Gaio con una semplice quanto incisiva esortazione: «non imitare il male, ma il bene». Tutto si divide in luce e tenebre, verità e menzogna, bene e male. Non si dà una terza via: Il credente è quindi chiamato a scegliere costantemente per il bene, per la verità, per la luce. In una parola: per Dio. Il presbitero vuole mettere in guardia Gaio dall'imitare la condotta riprovevole di Diotrefe. Il tema dell'ospitalità permette di comprendere anche il v. 12, dedicato a un tale Demetrio, che altrimenti rimarrebbe un po' slegato dal contesto: l'insistenza sulla buona testimonianza portata da tutti nei confronti di questo cristiano, testimonianza confermata dalla verità stessa, nonché dalla parola del presbitero (si raggiunge in questo modo il numero di tre testimoni, richiesto dalla Legge per la validità di un processo: cfr. Dt 19,15), sembra finalizzata a convincere Gaio ad accogliere in casa propria Demetrio, sfidando le restrizioni imposte da Diotrefe alla sua comunità e mostrando la propria fedeltà al presbitero e alle guide della Chiesa giovannea.

Conclusione e saluti finali Il paragrafo finale di 3 Giovanni rappresenta la perfetta conclusione di una lettera personale della classicità: la chiusura del corpo avviene tramite l'affermazione un po' stereotipata dell'esistenza di molte altre cose che avrebbero potuto trovare posto in quella comunicazione scritta, che invece deve interrompersi per ragioni di spazio – la lettera occupa un foglio di papiro. L'autore aggiunge poi il desiderio di incontrare personalmente Gaio con un'espressione che lascia intuire quanto egli sembri maggiormente incline a compiere questo viaggio piuttosto che quello nella comunità di Diotrefe, ipotizzato solo come eventuale nel v. 1O. La lettera si conclude infine con un augurio di pace che riecheggia il saluto del Risorto ai suoi discepoli (Gv 20,19.21.26). Il cristiano deve mettere in conto la fatica nel proprio cammino e deve essere disposto ad assumere posizioni impopolari pur di rimanere fedele al comandamento dell'amore affidatogli da Gesù: è la via della croce, che sola porta verso la vera vita e la vera pace. È l'amore che conduce Gesù al dono della propria vita sul Golgota; deve essere l'amore a guidare i discepoli verso scelte di vita eroiche. Nel caso di Gaio, questo amore prende la forma concreta della scelta per l'ospitalità. E il guadagno (cfr. 2Gv 8) sarà appunto la pace che viene dal Cristo.

Come Gesù, dopo aver affidato ai suoi discepoli il nuovo comando dell'amore, li insignisce dell'affettuoso titolo di «amici» – «Non vi chiamo più servi... Vi ho chiamati amici» (Gv 15,15) – , così il presbitero perpetua nella Chiesa la tradizione di rivolgersi ai fratelli nella fede con lo stesso appellativo, che eleva l'umanissimo sentimento dell'amicizia al livello del divino legame che spinse il Signore a portare a compimento la sua missione di amore nell'estremo dono di sé per «i suoi che erano nel mondo» (Gv 13,1).


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Indirizzo e saluto 1Io, il Presbìtero, alla Signora eletta da Dio e ai suoi figli, che amo nella verità, e non io soltanto, ma tutti quelli che hanno conosciuto la verità, 2a causa della verità che rimane in noi e sarà con noi in eterno: 3grazia, misericordia e pace saranno con noi da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell’amore.

Camminare nella verità dell'amore 4Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. 5E ora prego te, o Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. 6Questo è l’amore: camminare secondo i suoi comandamenti. Il comandamento che avete appreso da principio è questo: camminate nell’amore.

Dimorare nell'insegnamento di Cristo 7Sono apparsi infatti nel mondo molti seduttori, che non riconoscono Gesù venuto nella carne. Ecco il seduttore e l’anticristo! 8Fate attenzione a voi stessi per non rovinare quello che abbiamo costruito e per ricevere una ricompensa piena. 9Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. 10Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, 11perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie.

Conclusione e saluti finali 12Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo con carta e inchiostro; spero tuttavia di venire da voi e di poter parlare a viva voce, perché la nostra gioia sia piena. 13Ti salutano i figli della tua sorella, l’eletta.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

Indirizzo e saluto All'inizio di questo scritto si trovano termini e motivi caratteristici della produzione giovannea: l'amore, la verità, la conoscenza, la grazia, il dimorare, nonché i chiari riferimenti a Dio come Padre e a Gesù Cristo come Figlio del Padre. Non deve nemmeno sfuggire l'abile arte dell'autore, che incornicia questa formula d'apertura con una ripetizione chiastica di due concetti fondamentali per il successivo sviluppo della lettera, l'amore e la verità: «amo nella verità» (v. 1), «nella verità e nell'amore» (v. 3). Per quanto concerne il mittente, la Seconda e la Terza lettera di Giovanni riportano solo un titolo «il presbitero», senza alcun nome, mantenendo così attorno alla figura dello scrivente i l medesimo alone di mistero creato nel vangelo mediante l'uso della locuzione «il discepolo amato» (cfr. Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,20). Il mittente delle tre lettere di Giovanni era una delle voci di spicco della comunità giovannea, una delle guide che si ponevano come garanti della custodia e della trasmissione del dato fondante conservato nella predicazione del Discepolo amato. Egli entra a pieno titolo nel gruppo del «noi» che troviamo alla base della scrittura delle opere giovannee (Gv 21,24; 1Gv 1,1-4; 5,18-20). Spostando l'attenzione sul destinatario della lettera, dobbiamo ugualmente arrenderci all'impossibilità di giungere a un'identificazione certa, poiché nel testo non viene specificata la località geografica in cui si trova la comunità alla quale è rivolto il messaggio, c'è solo un allusione a una chiesa particolare che dobbiamo ipotizzare distinta da quella a cui era indirizzata 1Giovanni, comunità in cui invece il presbitero svolgeva il proprio ministero (cfr. 2Gv 13). Quanto alla formula usata per il saluto si può notare come alla più tradizionale coppia di termini «grazia» e «pace» l'autore aggiunga il sostantivo «misericordia»: l'autore non sta augurando ai suoi lettori di sperimentare grazia, misericordia e pace; li sta piuttosto confermando nella certezza che tali doni riempiranno la loro vita. I cristiani possono godere i doni di Dio solo finché rimangono nella vera fede e nel vero amore cristiani. Chi scrive sta affermando che quanti dimorano in Cristo godranno di quella grazia, di quella misericordia e di quella pace che caratterizzano il tempo messianico della salvezza, già descritto dal salmista come occasione unica di incontro tra «misericordia e verità» (Sal 84,11).

*Camminare nella verità dell'amore Il corpo della lettera è chiaramente diviso in due brani (vv. 4-6; 7-11), dedicati rispet- tivamente ai temi dell'amore e della fede. Il sintagma «camminare nella verità», che si incontra anche in 3Gv 3, è di sapore semitico (cfr. Sal 86,11) e comunque molto caratteristico, poiché obbliga il lettore contemporaneo a staccarsi dalla concezione formale di verità, comune nel pensiero occidentale, per entrare in quella semitica, che considera la verità una realtà viva, che invade la sfera dell'agire concreto: un qualcosa da «fare» (Gv 3,21; 1Gv 1,6), insomma, e non semplicemente da «dire», tanto più che nell'opera giovannea, come già evidenziato, la verità ultima alla quale ogni cristiano si deve conformare è il Cristo stesso (Gv 14,6). Un'ulteriore specificazione: in che senso «camminare nella verità» è il comandamento affidato dal Padre ai cristiani? Nel senso evidenziato da 1Gv 3,23: ciò che Dio chiede agli uomini è di credere in Gesù Cristo e di amarsi come Egli li ha amati; camminare nella verità significa quindi seguire la retta fede che porta a vivere il vero amore. Le guide delle comunità giovannee si trovarono a dover difendere l'autenticità dell'insegnamento tradizionale – risalente in prima battuta al Cristo e riportato poi fedelmente dal Discepolo amato – dagli attacchi delle nuove dottrine senza fondamento diffuse dai falsi maestri, i quali, allontanatisi dalla parola ricevuta «da principio» (1Gv 2,24), sostenevano di non avere peccato (1Gv 1,8), si rifiutavano di confessare che Gesù è il Cristo (1Gv 2,22; 4,3), non credevano nella realtà dell'incarnazione (1Gv 4,2-3) né alle parole di Dio Padre (1Gv 5,10). Questi errori dottrinali avevano conseguenze disastrose in ambito morale, poiché questi secessionisti – «anticristi» (1Gv 2,18; cfr. 4,3; 2Gv 7) e «falsi profeti» (1Gv 4,1) – erano accusati dalle guide della comunità giovannea di camminare «nella tenebra» (1Gv 1,6; 2,11), di ignorare i comandamenti (1Gv 2,4), di peccare (1Gv 3,6.8), di non vivere la dimensione dell'amore vicendevole (1Gv 4,8), anzi, di essere ingiusti (1Gv 3,10) e ciechi nei confronti dei fratelli (1Gv 3,17), nonché di odiarli (1Gv 2,9; 3,14-15; 4,20). È quindi significativo trovare anche in 2Giovanni un legame forte tra il richiamo all'insegnamento ricevuto originariamente da Gesù (e dal Discepolo amato) e l'imperativo dell'amore vicendevole. In questo brano l'autore vuole dunque riaffermare con forza che per un cristiano è assolutamente necessario eliminare dalla propria vita qualsiasi contraddizione tra ciò che professa e ciò che opera. L'amore di Gesù che dona la vita per salvare i propri amici è la verità fondamentale del cristianesimo, la sorgente di ogni scelta di vita profondamente cristiana e lo specchio in cui esaminare la coerenza del proprio agire. Un cristiano non può amare solo a parole: lo deve fare con la vita (cfr. 1Gv 3, 18). E questo è possibile solo se dimora nella verità, ossia in Cristo.

Dimorare nell'insegnamento di Cristo Se il brano precedente partiva dalla constatazione positiva della buona condotta di alcuni cristiani della comunità a cui è rivolta la lettera, il presente prende l'avvio da una constatazione negativa: la presenza nel mondo di molti ingannatori che non professano la fede nell'incarnazione del Cristo. Il termine «ingannatori» richiama il vocabolario usato dalla 1Giovanni per indicare l'opera dei secessionisti, usciti dalle fila della comunità giovannea e ormai avversari della tradizione apostolica del Discepolo amato (cfr. 1Gv 2,19.26; 3,7; 4,6). Siccome il loro inganno riguarda la persona stessa di Gesù Cristo, del quale negano la realtà dell'incarnazione, essi vengono associati alla più ampia azione mistificatrice dell'anticristo. L'esortazione prende così la forma di una messa in guardia dal pericolo di farsi traviare da tali falsi maestri, eventualità che porterebbe i cristiani a vanificare il frutto del lavoro apostolico del presbitero e delle guide delle comunità giovannee, che li avevano condotti alla fede e alla salvezza (v. 8). Nella chiusura del corpo della lettera l'autore passa a usare un linguaggio netto e duro: preoccupato per la fede dei fratelli più deboli, egli vieta ai cristiani di accogliere nelle loro case quanti dovessero presentarsi con dottrine nuove e fallaci. Questi ingannatori e anticristi devono essere tenuti a distanza, per evitare che facciano cadere nell'errore altri fratelli. Dal confronto tra questa lettera e l Giovanni si può dedurre che il presbitero, dopo aver visto i falsi maestri all'opera nella principale comunità giovannea (quella in cui egli stesso risiede), voglia preparare i fedeli di una comunità più giovane all'imminente arrivo di tali predicatori avversari, che potrebbero gettare anche quella Chiesa locale nello scompiglio. Da qui la necessità di non accoglierli in casa e di non rivolgere loro il saluto cristiano, il quale, spesso accompagnato dal «bacio santo» (1Cor 16,20; 2Cor 13,12; 1Ts 5,26), era un'antica forma di benedizione (cfr. Fil 4,21-23; Tt 3,15; Eb 13,24-25) che voleva significare vera fratellanza e profonda comunione. E qualsiasi forma di comunanza tra i cristiani e gli operatori di iniquità o di malvagità è fuori discussione!

Conclusione e saluti finali Dopo aver terminato le raccomandazioni più urgenti – mettere in pratica il comandamento dell'amore vicendevole (v. 5), non lasciarsi traviare dalle idee progressiste dei secessionisti (vv. 7-8) e non accoglierli per nessuna ragione nelle proprie case (vv. 10-11) –,il presbitero si accinge a concludere la sua lettera con una formula piuttosto tradizionale, che, nella candida ammissione dell'inadeguatezza o, quanto meno, dell'insufficienza del mezzo cartaceo per trasmettere la sovrabbondante grazia comunicata da Gesù ai suoi, ricorda sia la prima, sia la seconda conclusione del quarto vangelo: «Gesù in presenza dei discepoli fece ancora molti altri segni, che non sono stati scritti in questo libro» (Gv 20,30); «Ci sono anche molte altre cose che Gesù fece: se si scrivessero a una a una, penso che non basterebbe il mondo intero a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25). Con il saluto finale, che non è personale da parte dello scrivente ma collettivo, proveniente dalla comunità cristiana nella quale il presbitero risiede e opera, l'autore incornicia tutta la lettera in una bella inclusione, attribuendo alla propria Chiesa il medesimo appellativo, «eletta», riservato in apertura alla «signora» cui è destinato lo scritto: «all'eletta signora e ai suoi figli» (v. 1); «i figli della tua sorella, l'eletta» (v. 13). Le due Chiese sono tra l'altro definite sorelle, elemento che ribadisce il profondo legame esistente tra le diverse comunità giovannee: alla più comune definizione dei cristiani come fratelli dobbiamo quindi aggiungere questa, che ci insegna a considerare le varie comunità locali come sorelle e a valorizzare l'aspetto della comunionalità nella nostra ecclesiologia.


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segue: LA VERA FEDE E IL VERO AMORE La fede e l'amore dei figli di Dio vincono il mondo 1Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato. 2In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. 3In questo infatti consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi. 4Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.

LA VERA TESTIMONIANZA 5E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? 6Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. 7Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: 8lo Spirito, l’acqua e il sangue, e questi tre sono concordi. 9Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. 10Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé. Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo, perché non crede alla testimonianza che Dio ha dato riguardo al proprio Figlio. 11E la testimonianza è questa: Dio ci ha donato la vita eterna e questa vita è nel suo Figlio. 12Chi ha il Figlio, ha la vita; chi non ha il Figlio di Dio, non ha la vita. 13Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio. 14E questa è la fiducia che abbiamo in lui: qualunque cosa gli chiediamo secondo la sua volontà, egli ci ascolta. 15E se sappiamo che ci ascolta in tutto quello che gli chiediamo, sappiamo di avere già da lui quanto abbiamo chiesto. 16Se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà la vita: a coloro, cioè, il cui peccato non conduce alla morte. C’è infatti un peccato che conduce alla morte; non dico di pregare riguardo a questo peccato. 17Ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte.

Epilogo: il vero Dio 18Sappiamo che chiunque è stato generato da Dio non pecca: chi è stato generato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca. 19Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo sta in potere del Maligno. 20Sappiamo anche che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio. E noi siamo nel vero Dio, nel Figlio suo Gesù Cristo: egli è il vero Dio e la vita eterna. 21Figlioli, guardatevi dai falsi dèi!

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

La fede e l'amore dei figli di Dio vincono il mondo Questo brano, dalla costruzione complessa, fonde insieme i due temi della fede e dell'amore, ricapitolando alcuni motivi sopra trattati: la fede in Gesù come segno dell'essere generati da Dio (5,1; 4,2), l'inscindibilità dell'amore per Dio e per i fratelli (5,1-2; 4,20-21), la necessità di osservare i comandamenti (5,2-3; 3,24) e la vittoria dei figli di Dio sul mondo (5,4; 4,4). L'unità del brano è sottolineata dall'inclusione formata da «chiunque crede» (v. 1) e «la fede» (v. 4), nonché dalla ripetizione di termini significativi: «generare», «amare» e «amore», «vincere» e «vittoria», «comandamenti». Nel v. 1 l'autore affianca il motivo della fede a quello dell'amore: se è vero che chi crede in Cristo è stato generato da Dio (4,2; 5,1), allora questi («chi è stato... generato») ha il diritto di venire amato da tutti coloro che amano Dio («il generante»). In questo modo vengono fusi insieme sia fede e amore, sia amore per Dio e amore per i fratelli. Il v. 2 approfondisce il tema dell'amore appena enunciato e propone una verifica dell'amore fraterno. Inaspettatamente l'autore ribalta qui le affermazioni di 4,20, che suggerivano di considerare l'amore per i fratelli come prova concreta del più aleatorio amore per Dio, e individua nell'amore per Dio la prova della verità dell'amore per i fratelli. Come è possibile? Le due affermazioni non si contraddicono a vicenda? Non formano un imbarazzante circolo vizioso? In realtà, no! Infatti, come prova dell'amore per il fratello, l'autore affianca all'amore per Dio anche l'osservanza dei comandamenti (v. 2) e, nella frase seguente, usa la stessa osservanza dei comandamenti come definizione dell'amore di Dio (v. 3): se l'amore per il Dio invisibile non è misurabile, tanto da richiedere la conferma dell'amore per i fratelli (4,20), l'osservanza dei suoi comandi è invece misurabilissima e diventa la forma concreta dell'amore per Dio, che può dare a un cristiano la conferma definitiva che l'amore per i fratelli preso in esame sia vero e in linea con il disegno divino. Il brano si chiude infine con una rassicurazione per i destinatari dello scritto, ai quali viene ricordato che non è poi così difficile seguire i comandamenti di Dio: infatti chi è stato generato da Lui ha in sé la sua stessa forza, che, come affermato in 4,4, è «più grande» di quella del mondo e lo aiuterà a uscire vittorioso dallo scontro con le forze del male. A questa forza vittoriosa è infine attribuito il nome di fede, affermazione che darà il via alla pericope successiva.

LA VERA TESTIMONIANZA L'ultima pericope della nostra lettera tratta della fede cristiana nel Figlio di Dio. Questo tema è sviluppato in modo originale, poiché l'accento è posto in primo luogo sulla verità di ciò che si accoglie per fede, verità testimoniata da alcune figure d'eccezione, e in secondo luogo sull'esito finale verso cui la fede conduce gli uomini. I testimoni presi in considerazione sono anzitutto Gesù Cristo nella sua missione terrena, riassunta nel binomio simbolico dell'acqua e del sangue (v. 6a), poi lo Spirito di verità (v. 6b) e infine Dio Padre (vv. 9-10). L'esito finale della fede è invece individuato nella «vita (eterna)» (vv. 11.12.13.16). L'annuncio del tema prende nella nostra pericope l'inusuale forma di una domanda retorica – «E chi è che vince il mondo?» – che contiene la risposta dello stesso scrivente:«chi crede che Gesù è il Figlio di Dio». In questo modo l'autore si aggancia alla pericope precedente, che si chiudeva con l'accenno alla vittoria sul mondo operata dalla fede dei cristiani, specificandone meglio il senso: passa dal concetto astratto di «fede» al più concreto «credere», e ne esplicita anche il contenuto, ossia «che Gesù è il Figlio di Dio». Il fondamento di quest'affermazione è da rintracciare nelle parole affidate da Gesù ai propri discepoli e conservate in una pagina del quarto vangelo: «Abbiate coraggio: io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Non è la fede in sé che permette al cristiano di vincere il mondo: essa si prospetta piuttosto come la via maestra per partecipare all'unica vera e definitiva vittoria sul mondo, ossia quella del Cristo che sconfigge la morte. La formulazione di 1Gv 5,5 è comunque chiaramente ispirata al passo del discorso di addio pronunciato dal Gesù giovanneo (Gv 16,25-33). Anche in questo caso nella nostra pericope è presente il ricordo di un insegnamento risalente al Maestro e conservato nella predicazione del Discepolo amato, che viene qui ripreso ed elaborato.

Il riferimento all'acqua e al sangue dev'essere ben compreso: cosa intende l'autore con questo binomio? Siccome il contesto è quello della missione terrena di Gesù («Egli è colui che è venuto»), l'acqua e il sangue vanno intesi anzitutto in senso storico reale. L'«acqua soltanto» può quindi indicare il battesimo di Gesù al fiume Giordano, che, come evidenzia la testimonianza di Giovanni Battista, è il momento della sua prima manifestazione al mondo in qualità di «Figlio di Dio» (Gv 1,29-34). II binomio «nell'acqua e nel sangue» aggiunge al ricordo del battesimo nel Giordano anche quello della morte in croce di Gesù, culmine della sua missione (Gv 19,28.30). Con questi due termini l'autore intende quindi abbracciare la totalità della missione terrena di Gesù, dalla prima manifestazione al Giordano al suo pieno compimento sul Golgota.

L'autore poi approfondisce il tema della professione di fede in Gesù, Figlio di Dio venuto nella storia, introducendo, a conferma della fondatezza di tale confessione, la voce di tre testimoni: lo Spirito, l'acqua e il sangue. I due vocaboli «acqua» e «sangue» sono utilizzati ora in un'accezione simbolica, come “soggetto” dell'azione di testimonianza insieme allo Spirito. In che senso, quindi, lo Spirito, l'acqua e il sangue sono testimoni della divinità di Gesù? Non è sicuramente un caso se l'unico altro luogo neotestamentario in cui questo trinomio si riunisce è il racconto giovanneo della morte di Gesù: in quell'occasione il quarto evangelista precisa che Gesù, dopo aver constatato di aver portato a compimento la missione affidatagli dal Padre, chinò il capo e «rese lo spirito» (19,30); a quel punto un soldato con una lancia «gli trafisse il fianco e ne uscì subito sangue e acqua» (19,34). Anche nel racconto dell'apparizione del Risorto agli Undici possiamo ritrovare un velato accenno ai nostri testimoni: chi scrive attesta il dono dello Spirito (Gv 20,22) preceduto dall'ostensione delle mani e del «fianco» del Signore (Gv 20,20), quello stesso fianco da cui erano scaturiti sangue e acqua! Spirito, acqua e sangue sono quindi i doni del Signore crocifisso e risorto e simboleggiano la salvezza donata al mondo grazie al suo sacrificio. Chi scrive vuole quindi suggerire l'idea che il sacrificio in croce di Gesù, con gli eccezionali doni di salvezza da esso derivanti, è la prima testimonianza della sua divinità.

Si può notare un crescendo nella presentazione dei testimoni: prima viene la testimonianza delle opere di Gesù (5,6a), poi quella dello Spirito (5,6b-8) e infine quella del Padre (5,9-10). Si può trovare una progressione simile nelle parole di Gesù ai Giudei riportate da Gv 5,36-38.

I vv. 11-12 rappresentano la vetta del discorso sulla testimonianza, poiché ne mostrano il traguardo finale, ossia la vita eterna donata da Dio agli uomini: «possedere il Figlio» è uno dei numerosi sintagmi utilizzati nella 1Giovanni per indicare la comunione del credente con il Signore e diventa qui la condizione necessaria per possedere la vita eterna. L'uso del verbo «possedere» è caratteristico della presente pericope e serve all'autore per operare una sintesi perfetta del suo messaggio: con questa formula egli esprime infatti la presenza nel credente del testimoniante (Dio, del quale il credente «possiede in sé la testimonianza»: v. 10), del testimoniato (v. 12: «possiede il Figlio») e del loro dono (v. 12: «possiede la vita»).

Con il v. 13, ancora una volta, l'autore ribadisce la modalità scrittoria della propria comunicazione (cfr. 1,4; 2,1.7.8.12-14.21.26) e rivela il proprio intento rassicurante nei confronti dei propri destinatari: vuole consolidare in loro la consapevolezza («perché sappiate») che credere in Cristo li rende partecipi della vita eterna donata dal Padre a tutti coloro che aderiscono alla sua testimonianza intorno al Figlio.

I vv. 13-14 si concentrano su un aspetto particolare della fede: la sicurezza (parrhésia, v. 14) che il credente ha di fronte a Dio, poiché sa che Egli esaudisce le sue preghiere. Questa “sicurezza” porta a definire con maggiore chiarezza il significato del chiedere «secondo la sua volontà». Esso è da affiancare all'invito a chiedere «nel nome» di Gesù, che si trova nella maggiore delle opere giovannee (Gv 14,13; 15,16; 16,23): rivolgere al Padre preghiere «secondo la sua volontà» significa pregare «nel nome» di Gesù, e questo è possibile solo a chi crede veramente in Cristo, ossia a chi mette in pratica le sue parole e lo imita nelle proprie scelte quotidiane (cfr. 1Gv 2,6; 3,23-24; Gv 15,7).

È necessario soffermarsi sulla distinzione tra peccato «che non conduce alla morte» (5,16.17) e peccato «che conduce alla morte» (5,16). Partendo dal riferimento al peccato non mortale, che incornicia i l nostro brano (vv. 16.17: «un peccato che non conduce alla morte»), il testo afferma che, pur essendo quello meno grave, poiché per definizione non porta direttamente alla morte, chi se ne macchia subisce comunque una almeno iniziale perdita di vita, che può essere riacquistata grazie all'intercessione dei fratelli. Questo è proprio il caso per cui l'autore invita i propri destinatari a pregare. L'altro caso, più grave, è invece quello del peccato «che conduce alla morte»: l'apostolo non chiede ai propri figlioli di intercedere per chi si macchia di questo peccato, anche se, in verità (è bene specificarlo), non vieta loro di farlo. Per comprendere quale sia questo peccato che conduce alla morte, dobbiamo affidarci al contesto prossimo: se in 5,12 si legge che «chi possiede il Figlio possiede la vita» e in 5,13 che chi crede «nel nome del Figlio di Dio» possiede la vita, questo ci suggerisce che chi non ha la vita e dimora nella morte è colui che non è in comunione con Cristo e non crede in Lui. L'autore quindi sta mettendo in guardia i propri figli dall'abbandonare la retta fede nel Figlio di Dio: se è vero che «ogni iniquità è peccato», e come tale va fuggita (cfr. 1,8-2,2), è vero anche che esiste un peccato particolarmente grave, che conduce chi lo commette alla morte sicura. Questo peccato è la decisione di voltare le spalle a Gesù.

Epilogo: il vero Dio L'epilogo della 1Giovanni brilla anzitutto per brevità e solennità. Va evidenziata la presenza dei motivi della conoscenza e della verità, grazie alla triplice ripetizione del verbo «sappiamo» e dell'aggettivo «vero», nonché dell'unica occorrenza giovannea del vocabolo «intelligenza». Come si è cercato di evidenziare in ogni pagina del commento, questo sembra essere il filo rosso sotteso all'intera opera, che mostra la preoccupazione dell'autore di guidare i suoi amati figli nel difficile compito di discernere la verità in mezzo alle mistificazioni operate nel mondo dai falsi profeti, gli anticristi, i quali, al soldo del «principe di questo mondo» (Gv 12,31), tentano di ingannare i credenti con dottrine menzognere e senza fondamento (cfr. 2,4.18-19.22-23.26; 3,7-8; 4,1.6.20).

L'esortazione finale invita i «figlioli» a stare in guardia dagli «idoli»: il contesto suggerisce di intendere questo termine in senso metaforico. Visto che il v. 20 ha tanto insistito sul tema della conoscenza di ciò che è vero e ha chiamato Gesù il «vero Dio», sembra logico intendere questi «idoli» nel senso di «falsi dèi» e «falsi maestri», tanto più che ci troviamo alla battuta conclusiva di uno scritto che molto spazio ha dedicato allo smascheramento degli «anticristi» (cfr. 2, 18.22; 4,3), «falsi profeti» (4,1) che divulgano false dottrine. Questa esortazione può essere considerata come il compendio di tutte le altre sezioni parenetiche della lettera, intesa a mettere definitivamente in guardia i credenti meno esperti dalle falsità che iniziavano a circolare nelle varie comunità giovannee. La preoccupazione principale di chi scrive sembra quella di insegnare e tramandare la difficile arte del discernimento tra ciò che è vero e ciò che è falso. Di fronte a una congiuntura storica sfavorevole, che vede gli appartenenti alla comunità giovannea insidiati da pericolose dottrine provenienti da avversari un tempo fratelli, ma ormai lontani dalla comunione ecclesiale, la voce delle guide si eleva forte e chiara per smascherare il loro inganno e per difendere la retta fede che sola conduce gli uomini a scelte di vita luminose.

È significativo che l'autore abbia voluto usare proprio il nome del «Figlio suo Gesù Cristo» per racchiudere tutto il suo scritto in un'ampia inclusione (1,3; 5,20): è Lui l'unico vero uomo (4,2) da prendere come modello (2,6; 3,16), è Lui l'unico vero Dio (5,20) in cui credere (2,23; 4,2; 5,1.13), è Lui l'unico vero salvatore (4,14), vita eterna dell'umanità (1,2; 5,20).


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segue: LA VERA FEDE E IL VERO AMORE

La vera fede confessa Gesù Cristo 1Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. 2In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio; 3ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo. 4Voi siete da Dio, figlioli, e avete vinto costoro, perché colui che è in voi è più grande di colui che è nel mondo. 5Essi sono del mondo, perciò insegnano cose del mondo e il mondo li ascolta. 6Noi siamo da Dio: chi conosce Dio ascolta noi; chi non è da Dio non ci ascolta. Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore.

Il vero amore proviene da Dio 7Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. 8Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. 9In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. 10In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.

L'amore vicendevole è comunione con Dio 11Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. 12Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. 13In questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito. 14E noi stessi abbiamo veduto e attestiamo che il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo. 15Chiunque confessa che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in lui ed egli in Dio. 16E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. 17In questo l’amore ha raggiunto tra noi la sua perfezione: che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio, perché come è lui, così siamo anche noi, in questo mondo. 18Nell’amore non c’è timore, al contrario l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore. 19Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. 20Se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.

Il duplice comandamento dell'amore per Dio e per il fratello 21E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

La vera fede confessa Gesù Cristo L'autore, parlando di discernimento degli spiriti, delinea il ritratto dei veri credenti e dei falsi profeti, al fine di guidare i destinatari dello scritto alla vera fede. L'autore è preoccupato per la fede dei propri amati figli: essi non devono ritenere che tutti coloro che si spacciano per profeti vengano da Dio, né che tutti gli insegnamenti propinati sulle piazze o nelle comunità siano degni di fede. Ogni predicatore e ogni dottrina vanno vagliati con cura, secondo le modalità che l'autore si appresta a delineare nei due brani successivi. Nei vv. 2-3 enuncia il criterio che i destinatari devono seguire per riconoscere la provenienza di uno spirito, e cioè prestare attenzione alla sua professione dì fede: «ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio». Il parallelismo antitetico di queste due frasi è un chiaro esempio del pensiero dualista giovanneo: o si crede nel Cristo o non si crede, non si dà una terza via. Negare la divinità di Gesù e non ammettere la realtà dell'incarnazione sono i primi segni di eresia che devono mettere in allarme i cristiani nei confronti di qualsiasi sedicente profeta o semplice fratello. Nel v. 4 chi scrive vuole confortare i propri «figlioli» confermandone la provenienza divina (cfr. 3,1-2) e affermandone la vittoria contro i figli del mondo. Tale vittoria è motivata con la presenza nei fedeli di Dio stesso, che li sostiene nella lotta e che ovviamente è «più grande» dello spirito dell'anticristo che domina il mondo. Questo motivo della vittoria non è isolato nella 1Giovanni: in 2,13-14 si legge infatti che i giovani hanno vinto «il Maligno» e in 5,4 che i figli di Dio vincono «il mondo». Il v. 5 è dedicato agli avversari, che vengono detti provenire «dal mondo>: qui il termine «mondo» è chiaramente usato in un'accezione negativa per indicare tutto ciò che si contrappone a Dio (cfr. Gv 7,7; 15,18; 17,14; 1Gv 2,15-17). In questo versetto l'autore, ragionando a partire dal concetto di connaturalità (il simile ascolta il simile), sembra voler anticipare una possibile obiezione dei suoi ascoltatori: siccome il mondo ascolta gli avversari e non chi sta dalla parte di Dio, è proprio vero che Dio è più grande del «principe di questo mondo» (cfr. Gv 12,31; 14,30; 16,11)? La risposta è una secca accusa dei secessionisti: questi sono ascoltati dal mondo poiché appartengono al mondo e usano il suo linguaggio! L'autore sigilla questa prima sezione della pericope con un'affermazione sul discernimento degli spiriti («Da questo noi distinguiamo lo spirito della verità e lo spirito dell’errore») che richiama quella iniziale di 4,2, con la quale forma un'inclusione. Tale richiamo, però, non è una semplice ripetizione, in quanto fino a questo momento il contrasto è stato giocato sugli antonimi Dio/mondo, mentre nell'ultima frase l'autore introduce una seconda coppia di termini antitetici- «verità»/«inganno» – mediante la quale riprende il filo del discorso di tutta l'epistola e ricorda ai lettori che tutto quanto esposto fin qui rappresenta un ulteriore criterio per riconoscere la provenienza degli spiriti. Lo Spirito che viene da Dio è lo Spirito della verità: esso è accolto e ascoltato da coloro che appartengono a Dio e ignorato da chi non lo conosce. Lo spirito che viene dal mondo è invece lo spirito dell'inganno: esso incanta quanti appartengono al mondo, i quali lo ascoltano voltando le spalle a Dio.

Il vero amore proviene da Dio In questa seconda sezione dell'elaborazione l'autore passa allo sviluppo tematico del comandamento dell'amore, ricordato nell'annuncio del tema iniziale insieme a quello della fede (3,23). L'autore sviluppa qui il legame tra la realtà dell'amore e Dio: dopo aver esortato i destinatari ad amarsi vicendevolmente, poiché l'amore discende da Dio, l'autore sviluppa quest'ultima affermazione in due brani complementari. Il primo (4,7b-8) risale dall'uomo che «ama» a Dio che è «amore». Il secondo (4,9-10) discende dal Dio che è amore alla sua manifestazione nella missione del Figlio. L'amore di Dio trova la sua più alta dimostrazione nella missione del Figlio unigenito nel mondo, missione intesa come incarnazione che porta la vita (v. 9) e come sacrificio che toglie i peccati (v. 10): l'incarnazione del Figlio unigenito manifesta al mondO l'essenza stessa di Dio, ossia il suo amore, e comunica a tutti gli uomini la vera vita. È Dio la fonte dell'amore (4,7), è Dio il primo ad amare (4, 10.19), è Dio l'amore (4,8): non esiste amore lontano da Dio e che chiunque pretende di amare rinnegando Dio è un bugiardo. Descrivendo Gesù, il Figlio di Dio, «come vittima di espiazione per i nostri peccati» l'autore fa un sottile riferimento al sacrificio di Gesù, che segna la vittoria definitiva di Dio sul peccato, sulla tenebra e sulla morte che tengono in ostaggio l'umanità.

L'amore vicendevole è comunione con Dio Nel v. 4, 11 avviene il passaggio dalla sezione precedente, dedicata alla presentazione dell'amore come essenza stessa di Dio manifestata all'uomo grazie all'invio del Figlio unigenito, alla terza (4, 11-20), dedicata all'amore vicendevole dei cristiani. Qui inizia l'esortazione basata sulla necessità dell'amore fraterno («amiamoci gli uni gli altri») sulla grandezza dell'amore di Dio, appena mostrata («se Dio ci ha amati così»). L'autore, con uno schema di pensiero caratteristico di tutta la letteratura giovannea, propone come esempio dell'agire umnano l'agire stesso di Dio: si tratta del momento culminante di questo insegnamento, che altrove aveva preso come termine di paragone Gesù (Gv 13,14; 1Gv 2,6; 3,16), modello sempre inarrivabile, ma quanto meno raffigurabile nella mente del discepolo. I vv. 12-13 si aprono con un'affermazione sulla “invisibilità” di Dio («Nessuno mai ha visto Dio») che sarà ripresa anche alla fine della sezione, formando una bella inclusione («Dio che non vede», v. 20) che dà unità a questa porzione di testo. Il filo del ragionamento è chiaro: anche se nessuno mai ha visto Dio, ciò non significa che sia inconoscibile. Essendo amore (4,8), Egli si rende presente nell'uomo ogniqualvolta questi vive amando. L'autore aggiunge poi un'ulteriore riflessione: l'amore vicendevole dei cristiani non solo permette a Dio di diventare in qualche modo visibile, ma rende anche perfetto il suo amore, che può dirsi completo solo quando spinge l'uomo a farlo proprio e a viverlo a sua volta. Il tema della perfezione dell'amore, caratteristico dell'opera giovannea, era già stato affrontato in 1Gv 2,5, dove si legge che l'amore di Dio è perfetto in quanti osservano la sua Parola. Nel nostro caso il messaggio si presenta come una specificazione di quello, in quanto l'amore vicendevole di cui qui si parla è il contenuto fondamentale della rivelazione cristiana, il messaggio udito da principio (3,11), il principale comandamento di Dio (3,23) e quindi la sua Parola per eccellenza (2,7-8). Il periodo con cui si chiude il brano riprende, infine, quanto espresso in 3,24: il dono dello Spirito concesso da Dio ai credenti è il segno visibile della loro comunione con Lui, espressa mediante una formula di immanenza reciproca (rimane in Dio e Dio rimane in lui»: cfr. 3,24; 4,15.16). L'autore indica ai suoi destinatari due prove visibili della realtà invisibile della comunione dei fedeli con Dio: queste sono il loro amore vicendevole e la partecipazione al dono dello Spirito. In 4,14 l'autore prende in considerazione la funzione sorgiva degli apostoli, ossia quella di testimoni oculari che contemplano in prima persona la missione del Figlio di Dio per poi trasmetterla ai credenti di ogni epoca. Quest'affermazione richiama il prologo della nostra lettera, dove quanto udito, visto, contemplato e toccato dagli apostoli (1Gv 1,1) diventa l'oggetto della loro predicazione, fissata poi nella scrittura: alla base della fede della Chiesa sta l'evento storico della missione di Gesù, prima vissuto e poi testimoniato dai discepoli. È proprio questa testimonianza a condurre i cristiani a credere in Lui. In 4,1-6 tale comunione era espressa in termini di discendenza da Dio; qui ci si riferisce a essa in termini di reciproco dimorare di Dio nel credente e del credente in Dio. Anche in 4,16 l'autore parte da un'affermazione sul valore della testimonianza apostolica in cui inserisce il proprio scritto: se però in 4,14 concentrava la sua attenzione sul momento sorgivo del vedere e raccontare quanto visto, qui i verbi usati («abbiamo conosciuto e creduto») indicano uno stadio successivo dell'esperienza degli apostoli, ossia quello della sedimentazione progressiva di quanto sperimentato, quello della riflessione e della rielaborazione che conducono alla piena comprensione e alla fede. Mettendo insieme il messaggio dei vv. 14-16 si ha un'esposizione perfetta del pensiero contenuto in questa sesta pericope della 1Giovanni: la comunione intima dell'uomo con Dio è il frutto della fede in Gesù come Figlio e Rivelatore del Dio dell'amore, nonché dell'impegno concreto a vivere in quell'amore scoperto come essenza stessa di Dio. Il brano si conclude con il tema della perfezione dell'amore. Se in 4,12 l'autore aveva affermato che l'amore di Dio raggiunge il suo compimento quando gli uomini lo fanno proprio vivendo in amore fraterno, qui mostra la conseguenza ultima di quel primo effetto, ossia il fatto che il cristiano che nell'oggi vive amando nel giorno del giudizio non avrà nulla da temere e potrà starsene «a testa alta» di fronte a Dio, poiché con la sua condotta già in questa vita ha dimostrato di essere simile a Lui («come è lui, così siamo anche noi»). In altre parole, la 1Giovanni sta affermando che lo scopo ultimo dell'universale disegno d'amore del Padre è quello di portare gli uomini alla salvezza, ossia di permettere loro di affrontare con fiducia il giudizio finale. Il cristiano deve pensare al giudizio finale con serenità e fiducia, poiché potrà stare a testa alta dinnanzi a Dio confidando, oltre che nella sua misericordia, anche nell'unzione ricevuta da Dio stesso (2,27-28), nella propria condotta conforme ai comandamenti (3,21-22) e nell'amore vicendevole vissuto con i fratelli a imitazione di Dio Padre e di Gesù (4,17). Se la conseguenza dell'amore perfetto è la fiducia «nel giorno del giudizio» (v. 17), quella della sua assenza è proprio la paura del castigo finale, quel timore che per ben tre volte viene presentato come realtà incompatibile con il vero amore: «non v'è timore nell'amore», «l'amore perfetto caccia via il timore», «chi teme non è perfetto nell'amore». Mediante questo argomento a contrario, l'autore vuole ribadire il messaggio positivo della prima parte del brano: l'amore vero ci rende simili a Dio e ci dà la serenità necessaria per affrontare il giorno del giudizio con fiducia. Il v. 19, di composizione essenziale, afferma che il nostro amore dipende dall'amore di Dio: se i cristiani possono amare Dio è solo grazie al fatto che Egli si è rivelato loro, amandoli per primo. Il v. 20 afferma che colui che non è capace di amare chi gli sta attorno, di sicuro non potrà riuscire ad amare Dio; se sostiene il contrario, è un bugiardo e un impostore. Ancora una volta chi scrive mette in guardia i suoi amati figli dall'inganno di chi pretende di amare Dio e invece disprezza i fratelli. Ancora una volta egli dimostra di avere i piedi ben saldi a terra, spiegando come le più elevate riflessioni teologiche abbiano sviluppi molto pratici e concreti. E proprio a questi ultimi affida il compito di provare la verità delle prime.

Il duplice comandamento dell'amore per Dio e per il fratello Il capitolo si conclude con un richiamo dell'iniziale annuncio del tema (4,21). L'autore riprende il motivo del comandamento, con cui la pericope si era aperta (3,23) e si chiuderà (5,2-3), e riassume in un solenne tono conclusivo la riflessione sull'amore. La specificità di questo versetto è comunque quella di fondare il legame tra l'amore di Dio e l'amore del fratello su un comandamento divino: nel brano precedente, infatti, la dimensione verticale e quella orizzontale dell'amore erano tenute insieme in base a semplici ragionamenti sillogistici (4,20); qui invece si afferma che la loro osservanza è richiesta ai cristiani dall'autorità stessa di Dio, che ha comandato agli uomini di amare Lui (Dt 6,5) e il prossimo (Lv 19,18). Non si può non vedere in questa formulazione un ricordo della predicazione di Gesù, che riassunse tutta la Legge e i Profeti proprio nel duplice comandamento dell'amore per Dio e per il prossimo (Mt 22,34-40).


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segue: I VERI FIGLI DI DIO

I figli di Dio compiono la giustizia, non il peccato 1Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. 2Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. 3Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro. 4Chiunque commette il peccato, commette anche l’iniquità, perché il peccato è l’iniquità. 5Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato. 6Chiunque rimane in lui non pecca; chiunque pecca non l’ha visto né l’ha conosciuto. 7Figlioli, nessuno v’inganni. Chi pratica la giustizia è giusto come egli è giusto. 8Chi commette il peccato viene dal diavolo, perché da principio il diavolo è peccatore. Per questo si manifestò il Figlio di Dio: per distruggere le opere del diavolo. 9Chiunque è stato generato da Dio non commette peccato, perché un germe divino rimane in lui, e non può peccare perché è stato generato da Dio. 10In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello.

IL VERO DIMORARE NELLA VITA 11Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. 12Non come Caino, che era dal Maligno e uccise suo fratello. E per quale motivo l’uccise? Perché le sue opere erano malvagie, mentre quelle di suo fratello erano giuste. 13Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia. 14Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. 15Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui. 16In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli. 17Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio? 18Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità. 19In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, 20qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa. 21Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, 22e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.

LA VERA FEDE E IL VERO AMORE 23Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. 24Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Approfondimenti

(cf LETTERE DI GIOVANNI – introduzione, traduzione e commento di MATTEO FOSSATI © EDIZIONI SAN PAOLO, 2012)

I figli di Dio compiono la giustizia, non il peccato L'autore vuole dimostrare un forte legame tra l'agire concreto dell'uomo – che può essere improntato o alla giustizia o al peccato – e la sua provenienza divina o diabolica. L'argomentazione appare accurata e completa, creando precise connessioni tra il comportamento degli uomini, le sue cause e i suoi effetti: la pericope dimostra, infatti, che ogni uomo manifesta di chi è figlio e dove sta andando proprio nelle sue scelte quotidiane, a cui si fa riferimento con i due sintagmi antitetici «compiere la giustizia» (2,29; 3,7b) e «compiere il peccato»/«peccare)) (3,4.6.8), affiancati dai due complementari di forma negativa «non compiere peccato»/«non peccare» (3,6.9) e «non compiere la giustizia» (3,10).

Ci si può chiedere: tra Dio e noi può esistere un grado di somiglianza più elevato che l'essere suoi figli? Sul piano dell'essere la risposta è di certo negativa, come sosteneva già sant'Agostino: «Che altro saremo, infatti, se non figli di Dio?» (Commento alla Prima lettera di Giovanni 4,5). È sul piano della conoscenza che ci sarà un cambiamento: ora sappiamo di essere figli di Dio, ma ci manca il termine di paragone, quindi non possiamo apprezzare la nostra somiglianza con Lui; quando invece potremo vedere Dio faccia a faccia, questa visione ci permetterà di scoprire come e quanto siamo simili. È per questo motivo che si può rendere molto liberamente «saremo simili a lui» con «ci scopriremo simili a lui»: scoprire significa diventare finalmente consapevoli di una realtà – un «essere» – già presente. L'autore sta dicendo che noi siamo figli di Dio fin da ora, ma che solo quando lo vedremo con i nostri occhi ci accorgeremo di quale somiglianza ci leghi a Lui!

Nel brano c'è una frase enigmatica: «Chiunque compie il peccato vive nell'anomia, poiché il peccato è l'anomia». Per comprenderne il senso è utile partire dal confronto con la sua corrispondente nel brano parallelo: «chi compie il peccato proviene dal diavolo, poiché il diavolo pecca da principio» (v. 8). Notiamo una forte correlazione tra il diavolo e l'anomia, che appaiono come il punto di partenza e il punto di arrivo del peccato. Quest'anomia, intesa come punto di arrivo del peccato e tradotta col termine «iniquità», non è altro che la tragica e radicale opposizione dell'uomo a Dio e al suo Messia, opposizione che lo renderà eternamente incapace di comunione con Lui.

Dio viene presentato come il Giusto per eccellenza e il principio della giustizia – come si era già affermato all'inizio della pericope (2,29) –, mentre il diavolo, che pecca da principio, è principio del peccato. Il caso positivo è fondato una volta sulla purezza di Dio (v. 3: «come egli è puro»), l'altra sulla sua giustizia (v. 7b: «come egli è giusto»). Il caso negativo, introdotto in entrambe le occorrenze dalla medesima protasi «chi(unque) compie il peccato» (vv. 4.8), parla una volta dell'empietà come sbocco del peccato, l'altra del diavolo come sua origine. L'uomo, nella sua libertà sceglie la giustizia o il peccato, e da queste due scelte si risale alla loro origine, divina o diabolica. Quando l'uomo invece è soggetto passivo dell'azione generatrice di Dio, dal quale non può discendere il peccato, l'eventualità di una scelta contraria non è presa in considerazione. L'autore sta dicendo che se dal punto di vista dell'uomo l'eventualità del peccato è possibile, poiché egli può cadere nell'inganno del diavolo, dal punto di vista di Dio tale eventualità è esclusa, poiché in Lui non c'è traccia di peccato e nessun peccato da Lui può venire. In una prospettiva che discende dalla generazione di Dio alle azioni degli uomini il peccato non va quindi contemplato neppure come possibilità! L'autore può dunque affermare che chi discende da Dio e continua a dimorare in Lui non porta in sé alcun germe di male e non può peccare.

IL VERO DIMORARE NELLA VITA Questa quinta pericope, come annunciato nell'unità precedente, è dedicata al tema dell'amore, quell'amore fattivo tra fratelli che solo può essere il segno esteriore di un vero dimorare nella vita: «*Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (3,14). L'autore continua a ribadire l'idea che l'albero buono si riconosce dai suoi frutti, e che chi produce frutti buoni, come l'amore (2,10; 3,14.18-19), la giustizia (2,29; 3,7) o la purezza (3,3), mostra apertamente di dimorare nella vita e di essere in comunione con Dio. La pericope appare chiaramente divisa in due sezioni -la prima incentrata sul tema dell'odio (3,12-15), la seconda su quello dell'amore (3,16-22) – che si corrispondono secondo le regole di un parallelismo antitetico. Ciascuna delle due sezioni tratta infatti il proprio tema in un dittico, le cui tavole ruotano attorno a un cardine centrale rappresentato da un'esortazione, che nel primo caso mette in guardia dall'odio del mondo (3,13: «Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia»), nel secondo invita all'amore concreto (3,18: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità»). Attraverso una strutturazione chiara e accurata chi scrive riesce a far trasparire un pensiero teologico ben definito: l'odio per i fratelli, nella sostanza, è un omicidio (3,12; / 3,15), quindi viene dalla morte (3,12) e produce morte (3,14-15); l'amore per i fratelli, nei fatti, è un dono di vita (3,16), viene dalla vita (... di Gesù 3,16 e cfr. anche 3,19, che pone alla radice dell'amore un'altra realtà totalizzante per 1Giovanni, ossia la verità) e produce vita (... eterna: 3,21).

LA VERA FEDE E IL VERO AMORE L'annuncio del tema rappresenta un legame con uno, anzi con due temi centrali nella predicazione giovannea originaria: credere nel nome di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e amarsi vicendevolmente. Il tema dell'amore era già stato oggetto dell'annuncio sia della seconda (2,7) sia della quinta (3,11) pericope, che lo presentavano rispettivamente come «comandamento» antico e insieme nuovo (usando quindi il medesimo termine che ritroviamo nella presente pericope) e come «annuncio» udito da principio. Il comandamento dell'amore è uno dei temi principali della predicazione di Gesù secondo la testimonianza del quarto vangelo (cfr. Gv 13,34; 15,12.17; 1Gv 3,11.23; 4,7.11). La nostra pericope lo abbina però a un secondo comandamento: quello del credere in Cristo. Ebbene, anche il tema della fede è centrale nel maggiore degli scritti giovannei, che lo indica addirittura come primo scopo della stesura del vangelo stesso (Gv 20,31). L'attenzione dell'opera giovannea per il motivo del credere è testimoniata dai molti passi che ricordano l'invito che Gesù stesso rivolge ai Giudei e ai suoi discepoli di credere in lui (cfr. Gv 9,35-38; 12,36; 13,19; 14,11) al fine di avere la vita (Gv 5,36-47; 11,25-27) e vedere la gloria di Dio (Gv 11,40). Non sembra quindi fuori luogo affermare che il versetto 3,23 della nostra lettera conduca direttamente al cuore del messaggio cristiano giuntoci attraverso la predicazione del Discepolo amato. E anche all'interno della 1Giovanni tale versetto e la pericope da esso introdotta andranno considerati come centrali: ne è una controprova il fatto che spesso nella storia dell'esegesi il comandamento di 1Gv 3,23, che unisce insieme fede e amore, è stato visto come la sintesi del messaggio dell'intera epistola.


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