#formidabile quel vinile: Strangeways here we come-The Smiths

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“Scoprire” The Smiths nell’estate del 1986, poche settimane dopo l’uscita di The queen is dead, il loro capolavoro, consumarne la cassetta e poi, dopo aver comprato, per la prima volta la rivista musicale Il mucchio selvaggio del mese di Ottobre, che portava in copertina il faccione di Morrissey e all’interno un articolo molto critico sulla discografia del gruppo, ma che ammetteva la superiorità sull’80 per cento di quel che girava all’epoca (il 1986 fu un anno incredibile per la musica rock e alternativa, andate a cercare), comprarsi tutti i dischi disponibili in vinile in un colpo solo. Tutto questo mentre il gruppo, che ne aveva fatta di ogni prima di far uscire The queen is dead, già in rotta con la casa discografica, la Rough trade (mitica), si accorda con la EMI per tanti tanti soldi e un contratto che prevedeva alcune uscite discografiche, uscì però un solo disco di inediti, appunto Strangways her we come, evocativo già nel titolo, sia per il significato letterale che per il fatto che Strangways era il nome di un carcere. Di fatto la band si stava avvicinando allo scioglimento, dovuto, se vogliamo credere alla versione di Johnny Marr, a magagne interne, al fatto che sul povero Marr cadevano tutte le responsabilità pratiche della gestione di concerti e registrazioni, in una band capace di licenziare di continuo tour manager e dipendenti, vittime degli umori della prima donna Moz, tanto bravo a scrivere testi, cantare e occuparsi delle copertine dei dischi quanto a disfare tutto e lasciare che altri sistemassero le questioni. Arrivati al biennio 86/87, i quattro di Manchester esplodono, ho sempre pensato fosse stato Morrissey quello che aveva detto stop, ma, sempre stando all’autobiografia di Marr, Set the boy free, super consigliata, fu johnny a non sopportare più di dover fare tutto lui, a dire basta. Dissero basta e iniziarono decadi di litigi e di non parlarsi, Morrissey contro tutti, più o meno. Dissero basta dopo aver dato alle stampe un disco meraviglioso, nel quale iniziavano a inserire qualcosa in più nella loro musica, nel quale il suono si fa più corposo, più complesso, stratificato, nel quale l’abilità di Marr in studio di registrazione si affina e progredisce, essendo sempre stato lui uno sperimentatore in sala, l’apparenza semplicità delle loro canzoni frutto di tante prove e di tanti tentativi di cavare fuori originalità e innovazione senza sporcarsi troppo le mani con l’elettronica e quei sintetizzatori tanto in voga negli anni 80. Un disco con una sola canzone che poteva fare da singolo trainante, quella Girlfriend in a coma che con un ritmo quasi gioioso e allegro parla di una fidanzata insopportabile che è in coma e un fidanzato che se da un lato tante volte avrebbe voluto strangolarla, è in pena e chiede se ce la farà. Un disco che porta ai vertici le tematiche esistenziali dei testi di Morrissey, ispiratissimo e profondo, tremendamente comprensibile in alcune canzoni e criptico in altre, ma sempre capace di mettere assieme versi che sono poesia povera, che in ognuno possono richiamare qualcosa di sentito o di vissuto, per identificarcisi. Noi “nerdissimi” fan del gruppo di Manchester amiamo ancora oggi struggerci all’ascolto di “last night I dreamt that somebody loved me”, che parte con questo pianoforte e delle urla che sembrano provenire dall’inferno della solitudine e che dice “niente braccia, niente speranza, solamente un altro falso allarme” mentre la musica si fa imperiosa e la chitarra ricama. Un disco dove Moz si toglie i sassolini dalle scarpe cantando di una riunione della compagnia discografica in Paint a vulgar picture, lupi che sfruttano le potenzialità commerciali degli artisti. E poi, chi non ha qualcuno, qualcuno che gli sta così antipatico da dedicargli “unhappy birthday”, forse l’unica canzone al mondo a proposito di un infelice compleanno, “sono venuto ad augurarti un infelice compleanno, perché sei cattivo e hai mentito, e se tu dovessi morire, potrei essere leggermente triste, ma non piangerei”. C’è spazio per celebrare la morte di un ballerino da discoteca, una cosa che capitava spesso, ma del resto Moz non parlava molto con i vicini, non voleva esserne coinvolto, perché si, pace amore e armonia, tutto bello, magari nel prossimo mondo però, qualunque cosa volesse intendere, il solito polemico malmostoso, fantastiche sia la sezione ritmica che la chitarra, in questo pezzo così come in tutto il disco, e il finale con pianoforte e archi, e il coretto infantile. Se il disco si apriva con due pezzi molto evocativi (decisamente questo è il loro album più evocativo, nel senso che fa “sognare” “immaginare”, ad ognuno il suo trip ascoltandolo) come A rush and a push and the land is ours dove “persone più brutte di me e te, loro prendono quel che vogliono dalla vita, e non menzionarmi l’amore..” seguita da I started something I couldn’t finish, molto autobiografica “ho iniziato qualcosa che non so finire, tipico di me e ora non sono del tutto sicuro”, il disco si conclude con la ninnananna di I won’t share you, quasi un addio “non ti condividerò, ti vedrò da qualche parte, ti vedrò qualche volta…” ed un accenno di armonica a chiudere…goodbye.