La felicità è sempre venata di sofferenza. In primo luogo, perché scaturisce da cause esterne — una bella giornata di sole, essere e sentirsi amati, ottenere riconoscimento eccetera — e dunque sancisce la nostra dipendenza, che è un male. In secondo luogo perché, proprio per questo suo dipendere dall'esterno, è fragile, momentanea, sempre minacciata e in pericolo — sempre circondata da un alone di ansia.
Per questo gli antichi cercavano non la felicità, ma l'atarassia.
Il pensiero del Buddha va interpretato, mi pare, in relazione con tre cose:
Una concezione rituale, sacrificale e in qualche modo misterica della salvezza.
Una concezione gnostica della salvezza.
Una concezione ascetica della salvezza.
La prima è quella della tradizione brahmanica, contro la quale l'opposizione del Buddha è dura e decisa. Da un lato, rifiutando apertamente qualsiasi linguaggio oscuro, evocativo, qualsiasi trasmissione esoterica, ed enfatizzando il carattere verificabile – ehipassiko – del suo messaggio. Dall'altro, eticizzando i rituali. Sono non pochi i sutra nei quali un brahmano interroga il Buddha su questo o quel rituale, e il Buddha propone una nuova versione del rituale che consiste nel compiere azioni etiche. Ashoka farà la stessa cosa, ma con l'autorità di un imperatore. Dunque: non ci si salva con i rituali; piuttosto occorre fare il bene.
La seconda concezione è quella del Samkhya, il più antico sistema filosofico indiano. La salvezza si ottiene grazie alla conoscenza del carattere illusorio di questo mondo e alla discriminazione di Spirito (Purusha) e Natura (Prakriti).
Su questa base si innesta la terza concezione, quella ascetica dello Yoga classico di Patanjali. Non basta la conoscenza, occorre separare lo Spirito dall'elemento materiale attraverso una serie di pratiche di riduzione.
Non c'è scandalo più grande della morte di un bambino. Ci sembra che una terribile, intollerabile ingiustizia sia stata compiuta; quella ingiustizia che suscita la ribellione di Ivan Karamazov; quell'ingiustizia che nemmeno l'apocatastasi potrebbe guarire. Ma in cosa consiste questa ingiustizia? Al bambino, pensiamo, è stato tolto il futuro. Gli sono stati sottratti gli anni a venire: la possibilità di diventare adulto, di amare, di lavorare, di avere figli. Ma può essere sottratto solo ciò che è un possesso. E il futuro non è un possesso, semplicemente perché non esiste. E ciò che non esiste non può essere sottratto. Nessuno di noi ha il futuro. Abbiamo solo questo-istante-qui. L'istante successivo potrebbe non esserci. Non abbiamo alcun diritto su di esso. Non abbiamo alcun diritto di vivere un istante in più. Quando moriamo, è solo questo-istante-qui che ci è tolto (come dice Marco Aurelio nel suo pensiero più abissale: Κἂν τρὶς χίλια ἔτη βιώσεσθαι μέλλῃς, κἂν τοσαυτάκις μύρια, ὅμως μέμνησο ὅτι οὐδεὶς ἄλλον ἀποβάλλει βίον ἢ τοῦτον ὃν ζῇ, οὐδὲ ἄλλον ζῇ ἢ ὃν ἀποβάλλει: II, 14). E questo vale a dodici anni come ad ottanta.
{Domenico Scarlatti, Sonata in F Minor, K.183: Allegro} {230820}
Morire è un problema. Finire all'inferno — temere di finire all'inferno — è un problema culturale. L'errore è un problema. Il peccato (quell'errore che consiste nel trasgredire una norma religiosa o nell'offendere un ente divino) è un problema culturale. Le prevedibili conseguenze negative di una nostra azione sono un problema. Il karman è un problema culturale. La solitudine è un problema. Il tradimento è un problema culturale. Eccetera.
Distinguere i problemi reali dai problemi culturali è fondamentale per vivere una vita non troppo infelice. La guida è il nostro corpo.
Bisogna cambiare la società. Perché? Perché è ingiusta, perché troppe persone sono sfruttate, perché alcuni hanno troppo ed altri troppo poco. Ma è tutto qui? No: bisogna, soprattutto, cambiare la società perché è falsa. Perché è fondata sulla menzogna, sull'ipocrisia, sulla rimozione. E per questo è infelice. Saremmo infelici anche se fossimo tutti perfettamente uguali dal punto di vista economico. C'è una sofferenza sorda, antica, legata alla nostra stessa condizione, ed è una sofferenza che taciamo, anzi cerchiamo di esorcizzare nella nostra vita sociale (Michelstaedter chiamava rettorica questo reciproco rassicurarsi, e ne fece una analisi che resta insuperata). E c'è poi il desiderio. Anzi: i desideri. Che ci spaventano, e che perciò poniamo fuori dalla scena sociale. La quale diventa, dunque, un palcoscenico reale. Recitiamo le nostre vite sociali, e al di fuori della scena spesso non c'è che un vuoto spaventoso. Perché abbiamo bisogno di dirci, e di dirci autenticamente. Ma la vita sociale è fondata sulla rimozione sistematica di ciò che più urgentemente abbiamo bisogno di dire: il nostro dolore e il nostro desiderio.
Girando per Foggia senza alcuna meta precisa, con lo scopo, forse – non ho osato confessarlo a me stesso – di far respirare i ricordi, questa sera ho pensato per la prima volta che forse la morte di Giuseppe è stata sensata.
Era due cose, Giuseppe.
Era, dentro, un rocker, un ribelle, la reincarnazione di Jimi Hendrix. Era, fuori, il figlio di un impiegato della Posta: con la faccia del figlio di un impiegato della Posta. Sembrava comico, quel contrasto tra interno ed esterno, e infatti lo prendevano in giro; era invece tragico. Ora, se fosse vissuto, sopravvissuto, l'impiegato della Posta avrebbe ucciso il rocker, per sempre. L'avrei incrociato, questa sera, e non lo avrei riconosciuto. Non avrei riconosciuto la sua rabbia, il suo profondo disgusto verso tutto ciò che ci circondava, l'ansia di lanciarsi al di là di tutto con un assolo di chitarra. E lui, credo, non avrebbe riconosciuto me.
Il re greco Menandro, che regnò nel secondo secolo a.C. su un territorio che comprendeva l’India del nord e l’attuale Pakistan, fu con ogni probabilità uno dei primi occidentali convertiti al buddhismo, grazie ai lunghi dialoghi con un saggio buddhista, Nagasena, registrati in uno dei testi più importanti del buddhismo antico, il Milindapañha (Milinda è il nome greco del re). Al re che gli chiede il suo nome, il saggio buddhista risponde di chiamarsi Nagasena, ma precisa che si tratta solo di una convenzione, “perché nessuna persona è presente qui” (Milinda’s Questions, Luzac & Company, London 1969, vol I, p.34). Il re resta sconcertato. Come può essere che Nagasena dica una cosa del genere? Come può essere che lì, di fronte a lui, dica di non esistere?
L'ateismo nega l'esistenza di Dio come ente reale — ricacciandolo dunque tra gli enti culturali, la cui esistenza è impossibile negare (così come non è possibile negare che, legata ad essi, vi sia qualche forma di esperienza, anche psicologica: i demoni sono enti culturali, e tuttavia la paura che suscitano in chi vi crede è reale). Il metateismo non si ferma a questa negazione. Dio non è un ente che dev'essere tolto — semplicemente negato — o spostato, confinato in una ontologia regionale. Dio dev'essere attraversato. C'è un al di là di Dio che dev'essere raggiunto, e per raggiungerlo occorre attraversare Dio. In questo senso Eckhart prega Dio di liberarlo da Dio.