📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

Superiorità della profezia sul dono delle lingue per l'edificazione della Chiesa 1Aspirate alla carità. Desiderate intensamente i doni dello Spirito, soprattutto la profezia. 2Chi infatti parla con il dono delle lingue non parla agli uomini ma a Dio poiché, mentre dice per ispirazione cose misteriose, nessuno comprende. 3Chi profetizza, invece, parla agli uomini per loro edificazione, esortazione e conforto. 4Chi parla con il dono delle lingue edifica se stesso, chi profetizza edifica l’assemblea. 5Vorrei vedervi tutti parlare con il dono delle lingue, ma preferisco che abbiate il dono della profezia. In realtà colui che profetizza è più grande di colui che parla con il dono delle lingue, a meno che le interpreti, perché l’assemblea ne riceva edificazione.

Esempi sul limite del dono delle lingue 6E ora, fratelli, supponiamo che io venga da voi parlando con il dono delle lingue. In che cosa potrei esservi utile, se non vi comunicassi una rivelazione o una conoscenza o una profezia o un insegnamento? 7Ad esempio: se gli oggetti inanimati che emettono un suono, come il flauto o la cetra, non producono i suoni distintamente, in che modo si potrà distinguere ciò che si suona col flauto da ciò che si suona con la cetra? 8E se la tromba emette un suono confuso, chi si preparerà alla battaglia? 9Così anche voi, se non pronunciate parole chiare con la lingua, come si potrà comprendere ciò che andate dicendo? Parlereste al vento! 10Chissà quante varietà di lingue vi sono nel mondo e nulla è senza un proprio linguaggio. 11Ma se non ne conosco il senso, per colui che mi parla sono uno straniero, e chi mi parla è uno straniero per me.

Invito a cercare doni della grazia per l'edificazione della Chiesa 12Così anche voi, poiché desiderate i doni dello Spirito, cercate di averne in abbondanza, per l’edificazione della comunità. 13Perciò chi parla con il dono delle lingue, preghi di saperle interpretare.

Altri esempi sul limite del dono delle lingue 14Quando infatti prego con il dono delle lingue, il mio spirito prega, ma la mia intelligenza rimane senza frutto. 15Che fare dunque? Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza. 16Altrimenti, se tu dai lode a Dio soltanto con lo spirito, in che modo colui che sta fra i non iniziati potrebbe dire l’Amen al tuo ringraziamento, dal momento che non capisce quello che dici? 17Tu, certo, fai un bel ringraziamento, ma l’altro non viene edificato. 18Grazie a Dio, io parlo con il dono delle lingue più di tutti voi; 19ma in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue.

Dimostrazione della superiorità della profezia per l'edificazione della Chiesa 20Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi. Quanto a malizia, siate bambini, ma quanto a giudizi, comportatevi da uomini maturi. 21Sta scritto nella Legge: In altre lingue e con labbra di stranieri parlerò a questo popolo, ma neanche così mi ascolteranno, dice il Signore. 22Quindi le lingue non sono un segno per quelli che credono, ma per quelli che non credono, mentre la profezia non è per quelli che non credono, ma per quelli che credono. 23Quando si raduna tutta la comunità nello stesso luogo, se tutti parlano con il dono delle lingue e sopraggiunge qualche non iniziato o non credente, non dirà forse che siete pazzi? 24Se invece tutti profetizzano e sopraggiunge qualche non credente o non iniziato, verrà da tutti convinto del suo errore e da tutti giudicato, 25i segreti del suo cuore saranno manifestati e così, prostrandosi a terra, adorerà Dio, proclamando: Dio è veramente fra voi!

Uso ecclesiale dei diversi doni della grazia 26Che fare dunque, fratelli? Quando vi radunate, uno ha un salmo, un altro ha un insegnamento; uno ha una rivelazione, uno ha il dono delle lingue, un altro ha quello di interpretarle: tutto avvenga per l’edificazione. 27Quando si parla con il dono delle lingue, siano in due, o al massimo in tre, a parlare, uno alla volta, e vi sia uno che faccia da interprete. 28Se non vi è chi interpreta, ciascuno di loro taccia nell’assemblea e parli solo a se stesso e a Dio. 29I profeti parlino in due o tre e gli altri giudichino. 30Ma se poi uno dei presenti riceve una rivelazione, il primo taccia: 31uno alla volta, infatti, potete tutti profetare, perché tutti possano imparare ed essere esortati. 32Le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti, 33perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace. Come in tutte le comunità dei santi, 34le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. 35Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea. 36Da voi, forse, è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi? 37Chi ritiene di essere profeta o dotato di doni dello Spirito, deve riconoscere che quanto vi scrivo è comando del Signore. 38Se qualcuno non lo riconosce, neppure lui viene riconosciuto. 39Dunque, fratelli miei, desiderate intensamente la profezia e, quanto al parlare con il dono delle lingue, non impeditelo. 40Tutto però avvenga decorosamente e con ordine.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Il carisma della profezia era stimato dai Corinzi come un dono spirituale prestigioso, perché le parole pronunciate dai profeti apparivano loro inequivocabilmente ispirate dallo Spirito Santo (cfr. At 13,1-5; 1Tm 4,14). Come i profeti dell'Antico Testamento, anche i cristiani che avevano ricevuto questo dono della grazia erano capaci di vedere nella storia i segni di rivelazione di Dio e di cogliervi la sua volontà salvifica per il presente e anche per il futuro. Quindi non si trattava anzitutto di predire avvenimenti futuri, benché i profeti facessero anche previsioni (cfr. At 11,27-28; 21,11). È più che verosimile che non solo alcuni atteggiamenti estatici dei profeti di Corinto, ma anche la loro capacità di prevedere il futuro, affascinassero notevolmente l'intera comunità cristiana.

Superiorità della profezia sul dono delle lingue per l'edificazione della Chiesa L'apostolo dichiara il primato della profezia, ma questa sua importanza non era condivisa dai Corinzi, che bramavano piuttosto il dono delle lingue. Si può capire l'esaltazione della glossolalia a Corinto se si coglie che cosa s'intendesse, in quel contesto socio-religioso, per «spirituale». Il concetto di spirito non era legato di per sé alle facoltà intellettuali. Designava piuttosto un impulso, una forza, simile, per esempio, a una ventata d'aria che, inspirata da una persona, la pervade tutta, fin nelle sue fibre più profonde. Se questo vale per l'aria, immaginavano già gli antichi Israeliti, tanto più deve valere per l'onnipotente Spirito vivificatore (cfr. Ez 37,9; Sal 104,30) con cui Dio opera efficacemente per la salvezza dell'umanità. Del vento nessuno sa «donde viene né dove va» (Gv 3,8); eppure muove le cose. Alla luce di questa concezione dello Spirito di Dio, s'intuisce il motivo per cui i Corinzi bramassero soprattutto i fenomeni carismatici più direttamente spirituali. Tra questi, la preghiera in lingue era messa al vertice, perché i cristiani che la praticavano apparivano, magari improvvisamente, come pervasi da una forza soprannaturale e misteriosa. Forse cadevano anche in estasi; mossi da questo impulso interiore, alcuni cristiani elevavano a Dio «gemiti inespressi» (Rm 8,26), senza quindi attenersi alle regole del linguaggio ordinario; anzi, senza una vera e propria lingua, senza il controllo della mente, senza forse sapere essi stessi che cosa intendessero comunicare al Signore. Per ridimensionare l'aspirazione dei Corinzi alla glossolalia l'apostolo mostra un'indubbia differenza tra questa e la profezia: mentre gli oracoli profetici potevano essere capiti da tutti, le preghiere in lingue restavano oscure ai più (vv. 2-3), a meno che qualcuno ne rivelasse il significato (v.5). Sotto il profilo comunitario il valore della profezia è superiore perché essa edifica non solo il carismatico che la esercita, ma anche la comunità cristiana (v. 4) alla quale è destinato il messaggio divino da lui mediato. Se è vero che è l'utilità comune il fine primario per cui ciascun cristiano riceve alcuni doni dallo Spirito (cfr. 12,7), allora è chiaro che la profezia è più importante della preghiera in lingue!

Esempi sul limite del dono delle lingue Intuendo la reazione dei destinatari della lettera, certamente contrari a questo suo ridimensionamento della glossolalia, Paolo fa tre tipi di esempi, prendendoli dalla propria esperienza personale (v. 6), dalla musica (vv. 7-9) e dalla linguistica(vv. 10-11).

  1. Un missionario come Paolo non riuscirebbe a svolgere alcuna attività pastorale efficace se si limitasse a esercitare il dono delle lingue. Una comunità cristiana come quella di Corinto necessita di insegnamenti dottrinali e morali, che Paolo può darle soltanto ricorrendo ad altri suoi doni spirituali.

  2. A livello ecclesiale, le preghiere in lingue prive di una traduzione sarebbero inutili come i suoni confusi di vari strumenti musicali. Perché ci sia una melodia, occorre che ciascuno strumento emetta un suono distinguibile da quello di un altro. Come un esercito non si muove a battaglia se non sente bene il suono della tromba, così una comunità cristiana non matura nella fede ascoltando le preghiere incomprensibili di un carismatico.

  3. Se infine si considera la comunicazione verbale tra gli uomini, è chiaro che la sua condizione di possibilità è l'uso di una lingua nota agli interlocutori. Senza di essa sarebbe arduo per loro intendersi.

Una comunità cristiana matura nella fede nella misura in cui comprende i messaggi salvifici che lo Spirito di Dio le comunica. A questo scopo lo Spirito Santo suscita al suo interno alcuni profeti e ne ispira gli oracoli, capaci d'illuminare la vita degli altri fedeli che docilmente li ascoltano. In quest'ottica la profezia è un dono spirituale più utile della glossolalia.

Invito a cercare doni della grazia per l'edificazione della Chiesa Alla luce degli esempi precedenti Paolo ribadisce (cfr. vv. 4-5) sotto forma di esortazione la prospettiva fondamentale che più gli sta a cuore, che è quella dell'edificazione della Chiesa (v. 12). Dopo di che, rivolgendosi direttamente ai cristiani che hanno ricevuto il dono delle lingue, suggerisce loro di chiedere allo stesso Spirito la capacità di tradurre le proprie preghiere, così che gli altri fedeli possano comprenderle e maturare nella fede (v. 13; cfr. vv. 5.27).

Altri esempi sul limite del dono delle lingue Se venisse a mancare la possibilità di comprendere il contenuto della preghiera in lingue, il suo limite sarebbe davvero grave a livello ecclesiale. Per aiutare i Corinzi a rendersene conto, Paolo fa altri tre esempi.

  1. Anzitutto Paolo mostra, a partire dalla propria esperienza personale, quanto sia fecondo elevare preghiere e salmi a Dio non solo con il proprio spirito, ma anche con la propria intelligenza. S'intuisce che egli designi con il termine «spirito» gli aspetti più emotivi della persona, che vibrano entrando in contatto con lo Spirito Santo (cfr. Rm 8,16). La «mente», invece, indica per lui la parte più cosciente e razionale dell'essere umano, che pure entra in gioco nel rapporto con lo Spirito. Anzi, per l'apostolo l'ideale sarebbe pregare con entrambi!

  2. Per favorire quindi la partecipazione attiva di tutti i fedeli alla preghiera comunitaria, è necessario tradurre le invocazioni in lingue. In caso contrario, l'assemblea, composta per la maggior parte da «non iniziati» (v. 16), ossia da cristiani che non hanno ricevuto il dono dell'interpretazione delle lingue, pur restando impressionata da un fenomeno spirituale così appariscente, non parteciperà in maniera sentita alla preghiera.

  3. Paolo confessa senza falsi pudori di possedere anche lui il dono delle lingue. Anzi – non senza una punta di orgoglio, tipica della sua personalità –, si vanta addirittura di essere capace di pregare in lingue più di tutti i Corinzi messi assieme (v. 18). Subito, però, aggiunge che, quando parla in un contesto comunitario, preferisce fare discorsi brevi ma comprensibili a tutti, piuttosto che preghiere prolisse in lingua, che quasi nessuno comprende (v. 19). Pur cedendo a qualche esagerazione, Paolo tiene anche qui a proporsi come modello per i suoi figli spirituali (cfr. 1Cor 4,16; Fil 3, 17), così da aiutarli a seguire Cristo, che egli stesso cerca d'imitare (cfr. 1Cor 11,1; 1Ts 1,6).

Dimostrazione della superiorità della profezia per l'edificazione della Chiesa Già precedentemente Paolo ha rimproverato i Corinzi di essere rimasti, sotto il profilo spirituale, come neonati, bisognosi di latte e incapaci di mangiare cibo solido. Indizio inequivocabile di questa loro immaturità sono le contese, causate dal loro attaccamento a un missionario piuttosto che a un altro (cfr. 3,1-4). Ora (v. 20) l'apostolo ripete il richiamo, ma da un altro punto di vista: siano pure innocenti come bambini, ma non siano immaturi nei modi di pensare e (sottinteso) anche nei modi di affrontare problemi importanti come quelli legati ai doni della grazia. A questo livello, cerchino invece di essere «perfetti», ossia maturi nella fede (cfr. anche 2,6). Trattando quindi i suoi fratelli di Corinto come maturi nella fede, Paolo cita la Sacra Scrittura (v. 21) a conferma della sua tesi circa la superiorità della profezia rispetto alla glossolalia. Paolo cita in maniera abbastanza libera un passo del libro del profeta Isaia (28,11-12) e coglie nel testo isaiano un'allusione alla glossolalia: come la lingua dei nemici stranieri era un segno per gli Israeliti increduli, così il dono delle lingue è un segno per i non credenti (v. 22a). Assistendo a una preghiera in lingue, si può restare impressionati emotivamente, ma non si è sollecitati a credere in Cristo! Come spiega Paolo subito dopo: ascoltando tali preghiere incomprensibili, si pensa di essere davanti a dei pazzi (cfr. 12,23). Rimanendo perciò non credenti, proprio come preannunciava l'oracolo isaiano: «Neppure così mi ascolteranno, dice il Signore». Per la maggior parte della giovane comunità di Corinto, proveniente dal paganesimo e non ancora esperta di Bibbia come Paolo, l'argomentazione non sarà sembrata subito così perspicua. Rendendosene forse conto, egli fa due esempi chiarificanti. Al caso negativo di non cristiani – definiti ora «non credenti» e «non iniziati» (v. 23) – sconcertati alla vista di un'intera comunità che pregasse in lingue, Paolo ne aggiunge uno positivo sulla profezia: un non cristiano potrebbe convertirsi al cristianesimo se, entrando in un'assemblea ecclesiale, si sentisse rivolgere da alcuni carismatici una serie di profezie sui suoi peccati o sui suoi segreti più intimi (vv. 24-25).

Uso ecclesiale dei diversi doni della grazia Dalla descrizione che l'apostolo fa di ciò che molto probabilmente avveniva quando la comunità cristiana di Corinto si riuniva in assemblea, si ha l'impressione di una notevole vivacità e libertà d'intervento. Alla domanda sul da farsi per regolamentare l'uso dei numerosi doni della grazia qui soltanto parzialmente evocati, Paolo tiene a ribadire subito un intento di fondo che va sempre perseguito dai fedeli, vale a dire l'edificazione della comunità cristiana (cfr. 14,3.5.12). Se lo scopo dei doni della grazia è la costruzione del tempio di Dio che è la Chiesa (cfr. 3,9), allora si può comprendere anche una rinuncia alloro utilizzo comunitario: se un fedele possiede un dono che, in una determinata situazione, non solo non è utile alla comunità, ma le è anche dannoso, in nome della carità non deve utilizzarlo. Paolo interviene a regolamentare l'uso comunitario della preghiera in lingue, che comunque egli valuta come un dono dello Spirito, benché ecclesialmente meno utile della profezia (cfr. 14,4-5.15). In particolare, l'apostolo raccomanda che, in nome della carità, un cristiano sia disposto ad astenersi dall'esercizio della glossolalia in un contesto comunitario, a meno che non si verifichino tre condizioni (v. 27). La prima è che a pregare in lingue nelle riunioni comunitarie siano solo due o al massimo tre carismatici. Resta immediatamente accantonata la possibilità di un esercizio collettivo di questo dono. A far problema non era tanto la durata delle riunioni, quanto piuttosto il loro ordine, visti gli atteggiamenti estatici che probabilmente accompagnavano queste preghiere già di per sé impressionanti. Da qui deriva la seconda condizione stabilita dall'apostolo: in ogni caso queste preghiere siano elevate a Dio in maniera ordinata. Ma soprattutto l'apostolo esige la presenza, all'interno dell'assemblea cristiana, di qualche altro fedele capace di rendere intelligibili le preghiere in lingue a tutti i presenti. Altrimenti i carismatici, pur avendo effettivamente ricevuto in dono da Dio la glossolalia, in pubblico devono tacere. Si rivolgano direttamente al Signore nel loro cuore (v. 28)!

Benché per la vita della comunità cristiana la profezia abbia un'utilità maggiore della glossolalia, anche il suo esercizio comunitario esige, per Paolo, qualche norma. Prima di tutto, allo stesso modo della preghiera in lingue, anche gli oracoli profetici siano numericamente ridotti a due o, al massimo, a tre (v. 29). In secondo luogo, è vero che le parole profetiche non necessitano di una traduzione come le preghiere in lingua, perché sono comprensibili a tutti; ma è altrettanto vero che richiedono di essere sottoposte a un discernimento altrui: nessun profeta può arrogarsi il diritto d'imporre agli altri il semplice frutto del proprio discernimento, senza che la comunità attui un «discernimento sul discernimento» profetico. Tant'è vero che un contributo profetico può essere offerto comunque anche da altri fedeli, che reagiscono agli oracoli iniziali. Ciò che conta, in questo caso – ed è la terza norma data da Paolo sulla profezia –, è che il profeta che ha concluso un oracolo taccia e, in maniera ordinata, prenda la parola chi vi reagisce. In breve: si parli uno per volta (vv. 30-31)! A motivare questa cura dell'ordine all'interno delle assemblee ecclesiali è la presenza del Signore, che è un Dio della pace, non del disordine!

È precisamente per evitare confusione che Paolo introduce, a questo punto del discorso, una digressione sul silenzio delle donne nelle assemblee. Il divieto paolino riguarda la discussione successiva agli oracoli profetici, finalizzata a farne un discernimento comunitario (v. 29). Effettivamente, per le consuetudini diffuse in tutte le Chiese (v. 33b), il fatto stesso che una donna entrasse in discussione con degli uomini sarebbe stato indecoroso per suo marito: i Corinzi sono debitori nei confronti di altre Chiese, da cui hanno ricevuto, tramite Paolo e suoi collaboratori, il Vangelo (v. 36). È sottinteso il richiamo a non arrogarsi il diritto di mutare queste usanze tradizionali.

Tornando alle direttive pratiche sull'uso dei doni della grazia, Paolo tiene a precisare l'autorevolezza di esse. Non sono semplicemente sue opinioni personali né precetti tradizionali, magari di discutibile attualità; sono un «comando del Signore» (v. 37; cfr. 7,10): Paolo intende affermare di essere coerente allo spirito dell'insegnamento di Cristo. Di conseguenza, se qualcuno tra gli oppositori di Paolo non riconosce questa coerenza dell'insegnamento paolino con quello del Signore, sappia che sta incrinando in questo modo il proprio rapporto con Dio (v. 38; cfr. 8,3).

In sede conclusiva Paolo può così enunciare in maniera lapidaria, ma ormai ampiamente provata da diversi punti di vista, la sua tesi della superiorità della profezia sul dono delle lingue. In concreto, la profezia è da ricercare e coltivare, mentre la glossolalia non è da contrastare, ma (sottinteso) è da moderare e regolamentare con più attenzione.

Se ciò vale sul piano dottrinale, a livello più pratico l'ordine e il decoro sono per Paolo l'atmosfera più adeguata affinché la carità si determini come edificazione della comunità (cfr. 8,1) e come ricerca del bene comune (cfr. 12,7).


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Senza la carità, i doni della grazia non giovano 1Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.

Ritratto della carità 4La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.

Senza i doni della grazia, la carità resta 8La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. 12Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

L'amore evangelico è il principio e il fondamento dell'esercizio dei doni spirituali per il bene comune della Chiesa. Per estirpare dalla comunità cristiana dei Corinzi ogni complesso d'inferiorità, che produceva scoraggiamento, disimpegno e individualismo, ma soprattutto ogni complesso di superiorità, che portava alla superbia e al disprezzo degli altri, Paolo rammenta loro con fermezza che la vita nella Chiesa deve essere animata dalla carità. I vv. 1-3 sono sotto il segno dell'«ora», mentre i vv. 8-12 sono nell'ottica dell'«allora», ossia della fine della storia, anche se la conclusione dell'elogio alla carità torna significativamente a considerare il presente (v. 13). «Ora» i doni concessi dallo Spirito Santo a ogni cristiano non produrrebbero frutti di salvezza se non fossero alimentati, come i tralci della vite, dalla linfa, anch'essa spirituale (cfr. Rm 5,5; Gal5,22), della carità. «Allora», quando saremo glorificati e i doni terreni della grazia svaniranno, rimarrà soltanto la carità. Ed è precisamente la carità, con i suoi pregi, a essere messa al centro (vv. 4-7) tra l'oggi della Chiesa e la sua eternità.

Senza la carità, i doni della grazia non giovano Il primo paragrafo è caratterizzato fortemente da tre ipotesi negative: Paolo fa il caso di essere in possesso di alcuni doni spirituali, ma di non avere la carità. «Poniamo – sembra dire ai Corinzi – che io riuscissi a pregare Dio persino con la lingua inaudita delle creature angeliche...» disgiunto dalla carità, persino questo dono così ambìto non servirebbe a niente. Anzi, provocherebbe confusione. Causerebbe un fastidioso rumore, simile a quello provocato dalla ripetuta percussione di una spranga di bronzo: così, si fa fracasso, non si tiene il ritmo della melodia, come invece si dovrebbe fare con i cembali (cfr. Sal 150,5). Poi l'apostolo riconduce nei giusti limiti anche un secondo dono spirituale molto apprezzato a Corinto, vale a dire la profezia (v. 2a; cfr. 12,10.28): anche questo dono spirituale, privo della carità, sarebbe inutile (v. 2). Infine Paolo allarga il discorso a qualsiasi gesto di generosità e di dedizione (v. 3): senza la carità un comportamento generoso o addirittura eroico, non sarebbe utile in vista della propria salvezza. Paolo, insomma, denuncia la possibilità di compiere atti di assistenza ai poveri così grandi sotto la spinta non della carità, ma dell'orgoglio. Qualsiasi cosa facciamo, se desideriamo rimanere in una relazione salvifica con il Signore, dobbiamo lasciarci avvolgere e coinvolgere dalla sua stessa carità (cfr. 2Cor 5,14). Altrimenti, potremmo pure fare tantissimo, magari in nome di Dio e a vantaggio degli altri, ma ci agiteremmo invano!

Ritratto della carità Che cosa intende Paolo per «carità»? Non è primariamente l'amore dei cristiani per Cristo o – come appare da 1Cor 13 – il loro amore per gli altri; originariamente è l'amore generoso e incondizionato di Cristo per gli uomini (cfr. 2Cor 5, 14-15), “principio e fondamento” del loro amore per Cristo o per il prossimo. Paolo fa una specie di identikit della carità. Ne schizza i pregi con quindici tratti essenziali, sette indicati in positivo e otto in negativo, partendo sempre da ciò che in concreto essa suscita nelle persone. La prima caratteristica della carità è la magnanimità, che spinge chi ama a vincere la collera. Adirarsi e vendicarsi sono atteggiamenti contrari all'amore (v. 5): chi segue Cristo cerca di vincere il male con il bene (cfr. Rm 12,21). Nella Chiesa di Corinto invidia (cfr. 1Cor 3,3) e orgoglio (cfr. 4,6.18-19; 5,2; 8,1) erano di casa. Del resto, esse non sono che due facce della stessa medaglia: chi si gonfia d'orgoglio e si vanta per le proprie doti non solo non ne riconosce l'origine divina, ma è incapace di rallegrasi delle qualità altrui. Al contrario, s'impegna con zelo per scavalcare il prossimo. Da qui a comportarsi sconvenientemente nei suoi confronti (cfr. 7,36), il passo è breve. Al contrario, la carità sgorga dall'imitazione di Cristo (cfr. 1Cor 11,1) e dal lasciarsi conformare dal suo Spirito alla solidarietà vissuta da lui, il quale, da ricco che era nella sua condizione divina, si è svuotato e si è fatto povero, per arricchire noi (cfr. Fil 2,6-7; 2Cor 8,9). Sempre cercando di conformarsi a Cristo (cfr. Rm 8,29; Fil3,10-11), i cristiani che vivono la carità non cercano il proprio interesse (v. 5b). La carità è un amore particolare, che spinge a donarsi agli altri in maniera generosa, disinteressata, senza porre alcuna condizione, neanche quella umanamente più ovvia di essere contraccambiati dalle persone amate. In questo senso, essa è il primo «frutto dello Spirito» (Gal 5,22), il quale suscita nei cristiani la stessa capacità di Cristo di perdonare gli altri e di continuare a credere in loro nonostante tutto, sperando nella loro bontà, anche a costo di sopportare ingiustizie da parte loro (v. 7)

Senza i doni della grazia, la carità resta Dopo aver inneggiato all'amore evangelico (vv. 4-7), Paolo proietta lo sguardo verso la vita eterna, perché se è vero che l'amore dà senso all'esercizio dei doni della grazia, è altrettanto vero che lo fa perché li trascende. Dal punto di vista della venuta gloriosa di Cristo risorto, che Paolo spera come imminente (cfr. 7,29.31; 15,51-52), l'amore risalta ancora di più, essendo l'unica realtà che non verrà meno (v. 8). Passando dalla condizione terrena alla vita dei risorti, con un processo di maturazione analogo a quello che dall'infanzia conduce alla maturità, i credenti in Cristo percepiranno con chiarezza la caducità e l'imperfezione dei doni terreni dello Spirito, in particolare quelli legati al parlare come la profezia e la glossolalia (v. 11). Per quanto riguarda la conoscenza, per esempio, sulla terra possiamo sì conoscere Dio, cioè entrare in rapporto con lui, ma in fondo – sembra chiedersi l'apostolo – che cosa vediamo di lui? Soltanto qualche immagine «come in uno specchio» (v. 12): a quei tempi, gli specchi greci, piuttosto rudimentali, non permettevano una visione nitida. È vero che la creazione del mondo manifesta qualcosa del suo autore (Rm 1,20; cfr. Sap 13,5), ma di fatto, per chi è ancora in cammino in questo mondo, Dio rimane «invisibile» (Col 1,15; 1Tm 1,17; Eb 11,27). In questo senso nemmeno i cristiani devono illudersi di amare il Signore che non si vede, se non amano il prossimo che invece si vede (cfr. lGv 4,20)! Per l'apostolo quando saremo risuscitati dai morti, potremo conoscere amorevolmente Dio in un modo più perfetto rispetto a quello della fede terrena. E questa reciprocità della conoscenza d'amore (v. 12b; cfr. 8,3; Gal 4,9) ci colmerà di felicità. In questo senso la fede si trasformerà in visione. Ciò che quindi rimarrà per sempre in paradiso è il bene che avremo voluto e che continueremo a volere a Dio e agli altri. In questo senso la carità è l'unica realtà che «non viene mai meno», cioè che non «cade» nel nulla (1Cor 13,8), perché tornerà, assieme a noi, risorti e trasfigurati in corpi spirituali (cfr. 15,44), alla sua fonte divina. Se questo è il destino glorioso dell'amore umano (cfr. Rm 8,29-30; Ef 1,5.11), è chiaro perché esso, fin d'ora, è la virtù più grande (v. 13). Ogni altra realtà della vita, inclusi i doni della grazia, profuma fin d'ora d'eternità soltanto nella misura in cui è intrisa di carità.


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Diversi doni dell'unico Spirito di Cristo 1Riguardo ai doni dello Spirito, fratelli, non voglio lasciarvi nell’ignoranza. 2Voi sapete infatti che, quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti. 3Perciò io vi dichiaro: nessuno che parli sotto l’azione dello Spirito di Dio può dire: «Gesù è anàtema!»; e nessuno può dire: «Gesù è Signore!», se non sotto l’azione dello Spirito Santo. 4Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; 5vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; 6vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. 7A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: 8a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; 9a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.

Diverse membra per formare l'unico corpo di Cristo 12Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. 13Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito. 14E infatti il corpo non è formato da un membro solo, ma da molte membra. 15Se il piede dicesse: «Poiché non sono mano, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 16E se l’orecchio dicesse: «Poiché non sono occhio, non appartengo al corpo», non per questo non farebbe parte del corpo. 17Se tutto il corpo fosse occhio, dove sarebbe l’udito? Se tutto fosse udito, dove sarebbe l’odorato? 18Ora, invece, Dio ha disposto le membra del corpo in modo distinto, come egli ha voluto. 19Se poi tutto fosse un membro solo, dove sarebbe il corpo? 20Invece molte sono le membra, ma uno solo è il corpo. 21Non può l’occhio dire alla mano: «Non ho bisogno di te»; oppure la testa ai piedi: «Non ho bisogno di voi». 22Anzi proprio le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie; 23e le parti del corpo che riteniamo meno onorevoli le circondiamo di maggiore rispetto, e quelle indecorose sono trattate con maggiore decenza, 24mentre quelle decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio ha disposto il corpo conferendo maggiore onore a ciò che non ne ha, 25perché nel corpo non vi sia divisione, ma anzi le varie membra abbiano cura le une delle altre. 26Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. 27Ora voi siete corpo di Cristo e, ognuno secondo la propria parte, sue membra. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti fanno miracoli? 30Tutti possiedono il dono delle guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? 31Desiderate invece intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Diversi doni dell'unico Spirito di Cristo L'apostolo inizia a fare una premessa di taglio cristologico: senza l'influsso esercitato dallo Spirito sull'uomo di fede, questi non riuscirebbe nemmeno a proclamare che «Gesù è il Signore», ovvero la formula-base della propria fede. Perciò il fatto stesso che una persona rinneghi, a parole o con la vita, questa professione di fede mostra come non stia agendo secondo lo Spirito (v. 3). Paolo invita i suoi fratelli di Corinto a far discernimento (cfr. 1Ts 5,21), alla luce della professione di fede sulla signoria salvifica di Cristo (cfr. 1Cor 8,6; anche Rm 10,9; Fil 2,11), tra i doni spirituali autentici e altri fenomeni idolatrici magari apparentemente coincidenti. Se è l'unico Spirito a suscitare la fede in Cristo e i doni della grazia, un sedicente carismatico che dichiarasse che «Gesù è maledetto!» (v. 3) o qualsiasi altra bestemmia del genere non sarebbe di sicuro ispirato dallo Spirito Santo. Paolo passa a considerare la natura e, in particolare, la provenienza divina dei veri doni spirituali. L'accento del discorso cade sull'unicità della loro origine (l'unico Dio, che è Padre, Figlio e Spirito), alla quale va comunque ricondotta la loro molteplicità. Per illustrare tale diversità, l'apostolo distingue «doni della grazia», «ministeri» e «capacità operative», benché siano realtà che in parte vengono a sovrapporsi. Se i doni della grazia indicano le attitudini suscitate nei singoli fedeli, i ministeri designano piuttosto le attività di servizio dell'intera comunità cristiana, che possono andare dal governo di essa (cfr. v. 28) fino al cosiddetto servizio delle mense (cfr. At 6, 1-4). Infine, le capacità operative (o «operazioni») sono caratterizzate da una certa straordinarietà, come nel caso della «capacità di operare miracoli» (v. 10). Individuata l'unità teologica dei diversi doni, Paolo ne fa un elenco che, pur essendo più preciso della precedente catalogazione tripartita (vv. 4-6), resta comunque parziale. Al di là della non facile determinazione di questi e altri doni spirituali, si coglie che, per Paolo, l'intento perseguito dallo Spirito è sollecitare ciascun cristiano a mettersi a servizio della comunità ecclesiale, «per il bene comune» dei suoi membri (v. 7). Questi doni della grazia, quindi, sono essenziali alla vita della comunità cristiana; a una condizione, però: che cioè (come subito l'apostolo puntualizzerà con la similitudine del corpo umano, cfr. vv. 12-31) ogni cristiano metta i propri doni a disposizione della Chiesa non in maniera scomposta, ma armonica; non per trame un guadagno personale né per emergere sugli altri, ma per fare loro del bene. In questa docilità generosa all'unico Spirito del Crocifisso risorto, per amore del quale si vive (cfr. Rm 14,7-9; 2Cor 5,14-15), Paolo individua il rimedio principale a qualsiasi forma di ambizione, di protagonismo ecclesiastico, di gelosia e d'invidia, che rischiava di smembrare la Chiesa di Corinto.

Diverse membra per formare l'unico corpo di Cristo Finora l'apostolo ha mostrato come dall'unico Spirito provengano doni differenti. A questo punto evidenzia come nell'unico corpo ecclesiale di Cristo ci siano membra diverse, tutte comunque necessarie alla sua esistenza. Paolo sottolinea particolarmente questo aspetto perché nella Chiesa corinzia il problema più grave consisteva nel fatto che stavano sviluppandosi deleteri complessi di superiorità, se così si può dire, nei carismatici dotati delle capacità più prestigiose e complessi d'inferiorità nei cristiani che non le possedevano. Paolo applica alla Chiesa un'immagine usata a quei tempi specialmente dallo stoicismo, per descrivere la società civile. La più famosa testimonianza di questa concezione della società è l'apologo di Menenio Agrippa, console di Roma nel 503 a.C. e abile mediatore nella prima grande frattura verificatasi tra i patrizi e i plebei. Il fondamento dell'identificazione tra la comunità cristiana e il corpo di Cristo è rintracciato da Paolo nel battesimo: grazie a esso, i fedeli di Corinto, pur nelle loro diversità etnico-culturali («Giudei o Greci») e sociali («schiavi o liberi»), hanno fatto un tutt'uno con Cristo (v. 13; cfr. anche Gal 3,28). Sono stati immersi nell'acqua e nello Spirito e misteriosamente hanno preso parte così alla morte di Cristo, iniziando a partecipare a una vita nuova in virtù della sua stessa risurrezione (cfr. Rm 6,4; Col 2,12.20; 3,3). È come se nel battesimo (ma, forse, qui Paolo allude anche all'eucaristia) essi si fossero abbeverati dello Spirito. Attraverso questa immagine somatica, comprensibile anche ai più semplici, l'apostolo aiuta i fedeli di Corinto a cogliere quanto sia necessaria, all'interno dell'unica Chiesa, la sinergia di doni spirituali differenti. Per lui la comunità cristiana ideale non è caratterizzata affatto dall'uniformità. Sarebbe come un corpo costituito da membra tutte uguali: non sarebbe un corpo armonico, ma un mostro (vv. 12,14.17.19). In concreto, questo modo di vedere la Chiesa porterà l'apostolo a evitare, per esempio, d'imporre ai cristiani di Corinto di pregare tutti allo stesso modo. D'altro canto, non minaccerà mai di espellere dalla comunità i carismatici, pur sapendo che facevano confusione, pregando pubblicamente in lingue, cioè con espressioni inarticolate e incomprensibili. La Chiesa è un'unità nella diversità animata dalla carità.

In primo luogo Paolo cerca di rinsaldare l'identità cristiana dei fedeli che stavano cedendo a dannosi complessi d'inferiorità. Non avendo carismi prestigiosi, costoro erano trattati dai carismatici della comunità come «deboli» (cfr. 1Cor 8,9; 9,22; 12,22), «uomini naturali» (2,14), «carnali» (cfr. 3,1-3), insomma come cristiani di rango inferiore. Mettendosi invece nei loro panni, Paolo li rassicura del fatto che nessun membro del corpo umano possa esserne escluso soltanto perché svolge una funzione meno prestigiosa di un altro. La varietà dei doni della grazia diffusi tra tutti i cristiani non va tollerata semplicemente perché inevitabile. È piuttosto la condizione di possibilità perché una comunità cristiana sussista e, nella sua vivacità spirituale, renda presente Cristo in questo mondo. Tutti i doni dello Spirito sono essenziali alla missione della comunità cristiana e, siccome ciascun fedele ha in dotazione alcuni di questi doni (vv. 7.11), non c'è nessuno che non sia necessario alla Chiesa.

L'apostolo si rivolge poi ai cristiani che ostentavano doni divini straordinari: Paolo si sente in dovere di ridimensionare i complessi di superiorità di questi carismatici. Cerca però di non umiliarli con rimproveri troppo espliciti e diretti, per evitare che abbandonino la comunità: nella comunità cristiana abbiamo bisogno gli uni degli altri! Anche i cristiani meno spiritualmente maturi, con i quali magari ci si vergogna a farsi vedere nelle grandi occasioni, appartengono a pieno titolo al corpo di Cristo. Anzi, il Vangelo di Gesù spinge gli altri fedeli a prendersi cura in maniera particolare di queste persone (cfr. Mt 25,40). Paolo raccomanda con fermezza che la Chiesa viva all'insegna della logica alternativa della solidarietà con gli altri (v. 25) nella buona e nella cattiva sorte (v. 26), in modo simile a quanto avviene, per volontà di Dio, nel corpo umano (v. 24). Non solo: ma se c'è un debole, è a lui che deve andare il posto d'onore; è a lui che spetta un'attenzione particolare da parte della comunità. Anzi, è doveroso prendersi cura di lui con quella discrezione e con quella delicatezza con cui si trattano le parti intime del proprio corpo.

Dalla definizione della comunità cristiana come corpo di Cristo l'apostolo tira una prima conseguenza concreta: ogni cristiano, a partire dai doni della grazia che ha ricevuto, può e deve fare la sua parte in armonia con gli altri (v. 27). Tornando poi a parlare esplicitamente della comunità cristiana, l'apostolo introduce una seconda breve lista di doni della grazia (v. 28). Le domande retoriche conclusive (vv. 29-30) sono finalizzate a riaffermare la tesi della variegata molteplicità dei doni della grazia all'interno dell'unica Chiesa che, proprio grazie a essi, seguita a essere nel mondo corpo di Cristo.

Mediante la Chiesa, Cristo risorto continua a fare spiritualmente (cfr. Rm 1,4) ciò che faceva ai suoi tempi tramite il suo corpo terreno: arricchire i credenti «in ogni cosa, in ogni parola e in ogni conoscenza» (1Cor 1,5) così da giustificarli e santificarli (cfr. 1,30). A questo scopo, la Chiesa fa risuonare lungo la storia il Vangelo e consente agli uomini di sperimentare nell'eucaristia e negli altri sacramenti i gesti di bontà, sempre attuali nelle diverse epoche, di Gesù risorto. Così li mette in grado di vivere con lui e «in [... ] memoria di lui» (1Cor 11,24.25), ossia come ha vissuto lui.

Grazie ai doni ricevuti dallo Spirito, ciascun cristiano (cfr. 12,7.11) diventa, nella propria epoca, memoria vivente di Cristo, secondo le proprie capacità (cfr. 12,27). Da questa profonda consapevolezza di fede sgorga il criterio fondamentale per vivere in modo evangelico le diversità nella Chiesa: nel corpo ecclesiale di Cristo le membra sono tutte necessarie.

Se nella Chiesa non ci fosse questa originalità dei singoli cristiani, il volto stesso del Signore finirebbe per impallidire. La Chiesa è una perché ha un unico fondamento: Cristo crocifisso e risorto, con il quale i cristiani, pur essendo molti, fanno un solo corpo (1Cor 10,17). Ma per consentire agli uomini di ogni epoca d'incontrare Cristo risorto, tutte le membra del suo organismo ecclesiale sono indispensabili, animate come sono dalla carità, che è la via «più sublime» che Paolo invita a percorrere (12,31b). Solo se si è sospinti da essa (cfr. 2Cor 5,14), è lecito desiderare i doni spirituali più grandi (v. 31a), messi ai primi posti dell'elenco paolino (v. 28). Altrimenti tale desiderio si trasforma in vuota e dannosa ambizione (cfr. 13,1-3).


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Invito conclusivo all'imitazione della carità di Paolo 1Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.

Abbigliamento delle donne nelle assemblee liturgiche 2Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. 3Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. 4Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. 5Ma ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto, manca di riguardo al proprio capo, perché è come se fosse rasata. 6Se dunque una donna non vuole coprirsi, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. 7L’uomo non deve coprirsi il capo, perché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. 8E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; 9né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. 10Per questo la donna deve avere sul capo un segno di autorità a motivo degli angeli. 11Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. 12Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. 13Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna preghi Dio col capo scoperto? 14Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, 15mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La lunga capigliatura le è stata data a modo di velo. 16Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.

Biasimo di Paolo per le divisioni ecclesiali 17Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. 18Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. 19È necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino quelli che hanno superato la prova. 20Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. 21Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. 22Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!

Tradizione ecclesiale della cena del Signore 23Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». 25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.

Direttive di Paolo in vista della comunione ecclesiale 27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo. 33Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. 34E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Invito conclusivo all'imitazione della carità di Paolo A conclusione dell'articolata trattazione del problema della carne sacrificata agli idoli, Paolo osa proporsi esplicitamente ai cristiani di Corinto come modello di comportamento. La condizione previa di quest'imitazione di Paolo è la sua continua tensione verso l'imitazione di Cristo. Questo processo d'imitazione risale a Cristo stesso: i Vangeli sono concordi nell'attestare che Gesù si è costantemente presentato ai discepoli come modello di obbedienza al Padre (cfr. Gv 15,10), di servizio del prossimo (cfr. Mt 20,28; Lc 22,26-27; Gv 13,14-15) e, più in genere, di carità (cfr. Gv 13,34; 15,12).

Abbigliamento delle donne nelle assemblee liturgiche Nel I secolo d.C., sia in ambito giudaico che nella cultura greco-romana, alla donna era assegnata una posizione subordinata rispetto all'uomo. Il costume che la donna portasse il velo in luoghi pubblici era presente sia nel giudaismo che nella società greco-romana, nella quale andavano a capo scoperto in pubblico soltanto le schiave e le prostitute. Paolo ribadisce la consuetudine che le donne abbiano il capo coperto durante le riunioni ecclesiali. In queso egli è di certo influenzato dalla cultura maschilista del tempo. Tuttavia, ad animare la sua presa di posizione è anche la convinzione che, dopo la conversione alla fede cristiana, sia meglio che «ciascuno proceda» verso la santità «secondo la condizione che gli ha affidato il Signore, come egli (era quando) Dio lo ha chiamato» (7, 17). In altre parole: come per la questione della carne immolata agli idoli (cfr. 10,32), così anche per l'uso del velo femminile a Paolo sta a cuore evitare la diffusione, nella comunità già irrequieta di Corinto, di comportamenti sovversivi, che avrebbero finito per scandalizzare i fedeli ancora immaturi e per ostacolare la conversione dei non cristiani. Si può cogliere in Paolo l'intento positivo di raccomandare alle credenti in Cristo di osservare questa consuetudine culturale del velo per salvaguardare la propria dignità, senza mettere in imbarazzo il marito.

Da buon fariseo (cfr. At 23,6; 26,5; Fil 3,5), abilissimo conoscitore della Sacra Scrittura, Paolo aggiunge una prova biblica a supporto della sua posizione. Il testo evocato è quello di Gen 1,26-27 sulla creazione dell'essere umano a «immagine» di Dio. Di per sé questo passo, mettendo in parallelo l'«immagine di Dio» con «maschio e femmina» (Gen 1,27), la identifica non con l'essere umano di sesso maschile, ma con l'uomo e con la donna. Anzi, il nucleo incandescente della rivelazione biblica che qui si sprigiona è che l'immagine del Dio-amore (cfr. 1Gv 4,8.16) è la comunione d'amore dell'uomo e della donna. Tutto preso dal suo intento pastorale, Paolo attribuisce soltanto all'uomo la dignità di «immagine[...] di Dio» (v. 7b). Paolo insiste, invece, sul fatto che il primo capolavoro plasmato dal Creatore sia l'uomo. È lui, quindi, che dà onore a Dio. La donna, invece, dà gloria all'uomo, perché deriva da lui (v. 8), ossia – per il secondo racconto della creazione nel libro della Genesi (2,21-23) – è stata tratta da una sua costola. Senza considerare il fatto che il testo biblico avrebbe potuto essere interpretato nel senso che l'uomo e la donna sono esseri di pari dignità, destinati a completarsi a vicenda, l'apostolo insiste piuttosto sulla creazione della donna «per l'uomo» (v. 9).

L'ultima ragione che, per Paolo, supporta la consuetudine che le donne cristiane non partecipino a capo scoperto alle assemblee ecclesiali è l'osservazione dei processi biologici della capigliatura maschile e femminile. Ma, a questo riguardo, l'apostolo interpella con due domande retoriche gli stessi destinatari della sua lettera (v. 13). Siano loro a dare un parere, tenendo conto di quanto insegna la stessa natura, secondo cui i capelli lunghi sono motivo di disonore per l'uomo, ma ragione di vanto per la donna. In questo modo, la natura pare insegnare agli uomini a tagliarsi i capelli e alle donne a lasciarseli crescere. Per i primi, quindi, sarebbe sconveniente farli crescere; per le seconde, tagliarseli sarebbe un atto contro natura, perché la stessa natura ha donato loro una lunga capigliatura quasi fosse un copricapo (v. 15).

Giunto al termine della triplice argomentazione, Paolo riprende la lode inizialmente rivolta ai Corinzi per la loro fedeltà alle tradizioni da lui ricevute sotto forma di invito a continuare a osservare la consuetudine del velo femminile.

Biasimo di Paolo per le divisioni ecclesiali Al rimprovero iniziale che Paolo fa ai cristiani di Corinto per il loro modo non caritatevole di riunirsi a celebrare la memoria dell'ultima cena del Signore (cfr. v. 17) fa da inclusione la domanda retorica e la secca risposta data dall'apostolo: «Che dirvi? Devo lodarvi? In questo non (vi) lodo!» (v. 22). Il dato è inequivocabile e scandaloso: proprio in occasione della celebrazione dell'eucaristia – che si svolgeva nell'ambito di un pasto comunitario- alcuni ricchi non solo si permettevano di esagerare nel mangiare e specialmente nel bere, ma soprattutto si disinteressavano dei più bisognosi, costretti così a mangiare gli avanzi o le poche vivande che si erano portati da casa. Paolo si mostra indubbiamente irritato per la loro sfacciata mancanza di carità, del tutto incoerente con il gesto culminante della carità di Cristo celebrato nell'eucaristia. Ciò nonostante, Paolo riesce a cogliere persino in una situazione così squallida un aspetto positivo: essa può diventare un'occasione favorevole per vedere chi tra i Corinzi è davvero un credente in Cristo (v. 19). Messi alla prova da questo scandalo i fedeli che non cadranno in certi atteggiamenti discriminatori, anzi che vi si opporranno con decisione, saranno cristiani autentici. Gli altri, invece, contribuiranno ad accentuare le divisioni che già feriscono la comunità cristiana, dimostrando di essere ancora immaturi nella vita spirituale (cfr. 3,1-4). Paolo non può fare a meno di dare un'indicazione pratica, da cui traspira tutto il suo sdegno: per lui sarebbe meglio mettere fine a questa farsa! In breve: converrebbe che ciascuno mangiasse a casa propria e poi si recasse alla celebrazione eucaristica. Che senso avrebbe perpetuare l'umiliazione dei fedeli più poveri, se non quello di svergognare l'intera Chiesa (v. 22a)? Se stanno così le cose, ogni lode per i Corinzi è fuori luogo (v. 22b)! Una celebrazione eucaristica evidentemente contraddetta dalla mancanza di solidarietà diventa inevitabilmente vuota e incoerente ritualità. Così era a Corinto: l'eucaristia finiva per essere equiparabile ai riti pagani, ritenuti capaci di efficacia salvifica, anche a prescindere dalle relazioni di solidarietà tra i partecipanti.

Tradizione ecclesiale della cena del Signore Com'è possibile aiutare i cristiani di Corinto a vivere in concreto la carità che celebravano nel rito eucaristico? Nella visione cristocentrica di Paolo non c'è mezzo migliore che offrire alla contemplazione dei Corinzi la memoria ecclesiale dell'ultima cena di Gesù. Paolo attinge al racconto che aveva ascoltato molto probabilmente nella comunità cristiana di Antiochia, in cui aveva vissuto per un anno (cfr. At 11,25-26), qualche tempo dopo il suo incontro con il Signore risorto. Questa narrazione paolina dell'istituzione dell'eucaristia – che è la più antica del Nuovo Testamento – fu messa per iscritto, più di due decenni dopo, anche da Luca, fedele collaboratore di Paolo (cfr. Col 4,14; 2Tm 4,11; Fm 24), nel proprio vangelo (cfr. Lc 22,19-20). Nel ricordo trasmesso qui da Paolo è esplicitata l'intenzione di Gesù di portare a compimento, attraverso la sua morte in croce, la promessa fatta da Dio per mezzo del profeta Geremia di una «alleanza nuova» (Ger 31,31- 34) con il popolo d'Israele: «Questo calice – dichiara Gesù – è la nuova alleanza nel mio sangue» (v. 25; cfr. Lc 22,20). Senza precisare il riferimento alla Pasqua, puntualizzato invece dai vangeli sinottici (cfr. Mt 26,17-19; Mc 14,12-16; Lc 22,7-15), Paolo inquadra l'ultima cena di Gesù «nella notte in cui veniva tradito)) o, più letteralmente, «consegnato». In quella notte in cui Cristo fu «tradito» da Giuda e «consegnato» dal Padre, egli stesso anticipò la propria auto-consegna sulla croce nei gesti eucaristici. Paolo ricorda anzitutto che Gesù rese grazie a Dio (v. 24; cfr. Lc 22,19), un gesto espresso con il verbo greco eucharistéo, da cui «eucaristia». Era la preghiera con cui il capofamiglia dava inizio al banchetto pasquale – e, meno solennemente, anche ai pasti quotidiani – per il cibo ricevuto in dono dal Signore. Nella cena pasquale il ringraziamento si ampliava fino a comprendere i grandi benefici compiuti da Dio a favore del popolo d'Israele, lungo la storia della salvezza. Dopo di che, il capofamiglia distribuiva il pane spezzato ai presenti, che così partecipavano al «memoriale» della Pasqua (Es 12,14), ossia del passaggio dalla schiavitù in Egitto alla libertà dei figli di Dio (cfr. Es 23,15; 34,18; Dt 16,1). Ma nel contesto rituale d'intensa comunione, e anche di grande angoscia della sua ultima cena, Gesù rivelò il senso salvifico che intendeva dare alla propria morte cruenta, ormai prevista come imminente. A questo scopo, egli identificò del pane con il suo corpo, che di lì a poche ore sarebbe stato crocifisso a favore di ogni uomo. Giunto poi al termine della cena, Gesù benedisse il terzo e ultimo calice del rituale pasquale ebraico e dichiarò che il vino dato da bere ai discepoli era il suo sangue, che egli avrebbe dovuto versare allo scopo d'istituire la «nuova alleanza» tra Dio e gli uomini (v. 25; Lc 22,20; cfr. Ger 31,31-34). In questo modo Gesù manifestò, a parole e con gesti particolarmente significativi, il desiderio che il proprio modo di morire «per» gli altri (v. 24; cfr. Lc 22,19.20) – sulle orme del servo sofferente del Signore (cfr. Is 53,12) – diventasse il mezzo efficace del compimento della salvezza. Grazie a esso, Dio Padre avrebbe potuto perdonare e giustificare gli uomini peccatori (cfr. 2Cor 5,21), stringendo con loro una nuova ed eterna alleanza (cfr. 2Cor 3,6.10; Eb 8,6.8; 9,15; 12,24; 13,20). Paolo rammenta ai Corinzi questo gesto supremo d'amore di Gesù perché è convinto che così avrebbero potuto riscoprire il senso profondo del comando di lui: «Fate questo in mia memoria» (vv. 24.25; cfr. Lc 22,19). Questa esortazione non va intesa riduttivamente nel senso di continuare a ripetere, lungo la storia, la celebrazione dell'eucaristia. L'invito di Cristo è a vivere in sua memoria, ossia a vivere come lui all'insegna dell'amore per Dio e per il prossimo. Ma, certo, per riuscirvi, i credenti sono chiamati a vivere strettamente uniti a lui (cfr. lCor lO,16-17), mangiando tutti «lo stesso cibo spirituale» (10,3). Dunque, è con la vita, e non solo a parole, che i fedeli di Corinto dovranno proclamare il mistero della morte e della risurrezione di Cristo, attendendo il suo ritorno glorioso alla fine dei tempi (v. 26; cfr. 1,7; Fil3,20). Ma anche nel tempo dell'attesa è sempre il Crocifisso risorto che, tramite lo Spirito, unisce a sé i credenti nella celebrazione dell'eucaristia (cfr. lO,16-17), facendo memoria della sua passione e della sua morte, attraverso cui è passato «da questo mondo al Padre» (Gv 13,1).

Direttive di Paolo in vista della comunione ecclesiale L'apostolo dà ai Corinzi alcune disposizioni e ammonizioni non prive di severità. Conclude poi prospettando ai cristiani che non le dovessero osservare una «condanna». Paolo inizia con l'ammonire i Corinzi, avvertendoli che chiunque partecipi all'eucaristia senza riconoscere il corpo ecclesiale di Cristo, perché vive persino questa celebrazione in maniera incoerente rispetto alla carità, si autocondanna al cospetto del Signore (v. 27). Per modalità indegna di celebrare l'eucaristia Paolo intende proprio quella mancanza di solidarietà, che tanto differenziava il vivere «in mia memoria (di Cristo») (vv. 24.25) dagli atteggiamenti poco caritatevoli con cui alcuni Corinzi s'accostavano all'eucaristia. Chi fa discriminazioni nei confronti dei meno abbienti e incrementa le divisioni comunitarie (cfr. vv. 17-22) non è colpevole soltanto verso gli altri, ma lo è primariamente nei confronti di Cristo. Egli, infatti, ama specialmente i deboli ed è morto anche per loro (cfr. 8,11). Per di più, causare divisioni interne alla comunità cristiana significa distruggere il tempio di Dio che essa è (cfr. 3, 17), ovvero smembrare il corpo di Cristo che essa rende visibile nella storia (cfr., p. es., 1,13; 12,18-27). Il suggerimento pressante che l'apostolo dà ai suoi interlocutori è che ciascuno faccia un esame di coscienza, per evitare di autocondannarsi al cospetto di Dio. Il punto fondamentale su cui verificarsi è la propria effettiva capacità di riconoscere il «corpo (del Signore)» (v. 29). Ma con questa espressione Paolo non designa soltanto il corpo eucaristico di Cristo, ma anche il suo corpo ecclesiale. Paolo teme che alcuni dei fedeli di Corinto non credano in questa verità di fede. Tant'è vero che si sono verificati vari casi di malattie e di morti (v. 30).Pur individuando un rapporto di causalità tra il peccato e la sofferenza («Per questo molti tra voi sono deboli e malati e certi sono morti», v. 30), l'apostolo lascia trasparire una certa reticenza ad attribuire la sofferenza e la morte dei cristiani peccatori direttamente a Dio. Probabilmente, per lui, infermità e decessi possono essere effetti deleteri anche di tensioni interpersonali, di contrasti comunitari e di altri atteggiamenti peccaminosi, a cui i Corinzi cedevano persino quando celebravano l'eucaristia. Oggi si potrebbe individuare in tali atteggiamenti la causa di sensi di colpa, rimorsi e altre patologie psicosomatiche. Al contrario, una celebrazione dell'eucaristia animata dalla carità non solo non provocherebbe queste ripercussioni nocive per i partecipanti, ma donerebbe loro una serenità interiore, frutto anch'essa dello Spirito Santo (cfr. Gal 5,22). Paolo sintetizza il da farsi in due punti: occorre aspettare tutti prima d'iniziare il pasto comune; e, in caso di bisogno, conviene mangiare a casa propria. Dunque l'apostolo non comanda di abolire i l pasto comune preliminare alla celebrazione dell'eucaristia. Questa abolizione avverrà in seguito, verosimilmente per evitare in radice i comportamenti incoerenti già verificatisi alle origini della Chiesa. Chi prende parte con superficialità alla celebrazione eucaristica, dimenticando la relazione inscindibile, vitalizzata dallo Spirito Santo, tra il corpo eucaristico di Cristo e il suo corpo ecclesiale, commette un peccato gave, degno di essere punito (cfr. 11,30).


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Comportamento idolatrico degli Israeliti 1Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, tutti attraversarono il mare, 2tutti furono battezzati in rapporto a Mosè nella nube e nel mare, 3tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale, 4tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo. 5Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto. 6Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono. 7Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi. 8Non abbandoniamoci all’impurità, come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. 9Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro, e caddero vittime dei serpenti. 10Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. 11Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. 12Quindi, chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere. 13Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere. 14Perciò, miei cari, state lontani dall’idolatria.

Inconciliabilità del culto pagano con l'eucaristia 15Parlo come a persone intelligenti. Giudicate voi stessi quello che dico: 16il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? 17Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane. 18Guardate l’Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime sacrificali non sono forse in comunione con l’altare? 19Che cosa dunque intendo dire? Che la carne sacrificata agli idoli vale qualcosa? O che un idolo vale qualcosa? 20No, ma dico che quei sacrifici sono offerti ai demòni e non a Dio. Ora, io non voglio che voi entriate in comunione con i demòni; 21non potete bere il calice del Signore e il calice dei demòni; non potete partecipare alla mensa del Signore e alla mensa dei demòni. 22O vogliamo provocare la gelosia del Signore? Siamo forse più forti di lui?

Direttive pratiche 23«Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto è lecito!». Sì, ma non tutto edifica. 24Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri.

25Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per motivo di coscienza, 26perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene.

27Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza.

28Ma se qualcuno vi dicesse: «È carne immolata in sacrificio», non mangiatela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza; 29della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro.

Per quale motivo, infatti, questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza altrui? 30Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere rimproverato per ciò di cui rendo grazie?

31Dunque, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. 32Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; 33così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Comportamento idolatrico degli Israeliti Paolo prima di offrire alla Chiesa corinzia alcune direttive pastorali per risolvere la questione problematica (cfr. 1Cor 10,23-33), propone un midrash, ossia una ricerca all'interno della Sacra Scrittura di insegnamenti ed esortazioni valide per l'oggi (10,1-14).

Il libro dell'Esodo racconta come il Signore guidasse il suo popolo nel deserto, facendolo precedere da una colonna di nube di giorno e da una colonna di fuoco di notte (cfr. Es 13,21-22; 14,20). Quella nube era un modo divino anche per proteggere il popolo d'Israele (cfr. Sap 19,7). Ma Paolo immagina il cammino degli Israeliti sotto la nuvola e specialmente il loro passaggio attraverso il mare dei Giunchi come una sorta di immersione battesimale. Per Paolo, la vicenda degli Israeliti è una prefigurazione del battesimo che i credenti hanno ricevuto in Cristo, o «nel» suo «nome» (At 10,48; cfr. anche At 2,38; 8,16; 19,5), vale a dire mediante il suo Spirito così da entrare nel suo corpo ecclesiale (1Cor 12,13).

Ma anche l'episodio successivo, quello della manna (cfr. Es 16; Nm 11; Dt 8,3.16), ha per Paolo una chiara valenza prefigurativa: è a questo «pane dal cielo» (Sal 105,40; cfr. Es 16,4; Sal 78,24; Sap 16,20) che egli allude quando ricorda che tutti gli Israeliti in cammino verso Canaan «mangiarono lo stesso cibo spirituale» (v. 3), cioè donato dallo Spirito di Dio. Un'intuizione analoga sarà sviluppata dalla tradizione giovannea del discorso di Gesù sul pane miracolosamente moltiplicato, che, alcuni decenni dopo la Prima lettera ai Corinzi, si cristallizzerà nel quarto vangelo. Stando a esso, Gesù rilesse il dono divino della manna come segno anticipatore del pane eucaristico (cfr. Gv 6,31-33).

Più allusivo è l'asserto paolino sulla «bevanda spirituale» che «tutti» gli antichi Israeliti «bevevano da una roccia spirituale» (v. 4): Paolo sostiene che l'acqua scaturita dalla roccia da cui si dissetarono gli Israeliti nel deserto (Es 17,6) era – prefigurativamente (1Cor 10,6.11) – Cristo, da cui sgorga lo Spirito Santo per tutti i credenti (cfr. 1Cor 15,45; Gal4,6; anche Gv 7,37-39; 19,34).

Paolo intende piuttosto mostrare ai cristiani l'esito deleterio cui pervenne il comportamento idolatrico degli Israeliti, nonostante i prodigiosi benefici ricevuti: ecco la sottolineatura conclusiva delle ventitremila persone che, pur essendo state tutte beneficate da Dio, morirono in quel frangente (vv. 1-5.8).

Raccogliendo l'ammonimento proveniente da questi antichi racconti biblici (v. 11b), l'apostolo raccomanda di non cadere negli stessi peccati degli Israeliti soprattutto a quei cristiani che s'illudono di essere al riparo da questo rischio (v. 12). È vero che Cristo ha inaugurato il tempo della salvezza definitiva (v. 11e); ma è altrettanto vero che anche per i credenti in lui continuano le tentazioni. Tuttavia, grazie alla mediazione salvifica portata a termine dal Crocifisso risorto, i cristiani, non più schiavi del peccato (cfr. Rm 6,6.12.15), possono non solo combatterlo (cfr. Rm 7,14-25), ma anche vincerlo. Dio stesso, infatti, quando insorgono le tentazioni, dona ai credenti lo Spirito di Cristo, ossia la potenza santificatrice (cfr. Rm 1,4) con cui essi possono superarle (v. 13). Da qui proviene l'esortazione conclusiva di Paolo a non commettere atti idolatrici.

Inconciliabilità del culto pagano con l'eucaristia Paolo aiuta i Corinzi a rendersi conto di quanto sia inconciliabile per loro partecipare sia ai banchetti idolatrici che all'eucaristia: la celebrazione dell'eucaristia, che nella Chiesa corinzia già si svolgeva probabilmente alla domenica (cfr. 16,2), avveniva all'interno di un vero e proprio pasto comunitario (cfr. 11,17-34).

Nella celebrazione dell'eucaristia si benediceva il calice e si spezzava il pane, ripetendo fedelmente gli stessi gesti di azione di grazie e di dedizione compiuti da Gesù nella sua ultima cena. Come l'apostolo tiene a precisare più avanti (cfr. 11,23a), egli stesso aveva appreso tutto questo dalla tradizione (liturgica, omiletica e catechetica) della Chiesa, che, anni dopo, sarebbe stata messa per iscritto nei vangeli sinottici (Mt 26,26-27; Mc 14,22-23; Le 22,19-20). Qui, però, Paolo non si sofferma sulle modalità celebrative della Chiesa corinzia, ma sul legame inscindibile tra il Crocifisso risorto, il suo corpo ecclesiale e il suo corpo eucaristico: la comunità cristiana diventa il corpo del Signore primariamente grazie alla celebrazione rituale dell'eucaristia. Grazie a essa, i fedeli entrano in comunione con il sangue e con il corpo di Cristo crocifisso (vv. 16-17), cioè con il mistero della sua morte salvifica (cfr. Rm 3,25; 5,9), e ne attendono la venuta gloriosa alla fine dei tempi (cfr. 1Cor 11,26). Ma, assimilando comunitariamente il pane spezzato, i cristiani stessi sono assimilati (resi simili) a Cristo. Da questa comunione eucaristica con Cristo sgorgano poi relazioni di carità con i fratelli che credono in lui e che partecipano dell'unica memoria della sua ultima cena. In questo senso si potrebbe dire lapidariamente che l'eucaristia «fa» la Chiesa come corpo di Cristo.

È chiaro per Paolo che la partecipazione all'eucaristia non sia compatibile con la frequentazione ai banchetti idolatrici. Ma per spiegarsi meglio l'apostolo fa l'esempio a lui più spontaneo dei banchetti sacrificati ebraici. D'altronde, nella Chiesa di Corinto, i cristiani d'origine ebraica come lui lo avrebbero capito subito. Per loro era scontato che in tali pasti sacri si rinvigorisse la comunione tra Dio, rappresentato simbolicamente dall'altare, e i fedeli che, dopo avergli offerto in sacrificio un animale, ne consumavano insieme il resto della carne (v. 18).

Paolo vieta ai cristiani, probabilmente rivolgendosi in primo luogo a quelli che si credono più maturi nella fede, di partecipare ai sacrifici idolatrici (v. 20b). Come potrebbero i credenti in Cristo, che in virtù dell'eucaristia entrano in una reale comunione personale con lui, fare comunione anche con i demoni, partecipando ai riti sacrificati dei pagani (v. 21)?

Direttive pratiche Chiarito così il divieto conclusivo di partecipazione ai banchetti sacrificali pagani, restavano aperti alcuni problemi pratici: per esempio, come avrebbe dovuto comportarsi un cristiano quando andava ad acquistare la carne al mercato, oppure quando veniva invitato a pranzo o a cena da un pagano? Paolo dà alcune direttive pastorali, volte a orientare con carità «intelligente» (cfr. 10,15) i fedeli di Corinto che si trovassero in casi del genere.

Principio generale: non cercare i l proprio interesse, ma quello altrui. Paolo sottolinea qui la prospettiva ecclesiale più che quella personale. In quest'ottica è sradicata in maniera ancora più decisa la posizione che ritiene che ai credenti in Cristo tutto sia lecito.

La prima delle tre circostanze prese in considerazione da Paolo è l'acquisto della carne al mercato. Di solito, la carne che vi era messa in vendita proveniva dai resti dei numerosi animali immolati quotidianamente nei templi per essere in parte bruciati in sacrificio alle varie divinità. Questa consuetudine causava una diminuzione consistente della macellazione per il puro uso alimentare. Conseguentemente risultava arduo acquistare questo secondo tipo di carne. Per chi avesse voluto attenersi alle proibizioni alimentari giudaiche rimaneva soltanto una possibilità, accennata da Paolo come alternativa allo scandalo dei fratelli più deboli: non mangiare mai carne (cfr. 8,13). Ma per quelle situazioni in cui non c'era il rischio dello scandalo altrui, l'apostolo dà un 'indicazione liberante, che non è che la conseguenza di quanto ha già spiegato sul fatto che non sarà di certo un cibo a renderei più o meno graditi a Dio (cfr. 8,8): un cristiano può acquistare e mangiare qualsiasi tipo di carne (v. 25).

A proposito, poi, degli inviti a pranzo o a cena che i pagani rivolgevano ai cristiani, Paolo è assolutamente condiscendente: i fedeli non si facciano problemi di coscienza. Come Gesù stesso aveva raccomandato ai discepoli, prima d'inviarli in missione (cfr. Lc 10,7a.8), i cristiani possono mangiare qualsiasi cibo venga loro offerto (v. 27).

Ma si potrebbe verificare la situazione in cui alla stessa mensa partecipi anche un altro cristiano, che invece si fa problemi di coscienza a riguardo della carne servita a tavola. Questi ritiene che mangiarne coinciderebbe con un atto idolatrico; o, per lo meno, dubita che sia così. Ebbene – coerentemente con quanto Paolo ha già chiarito prima (cfr. 8,9-13) – , per non scandalizzare quel debole (cfr. 1,27; 9,22; 12,22), il cristiano forte rinunci a mangiare di quella carne (vv. 28-29a). Il criterio della carità porta a rispettare la coscienza dell'altra persona, proprio perché in coscienza si ritiene indifferente la scelta di consumare o meno quel cibo.

I due quesiti conclusivi (vv. 29b-30) non sono immediatamente comprensibili. Si possono leggere come due domande in senso retorico: mediante esse l'apostolo esorterebbe le persone più mature nella fede a non prestare il fianco a giudizi negativi (v. 29) o, peggio, a rimproveri (v. 30) da parte dei fratelli più fragili.

L'apostolo conclude ribadendo il principio enunciato all'inizio (vv. 23-24): agire in ogni circostanza per la gloria di Dio, evitando di scandalizzare gli altri, cristiani o non cristiani che siano.

Il tentativo che Paolo si sforza di mettere in atto «piacere a tutti in tutto» (v. 33) può essere preso come modello di comportamento; però quando questo desiderio di compiacere gli uomini è in contrasto con l'essere graditi al Signore, è Paolo stesso a giudicarlo come un atteggiamento deplorevole. L'attività pastorale è finalizzata davvero a «piacere a tutti in tutto» nella misura in cui, contrapponendosi all'istintivo «piacere a se stessi», cerca d'imitare Cristo, che appunto «non piacque a se stesso» (Rm 15,3). Soltanto così il missionario – proprio come faceva Paolo – non cerca il proprio interesse personale. Il suo tentativo di essere sempre gradito a ogni persona con cui entra in contatto diventa, quindi, espressione di effettiva carità fraterna e coincide con il desiderio di fare primariamente ciò che Dio desidera da lui. Ma nel momento in cui il «piacere agli altri» risulta antitetico al «piacere a Dio» (1Ts 2,4), l'approvazione umana si trasforma in una subdola modalità di «piacere a se stessi»!


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Libertà apostolica di Paolo 1Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? 2Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato.

I diritti a cui Paolo rinuncia in nome della carità 3La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: 4non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? 5Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? 6Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? 7E chi mai presta servizio militare a proprie spese? Chi pianta una vigna senza mangiarne il frutto? Chi fa pascolare un gregge senza cibarsi del latte del gregge? 8Io non dico questo da un punto di vista umano; è la Legge che dice così. 9Nella legge di Mosè infatti sta scritto: Non metterai la museruola al bue che trebbia. Forse Dio si prende cura dei buoi? 10Oppure lo dice proprio per noi? Certamente fu scritto per noi. Poiché colui che ara, deve arare sperando, e colui che trebbia, trebbiare nella speranza di avere la sua parte. 11Se noi abbiamo seminato in voi beni spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? 12Se altri hanno tale diritto su di voi, noi non l’abbiamo di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non mettere ostacoli al vangelo di Cristo. 13Non sapete che quelli che celebrano il culto, dal culto traggono il vitto, e quelli che servono all’altare, dall’altare ricevono la loro parte? 14Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo. 15Io invece non mi sono avvalso di alcuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché si faccia in tal modo con me; preferirei piuttosto morire. Nessuno mi toglierà questo vanto! 16Infatti annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! 17Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. 18Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitomi dal Vangelo.

La libertà apostolica a cui Paolo rinuncia in nome della carità 19Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: 20mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. 21Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. 22Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. 23Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. 24Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! 25Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. 26Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; 27anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Alle precedenti argomentazioni teoriche Paolo ritiene più convincente, a questo punto, far seguire il proprio esempio personale. Ai suoi figli spirituali di Corinto osa presentarsi come modello di rinuncia a determinati diritti in nome della carità, che sola è in grado di edificare la Chiesa (cfr. 8,2). A questo scopo, l'apostolo elenca, sotto forma di domande retoriche, alcuni dei suoi diritti, per mostrare come li abbia sacrificati «per non creare alcun intralcio al Vangelo di Cristo» (9,12). L'unica ragione di una scelta del genere è l'amore evangelico, che diventa esemplare per i cristiani di Corinto, soprattutto per quelli dalla fede più matura.

Libertà apostolica di Paolo Paolo non si limita a dichiarare di essere apostolo, ma precisa anche ciò su cui si fonda la propria identità: il Crocifisso risorto prese l'iniziativa di «farsi vedere» anche a lui (15,8; cfr. At 9,17) come «si fece vedere» a Cefa, cioè Simon Pietro, ai Dodici (1Cor 15,5), a più di cinquecento cristiani (cfr. 15,6), a Giacomo e a tutti gli apostoli (cfr. 15,7). Perciò, Paolo lo «ha visto» (9,1; cfr. At 26,13; anche At 9,3-6; 22,5-10) e tra le permanenti conseguenze salvifiche di quell'incontro con il Risorto c'è il suo essere diventato apostolo. Certo, Paolo non ha vissuto con il Gesù terreno. Probabilmente gli veniva rimproverato dai suoi oppositori a Corinto (cfr. 9,3): egli era sì un buon missionario, ma era inferiore agli altri apostoli. Non senza una certa amarezza, Paolo mostra qui di essere al corrente di questa opinione malevola (v. 3) che circolava nella Chiesa a cui scrive. Ma è anche consapevole che, in ogni caso, era stato lui a fondare quella comunità (cfr. 2Cor 3,2-3). Perciò almeno i Corinzi non possono negargli l'identità apostolica; anzi, per il fatto stesso di esistere, la comunità cristiana di Corinto è il «sigillo» della sua efficace attività pastorale (v. 2).

I diritti a cui Paolo rinuncia in nome della carità Paolo istituisce un rapido confronto con altri apostoli ben conosciuti pure a Corinto per far affiorare le prerogative che di per sé spetterebbero anche a lui. La rapidità delle sue allusioni non permette di determinare con sicurezza i diritti ai quali l'apostolo fa qui riferimento. Per prudenza pastorale, Paolo rinunciò persino ai suoi diritti economici, pur di non ostacolare la diffusione del Vangelo di Cristo. Del resto, era venuto a Corinto solo a questo scopo. E mantenendosi economicamente aveva reso più credibile, fin dall'inizio, la sua evangelizzazione. Anche per questo aveva cominciato a predicare soltanto di sabato, nella sinagoga della città (cfr. At 18,4). Quando poi lo avevano raggiunto dalla Macedonia i collaboratori Sila (Silvano) e Timoteo, che probabilmente gli avevano consegnato un'offerta economica spontaneamente inviatagli dai cristiani di Filippi, l'apostolo si era dato a tempo pieno alla predicazione (cfr. At 18,5). Se nel contesto militare i soldati sono pagati da chi li assolda, in ambito rurale i contadini e gli allevatori ricavano essi stessi sostentamento dalla terra e dal gregge. E gli apostoli come Paolo? Anche per loro dovrebbe valere la stessa logica retributiva. A stabilirlo è la Legge mosaica, di cui l'apostolo interpreta allegoricamente una norma in riferimento al sostentamento dei missionari: «Non metterai la museruola al bue che trebbia» (Dt 25,4), così che possa nutrirsi mentre lavora. In sintesi: come avviene per ogni genere di attività lavorativa, dal servizio militare alla coltivazione dei campi (vv. 8-10), sarebbe giusto che anche l'evangelizzazione fosse rimunerata. Paolo precisa subito di non aver rivendicato questo diritto, benché altri apostoli -come, forse, lo stesso Cefa (cfr. 1,12)– ne avessero usufruito, passando per Corinto (v. 12). Ma a sancire questo dovere delle comunità cristiane di provvedere a un adeguato sostentamento degli evangelizzatori è stato soprattutto il Signore stesso, di cui Paolo riporta un insegnamento inequivocabile: quelli che annunciano il Vangelo vivano del Vangelo (v. 14). A dire il vero, nei vangeli non è attestato in questi termini alcun detto di Gesù. Tuttavia la sua sostanza si ritrova nelle raccomandazioni che egli dà ai discepoli inviandoli in missione: «non vi procurate oro o argento o denaro per le vostre tasche..., poiché l'operaio ha diritto al suo sostentamento» (Mt 10,9-10); «restate in quella casa [che vi avrà accolto], mangiate e bevete quello che vi daranno, perché l'operaio ha diritto alla sua ricompensa» (Lc 10,7). A questo riguardo possiamo aggiungere che non conosciamo se non in parte, attraverso la ricostruzione di Luca negli Atti degli Apostoli, il contenuto della predicazione di Paolo. Ma possiamo supporre che si soffermasse sui fatti e sull'insegnamento di Gesù. Sta di fatto che nelle sue lettere l'apostolo si concentra sul mistero della morte e della risurrezione di Cristo (cfr., p. es., 1,17-25; 2,2; 15,3b-5 ecc.), che gli si era fatto vedere sulla via di Damasco (cfr. 15,8; e Gal 1,15-17). Comunque, soprattutto in 1Corinzi, l'apostolo mostra di essere venuto a conoscenza, tramite la primitiva tradizione ecclesiale, di alcuni detti (cfr. 7, 10-11; 9, 14) e atti del Gesù terreno (cfr. 11,23-25), che egli s'impegna a trasmettere con esattezza. Paolo ci tiene a ripetere che personalmente non si è servito del diritto dei missionari a essere sostenuti dal punto di vista economico dalla gente cui annunciano il Vangelo (v. 15; cfr. v. 12). Anzi, anche per il futuro seguiterà a essere coerente con questa sua decisione, che costituisce per lui un motivo di vanto. Certamente, da questo vanto Paolo esclude subito la missione apostolica in quanto tale, dato che essa non è frutto di una sua iniziativa personale, ma di un comando divino. Perciò disobbedirvi provocherebbe effetti deleteri dal punto di vista della sua salvezza personale (v. 16).Dunque non ha senso per Paolo vantarsi della propria attività evangelizzatrice. È piuttosto sulla gratuità di tale attività che l'apostolo tiene a vantarsi davanti ai suoi figli spirituali (v. 15), ma soprattutto nei confronti dei missionari, suoi avversari, che invece non potevano gloriarsene, perché si facevano mantenere dalla comunità. Paolo, quindi, giunge qui a paragonarsi a uno schiavo, come, per esempio, un amministratore (cfr. 4,1), al quale il padrone ha dato una mansione. Di conseguenza egli è costretto a portarla a termine, senza retribuzione alcuna (v. 17). Non è come nel caso di una persona libera, che può acconsentire o meno a una proposta di lavoro, per la quale è previsto un salario. Come altrove(cfr. 1Cor 1,26-29; 2Cor 5,21; 8,9; 13,4), anche qui Paolo si esprime in modo paradossale, sostenendo in sostanza che il salario corrispostogli per annunciare il Vangelo di Cristo consiste precisamente nel non ricevere alcun salario (v. 18). È sottinteso che il conto aperto non pagato a Paolo dai Corinzi gli sarà saldato un «giorno» (1,8; 3,13) dal Signore di cui si è messo completamente a servizio.

La libertà apostolica a cui Paolo rinuncia in nome della carità L'apostolo riprende il contenuto della domanda iniziale, giungendo a mostrare come, sempre in nome della carità apostolica, ha rinunciato in fondo a tutta la sua libertà: «Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero» (v. 19), vale a dire per permettere a più persone possibile di essere «di Cristo» (3,23; cfr. 7,22). L'apostolo perviene così a offrire ai cristiani spiritualmente più maturi di Corinto il criterio di discernimento ultimo per non suscitare dubbi e confusione nei fratelli più «deboli»: farsi debole con loro e per loro (v. 22a), così da non rischiare di allontanarli da Cristo; anzi, riuscendo ad avvicinarli a lui. Paolo stesso si è comportato così, senza assolutizzare come unica regola di comportamento le proprie conoscenze a riguardo della non esistenza degli idoli e del diritto di consumare la carne sacrificata loro. Questa indicazione non è esplicitata qui. Ma farsi evangelicamente (v. 23) «tutto per tutti, per salvare in ogni modo qualcuno» (v. 22b), una volta applicato alla questione della carne immolata agli idoli, non può che confermare la scelta di astenersene per non scandalizzare i «deboli» (cfr. 8, 13). La conclusione del discorso cita due sport (corsa e pugilato), che implicano allenamenti faticosi e veri e propri scontri agonistici. Paolo rilegge così tutti i parimenti e le persecuzioni che continua ad affrontare con coraggio per Cristo e per l'annuncio del suo Vangelo (cfr., p. es., 1Cor 4,9-13; 2Cor 4,7-12; 11,23-33). Nonostante tutto, ciò che conta per lui è giungere alla salvezza divina proprio attraverso il ministero apostolico, evitando il rischio di non conquistare lui la meta verso cui tanto ha sospinto gli altri (v. 27).


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La conoscenza gonfia d'orgoglio, la carità edifica 1Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto.

I «forti» che hanno la conoscenza 4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui.

I «deboli» che non hanno la conoscenza 7Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo.

Per carità, non mangiare la carne sacrificata 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Paolo era stato consultato dai Corinzi, forse sempre per iscritto (cfr. 7,1), su un'altra questione tutt'altro che irrilevante: le «carni sacrificate agli idoli)) (8,1). Alla questione, che s'inquadra nell'orizzonte più vasto dei rapporti tra la Chiesa e la società, l'apostolo dedica la quarta parte della lettera (8,1-11,1).

Ma in che termini stava il problema? Lo si intuisce subito, se si considera il fatto che nella metropoli dell'Acaia, arazzo variopinto di numerose religioni, le attività cultuali prevedevano di frequente sacrifici animali offerti alle varie divinità. La carne di queste vittime solo in parte veniva bruciata nel rito sacrificale e consumata dagli offerenti nel pasto sacro all'interno dei templi. Il resto veniva mangiato dagli stessi offerenti a casa loro oppure venduto al mercato.

I cristiani, pur non offrendo sacrifici animali, potevano comunque essere invitati da parenti o amici a partecipare a banchetti in famiglia o nel tempio. Oppure poteva capitare loro di acquistare carne al mercato, che in gran parte proveniva dai sacrifici. Come comportarsi al riguardo?

Paolo non fa cenno all'assemblea di Gerusalemme, in cui le principali guide del cristianesimo primitivo giunsero, intorno all'anno 50, a una decisione consensuale proprio su questo punto: prescrivere non solo ai cristiani d'origine giudaica ma anche a quelli di matrice pagana di astenersi dalle «contaminazioni degli idoli», cioè dalle carni a loro immolate (At 15,20; cfr. anche 15,29). Il decreto, inviato ad Antiochia tramite alcuni missionari tra cui lo stesso Paolo (cfr. At 15,23-24), non pare essere noto alla comunità cristiana di Corinto, lacerata, a questo proposito, da due fazioni.

Un primo gruppo, costituito probabilmente da cristiani provenienti dal giudaismo o da altri comunque influenzati da loro, si atteneva rigidamente al divieto della Legge mosaica di cibarsi delle carni sacrificate agli idoli e, tanto più, di partecipare ai culti idolatrici.

Un secondo gruppo comprendeva verosimilmente cristiani di cultura ellenistica, che avevano ricevuto un'istruzione superiore e che, in ogni caso, erano lontani dai costumi ebraici e dalla Legge di Mosè. Pare che costoro, restando legati a una concezione dualistica dell'anima e del corpo, ben radicata in diversi filoni di pensiero della tradizione culturale greco-ellenistica, ritenessero che nutrirsi di un determinato cibo piuttosto che di un altro riguardasse soltanto il corpo, ma non avesse rilevanza alcuna nella vita spirituale.

La faccenda avrebbe potuto acutizzare i contrasti interni alla Chiesa corinzia. Per evitarlo, Paolo ha offerto alcune direttive incentrate sulla carità evangelica. Riteneva, infatti, che soltanto se si fossero lasciati avvincere dalla carità, anche i cristiani che, come lui, erano convinti della liceità di mangiare la carne sacrificale, avrebbero evitato di scandalizzare i fratelli dalla coscienza più «debole» (1Cor 8,7.9).

La conoscenza gonfia d'orgoglio, la carità edifica Paolo prende le mosse da questo slogan di un questo gruppo di fedeli: «tutti già conosciamo a sufficienza la dottrina cristiana per risolvere il problema della carne immolata agli idoli». Ma Paolo afferma che non è questo il punto per affrontarlo da cristiani.

L'apostolo cerca così di far comprendere ai suoi interlocutori che la «conoscenza» delle verità di fede, pur essendo un dono dello Spirito Santo (cfr. 1,5; 12,8), non è il criterio ultimo dell'esistenza cristiana Questo posto spetta piuttosto alla carità. Anzi, la conoscenza, disarcionata dalla carità, finisce per sospingere surrettiziamente la persona verso l'orgoglio. Può quindi essere nociva sia sul piano personale, perché illude il credente di potersi salvare con le proprie capacità intellettuali e, quindi, di essere autosufficiente anche di fronte a Dio; sia sul piano ecclesiale, perché scatena deleteri complessi di superiorità in chi ha una buona formazione religiosa e culturale e altrettanto dannosi complessi d'inferiorità in chi non la possiede.

Al contrario, la carità è costruttiva. Lo è a livello personale, perché orienta il credente verso Dio e verso gli altri. Ma, di conseguenza, lo è anche in ambito comunitario, venendo a essere il cemento necessario per edificare la Chiesa come «tempio di Dio» (cfr. 3, 16-17). Quindi anche chi si ritiene sapiente ha ancora da imparare la cosa più importante (v. 2b): il fondamento della vera conoscenza è sapere di essere amorevolmente conosciuto da Dio (v. 3; cfr. Gal4,9). In principio sta l'amore con cui il Signore da sempre ci ha conosciuti, ci ha predestinati a essere conformi al Figlio suo, ci ha chiamati alla santità, ci ha giustificati e ci aiuterà ad accedere alla sua gloria (cfr. Rm 8,29-30 ed Ef 1,4-12). Ma questa verità fondamentale dell'amore preveniente e permanente di Dio per noi può essere appresa soltanto da chi ama Dio.

I «forti» che hanno la conoscenza Individuato il criterio fondamentale della «carità» che «edifica», Paolo inizia ad applicarlo alla questione concreta delle «carni sacrificate agli idoli». Continuando a considerarla dal punto di vista dei cristiani che si credono sapienti, l'apostolo dichiara di essere ben consapevole, come loro, dell'esistenza dell'unico vero Dio e della non esistenza di altri dèi (v. 4). Ma allo stesso tempo ammette di condividere anche la credenza giudaica, fondaJa sulla rivelazione neotestamentaria, dell'esistenza di esseri soprannaturali, angeli o demoni che siano. Anzi, per Paolo questi «cosiddetti dèi», che vivono «sia nel cielo che sulla terra», sono «molti» (v. 5). Indubitabilmente sono inferiori all'unico Dio, rivelato in maniera piena e definitiva da Cristo. I cristiani non adorano alcuna delle divinità pagane, che sono idoli inesistenti (v. 4). Ma non si asserviscono neanche agli esseri angelici o demoniaci, denominati talvolta «dèi» e «signori» (v. 5). La conclusione, quindi, sarebbe che i credenti in Cristo potrebbero cibarsi, senza problemi, della carne degli animali sacrificati agli idoli. È carne qualunque!

I «deboli» che non hanno la conoscenza La libertà dei cristiani rispetto alla possibilità di nutrirsi anche con la carne proveniente dai sacrifici pagani deve essere sottoposta al criterio ultimo del discernimento cristiano (cfr. 1Ts 5,21 ), vale a dire la carità. A questo scopo, Paolo, che finora si è quasi calato nella parte dei cristiani «forti» (o che si credevano tali), ora osserva il problema nella prospettiva di quelli più «deboli» (vv. 7.9). Erano fedeli che non avevano avuto una buona formazione culturale e religiosa o che, comunque, erano facilmente scandalizzabili. In quest'ottica appare subito evidente la falsità del presupposto iniziale, tanto declamato dai sedicenti sapienti (cfr. 8,1a): non era vero che sul problema in questione «tutti» i cristiani di Corinto avessero conoscenza a sufficienza per prendere decisioni coerenti con la propria fede (v. 7a). In realtà, alcuni cristiani avevano, invece, una «coscienza debole» (v. 7b), dovuta alla loro esperienza religiosa precedente: per anni avevano partecipato da pagani ai sacrifici elevati alle molteplici divinità; poi, prima o dopo essersi convertiti al cristianesimo, erano entrati probabilmente in contatto con le credenze giudaiche sugli angeli e i demoni e con i divieti cultuali e alimentari della Legge mosaica. In loro, quindi, albergavano dubbi, domande e confusione. Inoltre, Paolo si accorge che la conoscenza dei sedicenti sapienti potrebbe suggerire soluzioni al problema ineccepibili sul piano teorico, ma controproducenti a livello ecclesiale, non tenendo conto della situazione soggettiva di una parte dei fedeli. Soltanto uno sguardo animato dalla carità è in grado di scorgere le fragilità di questi ultimi. La miopia spirituale, dovuta a una carenza di carità, potrebbe causare danni talvolta irreparabili nella coscienza altrui e favorire tensioni e divisioni capaci di sgretolare il «tempio di Dio» che è la comunità cristiana (3,16-17). Se «la carità edifica» (8,1), le mancanze di carità distruggono persone e comunità! Paolo dunque dà un avvertimento ai fedeli più maturi nella fede, o che tali si credono: la loro libertà nel mangiare carne proveniente dai sacrifici pagani non deve essere motivo di scandalo e di caduta per i cristiani meno maturi (v. 9), per i quali Cristo è morto (v. 11). Paolo è amareggiato per un atteggiamento saccente che non solo non edifica la coscienza dei cristiani più fragili nella fede, ma la scandalizza. Per Paolo il peccato si annida nella “mancanza di carità”: una colpa commessa non solo contro un fratello o una sorella più deboli, ma «contro Cristo» stesso (v. 12).

Per carità, non mangiare la carne sacrificata È la carità, quindi, che impone ai cristiani di rinunciare per sempre, se necessario, a cibarsi di carne proveniente dai sacrifici pagani, anzi (giunge a sostenere Paolo con una punta di esagerazione retorica) a cibarsi di ogni genere di carne, pur di non causare una crisi morale nei cristiani deboli!


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Coniugi cristiani 1Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, 2ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. 3Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. 4La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. 5Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. 6Questo lo dico per condiscendenza, non per comando. 7Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro.

Fedeli non sposati, coniugi cristiani in crisi e coppie miste 8Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; 9ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare. 10Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito – 11e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito – e il marito non ripudi la moglie. 12Agli altri dico io, non il Signore: se un fratello ha la moglie non credente e questa acconsente a rimanere con lui, non la ripudi; 13e una donna che abbia il marito non credente, se questi acconsente a rimanere con lei, non lo ripudi. 14Il marito non credente, infatti, viene reso santo dalla moglie credente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente; altrimenti i vostri figli sarebbero impuri, ora invece sono santi. 15Ma se il non credente vuole separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetti a schiavitù: Dio vi ha chiamati a stare in pace! 16E che sai tu, donna, se salverai il marito? O che ne sai tu, uomo, se salverai la moglie?

Indicazione generale di rimanere nel proprio stato di vita 17Fuori di questi casi, ciascuno – come il Signore gli ha assegnato – continui a vivere come era quando Dio lo ha chiamato; così dispongo in tutte le Chiese. 18Qualcuno è stato chiamato quando era circonciso? Non lo nasconda! È stato chiamato quando non era circonciso? Non si faccia circoncidere! 19La circoncisione non conta nulla, e la non circoncisione non conta nulla; conta invece l’osservanza dei comandamenti di Dio. 20Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. 21Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puoi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! 22Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. 23Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! 24Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato.

Vergini, fidanzate e vedove 25Riguardo alle vergini, non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia. 26Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà, rimanere così com’è. 27Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. 28Però se ti sposi non fai peccato; e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei risparmiarvele. 29Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; 30quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non possedessero; 31quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! 32Io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, 34e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. 35Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni. 36Se però qualcuno ritiene di non comportarsi in modo conveniente verso la sua vergine, qualora essa abbia passato il fiore dell’età – e conviene che accada così – faccia ciò che vuole: non pecca; si sposino pure! 37Chi invece è fermamente deciso in cuor suo – pur non avendo nessuna necessità, ma essendo arbitro della propria volontà – chi, dunque, ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. 38In conclusione, colui che dà in sposa la sua vergine fa bene, e chi non la dà in sposa fa meglio. 39La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. 40Ma se rimane così com’è, a mio parere è meglio; credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Coniugi cristiani Questa terza parte della lettera non è un trattato sistematico di teologia sul sacramento del matrimonio né un manuale di teologia morale sulla sessualità. Siamo di fronte piuttosto a una casistica che non ha la pretesa di esporre in maniera completa la morale sessuale dei diversi stati di vita dei cristiani. Conseguentemente, il discorso di Paolo non va assolutizzato perché risente pesantemente della situaione problematica della comunità cristiana appena nata di Corinto.

Il celibato volontario di alcune persone, che si mettono completamente a servizio del regno di Dio, viene lodato dall'apostolo nel seguito della lettera (v. 7). Ma questo elogio era stato interpretato probabilmente da alcuni Corinzi alla luce di una svalutazione dualistica della corporeità, e in particolare della sessualità, che si respirava nella cultura greco-ellenistica del tempo. Da qui a considerare anche i rapporti sessuali dei coniugi cristiani come peccaminosi, il passo era breve. Compreso il fraintendimento del proprio insegnamento, l'apostolo inizia a mettere un primo punto fermo sulla positività del matrimonio e anche dei rapporti coniugali (vv. 2-3) e richiama senza mezzi termini i doveri reciproci degli sposi cristiani, ossia la consumazione dell'atto coniugale (v. 3), evitando così fraintendimenti in materia.

Nella raccomandazione paolina si nota però un cenno, ribadito due volte, alla reciprocità tra marito e moglie. Di sicuro Paolo si è formato in una cultura che, sia in ambito giudaico che in quello greco-romano, era profondamente segnata dal maschilismo, come traspare anche da alcuni passi paolini che risentono di questo modo di pensare (cfr., p. es., 1Cor 11,2-16; 14,34-35; anche 1Ts 4,6). Tuttavia, qui l'apostolo riconosce i doveri anche del marito nei confronti della moglie, e non solo della moglie verso il marito.

Influenzati da una concezione del sacro tipica della religiosità giudaica, i puritani di Corinto immaginavano che, per poter pregare in maniera gradita a Dio, si dovessero astenere dai rapporti coniugali. Paolo ridimensiona scrupoli di questo tipo, non confermando affatto la presupposta incompatibilità dei rapporti coniugali con la preghiera. Pur tuttavia, non è del tutto contrario a propositi di momentanea continenza degli sposi, capaci di favorirne la vita spirituale. Tant'è vero che precisa: «Questo lo dico come un consiglio, non come un ordine» (v. 6). Dunque, Paolo non intende dare qui un comando, ma un consiglio spirituale. Per di più, dato che esso risponde a pratiche ascetiche legate alla purità rituale anticotestamentaria, ormai superata da Cristo (cfr. Mt 15,11; Mc 7,15-23; Lc 11,37-41; anche Mt 5,8), tale consiglio può essere accantonato con tranquillità dai coniugi cristiani.

Paolo sostiene che nello stato matrimoniale, come in quello verginale, Dio conceda ai credenti un dono spirituale particolare. Dunque, sarebbe erroneo ritenere che per lui il matrimonio sia semplicemente la condizione comune dei fedeli, priva di un particolare dono spirituale. Senza dubbio, l'apostolo esprime il desiderio che tutti i suoi interlocutori siano celibi come lui, ossia liberi da preoccupazioni matrimoniali per dedicarsi alla proclamazione del Vangelo (cfr. 9,5). Tuttavia riconosce che lo Spirito Santo, nella varietà dei suoi doni dati in vista dell'utilità comune nel corpo ecclesiale di Cristo (cfr. 12,7), effonde anche sui coniugi cristiani un dono specifico. Il loro amore sponsale, che si esprime anche in rapporti sessuali buoni, è primariamente frutto dello Spirito Santo in loro, come lo sono la carità, la gioia, la pace e tutte le altre virtù e comportamenti autenticamente umani (cfr. Gal 5,22). S'intuisce qui un effettivo superamento della visione del matrimonio come rimedio all'incontinenza sessuale. Il «meglio sposarsi che ardere!» di Paolo (v. 9), una volta compreso come una risposta alle erronee tendenze rigoriste di Corinto, appare per lo meno riduttivo. Esige quindi di essere ampiamente completato alla luce di altre pagine di Paolo e più in genere della Bibbia, lette in riferimento a Cristo e al suo amore (cfr. specialmente Ef5,21-33).

Fedeli non sposati, coniugi cristiani in crisi e coppie miste Ai cristiani di entrambi i sessi che non si sono uniti in matrimonio e specialmente alle vedove, Paolo scrive che se si rendessero conto di non essere capaci di astenersi dai rapporti sessuali, sarebbe più conveniente sposarsi. Comunque è chiaro per Paolo che i cristiani si sposano «nel Signore» (7,39), amandosi «come il Cristo amò la Chiesa e consegnò se stesso per lei» (Ef 5,25). Altrimenti il matrimonio cristiano si ridurrebbe a un'ambigua scelta prudenziale.

A riguardo dell'indissolubilità matrimoniale, Paolo si rifà direttamente all'autorevole prescrizione di Gesù che, prese le distanze dalla Legge mosaica sul divorzio (Dt 24,1), si appellò alla stessa volontà originaria del Creatore (cfr. Gen 1,27; 2,24): «Per la vostra durezza di cuore egli [Mosè] ha scritto questa prescrizione [del ripudio]. Ma dal principio della creazione maschio e femmina li creò [...}. Quello dunque che Dio ha unito, l'uomo non lo separi» (Mc 10,5-6.9). Perciò, commette adulterio il coniuge che, dopo essersi separato, si risposa (Mc 10,2-12; cfr. il parallelo Mt 19,3-9); a peccare è anche la persona che sposa un coniuge separato (cfr. Mt 5,32 e Le 16,18). Paolo adatta l'insegnamento del Signore al caso particolare di una separazione già verificatasi tra due sposi cristiani. Se resta il divieto del Signore a non ripudiare la moglie, alla moglie credente non rimangono che due possibilità: riconciliarsi con il marito oppure, se non vi riesce, non accedere a nuove nozze (v. 11). Ma, a ogni buon conto, la riconciliazione di cui parla l'apostolo è ben di più che il semplice ritorno sotto il tetto coniugale.

Paolo si è accorto che a Corinto, e forse anche in altre comunità cristiane, è sorto un problema che non esisteva all'epoca di Gesù: capitava che uno dei due coniugi pagani, validamente sposati, si convertisse alla fede cristiana. L'altro coniuge, invece, rimaneva pagano. Effettivamente, fin dalle origini il cristianesimo non ha vietato il cosiddetto «matrimonio misto», come invece faceva il giudaismo. Per un ebreo il semplice contatto con un pagano era fonte di impurità. Al contrario, per un cristiano, ormai libero dalle prescrizioni sulla purità rituale, il matrimonio misto non era vietato. Per Paolo (vv. 12-14) il coniuge cristiano, formando un solo corpo con il coniuge non cristiano (cfr. 6,16), potrebbe favorire che anche questi venga attratto dal Risorto (cfr. Gv 12,32) e così accompagnarlo sulla via della santità. A conferma di ciò, l'apostolo fa una considerazione sui figli nati in una famiglia in cui soltanto uno dei due coniugi è credente: anche i figli si trovano in una condizione privilegiata per seguire Cristo e diventare santi (v. 14). Quindi, se vige questa atmosfera familiare di amore e di rispetto reciproco degli sposi per le rispettive convinzioni religiose, il coniuge cristiano non deve separarsi da quello pagano (vv. 12b-13).

Paolo però considera anche il caso contrario di conflitti innescatisi nelle coppie miste proprio a motivo della fede cristiana. Che fare, insomma, se il coniuge pagano avesse abbandonato quello cristiano, magari anche con i figli a carico? Oppure se addirittura il marito pagano avesse impedito alla moglie cristiana e forse anche ai figli di vivere la propria fede in Cristo? In questi casi, Paolo giunge a concedere al coniuge cristiano la possibilità di liberarsi da quel vincolo matrimoniale (vv. 15-16) e, come probabilmente sottintende il testo, anche la possibilità di sposarsi di nuovo; ma, questa volta, «nel Signore» (v. 39), ossia con un credente in Cristo. Del resto, per quanto un coniuge cristiano possa impegnarsi per convertire e santificare l'altro, non può essere sicuro di riuscirvi (v. 16). Perciò, per i casi in cui la convivenza coniugale non abbia presumibilmente altro esito che un irrimediabile conflitto, l'apostolo concede una deroga all'indissolubilità matrimoniale, motivabile a partire dal diritto di tutti a vivere in pace (v. 15). È noto che questa direttiva pastorale di Paolo (poi definita «privilegio paolino») rimane valida ancor oggi nella Chiesa cattolica specialmente per i paesi di missione (cfr. Codice di Diritto Canonico, canoni 1055-1165).

Indicazione generale di rimanere nel proprio stato di vita Concessa la deroga del tutto eccezionale all'indissolubilità dei matrimoni misti (vv. 15-16), Paolo dispone che, in tutti gli altri casi e in tutte le comunità cristiane da lui fondate, i fedeli continuino a vivere nella condizione in cui si trovavano quando si convertirono al cristianesimo. Cerchino, quindi, di essere fedeli nella loro situazione concreta alla chiamata alla santità fatta loro da Dio (cfr. 1,26).

Paolo sostiene con risolutezza che, per appartenere alla Chiesa, è sufficiente credere nel Vangelo, ricevere il battesimo e iniziare a vivere all'insegna dell'amore(cfr. 1Cor 13,1-13; 16,14; Gal 5,6), a imitazione di Cristo (cfr. 1Cor 11,1): non ha senso che un cristiano proveniente dal paganesimo si faccia circoncidere! Essere circoncisi o meno non conta nulla (cfr. Rm 2,25-29; Gal5,6; 6,15): un'affermazione tranchant, che non poteva non sbalordire i cristiani provenienti dal giudaismo, ma che fondava l'indicazione iniziale data da Paolo ai cristiani di Corinto a rimanere nella medesima condizione in cui si trovavano quando erano stati chiamati da Dio alla fede (v. 20).

Paolo relativizza, dal punto di vista della conversione cristiana, persino la differenza tra la situazione di uno schiavo e quella di una persona libera. In concreto, giunge a raccomandare agli schiavi convertitisi al cristianesimo di progredire nella vita di fede restando nella loro condizione sociale, senza spendere energie per affiancarsi e diventare persone libere (v. 21 ). Sicuramente, Paolo non auspica l'abolizione della schiavitù, ma neppure i l suo mantenimento, proprio perché si muove a un livello diverso. Va ricordato anzitutto che gli schiavi non erano accolti nella religione giudaica, semplicemente perché non erano liberi di osservare la Legge di Mosè. Come avrebbero potuto obbedire, per esempio, alle puntigliose nonne legate alla purità rituale, al riposo sabbatico e alle altre feste del calendario religioso? Invece Paolo, con affermazioni come queste, spalanca le porte della Chiesa anche alla massa enorme di schiavi presenti non solo nella metropoli dell'Acaia, ma in tutto l'impero romano. Qualche tempo dopo, Paolo mostrò quanto rivoluzionaria fosse la prospettiva cristiana nel minare le radici più profonde della schiavitù, scrivendo un biglietto epistolare a uno dei suoi figli spirituali, di nome Filemone. A questo cristiano benestante raccomandò di riaccogliere con sé lo schiavo Onesimo, che era scappato e che, dunque, era reo di morte. Nel frattempo, costui aveva ricevuto il battesimo da Paolo, il quale giunse a chiedere a Filemone di considerare Onesimo «non più come schiavo», bensì «come fratello carissimo[...] nel Signore» (Fm 16). Perché? Perché in virtù del battesimo in Cristo, «non esiste più Giudeo né Greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna; tutti» i credenti sono «una sola persona in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Vergini, fidanzate e vedove Ciò che conta è vivere da cristiani la situazione in cui ci si trova (cfr. vv. 17.20.24): con questa prospettiva unitaria di fondo, appena illustrata a livello sia etnico (vv. 18-20) che sociale (vv. 21-24), Paolo considera una seconda serie di casi particolari legati allo stato di vita verginale, matrimoniale e vedovile.

All'inizio Paolo dà un consiglio alle vergini e, più precisamente, alle giovani che non si sono ancora maritate, pur avendo l'età per farlo. Tuttavia immediatamente il discorso paolina pare abbracciare anche i vergini. Difatti l'apostolo dichiara che sia bene «per l'uomo», ossia all'essere umano, uomo o donna che sia) rimanere nello stato di vita in cui si trova (v. 26).

Poi l'apostolo si mette a parlare anche della «tribolazione» che si abbatte sugli sposati. A che cosa allude? Senza dubbio alle preoccupazioni tipiche della vita coniugale (cfr. 7,32-34). Egli vorrebbe evitarle ai giovani, consigliando appunto di rimanere celibi. Ma poi Paolo precisa che a essere colpita da tale tribolazione è la «carne» dei coniugi (v. 28), vale a dire la loro persona ancora inclinata alla concupiscenza. Si sente qui una seconda nota apocalittica (cfr. Mc 13,19), che fa da eco al precedente cenno alla «necessità presente» (v. 26) e introduce il paragrafo successivo (vv. 29-35) segnato da un'intensa attesa del ritorno ormai prossimo di Cristo glorioso. È innegabile che sposarsi implichi l'assunzione di tutta una serie di responsabilità nei confronti del coniuge e dei figli. Ma qui c'è di più: Paolo viveva permanentemente in attesa di quell'«istante», ormai per lui imminente, in cui «in un batter d'occhio, al (suono del)l'ultima tromba, [...] i morti» sarebbero stati «risuscitati incorruttibili» e i cristiani ancora in vita -come lui- sarebbero stati «trasformati» (lCor 15,52; cfr. lTs 4,15). In quel frangente, «il Signore stesso a un segnale, alla voce di un arcangelo e alla tromba divina)) sarebbe disceso «dal cielo» (1Ts 4, 16) e avrebbe portato a compimento la storia. Verosimilmente, Paolo condivideva questa attesa con alcuni fedeli di Corinto (cfr. 1Cor 15,51) e di altre comunità cristiane (cfr. Rm 13,11; 1Ts 4,15). In quest'ottica, prendersi cura del proprio coniuge, e dell'intera famiglia, avrebbe rappresentato un innegabile condizionamento alla libertà di servire con tutto se stesso Cristo negli altri (cfr. Mt 10,40-42; 18,5; 25,31-46). Soprattutto avrebbe costituito un certo impedimento ad annunciare, non solo a parole ma con l'intera vita, il Vangelo di Cristo, prima del suo imminente avvento glorioso.

Per questo motivo, l'apostolo esalta la verginità (vv. 32-35). Non la elogia, però, in quanto stato fisico, come facevano probabilmente i puritani di Corinto, né, tanto meno, sotto il profilo anagrafico. La celebra primariamente come atteggiamento di un cuore del tutto dedicato al Signore. In questo senso, l'insistenza con cui Paolo sollecita i suoi interlocutori a vivere la fede cristiana nella loro situazione attuale e, in particolare, la sua preferenza per la verginità trovano fondamento nella sua concezione della storia. Immaginando una sua fine imminente, l'apostolo dichiara: «Il tempo si è fatto breve [...]. È transitorio l'aspetto esteriore di questo mondo!» (7,29.31). Della vita in questo mondo «rimangono queste tre cose: fede, speranza e carità. Ma la più grande di queste è la carità)) (13,13) perché non verrà mai meno (cfr. 13,8), neppure quando entreremo nella comunione eterna con Cristo risorto.

Da questo punto di vista, l'apostolo è realista e dice il vero: il confronto da lui istituito tra il matrimonio e il celibato (vv. 32-34) porta a riconoscere che chi vive il celibato in vista del regno di Dio (cfr. Mt 19,12) è maggiormente aiutato a trovare l'unità interiore della propria esistenza. Essendo soltanto «di Cristo» (1Cor 3,23), può costantemente dedicarsi al servizio di lui (v. 22) e delle realtà del suo corpo ecclesiale, così da essergli gradito (v. 32). Chi si sposa, invece, pur essendo chiamato alla stessa meta della santità (cfr. 1,26), deve giungere alla comunione con Cristo attraverso l'amore sponsale. Perciò nella misura in cui il proprio coniuge non viva evangelicamente la relazione matrimoniale, da mezzo per giungere a Cristo viene a costituire un ostacolo per perseguire questo scopo. Ciò non toglie che Paolo inviti a superare tale difficoltà, non separandosi dalla persona amata così da cercare di santificarla (cfr. 7,12-14). Ciò detto, si deve puntualizzare che non può essere questa difficoltà la ragione fondamentale per preferire il celibato al matrimonio. Altrimenti il celibato sarebbe una scelta di ripiego, troppo comoda e perfino egoista. In realtà è lo Spirito Santo che, donando carismi diversi ai cristiani celibi e a quelli sposati (cfr. 7,7), misteriosamente li chiama e li abilita alla sequela di Cristo nel rispettivo stato di vita.

Con questo intento l'apostolo torna a considerare di nuovo lo stato di vita dei fidanzati. Già prima li ha rassicurati che sposarsi non è affatto peccaminoso (v. 28), anche se, considerando il ritorno imminente di Cristo glorioso, sarebbe conveniente per loro non farlo (vv. 26-27). A questo punto si sofferma su un caso concreto di astensione dal matrimonio che risulta non così chiaro ai lettori odierni: il riferimento potrebbe essere al caso di fidanzati che, influenzati dalle concezioni puritane di alcuni cristiani rigoristi, avrebbero preso la decisione di porre fine al fidanzamento e al proposito di sposarsi. Paolo lascerebbe libero il giovane di sposare la propria fidanzata perché il matrimonio non è peccaminoso. Se però quel tale volesse vivere da celibe, e per l'apostolo sarebbe meglio, non sarebbe affatto costretto a sposarla.

Al consiglio dato da Paolo alle vergini (vv. 25-26) fa da pendant quest'altro abbastanza simile rivolto alle vedove. Anche costoro non vivono lo stato matrimoniale e come alle vergini l'apostolo aveva consigliato di non sposarsi (v. 26), così alle vedove ribadisce che sarebbe preferibile la scelta di non celebrare un nuovo matrimonio (v. 40a: cfr. 7,8). D'altronde, alle vergini Paolo aveva tenuto a rammentare la propria affidabilità dovuta al fatto che il Signore aveva avuto misericordia di lui (cfr. 7,25b); rivolgendosi ora alle vedove, aggiunge di aver ricevuto in dono lo Spirito di Dio (v. 40b), da cui dipende la sua autorevolezza. Ed è con questa autorevolezza ispirata che egli ripete alle vedove che desiderassero risposarsi di farlo (cfr. 7,9). Il legame matrimoniale permane fin quando il coniuge è vivo (v. 39). Dunque, accedano pure a nuove nozze. Lo facciano però «nel Signore)), ovvero con un cristiano (7,39b), così da fare, grazie alla condivisione dell'unica fede in Cristo, un solo corpo in lui (cfr. 6,15; 12,12).


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Ricorso dei cristiani ai tribunali pagani 1Quando uno di voi è in lite con un altro, osa forse appellarsi al giudizio degli ingiusti anziché dei santi? 2Non sapete che i santi giudicheranno il mondo? E se siete voi a giudicare il mondo, siete forse indegni di giudizi di minore importanza? 3Non sapete che giudicheremo gli angeli? Quanto più le cose di questa vita! 4Se dunque siete in lite per cose di questo mondo, voi prendete a giudici gente che non ha autorità nella Chiesa? 5Lo dico per vostra vergogna! Sicché non vi sarebbe nessuna persona saggia tra voi, che possa fare da arbitro tra fratello e fratello? 6Anzi, un fratello viene chiamato in giudizio dal fratello, e per di più davanti a non credenti!

Incoerenza dei cristiani in lite 7È già per voi una sconfitta avere liti tra voi! Perché non subire piuttosto ingiustizie? Perché non lasciarvi piuttosto privare di ciò che vi appartiene? 8Siete voi invece che commettete ingiustizie e rubate, e questo con i fratelli! 9Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adùlteri, né depravati, né sodomiti, 10né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. 11E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio.

Sessualità e immoralità 12«Tutto mi è lecito!». Sì, ma non tutto giova. «Tutto mi è lecito!». Sì, ma non mi lascerò dominare da nulla. 13«I cibi sono per il ventre e il ventre per i cibi!». Dio però distruggerà questo e quelli. Il corpo non è per l’impurità, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. 14Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. 15Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! 16Non sapete che chi si unisce alla prostituta forma con essa un corpo solo? I due – è detto – diventeranno una sola carne. 17Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. 18State lontani dall’impurità! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impurità, pecca contro il proprio corpo. 19Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi. 20Infatti siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Ricorso dei cristiani ai tribunali pagani Paolo passa dalla questione spinosa dell'incestuoso a un altro motivo di scandalo, vale a dire la consuetudine dei cristiani di Corinto di ricorrere ai tribunali civili per far dirimere le contese sorte tra di loro (vv. 1-6). L'intento di Paolo, è mettere fine alla consuetudine dei cristiani di Corinto di utilizzare gli organi giudiziari della città, in caso di contrasti interni alla Chiesa. All'apostolo pare per lo meno contraddittorio che i cristiani si sottopongano al giudizio dei non cristiani. Com'è possibile che delle persone «santificate» (6,11; cfr. 1,2) e «giustificate» (ossia perdonate) da Cristo (cfr. 1,30) decidano di farsi giudicare da «ingiusti» (v. 1; cfr. 6,9)? Secondo Paolo non è giusto che ai tribunali civili facciano ricorso delle persone «sante» (vv. 2-3), che, alla fine dei tempi, saranno associate allo stesso Cristo risorto per giudicare tutti gli abitanti della terra (cfr. Mt 19,28; Ap 20,4) e persino gli angeli decaduti (cfr. Gd 5-6; 2Pt 2,4). Come mai, allora, i Corinzi accettano di riconoscere autorità a giudici pagani che, in ambito ecclesiale, non ne hanno affatto (v. 4)? E sì che i Corinzi, ironizza Paolo, pretendono di essere così sapienti (v. 5; cfr. 4,10)! Del resto, anche le comunità giudaiche dell'epoca avevano i propri tribunali, attribuendo loro il compito di dirimere le cause interne e vietando l'appello alla magistratura civile.

Incoerenza dei cristiani in lite L'argomentazione di Paolo si radicalizza, mostrando come tra i credenti in Cristo non dovrebbero nemmeno sorgere dei contrasti tali da spingerli ad appellarsi a tribunali, ecclesiastici o civili che siano. Anzi, Paolo aggiunge che, per evitare questo esito fallimentare della vita comunitaria, sarebbe meglio che i cristiani accettassero di subire ingiustamente la privazione dei propri beni (v. 7). Solo così imiterebbero davvero Cristo, che predicò (cfr. Mt 5,39-42; Lc 6,27-29) e visse la non-violenza, perché «insultato, non restituiva l'insulto, [...] ma si affidava a Colui che giudica con rettamente» (1Pt 2,23). Purtroppo, i cristiani di Corinto non solo non rinunciavano a rivendicare i propri diritti davanti a tribunali pagani, ma addirittura erano loro a commettere ingiustizie a scapito di altri membri della comunità, loro «fratelli» in Cristo (v. 8). Per convincerli a smettere di comportarsi così, Paolo mostra, con un'argomentazione generale su tutti i peccatori renitenti, quale sarà l'esito ultimo della loro caparbia condotta: l'esclusione dal «regno di Dio» (vv. 9-10). Dalla comunione gloriosa con Dio (cfr. 1Cor 15,28) saranno esclusi coloro che in questa vita avranno commesso ingiustizie o altri gravi peccati, che Paolo elenca riecheggiando probabilmente i cosiddetti «cataloghi dei vizi» delle filosofie del tempo, diffusisi a livello popolare (vv. 9c-10a; cfr. 5,10-11). Paolo inizia il suo elenco di vizi associando «fornicatori», «idolatri» e «adulteri» (v. 9). Poi aggiunge all'elenco anche gli «effeminati» e i «sodomiti» (cfr. 1Tm 1,10), designando gli uomini che hanno rapporti omosessuali rispettivamente in senso passivo e attivo. Anche in questa deplorazione dell'omosessualità maschile (per quella femminile cfr. Rm 1,26), Paolo si muove sulla scia della tradizionale polemica del giudaismo contro il paganesimo (cfr. Sap 14,26). Effettivamente, nel mondo pagano di allora, e, tanto più, a Corinto, erano in voga le relazioni omosessuali, spesso sotto forma di pedofilia. A conclusione dell'elenco di vizi, l'apostolo rammenta ai fedeli di Corinto che anch'essi vi erano immersi (v. 11). Non lo dice per umiliarli, quasi rinfacciando loro di essere rimasti peccatori come un tempo. Al contrario, lo fa per aiutarli a giungere a una piena consapevolezza dell'immenso dono ricevuto nel battesimo dal Signore Gesù, diventato per loro «sapienza, giustificazione, santificazione e redenzione» (1,30).

Sessualità e immoralità L'apostolo si è reso conto che alcuni cristiani di Corinto s'illudevano d'essere giunti alla vera sapienza (cfr. 1Cor 1,17-3,4), fraintendendo probabilmente il suo stesso insegnamento sull'essere liberati da Cristo (cfr. Rm 8,2-4; Gal5,1) e illuminati dallo Spirito Santo (cfr. 1Cor 2,13). Costoro finivano probabilmente per abbandonarsi agli sfrenati piaceri sessuali (6,12-13.15-16.18), né più né meno come numerosi loro concittadini pagani o come certi sedicenti filosofi del tempo, che rivendicavano di poter fare ciò che volevano, accampando il pretesto che solo i sapienti saprebbero discernere il bene dal male.

Accortosi della gravità di tale lassismo sessuale, acutizzata dalla sua deviante giustificazione teorica, Paolo reagisce con lucidità e decisione. Il suo intento è dimostrare che la libertà dei figli di Dio non è affatto libertinaggio. Perciò egli mette, in primo luogo, allo scoperto la capacità dei peccati sessuali di frantumare il corpo ecclesiale di Cristo (vv. 12-17) e poi evidenzia gli effetti disastrosi della fornicazione anche sulla persona che la pratica (vv. 18-20).

Anzitutto Paolo, riferendosi al detto sul «ventre», eufemismo per designare l'apparato sessuale, passa ad una concezione più armonica e completa del «corpo» umano e della sua relazione inscindibile con la stessa vita di fede (v. 13c). La sessualità umana non è riducibile a mera istintività o fisicità. Al contrario, essa è una dimensione fondamentale della relazionalità corporea, che rientra a pieno titolo nel rapporto con il Signore. Dopo di che, Paolo si concentra sul rapporto dei cristiani con Cristo. Se la corporeità permette alla persona di entrare in relazione con gli altri, nel caso dei cristiani diventa il modo per mantenersi in rapporto primariamente con il Signore (cfr. 1Cor 3,22-23; Rm 14,8; Gal 2,20).

L'apostolo richiama con forza i Corinzi a rimanere uniti a Cristo, che li ha comprati a caro prezzo, morendo in croce per loro (cfr. 6,20 e 7,23). Ma proprio perché i credenti in Cristo saranno risuscitati come lui, ossia con la loro stessa corporeità, e non solo con la loro anima (cfr. 15,44), essi non devono svilirla in comportamenti viziosi. Al contrario, devono cercare di costruire, per mezzo di essa, relazioni belle, buone e vere, che poi perdureranno, positivamente trasfigurate (cfr. 15,35-57), anche nell'aldilà.

Fin d'ora, grazie al battesimo, essi sono diventati, con i loro stessi corpi, «membra di Cristo» (6,15). In questo modo l'apostolo fonda la trattazione morale della persona – corporeità e sessualità in primis – sull'idea a lui cara di Chiesa come corpo di Cristo (cfr. 12,12-30; anche Rm 12,4-5; Ef 1,22-23; 5,23; Col 1,18-24). Ed è proprio alla luce di questa profonda consapevolezza ecclesiale che Paolo giunge a vietare, senza mezzi termini, che i cristiani abbiano rapporti sessuali con prostitute (vv. 15-16).

La relazione sessuale del cristiano impudico con una prostituta contraddirebbe il suo aver già fatto un tutt'uno con Cristo nel battesimo (cfr. 1Cor 12,12-13.27; Gal 3,27-28). Come potrebbe continuare a rimanere in comunione con Cristo nella celebrazione eucaristica un battezzato che si unisce peccaminosamente con una prostituta? Di certo, l'apostolo distingue l'unione sessuale con la prostituta, cioè il formare «un solo corpo (con lei)» (v. 16), dall'unione spirituale con Cristo (cfr. 2,11), ossia il diventare «un solo spirito (con lui)» (v. 17). Tuttavia, vista l'unitarietà della persona umana, congiungersi sessualmente a una prostituta significa, stando al passo della Genesi citato, diventare «una (sola) carne» (Gen 2,24) con lei. Ma questa unione sessuale illegittima con una donna sarebbe come smembrare il corpo di Cristo (cfr. 1Cor 1, 13), di cui i cristiani sono membra (v. 15).

In quest'ordine d'idee già s'intuisce come un cristiano entri in contraddizione con se stesso: di per sé, in quanto ha ricevuto il battesimo «in Cristo» (Gal 3,27; cfr. Rm 6,3), egli è di Cristo (cfr. 1Cor 3,23). Ma, avendo un rapporto sessuale con una prostituta, egli simultaneamente appartiene anche a lei, che vive in una condizione peccaminosa antitetica a Cristo. Questa specie di schizofrenia nei due rapporti in questione ha ripercussioni nocive non solo sul corpo ecclesiale di Cristo, ma primariamente sulla persona del cristiano peccatore. La profonda intuizione sviluppata qui da Paolo è che un uso distorto della sessualità non costituisca, come avrebbero potuto immaginare i Corinzi nell'orizzonte del dualismo greco-ellenistico, un'attività «al di fuori del suo corpo» (v. 18), bensì un disordine peccaminoso in grado di stravolgere l'intera persona. Perciò chi entra in rapporto sessuale con una prostituta commette un peccato anzitutto contro la propria persona, direttamente e complessivamente coinvolta in quell'atto. Non solo: commette anche un peccato contro lo Spirito Santo che abita in ogni cristiano. Tempio dello Spirito non è soltanto la comunità cristiana (cfr. 3,16-17), ma primariamente ogni cristiano (v. 19) che la costituisce.

Non va dimenticato che, qualche decennio prima dell'evangelizzazione paolina di Corinto, la città era diventata famosa nell'impero per il suo santuario dedicato alla dea Afrodite, nel quale un migliaio di sacerdotesse si dedicavano alla cosiddetta «prostituzione sacra». Unendosi sessualmente con loro, si credeva di entrare in comunione con la divinità dell'amore, dalla quale si riceveva in dono fecondità in famiglia, fertilità dei campi e benessere. Ovviamente, questo risvolto idolatrico rendeva i rapporti sessuali con le prostitute ancora più incompatibili con la fede cristiana.

Nella visione che Paolo ha dell'esistenza cristiana, con il battesimo si verifica come un passaggio di proprietà: i credenti non appartengono più semplicemente a se stessi (v. 19) perché sono stati comprati da Dio (v. 20; cfr. 7,23). Dio ha pagato un prezzo altissimo per riscattare gli uomini dalla loro schiavitù al peccato! (cfr., p. es., Rm 3,9; 6,6.12-14; 7,14). Da qui l'invito rivolto ai Corinzi, quasi fossero liberti del Signore (1Cor 7,22), di glorificare Dio nel loro corpo (v. 20; cfr. l Ts 4,4), evitando soprattutto di scivolare nell'immoralità sessuale, capace di schiavizzarli di nuovo (cfr. 1Cor 6,12).


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Condanna di un incestuoso 1Si sente dovunque parlare di immoralità tra voi, e di una immoralità tale che non si riscontra neanche tra i pagani, al punto che uno convive con la moglie di suo padre. 2E voi vi gonfiate di orgoglio, piuttosto che esserne afflitti in modo che venga escluso di mezzo a voi colui che ha compiuto un’azione simile! 3Ebbene, io, assente con il corpo ma presente con lo spirito, ho già giudicato, come se fossi presente, colui che ha compiuto tale azione. 4Nel nome del Signore nostro Gesù, essendo radunati voi e il mio spirito insieme alla potenza del Signore nostro Gesù, 5questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore. 6Non è bello che voi vi vantiate. Non sapete che un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta? 7Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! 8Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità. 9Vi ho scritto nella lettera di non mescolarvi con chi vive nell’immoralità. 10Non mi riferivo però agli immorali di questo mondo o agli avari, ai ladri o agli idolatri: altrimenti dovreste uscire dal mondo! 11Vi ho scritto di non mescolarvi con chi si dice fratello ed è immorale o avaro o idolatra o maldicente o ubriacone o ladro: con questi tali non dovete neanche mangiare insieme. 12Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? 13Quelli di fuori li giudicherà Dio. Togliete il malvagio di mezzo a voi!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Condanna di un incestuoso Di fronte alla permanente convivenza di un cristiano di Corinto con la moglie di suo padre, cioè con la sua matrigna (v. 1), Paolo interviene sollecitando la comunità cristiana a procedere con una vera e propria espulsione dell'interessato. Paolo procede con severità, biasimando l'incuranza superficiale e presuntuosa della comunità cristiana. Proprio perché essa non si è dispiaciuta affatto del comportamento di quel tale né, tanto meno, lo ha allontanato da sé, l'apostolo si sente in dovere d'intervenire (v. 2). Lo fa in maniera coerente alle norme essenziali stabilite dall'assemblea di Gerusalemme. Stando alla testimonianza degli Atti, gli apostoli (Paolo incluso) vi avevano confermato, anche per i pagani convertitisi alla fede cristiana, la proibizione dell'immoralità. Quindi, in conformità alla Legge mosaica (cfr. At 15,20-21), avevano vietato i rapporti incestuosi. Quando Paolo dettò la Prima lettera ai Corinzi, si trovava a Efeso (cfr. v. 3a) e non aveva la possibilità di recarsi a breve a Corinto (cfr. 16,8-9). Inoltre, la situazione sembrava essersi incancrenita: è verosimile che a quel punto sarebbe stato inutile rimproverare l'incestuoso, esortandolo a lasciare quella donna. Sta di fatto che Paolo non accenna nemmeno a tale possibilità. «Spiritualmente presente» tra i Corinzi (v. 3b), decreta l'espulsione di quel cristiano dalla Chiesa. E chiede che la sua decisione -di certo sofferta- presa «nel nome del Signore [nostro] Gesù» venga ratificata dalla comunità riunita «con la potenza del Signore nostro Gesù» (v. 4): per un atto così grave nei confronti di un credente, tutta la comunità, Paolo incluso, deve agire strettamente unita al Signore.

Lo scopo pedagogico di questa dura sanzione disciplinare è espresso in termini non immediatamente comprensibili: «questo individuo venga consegnato a Satana a rovina della carne, affinché lo spirito possa essere salvato nel giorno del Signore» (v. 5). Per capire questa espressione si deve tenere conto della visione antropologica dell'apostolo: per lui, la «carne» degli uomini è il terreno in cui Satana (come il «nemico» che ha seminato zizzania, da cui mise in guardia Gesù, Mt 13,24-30) ha sparso il seme del peccato (cfr. Rm 7,14-25), abbondantemente germinato all'interno dell'umanità. Paolo parla di «opere proprie della carne» che «sono manifeste: sono fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, magia, inimicizie, lite, gelosia, ire, ambizione, discordie, divisioni, invidie, ubriachezze, orge e opere simili a queste» (Gal5,19-21; cfr. Rm 13,13-14). Con questo modo d'intendere la «carne», si comprende che a spingere Paolo a sancire l'espulsione di quel peccatore dalla comunità cristiana è un ultimo filo di speranza: che cioè costui, una volta lasciato dalla Chiesa in balìa di Satana (cfr. Gb 2,6), soffra a causa del suo stesso peccato e giunga così a pentirsene. In altri termini, auspica che quel peccatore, accortosi d'essersi posto con il proprio comportamento immorale al di fuori del circuito vitale della comunione ecclesiale con il Signore, abbia il coraggio di sciogliere la sua convivenza incestuosa.

L'esortazione alla purificazione dal peccato rivolta da Paolo alla Chiesa corinzia prende le mosse da un'antica usanza giudaica: in vista delle celebrazioni pasquali, il pane fermentato veniva del tutto eliminato dalle abitazioni. Paolo interpreta il rituale pasquale ebraico alla luce della morte e della risurrezione di Cristo. Per lui l'antico esodo dalla schiavitù egiziana e la novità di un'esistenza liberata dal Signore trovano compimento nella vita dei credenti in Cristo, non più dominata del peccato (cfr. Rm 3,9; 6,6.12.14), ma animata dalla «sincerità» e dalla «verità» (1Cor 5,8). Da qui l'invito rivolto dall'apostolo ai fedeli di Corinto a essere «pasta nuova», grazie alla redenzione operata da Cristo (cfr. 1,30; 15,3), immolato sulla croce come l'antico agnello pasquale{v. 7; cfr. lPt 1,19). In concreto, l'apostolo li incita a disfarsi del «lievito vecchio» delle malvagità e della corruzione (cfr. Mt 16,6 e paralleli), così da essere come «azzimi» puri (vv. 7-8), ossia da vivere un'esistenza «pasquale» con Cristo risorto.

Allargando il discorso, Paolo precisa la questione delle relazioni che i credenti in Cristo non devono più intrattenere con altri cristiani che vivono in una condizione permanente di peccato. In una lettera precedente a questa, l'apostolo aveva già messo in guardia i fedeli di Corinto dal mescolarsi con chi viveva nell'immoralità sessuale (v. 9). Ora egli puntualizza che in quella missiva non intendeva riferirsi ai peccatori che non credono in Cristo, fossero essi fornicatori piuttosto che avari, predoni, idolatri (v. 10), diffamatori o ubriaconi (v. 11). La concezione paolina di Chiesa non è settaria, quasi che i credenti in Cristo dovessero fuggire dal mondo (v. 10) per poter vivere la propria fede al riparo da ogni contaminazione peccaminosa. Una concezione del genere era pur presente in alcune frange del giudaismo dell'epoca, come, per esempio, nei membri della comunità di Qumran o in alcuni gruppi della diaspora. Paolo, invece, precisa che la sua ammonizione anteriore aveva per oggetto i credenti in Cristo, che si dicono «fratelli», ma che in realtà perseverano in una condotta gravemente peccaminosa: con costoro sarebbe imprudente per i cristiani mantenere rapporti, per esempio, condividendone i pasti (v. 11).

In ogni caso, citando la Legge di Mosè che sanciva l'eliminazione degli idolatri dal popolo d'Israele attraverso la lapidazione (cfr. Dt 17,7), Paolo ammonisce la comunità corinzia a essere risoluta nell'allontanare i propri membri che rifiutano di convertirsi da peccati gravi come quelli qui elencati (v. 13). Specialmente in un contesto d'immoralità dilagante come quello di Corinto, consentire ai credenti in Cristo di tornare a comportarsi peccaminosamente come prima della conversione avrebbe significato condannare la Chiesa all'autodistruzione. Resta così giustificata la pena medicinale dell'espulsione dell'incestuoso dalla comunità cristiana, mentre per quanto riguarda i pagani, con cui i cristiani inevitabilmente entravano in contatto, l'apostolo non si pronuncia affatto.


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