📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

L’esempio dei Macedoni 1Vogliamo rendervi nota, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia, 2perché, nella grande prova della tribolazione, la loro gioia sovrabbondante e la loro estrema povertà hanno sovrabbondato nella ricchezza della loro generosità. 3Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, 4domandandoci con molta insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a vantaggio dei santi. 5Superando anzi le nostre stesse speranze, si sono offerti prima di tutto al Signore e poi a noi, secondo la volontà di Dio; 6cosicché abbiamo pregato Tito che, come l’aveva cominciata, così portasse a compimento fra voi quest’opera generosa.

L’esempio di Cristo 7E come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa. 8Non dico questo per darvi un comando, ma solo per mettere alla prova la sincerità del vostro amore con la premura verso gli altri. 9Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà. 10E a questo riguardo vi do un consiglio: si tratta di cosa vantaggiosa per voi, che fin dallo scorso anno siete stati i primi, non solo a intraprenderla ma anche a volerla. 11Ora dunque realizzatela perché, come vi fu la prontezza del volere, così vi sia anche il compimento, secondo i vostri mezzi. 12Se infatti c’è la buona volontà, essa riesce gradita secondo quello che uno possiede e non secondo quello che non possiede. 13Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: 15Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno.

Raccomandazione dei delegati 16Siano rese grazie a Dio, che infonde la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito! 17Egli infatti ha accolto il mio invito e con grande sollecitudine è partito spontaneamente per venire da voi. 18Con lui abbiamo inviato pure il fratello che tutte le Chiese lodano a motivo del Vangelo. 19Egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest’opera di carità, alla quale ci dedichiamo per la gloria del Signore, e per dimostrare anche l’impulso del nostro cuore. 20Con ciò intendiamo evitare che qualcuno possa biasimarci per questa abbondanza che viene da noi amministrata. 21Ci preoccupiamo infatti di comportarci bene non soltanto davanti al Signore, ma anche davanti agli uomini. 22Con loro abbiamo inviato anche il nostro fratello, di cui abbiamo più volte sperimentato la sollecitudine in molte circostanze; egli è ora più entusiasta che mai per la grande fiducia che ha in voi. 23Quanto a Tito, egli è mio compagno e collaboratore presso di voi; quanto ai nostri fratelli, essi sono delegati delle Chiese e gloria di Cristo. 24Date dunque a loro la prova del vostro amore e della legittimità del nostro vanto per voi davanti alle Chiese.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

L’esempio dei Macedoni Nel v. 1 Paolo dice che lui e i suoi collaboratori vogliono fare conoscere ai Corinzi la grazia che Dio ha concesso e continua a concedere alle Chiese della Macedonia. Secondo l’apostolo i doni e l’agire divini in tali comunità le rendono capaci di generosità verso le altre; in questo modo la questione della colletta è posta da subito in prospettiva teologica. il v. 2 spiega in che cosa consiste la grazia divina donata ai Macedoni. La formulazione della frase è chiaramente paradossale, poiché la gioia è fatta derivare dalla tribolazione e la ricchezza dalla povertà, manifestando in maniera palese che la partecipazione macedone alla colletta è prima di tutto merito della grazia di Dio. Ai vv. 3-4 Paolo fornisce le prove della generosità dei Macedoni. La sottolineatura della spontaneità e della volontà benefica dei cristiani della Macedonia non è semplicemente finalizzata al loro elogio; è piuttosto funzionale all’esortazione e al rimprovero dei Corinzi che, al contrario degli altri, devono essere supplicati dall’apostolo, con la mediazione di Tito, affinché giungano a completare la colletta. Al v. 5 Paolo chiude la presentazione dell’esempio dei Macedoni: non hanno semplicemente dato qualcosa per sovvenire alle necessità della comunità di Gerusalemme e dei suoi poveri, ma si sono messi completamente a disposizione del loro signore e dei loro evangelizzatori, realizzando pienamente la volontà di Dio. Al v. 6, in conseguenza dell’esemplare entusiasmo dei Macedoni per la colletta, Paolo segnala la richiesta fatta a Tito. Egli, che l’aveva cominciata, è pregato di portare a termine tra i Corinzi tale opera ispirata dalla grazia.

L’esempio di Cristo avendo mostrato l’esempio dei Macedoni e lo scopo della nuova visita di Tito, al v. 7 Paolo giunge finalmente a presentare il suo appello ai destinatari affinché abbondino nel loro contributo alla colletta, opera derivante dalla grazia di Dio: riconoscendo la sovrabbondanza dei doni ricevuti e posseduti, i Corinzi sono caldamente invitati a sovrabbondare nel loro soccorso ai poveri della comunità di Gerusalemme. Il v. 8 si configura come una precisazione retorica, per evitare il fraintendimento dei destinatari e non fallire nel proprio scopo persuasivo. Infatti, nonostante non si sia espresso in maniera manifestamente imperativa, Paolo chiarisce che, invitando a completare la colletta, non intende dare un comando ma mettere alla prova, attraverso il confronto con la pronta risposta dei Macedoni, anche la genuinità dell’amore cristiano dei Corinzi. Il v. 9 illustra ai destinatari l’esempio per eccellenza, da seguire in ordine al compimento dell’«opera di grazia» (cfr. v. 7). Paolo afferma che l’azione di grazia di Cristo è stata quella, da ricco che era, di farsi povero, al fine di arricchire i credenti con la sua povertà. La frase risulta sin dall’inizio paradossale (come può un povero arricchire altri per mezzo delle sua povertà?), richiamando quella di 5,21 e altre proprie di Paolo in merito all’azione salvifica di Dio, che va al di là del modo di pensare dell’uomo. In particolare, il collegamento più chiaro è con Fil 2,6-8 dove Cristo, pur essendo di condizione divina, spoglia se stesso assumendo la condizione umana più bassa, cioè quella dello schiavo, sino a morire sulla croce. Così la condizione iniziale di ricchezza è da intendersi in relazione allo status divino del Cristo incarnato, mentre il suo volontario impoverirsi descrive la sua intera vicenda storica, propria della sua condizione umana e comprensiva della morte e della risurrezione, la quale rappresenta complessivamente la sua «opera di grazia». La finalità di tale azione è quella di ricolmare i credenti dei beni della salvezza e tra questi beneficiari devono comprendersi i Corinzi, che sono quindi indirettamente spinti a dedicarsi all’«opera di grazia» della colletta (v. 7). Al v. 10 Paolo ritorna direttamente alla questione del completamento della colletta da parte dei Corinzi. Egli fornisce la sua fondata opinione, dicendo che la raccolta ricade a vantaggio degli ascoltatori che, già da un anno, non solo l’hanno intrapresa, ma soprattutto l’hanno voluta. Tuttavia, al momento l’apostolo non spiega in che cosa consista tale utilità ma lo chiarirà dopo, nei vv. 13-15. Implicitamente Paolo fa capire che, se i Corinzi hanno aderito di propria iniziativa alla raccolta, sarebbe contraddittorio non portarla a termine. Dal passato Paolo ritorna al presente nel v. 11, insistendo sul completamento della colletta insieme a un velato rimprovero dei Corinzi. Secondo l’apostolo, è ormai giunto il momento di concludere la raccolta iniziata un anno prima, sottolineando l’iniziale premura dei Corinzi e chiedendo semplicemente un contributo confacente ai loro mezzi. A differenza di quanto detto a proposito della partecipazione dei Macedoni, che hanno donato oltre le loro possibilità economiche (cfr. v. 3), agli ascoltatori non si domanda una generosità eroica. Perciò non hanno ragione di ritardare ancora la presentazione della loro offerta per i poveri di Gerusalemme. Al v. 12 Paolo amplia quanto appena detto, riprendendo l’idea di «prontezza» in merito alla colletta. Egli afferma che questo atteggiamento nel donare risulta gradito in base a quello che uno può dare, senza andare oltre i propri mezzi. Ciò che conta per l’apostolo è quindi tale premura, che deve essere la stessa con la quale è stata cominciata l’iniziativa, e non la quantità del contributo. Al v. 13 Paolo non solo spiega più chiaramente quanto appena sostenuto, ma anche, sino al v. 15, il perché dell’utilità della colletta per i destinatari, elemento introdotto al v. 10. Il testo del versetto ricorre a un concetto tipico del mondo greco e quindi familiare agli ascoltatori, quello dell’uguaglianza. Il v. 14 approfondisce il senso dell’uguaglianza, richiamando l’interscambio cristologico del v. 9 che diviene la ragione e la spinta per quello tra credenti e tra comunità. Il v. 15 chiude il brano e l’approfondimento sulla tematica dell’uguaglianza con una citazione biblica che ne evidenzia l’origine divina e, quindi, il suo indiscutibile valore. Paolo riprende il testo di Es 16,18b LXX, riguardante il dono della manna per il popolo di Israele, che affermava come chi aveva raccolto di più non ebbe del superfluo, e chi aveva raccolto di meno non patì una mancanza. Il testo anticotestamentario è usato per validare il principio dell’uguaglianza, mostrando l’agire di Dio che distribuisce i suoi doni in base alle capacità umane di accoglienza. Così la condizione di parità tra le diverse comunità non è per Paolo una questione di natura sociale o politica, ma teologica: seguendo l’esempio divino non si cancelleranno le differenze tra le Chiese, bensì ci si impegnerà in un fecondo interscambio per provvedere ai bisogni di ciascuna di esse.

Raccomandazione dei delegati Paolo attinge dal genere epistolare delle lettere di raccomandazione, dal quale si era distanziato riguardo alla difesa del proprio apostolato presso i Corinzi (cfr. 3,1-3), per chiedere ai destinatari di accogliere la delegazione preposta alla raccolta della colletta. Con ogni probabilità, in tale occasione Tito recherà alla comunità di Corinto la lettera composta dai primi nove capitoli (2 Corinzi A). Nel nostro brano Paolo, seguendo i canoni propri delle lettere di raccomandazione, presenta ciascuno degli inviati in base a tre elementi: identificazione, relazione con lui quale mittente, credenziali per lo svolgimento del ruolo. La raccomandazione è, quindi, personale dell’apostolo, ma anche ecclesiale. Al v. 16 Paolo comincia la raccomandazione di Tito, fidato collaboratore che sta per inviare di nuovo in Acaia. Egli ringrazia Dio perché pone nel cuore di Tito la sua stessa sollecitudine per i Corinzi. Come la grazia divina era all’origine dello slancio dei Macedoni per la colletta (cfr. 8,1-2), allo stesso modo ora l’agire di Dio determina la premura di Tito nei confronti dei destinatari affinché completino la raccolta. Nel v. 17, scritto mentre gli inviati sono vicini alla partenza, è presentato il perché del rendimento di grazie a Dio per la sollecitudine di Tito. Infatti, Paolo afferma che il collaboratore non soltanto ha accolto il suo appello in merito al completamento della colletta, ma si è dimostrato ancor più zelante, visto che ha deciso di propria iniziativa di recarsi di nuovo a Corinto. Come nei confronti dei destinatari l’apostolo non ha rivolto un comando, ma un invito, così ha fatto anche con Tito, e quest’ultimo non l’ha semplicemente seguito, bensì vi ha aderito con piena libertà e vero coinvolgimento. Al v. 18 Paolo comincia la raccomandazione di uno dei due compagni di Tito. L’apostolo sostiene di stare per inviare a Corinto, insieme con Tito, un fratello cristiano, lodato in tutte le Chiese per il suo annuncio del Vangelo. Al v. 19 la raccomandazione del delegato continua, sostenendo che questo compagno di viaggio di Paolo è anche stato scelto dalle Chiese in ordine alla colletta, raccolta dall’apostolo e dai suoi per dare gloria a Dio e per mostrare la loro premura nei confronti della Chiesa di Gerusalemme. L’iniziativa paolina richiama da vicino la pratica giudaica dell’elezione di emissari per recare nella città santa l’obolo delle comunità della diaspora a beneficio del tempio. Al v. 20 comincia una difesa di Paolo che si conclude nel versetto successivo, spiegando contestualmente anche la dilazione di una sua visita a Corinto. Così egli afferma che ha disposto l’invio dei delegati per la colletta, affinché lui (e i suoi stretti collaboratori) non siano criticati per la loro amministrazione dell’ingente somma raccolta. Nel v. 21 si conclude la breve apologia di Paolo, motivando quanto appena affermato con una sentenza di carattere proverbiale. Paolo allude al testo di Pr 3,4 LXX, sottolineando la dimensione dei rapporti interpersonali. Se la priorità di Paolo è quella di piacere a Dio piuttosto che agli uomini (cfr. Gal 1,10), d’altra parte deve dare conto delle sue scelte alle persone, in modo da eliminare i possibili ostacoli alla sua missione (cfr. 6,3) e, in questo caso, al completamento della colletta. Secondo tale prospettiva è dunque giustificato l’invio a Corinto dei delegati da parte dell’apostolo. Il v. 22 presenta la raccomandazione dell’ultimo delegato con una formula di invio che riprende quella del v. 18. Paolo afferma, infatti, che sta per inviare il fratello, di cui spesso e nell’ambito di diverse situazioni ha sperimentato lo zelo, il quale ora è più zelante che mai a motivo della grande fiducia che nutre nei confronti dei destinatari. Per questo l’apostolo, rispetto al precedente inviato, parla di «nostro» e può attestarne personalmente la sollecitudine (come per Tito, cfr. v. 16), indicando la più stretta relazione che il secondo ha con lui. Al v. 23 Paolo riprende e sintetizza le raccomandazioni dei tre delegati, preparando così l’appello conclusivo del versetto seguente. Egli sostiene che, da una parte, Tito è partecipe della sua missione e suo stretto collaboratore per quanto riguarda la Chiesa corinzia e che, dall’altra, i due fratelli sono delegati delle Chiese che in ragione del loro impegno a favore della colletta, opera della grazia divina, rendono gloria a Cristo. Viene dunque ribadita, come avveniva già nei vv. 16-18, la preminenza di Tito rispetto agli altri due delegati a motivo del suo particolare rapporto di comunione con paolo (cfr. «mio»), ma anche con i destinatari. Tuttavia pure gli altri due sono ben raccomandati, in ragione di un legame con l’apostolo (cfr. «nostri»), del loro invio da parte delle Chiese e della loro glorificazione di Cristo. Al v. 24 il brano è concluso con un’esortazione ultima ai Corinzi, diretta conseguenza della raccomandazione finale dei delegati espressa nel versetto precedente. In fondo, con la buona accoglienza dei delegati e la ripresa della colletta (cfr. v. 8), i Corinzi dimostreranno che vantandosi di loro davanti a Tito e ai due altri fratelli (cfr. 7,4.14; 9,3) Paolo non si sbagliava. In particolare, questi ultimi rappresentano le comunità dell’Asia minore e della Macedonia che li hanno inviati; quindi, l’accoglienza loro riservata sarà un segno di comunione tra la Chiesa di Corinto e le altre. Così, alla fine del passaggio di 8,16-24 si rimarca ancora una volta che la questione della colletta non è un’iniziativa personale dell’apostolo, ma un’espressione di solidarietà e di comunione tra le Chiese, non solo tra quelle paoline e quella di Gerusalemme, ma anche all’interno delle prime.


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Invito conclusivo alla purificazione e alla santificazione 1In possesso dunque di queste promesse, carissimi, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la santificazione, nel timore di Dio.

Appello conclusivo alla comunione e ricapitolazione 2Accoglieteci nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato. 3Non dico questo per condannare; infatti vi ho già detto che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere. 4Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione.

La consolazione di Paolo per l’incontro con Tito 5Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, il nostro corpo non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all’esterno, timori all’interno. 6Ma Dio, che consola gli afflitti, ci ha consolati con la venuta di Tito; 7non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunciato il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me, cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta.

La gioia per gli effetti della lettera 8Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se mi è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo, vi ha rattristati –, 9ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; 10perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. 11Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi, quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. 12Così, anche se vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. 13Ecco quello che ci ha consolato.

La fiducia di Paolo per i Corinzi Più che per la vostra consolazione, però, ci siamo rallegrati per la gioia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi. 14Cosicché, se in qualche cosa mi ero vantato di voi con lui, non ho dovuto vergognarmene, ma, come abbiamo detto a voi ogni cosa secondo verità, così anche il nostro vanto nei confronti di Tito si è dimostrato vero. 15E il suo affetto per voi è cresciuto, ricordando come tutti gli avete obbedito e come lo avete accolto con timore e trepidazione. 16Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Invito conclusivo alla purificazione e alla santificazione Questo versetto chiude il brano precedente riprendendo la prospettiva esortativa di 6,14a e portandola alla conclusione. Paolo invita i suoi, alla purificazione alla santificazione nel timore di Dio. Questo invito riguarda l’intera persona del credente corinzio, esortato a liberarsi da tutto ciò che è d’ostacolo al proprio rapporto con Dio e, quindi, nel nostro contesto, da un rapporto di comunione con gli increduli. Paolo chiede ai Corinzi di condurre a compimento la loro santificazione, vivendo nel timore di Dio cioè, come in 5,11 era stato detto per gli apostoli, nella riverenza a lui e nella considerazione del suo giudizio finale. D’altra parte, per l’apostolo la santificazione del credente è prima di tutto opera dello spirito che è in lui (cfr. Rm 1,4) e poi diventa impegno del singolo a una condotta conforme a tale inabitazione (cfr. 1Ts 3,13). Così l’appello alla separazione dagli increduli rivolto a tutta la comunità di Corinto in 6,14–7,1 diviene un invito alla responsabilità personale di ciascun credente corinzio, in ordine a un’esistenza nuova e diversa da quella comune nel proprio ambiente.

Appello conclusivo alla comunione e ricapitolazione Al v. 2 l’apostolo comincia chiedendo ai Corinzi di fare spazio nei loro cuori a lui e ai suoi collaboratori, perché essi non hanno agito ingiustamente nei loro confronti, corrompendoli moralmente o frodandoli economicamente. Il versetto giunge quindi a una difesa dell’agire apostolico a fronte di insinuazioni e accuse, che non abbiamo la possibilità di identificare con chiarezza, e ricapitola così quanto affermato nell’intera sezione di 2,14–7,4 a sostegno dell’atteggiamento irreprensibile dei missionari. Al v. 3, l’apostolo intende precisare che la sua difesa non ha lo scopo di condannare i Corinzi: infatti, secondo quanto ha già affermato, essi sono nel cuore degli apostoli così da morire e vivere insieme. Al v. 4 Paolo afferma che per gli apostoli grandi sono la franchezza e il vanto nei confronti dei Corinzi, come abbondanti sono la consolazione e la gioia in mezzo alle tribolazioni. L’apostolo conclude la sezione cercando di lasciare nella mente degli interlocutori un buon giudizio sull’operato dei missionari, soprattutto sulla loro sincerità (cfr. 6,11), ma anche di convincerli della sua fiducia nei loro confronti, così come richiesto in una relazione di vera reciprocità (cfr. 6,13).

La consolazione di Paolo per l’incontro con Tito Al v. 5 l’apostolo afferma che all’arrivo in Macedonia, probabilmente insieme ai suoi collaboratori, non ha trovato pace nella propria persona, poiché era afflitto da conflitti esteriori e da paure interiori. I contrasti ai quali il testo accenna sono difficili da determinare; forse è possibile pensare al ripresentarsi di quelli che Paolo ha vissuto nella sua prima visita in Macedonia, confrontandosi con giudei e pagani (cfr. at 16–17); i timori, invece, derivano probabilmente dal fatto del mancato incontro a Troade con Tito e della successiva attesa di lui in Macedonia. La dilazione dell’appuntamento potrebbe avere determinato angoscia in Paolo, in quanto faceva supporre un’ulteriore complicazione dei rapporti con i Corinzi. Tuttavia, il v. 6 afferma che quel Dio che consola gli afflitti ha recato consolazione a Paolo e agli altri per mezzo dell’arrivo di Tito in Macedonia. il v. 7 viene aperto, a completamento del precedente, con una precisazione attraverso la quale si afferma che non solo la stessa venuta di Tito ha consolato Paolo e gli altri, ma lo ha fatto anche il conforto stesso che il fidato collaboratore ha ricevuto a Corinto. Infatti, Tito ha annunciato all’apostolo il desiderio dei destinatari di rivederlo, il loro dolore per le sofferenze procurategli in occasione della sua ultima visita in mezzo a loro (sofferenze probabilmente evidenziate attraverso la lettera «tra molte lacrime») e il loro sincero affetto per il fondatore della comunità. Di conseguenza, paolo gioisce ancor più e non soltanto per il ritorno di Tito, ma anche per il mutato atteggiamento della comunità nei suoi confronti, così da aprire la via a una piena riconciliazione.

La gioia per gli effetti della lettera Con i vv. 8-9a Paolo comincia a spiegare il perché della sua gioia alla quale aveva fatto riferimento alla fine del versetto precedente. Così l’apostolo afferma che, se anche ha rattristato i Corinzi con la sua lettera, non ne è dispiaciuto e, se in precedenza ne era dispiaciuto, riconoscendo il dolore momentaneo causato ai destinatari, ora se ne rallegra. Tuttavia, la sua soddisfazione è non a motivo della sofferenza stessa da loro provata, ma per il fatto che la loro tristezza ha prodotto un cambio di mentalità. Ai vv. 9b-10 Paolo spiega come l’esperienza di dolore dei Corinzi conduce al pentimento e alla salvezza. Si dice infatti che la tristezza causata loro era in accordo con la volontà di Dio, cosicché essi non sono stati in niente danneggiati dagli apostoli. Inoltre, tale tristezza produce una conversione che è irrevocabile veicolo della salvezza finale, mentre quella secondo il mondo conduce alla perdizione. Al v. 11 Paolo mostra in dettaglio gli effetti della tristezza in conformità alla volontà di Dio, riportando, con enfasi retorica e attraverso sette elementi diversi, la reazione positiva dei Corinzi alla lettera «tra molte lacrime». L’apostolo afferma che il rattristarsi secondo Dio ha causato la sollecitudine dei destinatari per una riconciliazione con Paolo, la loro difesa di lui contro l’offensore, la conseguente indignazione contro quest’ultimo, il timore reverenziale nei confronti del fondatore della comunità insieme al desiderio di rivederlo e all’affetto per lui; infine, la punizione correttiva del reo. Con la positiva risposta alla lettera i Corinzi hanno mostrato in ogni aspetto la loro innocenza nel caso che ha coinvolto Paolo: a differenza di quanto avvenuto con l’incestuoso del quale si parla in 1Cor 5,1-13, non sono stati fino in fondo conniventi con l’offensore e alla fine hanno preso le distanze da lui, aprendo la strada alla riconciliazione con l’apostolo. Al v. 12 Paolo conclude, precisando il motivo più profondo per l’estensione della sua missiva. Infatti, si afferma che essa non fu scritta a causa dell’offensore o dell’offeso, ma affinché fosse visibile, all’interno della comunità e di fronte a Dio e al suo giudizio, la sollecitudine dei Corinzi per gli apostoli. È difficile sapere quanto è avvenuto a Corinto in occasione della seconda visita del fondatore alla sua Chiesa. In ogni caso la positiva ricezione della prima epistola da parte della comunità nonché quella nuova, inviata da Paolo e presente in 2Cor 1–9, vanno a suggellare la piena riconciliazione tra le parti in causa.

La fiducia di Paolo per i Corinzi Paolo, anzitutto, afferma che lui e i suoi collaboratori sono stati consolati dall’accoglienza che i Corinzi avevano riservato alla lettera, con i relativi benefici effetti. Inoltre la gioia derivante da questa consolazione è stata ancor più accresciuta dalla felicità stessa di Tito, il cui animo è stato rinfrancato da tutti i membri della comunità. Da una parte, sorprende la calda accoglienza riservata a Tito, a fronte dei timori che avevano condotto l’apostolo a non ritornare a Corinto (cfr. 1,23; 2,1-3); dall’altra, tale positiva descrizione può essere considerata anche enfatica, perché finalizzata al successivo invio del collaboratore, recante la nuova lettera per la comunità (2Cor 1–9) che spinge al completamento della colletta (cfr. 8,6.16). Il v. 14 introduce un’altra motivazione per la condivisione della gioia tra Paolo e Tito, di cui si era trattato nel versetto precedente. Infatti, l’apostolo afferma che, se in qualche cosa si è vantato con il suo collaboratore riguardo ai Corinzi, non se ne è dovuto vergognare, ma come lui e gli apostoli hanno sempre parlato con verità ai destinatari, così anche il suo vanto è risultato vero. Nonostante il conflitto con la comunità derivante dall’incidente occorsogli e dalle altre accuse mossegli, Paolo non ha dimenticato di ricordare a Tito, prima del suo invio, anche i doni presenti nella comunità corinzia. Al v. 15 si chiude il resoconto di Tito riguardo alla sua visita nella comunità di Corinto. Il testo afferma l’affetto crescente del collaboratore per i destinatari, allorché egli ricorda l’obbedienza di tutti i membri della Chiesa corinzia e la loro reverente accoglienza. L’obbedienza è proprio quella richiesta da Paolo in 2,9 a seguito della lettera «tra molte lacrime»; quindi, consiste nel riconoscimento da parte dei destinatari del suo ruolo apostolico (in concreto significa attuare le indicazioni presenti nella sua epistola), dopo la crisi dei vicendevoli rapporti causata dall’incidente dell’offensore. Per questo alla fine del nostro versetto si sottolinea anche che Tito, rappresentante dell’apostolo, è stato ricevuto «con timore e tremore», probabilmente vedendo nell’inviato l’azione di Dio e in colui che lo ha mandato un’autorità derivante da Dio stesso. Il v. 16 costituisce la conclusione del brano, esprimendo la gioia e la fiducia di Paolo verso i Corinzi che sono manifestate in vari modi nei versetti precedenti. Egli, infatti, afferma che si rallegra perché può contare in tutto sui destinatari. È chiaro che le relazioni reciproche sono ormai segnate da un clima di pacificazione, sigillato da una piena e duratura riconciliazione, in quanto effetto auspicato della lettera che Paolo sta scrivendo. Si tratta così di una situazione in totale contrasto con quella di aperto conflitto che sottostà ai capitoli 10–13. Quindi, questi capitoli non sembrano originariamente appartenere alla stessa epistola dei precedenti nove.


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Appello alla grazia di Dio attraverso il ministero apostolico 1Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio. 2Egli dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! 3Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; 4ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, 5nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; 6con purezza, con sapienza, con magnanimità, con benevolenza, con spirito di santità, con amore sincero, 7con parola di verità, con potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; 8nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama; come impostori, eppure siamo veritieri; 9come sconosciuti, eppure notissimi; come moribondi, e invece viviamo; come puniti, ma non uccisi; 10come afflitti, ma sempre lieti; come poveri, ma capaci di arricchire molti; come gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!

Appello alla comunione con Paolo 11La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi; il nostro cuore si è tutto aperto per voi. 12In noi certo non siete allo stretto; è nei vostri cuori che siete allo stretto. 13Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, apritevi anche voi!

Appello alla separazione dagli increduli 14Non lasciatevi legare al giogo estraneo dei non credenti. Quale rapporto infatti può esservi fra giustizia e iniquità, o quale comunione fra luce e tenebre? 15Quale intesa fra Cristo e Bèliar, o quale collaborazione fra credente e non credente? 16Quale accordo fra tempio di Dio e idoli? Noi siamo infatti il tempio del Dio vivente, come Dio stesso ha detto: Abiterò in mezzo a loro e con loro camminerò e sarò il loro Dio, ed essi saranno il mio popolo. 17Perciò uscite di mezzo a loro e separatevi, dice il Signore, non toccate nulla d’impuro. E io vi accoglierò 18e sarò per voi un padre e voi sarete per me figli e figlie, dice il Signore onnipotente.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Appello alla grazia di Dio attraverso il ministero apostolico All’inizio del capitolo, Paolo presenta un altro appello dopo quello di 5,20. Infatti, lui e gli altri apostoli si rivolgono ai destinatari come collaboratori di Dio, esortandoli a non accogliere invano la sua grazia. Tuttavia, se l’invito di 5,20 era propriamente diretto a tutti gli uomini, ora lo è soltanto ai Corinzi; inoltre, se prima il suo contenuto era quello della riconciliazione, qui appare essere quello dell’accoglienza della grazia di Dio; infine, in 6,1 i ministri non sono designati come ambasciatori, ma come «collaboratori» di Dio (cfr. anche 1Cor 3,9). Paolo motiva l’appello all’accoglienza della grazia divina servendosi della citazione letterale di una parte di Is 49,8 LXX. L’apostolo sostiene che la promessa fatta da Dio al suo servo di ascoltarlo nel momento favorevole e di aiutarlo nel giorno della salvezza si compie ora per i destinatari che hanno a disposizione un tempo propizio e salvifico. In particolare, l’insistenza su «ecco ora», ripetuto due volte, indica sia l’evento escatologico della riconciliazione operata in Cristo come nuova creazione (cfr. 5,17-19), sia la disponibilità della salvezza nel presente dei Corinzi, se essi accoglieranno questo dono della grazia divina. Accogliere la salvezza significherà poi, come espresso nei versetti seguenti, riconoscere anche che le sofferenze e le fatiche degli apostoli non sono fini a se stesse o controproducenti, bensì ricadono a vantaggio dei destinatari. A questo punto Paolo inizia la testimonianza riguardo al proprio ministero affermando che lui e i suoi collaboratori non danno in niente motivo di scandalo, affinché il loro servizio non venga disprezzato, bensì in tutto si presentano come servitori di Dio, rivestiti di grande pazienza. Il catalogo di avversità che segue diventa una conferma della predicazione paolina attraverso i fatti dell’esistenza concreta. In questo contesto l’espressione «con molta capacità di sopportazione» (v. 4a) fa da titolo ai pericoli elencati immediatamente sotto, annunciando la modalità con la quale l’apostolo e i suoi collaboratori li hanno affrontati.

La lista è composta di nove elementi divisibili in tre serie di tre e possiede molti punti in comune con quella di 11,23b-29.

  • La prima triade presenta delle generali circostanze avverse nelle quali si svolge il ministero apostolico.
  • La seconda triade diventa più concreta («nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti») ed è legata all’ostile reazione alla predicazione dell’apostolo.
  • La terza e ultima triade («nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni») evoca gli sforzi che gli apostoli hanno compiuto nello svolgimento del loro ministero. Oltre il riferimento alla missione, è possibile vedere qui anche quello al lavoro manuale, svolto giorno e notte con «fatica» da Paolo e dai suoi collaboratori (cfr. 1Ts 2,9; 2Ts 3,8), attività che comunque è vissuta proprio perché attraverso l’indipendenza economica dalla comunità appaia a tutti la piena gratuità del Vangelo e del suo annuncio (cfr. 1Cor 9,14-18).

La lista delle virtù è divisibile in due serie di quattro con un elemento finale a chiusura.

  • La prima serie di quattro elementi («con purezza, con conoscenza, con longanimità, con benevolenza») rimanda al modo irreprensibile di comportarsi degli apostoli nei confronti dei loro destinatari e in particolare dei Corinzi.

  • La seconda serie («con spirito santo, con amore sincero, con parola di verità, con potenza di Dio»), mentre presenta altre due virtù che caratterizzano l’agire degli apostoli, indica anche l’origine divina di tutte le doti dei missionari evocate nei versetti: è la potenza di Dio che opera nel loro ministero, cosicché esso è quello dello spirito e non della lettera (cfr. 3,6-8).

  • Da ultimo, con una metafora militare si chiude l’elenco: Paolo e i suoi collaboratori sono pienamente equipaggiati per il combattimento attraverso le armi della giustizia.

Nei vv. 8-10 viene ripreso il catalogo delle avversità con una seconda lista caratterizzata da situazioni contraddittorie. L’elenco è ben composto con nove coppie di polarità.

  • Le prime due coppie («nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama») sono caratterizzate dall’indifferenza, come la intendevano gli stoici: quale che sia la considerazione e la reputazione loro attribuite dagli altri, gli apostoli continuano il loro ministero (cfr. Fil 4,11-12).

Le altre sette coppie esprimono in maniera antitetica le situazioni paradossali nelle quali si trovano a operare Paolo e i suoi collaboratori, collegandosi a 4,8-9. Ogni volta il secondo membro della coppia corregge in positivo il primo, fornendo una visione più profonda della stessa realtà descritta in precedenza.

  • Anzitutto si afferma, la veracità del comportamento degli apostoli («come ingannatori eppure veritieri», v. 8).

  • Nella seconda antitesi («come sconosciuti eppure ben conosciuti», v. 9) si afferma che i ministri del Vangelo sono ignorati dagli uomini, eppure più che noti a motivo della loro predicazione.

  • La terza antitesi («come moribondi eppure siamo vivi») riprende le affermazioni di 4,10-11, indicando come l’esistenza degli apostoli sia costantemente esposta alla morte e, nonostante questo, essi continuino a vivere grazie all’intervento divino (cfr. 1,8-10).

  • La quarta antitesi («come castigati eppure non messi a morte») indica che le prove e le sofferenze subite nell’esercizio del ministero non hanno condotto alla morte, ma sono state strumenti della formazione divina nei confronti degli apostoli.

  • La quinta antitesi («come rattristati ma sempre lieti», v. 10) sostiene che le prove derivanti dal ministero e provocanti tristezza non intaccano la gioia degli apostoli.

  • La sesta antitesi («come poveri ma facendo ricchi molti») sottolinea che nella loro povertà materiale i missionari arricchiscono spiritualmente coloro ai quali sono inviati.

  • La settima e ultima antitesi («come non avendo niente eppure possedendo tutto»), conclude la serie attestando come nella loro indigenza gli apostoli hanno tutto, perché possiedono il tesoro di Cristo presente nel Vangelo (cfr. 4,7).

Indirettamente anche i Corinzi sono chiamati a mettersi nella stessa prospettiva perché, come detto in precedenza nella corrispondenza loro rivolta (cfr. 1Cor 3,21-23), vivendo la loro appartenenza a Cristo conseguono la pienezza dell’esistenza. Le ultime tre antitesi nel loro insieme evocano le beatitudini evangeliche, soprattutto laddove proclamano beati i poveri e gli afflitti (cfr. Mt 5,3-4; Lc 6,20-21).

Appello alla comunione con Paolo L’apostolo comincia subito al v. 11 col dire che lui e i suoi collaboratori hanno parlato apertamente ai Corinzi e che il loro cuore si è dilatato per loro. Quindi Paolo rimarca la sincerità degli apostoli (cfr. 2,17), sottolineando l’accordo tra bocca e cuore, cioè tra il dire e il sentire (cfr. 5,12). poi, nel versetto l’attenzione al coinvolgimento e alla conquista dei destinatari non è indicata soltanto dall’allargarsi del cuore, segno di affetto nei loro confronti, ma anche dall’appellarsi a loro con il nome del popolo al quale appartengono («Corinzi»). Soltanto altre due volte nelle sue lettere l’apostolo vi ricorre e sempre per rendere più forte la propria interpellanza (cfr. Gal 3,1; Fil 4,15). Con il v. 12 è introdotto, in maniera indiretta ma efficace, un rimprovero di Paolo ai Corinzi. Egli afferma infatti che gli apostoli non si sono chiusi ai destinatari, mentre questi ultimi sono ristretti nel loro affetto. Già in 2,4 l’apostolo aveva ricordato il suo grande amore per la comunità di Corinto; ora vi ritorna per sottolineare, dolorosamente, la non corrispondenza dei suoi: alla dilatazione del cuore dei missionari si contrappone il restringimento di quello dei Corinzi. Per superare questa situazione, al v. 13 giunge quindi l’appello vero e proprio: Paolo parla ai Corinzi come a figli, esortandoli a rendere a lui e ai collaboratori lo stesso contraccambio, dilatando i loro cuori.

Appello alla separazione dagli increduli Nella prima parte del v. 14, collegato con quanto precede, Paolo rivolge un appello a non unirsi in maniera inappropriata agli increduli. L’esortazione in negativo è generica e difficile da precisare. Tuttavia riflette probabilmente una situazione di incipiente relazione dei Corinzi con costoro, di fronte alla quale l’apostolo chiede una separazione non tanto fisica (cosa dichiaratamente ritenuta impensabile in 1Cor 5,10), quanto nel modo di pensare e di agire. Come detto a proposito di 4,3-4, gli «increduli» sono gli avversari di Paolo e dei destinatari, da identificarsi con i non credenti in Cristo della città e particolarmente, ma non esclusivamente, con la componente giudaica di essa.

Le motivazioni dell’invito del v. 14a sono fornite nei vv. 14b-16 attraverso una serie di cinque antitesi di natura etica e salvifica inserite in domande retoriche. Si parte con due coppie di antitesi. Paolo pone una domanda retorica attendente risposta negativa sulla compatibilità: da una parte, tra giustizia e iniquità; dall’altra, tra luce e tenebre. Mentre il v. 14b si soffermava sulle qualità generali di due ambiti opposti, nel v. 15 l’attenzione è alle persone che rappresentano tali sfere: da una parte, Cristo e i suoi seguaci; dall’altra, Beliar e i suoi adepti. L’alternativa risulta, così, più stringente. Nella letteratura giudaica il nome Beliar o Belial è diffuso per designare il capo dei demoni: il vocabolo appare qui per l'unica volta in tutta la Bibbia, compare solo un'altra volta come “Belial” a Gdc 20,13 nel codice alessandrino. Le antitesi giungono al culmine con la quinta e ultima del v. 16a, dove il tempio di Dio è, grazie a un’altra domanda retorica, contrapposto agli idoli. Infatti, secondo Paolo, non ci deve essere nessuna possibilità di relazione tra i credenti, che immediatamente dopo sono identificati con lo stesso tempio di Dio, e gli idoli. Nel loro insieme, le contrapposizioni di questi versetti costituiscono prove di principio per l’esortazione del v. 14a a non mescolarsi con gli increduli; esse si muovono a un livello generale, insistendo però sull’impossibilità dell’entrare in comunione dei credenti in Cristo con coloro che lo rifiutano.

Nella seconda parte del v. 16 è introdotta, con una formula inusuale, una catena di citazioni scritturistiche che giunge sino al v. 18 e costituisce la prova di autorità della parola di Dio a sostegno dell’esortazione paolina del v. 14a, richiamando anche il testo di Rm 3,10-18.

Nello specifico, al v. 16b Paolo afferma che lui e i destinatari (e poi tutti i credenti in Cristo) sono il tempio del Dio vivente, così come afferma la scrittura in Ez 37,27 e in Lv 26,12. L’immagine della dimora di Dio è attestata nel giudaismo e nell’ellenismo per lo più in riferimento all’individuo. La novità e l’importanza di questa designazione paolina emerge se si tiene conto del fatto che i pagano-cristiani come i Corinzi non potevano più andare nei templi pagani, in quanto allontanatisi dall’idolatria, ma nemmeno entrare nel tempio santo di Gerusalemme, perché non circoncisi. Così, definire il gruppo cristiano come dimora di Dio significa che i cristiani stessi sono ormai divenuti il luogo in cui Dio abita, senza bisogno di avere un loro tempio, appartenendo a lui come sua proprietà esclusiva. La Chiesa risulta allora lo spazio in cui Dio può essere incontrato e conosciuto, il luogo nel quale si offrono sacrifici a lui graditi attraverso l’offerta della propria vita (cfr. Rm 12,1). In conclusione, in 2Cor 6,16b Paolo, da una parte, intende motivare, alla luce della scrittura che trova così il suo adempimento, la designazione dei credenti come «tempio di Dio» propria del v. 16a; dall’altra, introdurre le conseguenze etiche di tale statuto, che saranno sviluppate nei vv. 17-18, sempre grazie alla parola di Dio.

Al v. 17 vengono subito introdotte tre esortazioni (all’imperativo) e una conseguente promessa (al futuro): l’agire voluto da Dio per i suoi e poi quello che egli darà loro. Paolo riprende il testo di Is 52,11, con il quale Dio invitava il suo popolo a uscire da Babilonia e a separarsene completamente senza rendersi impuri con il suo culto alieno, e quello di Ez 20,34, dove si trova l’impegno divino alla restaurazione di Israele dopo l’esilio. Questi oracoli, dedicati al rinnovamento dell’Israele post-esilico, sono utilizzati dall’apostolo per motivare, con l’autorità della scrittura, l’appello del v. 14a alla separazione dagli increduli rivolto ai Corinzi, mentre, allo stesso tempo, risultano logicamente collegati agli oracoli del versetto precedente. Così Paolo intende affermare che la comunità corinzia (e non solo essa), proprio perché è tempio di Dio, deve mantenere la sua purità, cioè l’appartenenza esclusiva a lui staccandosi dagli increduli, e che per questo riceverà la piena approvazione del suo Signore.

al v. 18 è presentata un’altra promessa (cf. 2Re 7,14 – TM 2Sam 7,14 – e Is 43,6): si tratta dell’instaurarsi di un rapporto di padre-figlio tra Dio e i suoi, sancito dalla stessa parola dell’Onnipotente. La figliolanza divina dei cristiani diventa universale, includendo uomini e donne. Quest’ultimo esito richiama da vicino il testo paolino di Gal 3,28, dove l’apostolo indica come nella comunità ecclesiale anche le distinzioni di sesso non sono più criterio determinante. D’altronde, l’aspetto più generale dell’essere figli e figlie è collegabile con i passaggi di Gal 3,26–4,7 e Rm 8,14-17, nei quali la figliolanza adottiva dei credenti in Cristo è dono dello Spirito ricevuto nel battesimo ed è da vivere nella Chiesa come fratelli che si amano (cfr., p. es., Rm 14,13-23; 1Ts 4,9-10; Fm 16.20). Così Paolo parte nel v. 16b dall’immagine della comunità come tempio di Dio, per poi passare a quella di popolo di Dio, che rimane subordinata alla prima, e giungere al v. 17, in ragione di tale profilo ecclesiale, a presentare un appello alla separazione dagli increduli. All’interno di questo quadro, lo statuto filiale dei credenti in Cristo presentato al v. 18 si aggiunge per mostrare quale sia alla fine, secondo l’apostolo, la più profonda identità della Chiesa: quella di essere la comunità dei figli e delle figlie di un Dio che è Padre. Paolo invita i suoi, in ragione delle promesse di Dio appena proclamate, alla purificazione (evitando la contaminazione della propria persona) e alla santificazione nel timore di Dio. Con una modalità sapientemente pedagogica, l’apostolo si rivolge ai destinatari come «amati» e include se stesso e i collaboratori nell’esortazione finale rivolta ai Corinzi. Tale esortazione, come quella iniziale di 6,14a, non possiede un aspetto moralistico o volontaristico, bensì è basata sullo statuto della comunità cristiana, proclamato attraverso le «promesse» anticotestamentarie: come avviene spesso nell’etica paolina, il dono di Dio è il fondamento delle richieste riguardanti il comportamento dei credenti in Cristo. Così l’appello alla separazione dagli increduli rivolto a tutta la comunità di Corinto in 6,14–7,1 – basato, in un primo momento, su motivazioni di principio di natura etica e soteriologica e, in un secondo, su prove scritturistiche concernenti lo statuto della Chiesa – diviene un invito alla responsabilità personale di ciascun credente corinzio, in ordine a un’esistenza nuova e diversa da quella comune nel proprio ambiente.


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In esilio verso la dimora celeste 1Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. 2Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste 3purché siamo trovati vestiti, non nudi. 4In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati ma rivestiti, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. 5E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito. 6Dunque, sempre pieni di fiducia e sapendo che siamo in esilio lontano dal Signore finché abitiamo nel corpo – 7camminiamo infatti nella fede e non nella visione –, 8siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore. 9Perciò, sia abitando nel corpo sia andando in esilio, ci sforziamo di essere a lui graditi. 10Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male.

Le ragioni del vanto per il ministero della riconciliazione in Cristo e terza tesi 11Consapevoli dunque del timore del Signore, noi cerchiamo di convincere gli uomini. A Dio invece siamo ben noti; e spero di esserlo anche per le vostre coscienze. 12Non ci raccomandiamo di nuovo a voi, ma vi diamo occasione di vantarvi a nostro riguardo, affinché possiate rispondere a coloro il cui vanto è esteriore, e non nel cuore. 13Se infatti siamo stati fuori di senno, era per Dio; se siamo assennati, è per voi. 14L’amore del Cristo infatti ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. 15Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro. 16Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. 17Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove. 18Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. 19Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. 20In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. 21Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

In esilio verso la dimora celeste al v. 1 Paolo sostiene che, se il nostro fragile corpo terreno viene annientato con la morte, Dio ci dona con la risurrezione un corpo eterno nei cieli. Tale condizione, che comporta precarietà e transitorietà, non è considerata in maniera negativa da Paolo, ma diviene il presupposto necessario per il conseguimento della dimora celeste. Infatti, solo se la «casa terrestre» viene distrutta è possibile conseguire l’altra, opera di Dio e collocata nei cieli. Si tratta del «corpo spirituale» alla risurrezione, di cui ci parla 1Cor 15,44. In realtà, tutto il contenuto di questo versetto, come di quelli successivi, rimanda alla riflessione sulla risurrezione dei corpi presente in 1Cor 15, con la relazione tra quella di Cristo e quella dei credenti. Al v. 2 Paolo riprende e specifica quanto appena detto, asserendo che i credenti sospirano nella tenda del loro corpo mortale, segnati dal profondo desiderio di rivestirsi della dimora celeste, che è il loro corpo risorto. Da parte sua, il v. 3 intende completare il precedente, affermando che, se i credenti saranno rivestiti della dimora celeste, non si troveranno nudi. Siamo portati a pensare che la nudità rappresenti la condizione del corpo terrestre sottoposto alla sofferenza che conduce al suo disfacimento e alla morte. Il corpo risorto costituirà allora un vestito che il credente assumerà insieme alla conseguente situazione di assenza di sofferenza e di incorruttibilità. il v. 4 riprende ed espande il v. 2, dopo la parentesi del v. 3: Paolo afferma che nella tenda lui e gli altri credenti gemono perché non vogliono essere svestiti ma rivestiti, in modo che ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. Se i vv. 1-4 hanno un’accentuazione antropologica, il v. 5 provvede a fornire una chiave di lettura propriamente teologica della trasformazione escatologica dei credenti. Infatti, qui Paolo sostiene che Dio fa in modo che quanto è mortale sia assunto dalla vita, donando ai credenti la caparra dello Spirito. Come già evocato dall’apostolo in 1,22, al momento del loro venire alla fede i cristiani hanno accolto lo Spirito come anticipo e garanzia della salvezza futura; ora è questo dono a renderli fiduciosi di ricevere la dimora o il vestito celeste, quindi il corpo risorto e la vita senza fine. Con una frase che rappresenta un anacoluto (rimane come sospesa), il v. 6 riprende quanto sviluppato nei versetti precedenti e in particolare nell’ultimo di essi. Infatti, Paolo afferma di essere fiducioso in ragione dell’itinerario prospettato da Dio ai credenti e condivide con i destinatari la convinzione che mentre si vive nel corpo si è come esiliati dal Signore. Il v. 7 intende completare quanto appena asserito. Infatti, Paolo spiega la lontananza dal signore per il fatto che viviamo nella fede e non siamo ancora nella visione. Il v. 8 riprende il discorso del v. 6, dopo la frase parentetica del v. 7. Paolo afferma di nuovo il suo atteggiamento di fiducia ed esprime la sua preferenza per l’esilio dal corpo e l’abitare presso il Signore. Al v. 9 si trae una conclusione riguardo all’alternativa tra vita terrena e vita celeste. Paolo afferma che in definitiva quello che più conta per il cristiano è essere gradito a Dio, sia nel presente sia nel futuro. Questa è e deve essere la profonda aspirazione dei credenti. Nel v. 10 Paolo afferma che l’aspirazione a essere graditi al Signore è motivata dal fatto che tutti i credenti dovranno arrivare dinanzi a Cristo come giudice, per ricevere ognuno la retribuzione per quanto fatto di bene o di male nella vita terrena. Lo sguardo fisso sul futuro non distoglie l’apostolo e i suoi da un’attenzione profonda al loro agire presente; al contrario, richiede tale impegno in maniera decisa.

Le ragioni del vanto per il ministero della riconciliazione in Cristo e terza tesi Il brano racchiude sia la tesi di tutta la terza dimostrazione (5,12), sia le prime prove a suo sostegno, le quali si mostrano nello stesso ministero ricevuto da Dio e basato sull’opera di riconciliazione per mezzo di Cristo, fatto che spinge gli apostoli a donare se stessi ai Corinzi. Dunque, se il kerygma della morte in croce di Cristo è al centro del brano, esso non rimane a livello puramente enunciativo, ma è utilizzato per illuminare i rapporti tra gli evangelizzatori e i destinatari. Paolo afferma che, avendo timore di Dio, lui e i suoi collaboratori cercano di convincere gli uomini in ordine all’accoglienza del Vangelo e, mentre tutto il loro agire è ben chiaro di fronte a Dio, l’apostolo spera che lo sia anche di fronte alle coscienze dei destinatari. Il timore di Dio è nell’antico testamento un atteggiamento, tipico del credente, contraddistinto da rispetto e riverenza per il Signore ed elogiato come il principio della vera sapienza (cfr. Pr 9,10). poiché l’apostolo crede alla prospettiva del giudizio finale di Dio, al quale si dovrà rendere conto (cfr. 2Cor 5,10), egli adotta questo atteggiamento nel suo agire missionario e, di conseguenza, lui e i suoi collaboratori fanno di tutto per persuadere gli uomini della bontà del messaggio che annunciano. Paolo desidera che i Corinzi, per i quali nutre affetto, acconsentano nelle loro coscienze a questo giudizio divino riguardo agli apostoli. Tutto il v. 11 richiama, anche dal punto di vista terminologico, la tesi principale di 1,12-14, secondo la quale la coscienza di Paolo e quella dei suoi collaboratori attestavano la sincerità e la trasparenza del loro comportamento nella speranza che anche i destinatari comprendessero tutto ciò. Con il v. 12 assistiamo a una precisazione di quanto appena detto al versetto precedente. Paolo, infatti, nega di volere nuovamente raccomandare se stesso e i suoi collaboratori ai Corinzi; piuttosto sostiene di voler fornire motivi per un vanto degli apostoli da parte dei destinatari, in risposta al vanto di coloro che confidano nelle apparenze esterne senza guardare al cuore. Una prima motivazione del vanto è data proprio dal v. 13 in cui Paolo sostiene che, se è stato fuori di sé, era nel proprio rapporto con Dio, mentre nei confronti dei destinatari ha agito nel pieno delle proprie facoltà mentali. È presumibile che nella prima parte del v. 13 l’apostolo si riferisca a sue esperienze mistiche ed estatiche (cfr. At 22,17; 2Cor 12,1-4): esse riguardano il suo rapporto con Dio. Tuttavia, in 1Cor 14,18-19 Paolo stesso sostiene che, pur avendo il dono spirituale della glossolalia, non se ne vuole servire, preferendo parlare all’assemblea dei Corinzi con la sua intelligenza e in modo comprensibile, così da poter contribuire alla loro edificazione. Ora afferma che nel suo discorso non intende fare leva sulle esperienze estatiche, ma sul suo sobrio e razionale impegno a favore dei destinatari. Quest’ultimo diventa, secondo l’apostolo, un vero motivo del vanto che i Corinzi possono intessere di lui e probabilmente in tal modo è messo a critica anche l’atteggiamento degli avversari paolini, portati a dare tutta l’importanza ai fenomeni esteriori, quali potevano essere appunto le estasi, non aventi tuttavia una reale ricaduta positiva sui destinatari. La seconda motivazione del vanto è quella più importante, introdotta a partire dal v. 14 e fondata sul kerygma cristologico. L’apostolo mostra così il fondamento più profondo del suo ministero: è l’esperienza personale dell’amore di Cristo che porta lui e i suoi collaboratori a compiere la loro missione di annuncio. Tale esperienza è, a sua volta, fondata e determinata dalla fede della Chiesa primitiva che proclama la morte di Cristo a beneficio di tutti gli uomini. Infatti, l’espressione «uno è morto per tutti» è una formula di fede tradizionale. Secondo Paolo, se Cristo è morto per tutta l’umanità, ne consegue che in qualche modo tutti gli uomini condividano il suo destino di morte. Questa idea di solidarietà è ben presente nella letteratura paolina, laddove si utilizza la tipologia di Cristo come nuovo Adamo, capostipite di un’umanità rinnovata (cfr. Rm 5,15-19; 1Cor 15,22.45-49). Poi, in ragione del contesto, il morire di tutti assume qui anche un significato più specifico: nella nuova creazione, inaugurata con la morte di Cristo, le cose vecchie sono passate e l’uomo è quindi ricreato e chiamato a un’esistenza nuova, segnata dalla morte del proprio «io» egoistico e chiuso in se stesso e dalla vita nella piena relazione con Dio e con gli altri. Secondo l’apostolo l’evento liberante della morte e risurrezione di Cristo determina una condizione di esistenza nuova in colui che lo accoglie, il quale è trasformato non solo al livello dell’essere, ma anche a quello del fare (cfr. Rm 6,4; Gal 3,27). Di conseguenza, anche le motivazioni per l’agire saranno legate a Cristo (cfr. 1Cor 6,20; 2Cor 8,7-9; Fil 2,1-18). Il v. 16 mette in campo una prima conseguenza dell’evento pasquale di Cristo morto e risorto nel quale si dispiega il suo amore oblativo per tutti gli uomini. Paolo, dunque, sostiene che i credenti, dal momento della loro venuta alla fede, non hanno più una conoscenza degli altri secondo criteri puramente umani e che, se anche si è conosciuto Cristo in base a tale prospettiva, ora non è più così. L’apostolo passa, quindi, a mostrare un cambiamento intervenuto nella sua vita e in quella di ogni cristiano al momento della conversione, nella quale ciascuno fa esperienza di un’appropriazione del mistero di morte e risurrezione di Cristo. Paolo e coloro che hanno conosciuto Cristo prima di venire alla fede hanno avuto una comprensione della sua persona solo superficiale. In particolare, l’uomo di Tarso deve prima avere considerato Gesù un bestemmiatore e un maledetto dalla Legge (cfr. At 26,9; Gal 3,13), poi ha riconosciuto in lui il suo unico Signore (cfr. Fil 3,8), così come i Corinzi stessi e tutti i credenti sono chiamati a fare. Una seconda conseguenza del mistero pasquale è evidenziata nel v. 17. Qui si afferma che colui che è unito a Cristo per la fede fa parte della nuova creazione, le cose vecchie sono passate e sono giunte le nuove. Il concetto di “nuova creazione” implica, secondo Paolo, che il “rinnovamento” è già stato inaugurato al presente con la morte e risurrezione di Cristo. Chi lo accoglie per mezzo della fede sperimenta nella vita una novità radicale, con la quale tutto cambia nel rapporto con Dio (cfr. Rm 6,3-4) e nel proprio stare al mondo (cfr. Gal 3,28): il dono pasquale, con le sue conseguenze salvifiche, è rivolto a tutta l’umanità (cfr. 2Cor 5,14-15), i credenti sono coloro che effettivamente lo hanno accolto e per questo sperimentano una novità assoluta e definitiva a livello dell’essere e dell’agire (cfr. 2Cor 5,16-17). Con il v. 18 , viene presentato il servizio della riconciliazione che è affidato al ministero agli apostoli; affidamento che costituisce la terza motivazione del vanto. In aggiunta, Paolo afferma che per i credenti «tutto» viene da Dio, indicando così quanto presentato nei vv. 14-17: l’amore di Cristo con la sua morte e risurrezione insieme alle conseguenze di ciò nel nuovo modo di conoscere e nella nuova creazione. Ora appare chiaro che tali accadimenti hanno la loro origine nell’iniziativa divina. Paolo e i collaboratori non sono i mediatori della riconciliazione divina, perché questo è il ruolo di Cristo, ma gli annunciatori di quanto Dio ha operato a favore dell’umanità, che è così chiamata ad accogliere tale iniziativa di amore e di salvezza, sulla scorta di ciò che i credenti hanno già cominciato a fare. Il v. 19 rappresenta una ripresa esplicativa del versetto precedente, ricalcando quanto detto e ricorrendo a una piccola aggiunta in relazione al fatto che Dio non tiene conto delle azioni peccaminose degli uomini. In conseguenza del ministero che l’apostolo e i suoi collaboratori hanno ricevuto, al v. 20 egli afferma che essi fungono da ambasciatori con l’autorità proveniente da Cristo ed esortano a nome di Dio; il loro appassionato messaggio consiste in un appello a essere pienamente riconciliati con Dio stesso. Nel v. 20 convergono in piena armonia la dimensione teologica (cfr. vv. 18-19) e cristologica (cfr. vv. 14-17) della riconciliazione, al cui servizio si pongono gli apostoli: essi agiscono a nome di Cristo, mentre quando esortano è Dio stesso che esorta, e il contenuto del loro accorato appello è proprio quello ad accogliere l’iniziativa divina della riconciliazione. I destinatari dell’azione apostolica sono tutti gli uomini, i quali al momento della loro conversione al Vangelo saranno pienamente riconciliati con Dio. Il v. 21 conclude in maniera molto efficace il brano. Siamo di fronte a una delle tipiche espressioni paradossali paoline riguardanti l’evento-Cristo: come può uno che è senza peccato diventare peccatore e rendere giusti gli altri? In generale l’apostolo presenta queste affermazioni, che contraddicono la logica umana, per invitare i suoi ascoltatori a un cambio di mentalità, una vera e propria conversione, accettando le vie folli di Dio, impensabili e inaudite per l’uomo, mostrate proprio attraverso Cristo e la sua croce. L’apostolo presenta la finalità di tale avvenimento in un impensabile interscambio a favore dei credenti: Cristo diventa peccato sulla croce, assumendo la pena della morte riservata ai peccatori, affinché tutti divengano giusti di fronte a Dio.


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Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo 1Perciò, avendo questo ministero, secondo la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. 2Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità e presentandoci davanti a ogni coscienza umana, al cospetto di Dio. 3E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si perdono: 4in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo, che è immagine di Dio. 5Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù. 6E Dio, che disse: «Rifulga la luce dalle tenebre», rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi 7Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. 8In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; 9perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, 10portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. 11Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. 12Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita. 13Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: Ho creduto, perciò ho parlato, anche noi crediamo e perciò parliamo, 14convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi. 15Tutto infatti è per voi, perché la grazia, accresciuta a opera di molti, faccia abbondare l’inno di ringraziamento, per la gloria di Dio.

Il rinnovamento dell’uomo interiore 16Per questo non ci scoraggiamo, ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. 17Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: 18noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Il Vangelo della gloria di Cristo annunciato con verità da Paolo Paolo comincia al v. 1 tirando le conclusioni di quanto affermato in 2,14–3,18 riguardo al suo apostolato. egli sostiene che, avendo un ministero di tal fatta, in ragione della misericordia di Dio, lui e i suoi collaboratori non si scoraggiano. L’elemento della misericordia divina si riferisce alla chiamata di paolo, che da persecutore è stato fatto apostolo del Vangelo, ma anche degli altri missionari che insieme con lui condividono lo stesso servizio di annuncio, in quanto inviati da Dio (cfr. 2,17) che da lui ricevono la capacità per agire (cfr. 3,5). Inoltre, il «non ci perdiamo d’animo» richiama la coraggiosa franchezza del loro comportamento (cfr. 3,12), ma è legato anche alle sofferenze derivanti dal ministero (cfr. 4,16). In ogni caso, il v. 1 si pone, insieme al successivo, come una nuova e riassuntiva difesa di Paolo e dei suoi collaboratori. Il v. 2 è da subito segnato da una frase avversativa che indica bene come Paolo non si scoraggi; al contrario, ha attivamente deciso di rinunciare a un comportamento fatto di ambiguità e di sotterfugi. Nonostante l’apertura e la trasparenza dell’annuncio rivolto verso tutti, viene sottolineata la possibilità di un libero rifiuto del Vangelo con la conseguente rovina. Il v. 4 continua a parlare degli avversari spiegando come essi abbiano un velo che impedisce loro la comprensione dell’annuncio apostolico. La ragione è data dall’azione di satana, che li acceca in modo che non possano vedere la luce che emana dal Vangelo che, a sua volta, mostra la gloria di Cristo, il quale è la vera immagine di Dio. Viene così affermata la centralità cristologica del Vangelo predicato da Paolo e dai suoi collaboratori. Avendo chiuso con il tema del Vangelo nel versetto precedente, Paolo nel v. 5 si sofferma sul suo ministero vissuto in relazione a tale soggetto. Così si sostiene che l’apostolo e i suoi collaboratori non annunciano se stessi, ma Gesù Cristo come Signore, mentre loro sono totalmente a servizio della comunità proprio a motivo di Cristo. Paolo intende quindi ribadire, probabilmente anche a fronte di certe critiche provenienti da Corinto, che non vuole mettere se stesso al centro dell’attenzione e dominare sulla comunità (cfr. 1,24). Infatti, al cuore del suo ministero si trova l’annuncio essenziale di Cristo come Signore, comune a tutta la Chiesa primitiva (cfr. At 2,34-36), che attesta la continuità tra il Crocifisso e il Risorto, la sua uguaglianza con Dio, il suo dominio universale e il suo giudizio finale (cfr. Fil 2,6-11). In totale opposizione al titolo di «Signore», l’apostolo intende affermare che lui e i suoi collaboratori sono semplici «schiavi» della comunità, seppur a motivo di Cristo stesso. Così Paolo ripercorre a suo modo lo stesso cammino del suo signore, che si è spogliato della condizione divina per assumere quella di schiavo per amore dell’uomo (cfr. Fil 2,6-11), rinunciando alla propria libertà e vivendo il ministero nella conformazione a Cristo e nell’umile servizio a favore dei suoi destinatari (cfr. 4,7-12). Il v. 6 costituisce una spiegazione del precedente, in particolare del perché dell’annuncio paolino di Cristo. Infatti, l’apostolo afferma che Dio, il quale ha tratto dalle tenebre la luce, è anche colui che ha fatto brillare in Paolo lo splendore della conoscenza di quel Vangelo che rifulge di gloria divina sul volto di Cristo.

Il tesoro di Dio nella debolezza dell’apostolo e seconda tesi Il brano di 4,7-15 racchiude sia la tesi di 4,7 sul tesoro divino presente nella debolezza dell’apostolo, sia le prime prove a sostegno di essa. Il tutto mostra come nelle concrete e attuali avversità del ministero agisca la potenza di Dio e come la fragilità dell’annunciatore non sia un ostacolo, ma uno strumento adatto per il progresso del Vangelo. Il v. 7 in maniera sintetica presenta una nuova posizione di Paolo riguardo al ministero apostolico: lui e i suoi collaboratori portano il tesoro della conoscenza e del Vangelo di Cristo nei fragili vasi di creta delle loro esistenze, affinché sia chiaro a tutti che la potenza straordinaria di ciò che annunciano ha origine in Dio e non viene da loro. Se nonostante la sua fragilità l’apostolo è lo strumento eletto per l’annuncio, questo è dovuto al fatto che «la straordinarietà della potenza viene da Dio», cioè ‒ esattamente come annunciava programmaticamente 1,12 ‒ principio del suo agire è «la grazia di Dio». I vv. 8-9 mostrano in concreto come il vaso di creta possa resistere agli urti esterni: l’apostolo, sostenuto dalla potenza di Dio, prosegue nel suo ministero nonostante le avversità: nei pericoli l’apostolo ha sperimentato la liberazione di Dio. La sopravvivenza alle difficoltà è frutto non del proprio sforzo etico, ma dell’intervento di Dio che, in maniera totalmente inaspettata, secondo quanto sarà esplicitato nel versetto successivo, rende personalmente partecipi del mistero di morte e risurrezione di Cristo. Nel v. 10, infatti, è introdotta una nuova antitesi, attraverso il binomio morte/ vita che sarà presente nei versetti successivi, come a fornire una motivazione cristologica di quanto affermato immediatamente prima. Ora Paolo sostiene che lui e i suoi collaboratori partecipano nelle loro persone al morire di Gesù, affinché sia manifestata in loro anche la sua vita di risorto. Siamo di fronte a una formulazione paradossale, perché dalla morte appare scaturire la vita: l’apostolo vive la comunione con la morte di Cristo, partecipando a un processo di “necrosi” derivante dalle sofferenze del suo ministero, al fine di mostrare a tutti la potenza di Dio manifestata nella risurrezione di Cristo. In dipendenza dalla tesi del v. 7, si intende descrivere la condizione paradossale nella quale Dio pone l’apostolo che, proprio attraverso la sua esistenza segnata dalla sofferenza ed esposta alla morte, manifesta tutta la potenza di vita del risorto. Nel v. 11 Paolo sostiene che gli apostoli nel tempo della loro vita terrena vengono, come Gesù e a causa del suo Vangelo, consegnati alla morte da Dio, in modo che nella loro debolezza mortale mostrino la potenza divina, operante nella risurrezione di Cristo. L’esistenza missionaria è, per volontà di Dio e non per scelta umana, una riproposizione del cammino di Gesù e, quindi, della sua donazione sino alla morte, ma anche della sua risurrezione, cosicché le sofferenze apostoliche diventano feconde, in quanto hanno la capacità di manifestare la vita. Così al v. 12 si giunge a una conclusione, riguardo all’antitesi morte/vita che segna il ministero, coinvolgendo anche la stessa comunità. Infatti, Paolo afferma che la morte, attraverso le sofferenze della missione, è all’opera negli apostoli affinché la vita del risorto raggiunga i destinatari. Certamente non è la capacità di Paolo che produce vita nei Corinzi, ma è la potenza di Dio, la stessa che ha operato nella risurrezione di Cristo e che, come già detto nella tesi del v. 7, abita ora la fragilità del ministro cristiano. Egli è solo uno strumento scelto e un testimone visibile nei confronti della comunità di questo paradossale e sconvolgente agire divino, che ai destinatari è richiesto di accogliere con una stessa piena disponibilità. L’unico ricorso alla scrittura presente nella seconda dimostrazione (4,7–5,10) si trova in 4,13. Qui l’apostolo afferma che lui e i suoi collaboratori hanno la stessa disposizione di fiducia in Dio che possedeva l’autore del Sal 115,1 LXX (TM 116,10). In ragione di tale atteggiamento annunciano il Vangelo a motivo della loro fede. Nel v. 14 Paolo fornisce la base, costituita dalla speranza nella propria risurrezione, per il credere e il parlare che lo caratterizza insieme ai suoi collaboratori. Infatti, attingendo anche a una formula proveniente dalla tradizione cristiana primitiva, egli afferma che quel Dio che ha risuscitato Cristo da morte farà partecipi di questa comunione di vita con il risorto anche gli apostoli e li porrà accanto agli stessi Corinzi al momento del compimento escatologico. Con il v. 15 giungiamo alla conclusione della pericope. Paolo, infatti, riassume il discorso dicendo che tutto il lavoro apostolico, con le avversità e sofferenze menzionate in precedenza, è a beneficio dei destinatari e serve a uno scopo ancora più grande. Esso consiste nel fatto che la stessa grazia divina, veicolata dal suo ministero di annuncio del Vangelo e accolta da un numero sempre maggiore di persone, produca una crescita del rendimento di grazie a Dio per la sua gloria.

Il rinnovamento dell’uomo interiore Al v. 16 oltre al collegamento con quanto precede viene aggiunto il fatto che, se l’uomo esteriore si consuma, quello interiore si rinnova quotidianamente. Le due espressioni «uomo esteriore» e «uomo interiore» indicano due situazioni opposte e contemporanee che il ministro e ciascun credente in Cristo sperimenta nella propria esistenza. È proprio su questa linea che sono da comprendere le due espressioni sotto esame. Così l’uomo «esteriore» è l’intera persona nella sua dimensione relazionale esterna, segnata dall’essere una creatura mortale. Mentre l’uomo «interiore» è l’intera persona nella sua dimensione profonda che è rinnovata a motivo del rapporto con il suo Signore. Il parallelo più adeguato si trova nel testo di Gal 2,20: «e non vivo più io, ma vive in me Cristo (uomo interiore). E ciò che ora vivo nella carne (uomo esteriore), lo vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Questo processo di trasformazione è progressivo ed è costituito da una partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, operata per mezzo dello spirito, che conduce il credente di gloria in gloria a una sempre maggiore somiglianza con il suo Signore (cfr. 3,18; 4,6) sino al compimento finale (cfr. 4,14). Al v. 17 è fornita una motivazione riguardo al contemporaneo processo di disfacimento e rinnovamento del credente, del quale si è trattato nel versetto precedente. Il dualismo che ora viene introdotto, però, più che antropologico è escatologico, ossia tra ciò che è momentaneo e ciò che è permanente. Infatti, si afferma che l’afflizione dei credenti, temporanea e leggera, produce un’incommensurabile gloria eterna. A partire dall’ottica di fede nella risurrezione gloriosa, Paolo sostiene che tutte le sofferenze dei credenti appaiono di breve durata e intensità in confronto alla realtà indicibile della vita eterna (cfr. Rm 8,18). Il v. 18 presenta con una nuova antitesi, basata sul contrasto tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, le modalità con le quali il credente è invitato ad accompagnare il processo di trasformazione enunciato nei due versetti precedenti. Dunque, Paolo afferma con una sfumatura paradossale che il cristiano deve guardare non alle realtà visibili, ma a quelle invisibili, perché le prime sono soggette al tempo, mentre le altre possiedono la caratteristica dell’eternità. 2Cor 4,18 si apre al successivo 5,1 che, sempre attraverso lo stile antitetico, introduce il discorso del destino non attualmente visibile del credente dopo la morte.


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La concreta legittimazione del ministero paolino 1Cominciamo di nuovo a raccomandare noi stessi? O abbiamo forse bisogno, come alcuni, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? 2La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. 3È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma su tavole di cuori umani. 4Proprio questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. 5Non che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, 6il quale anche ci ha resi capaci di essere ministri di una nuova alleanza, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito invece dà vita.

Il confronto tra il ministero apostolico e quello mosaico 7Se il ministero della morte, inciso in lettere su pietre, fu avvolto di gloria al punto che i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè a causa dello splendore effimero del suo volto, 8quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito? 9Se già il ministero che porta alla condanna fu glorioso, molto di più abbonda di gloria il ministero che porta alla giustizia. 10Anzi, ciò che fu glorioso sotto quell’aspetto, non lo è più, a causa di questa gloria incomparabile. 11Se dunque ciò che era effimero fu glorioso, molto più lo sarà ciò che è duraturo. 12Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza 13e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d’Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. 14Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l’Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. 15Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; 16ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto. 17Il Signore è lo Spirito e, dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà. 18E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La concreta legittimazione del ministero paolino L’apostolo prende le distanze dalla pratica delle lettere di raccomandazione non solo perché afferma di non averne bisogno, ma anche per distinguersi dai suoi avversari, che ne fanno uso. Con ogni probabilità si riferisce agli avversari appena menzionati in 2,17 che dovevano muoversi da una comunità all’altra con l’appoggio di tali epistole per potere essere ogni volta adeguatamente accolti e ospitati. Paolo non necessita di una lettera di raccomandazione perché essa è costituita dalla stessa comunità, un’epistola scritta nel suo cuore (e in quello dei suoi collaboratori), nota e leggibile da parte di tutti gli uomini. Dal punto di vista “interno” la lettera è scritta in maniera indelebile nel cuore di Paolo, a segnalare il profondo legame che lo lega con la comunità, mentre dal punto di vista “esterno” è nota e leggibile da parte di tutti gli uomini, mostrando il carattere pubblico e non segreto dell’azione apostolica nella Chiesa corinzia. Il v. 3 riprende l’aspetto esterno della lettera, affermando da subito come sia manifesto che i Corinzi siano una lettera di Cristo, estesa come amanuensi da Paolo e dai suoi collaboratori. Se nel versetto precedente si erano accentuati l’azione e il legame degli apostoli nei confronti dei destinatari, ora si precisa il loro ruolo secondario e di mediazione rispetto a quello di Cristo. Infatti, è lui l’autore della lettera; quindi, fuor di metafora, colui al quale si deve la creazione della comunità e al quale essa appartiene. Con il v. 4 Paolo precisa che la convinzione espressa nei versetti precedenti, riguardo al fatto che la comunità sia una lettera di Cristo alla cui estensione gli apostoli hanno collaborato, è ottenuta per mezzo di Cristo e al cospetto di Dio; si tratta dunque di una convinzione di fede. in particolare, si ricorda il rapporto di comunione dell’apostolo con il suo signore e si chiama Dio a testimone, dal quale deriva il suo ministero. Al v. 5 Paolo opera una “correzione” per evitare un fraintendimento nei destinatari, cioè che la sua convinzione sia presa come un’affermazione di una propria capacità e autosufficienza in relazione al ministero. In questo modo l’apostolo introduce anche una seconda prova dai fatti a supporto della legittimità del suo servizio e, quindi, in relazione a quanto si sosteneva nella tesi di 2,16b-17. Infatti, si dice che Paolo e i suoi collaboratori non sono qualificati in se stessi, non possono considerare niente del loro ministero come proveniente dalle loro risorse, perché la capacità per compiere il proprio servizio viene a loro da Dio. Da ultimo Paolo sembra pure suggerire che perfino la capacità di discernimento sulla propria persona non è derivante da se stesso, ma è dono di Dio. La prima parte del v. 6 si riallaccia al versetto precedente, avendo una funzione esplicativa riguardo il compito per il quale gli apostoli sono resi capaci da Dio (si noti il nuovo richiamo alla tesi di 2,16b-17): si tratta del ministero della nuova alleanza. La seconda parte del v. 6 è infatti caratterizzata dall’opposizione tra il ministero della lettera e quello dello spirito, in quanto il primo dà la morte mentre il secondo porta la vita. In questo versetto la «lettera» ha a che fare con la legge mosaica, visto quanto si dice nei vv. 3.7, tuttavia non può essere identificata tout court con essa, dato che non si usa il sostantivo corrispondente. Paolo, riprendendo anche il contrasto tra morte e vita di 2Cor 2,16, afferma che il ministero mosaico era basato su una Legge la cui osservanza non conduceva alla vita, in quanto era priva di capacità salvifica, mentre quello apostolico è animato dallo Spirito, che porta a partecipare a una nuova esistenza da salvati (cfr. rm 8,1-2).

Il confronto tra il ministero apostolico e quello mosaico L’antitesi presentata alla fine del v. 6 fa da introduzione al nuovo brano di 3,7-18, interamente dedicato al confronto tra ministero paolino e quello mosaico. Paolo intende relativizzare il ministero anticotestamentario, per esaltare nel versetto successivo quello neotestamentario. D’altra parte, l’apostolo non cancella il fatto che il ministero mosaico sia circonfuso di gloria, ricordando dunque il legame di Mosè con Dio: se nella scrittura era attestata la gloria – quindi, la presenza e l’azione di Dio – a proposito del ministero mosaico, tanto più deve essere quella che avvolge il servizio apostolico. al v. 9 la contrapposizione è tra il ministero della condanna e quello della giustizia, e si afferma che il secondo possiede una sovrabbondanza di gloria rispetto al primo. Nel v. 10 Paolo interrompe la sua argomentazione per precisare il riferimento all’abbondanza di gloria presente nel ministero apostolico. L’apostolo afferma che il ministero mosaico, con ciò che era a esso connesso, pur essendo glorioso, perde tutta la sua gloria a confronto con quella sovrabbondante del servizio apostolico. L'argomentazione riprende al v. 11 sulla linea della diversa durata: se il ministero mosaico, pur essendo destinato a sparire, fu glorioso, molto più lo sarà quello apostolico, destinato a rimanere per sempre (si tratta di un’estensione indefinita sino al futuro escatologico). Si è partiti nel v. 8 con l’affermare che quello apostolico è più glorioso dell’altro, si è passati al v. 9 sottolineando che esso sovrabbonda maggiormente di gloria, per giungere alla conclusione del v. 11 sulla sua permanenza rispetto alla transitorietà di quello mosaico.

Sostenuto dalla speranza derivante dal carattere permanentemente glorioso del suo ministero, al v. 12 Paolo torna a parlare del comportamento suo e di quello dei collaboratori, caratterizzato da grande franchezza nei confronti di tutti, in particolare dei destinatari. Il v. 12 non ha però soltanto funzione retrospettiva, perché prepara anche il confronto con il comportamento non positivo di Mosè, che nel versetto successivo rientra ancora una volta in scena. Infatti, al v. 13 si dice che, a differenza degli apostoli, Mosè non agiva con trasparenza, ponendo sul suo volto un velo affinché gli Israeliti non guardassero alla gloria di esso, destinata a finire, insieme al ministero mosaico. Il v. 14, con una sfumatura avversativa nei confronti del precedente, afferma che, invece di poter riconoscere il carattere passeggero della gloria e del ministero mosaici, gli israeliti sono stati induriti. Infatti un velo rimane ancora oggi nella loro lettura dell’antica alleanza, poiché tale velo può essere rimosso soltanto attraverso Cristo. Il testo presenta, quindi, una transizione dall’azione di Mosè a quella degli israeliti, destinatari del suo ministero, sempre con l’uso della stessa immagine del velo. Secondo Paolo l’indurimento fa sì che gli ebrei del suo tempo – o meglio, una parte di loro, visto che diversi come lui hanno creduto in Cristo – abbiano un’incapacità a comprendere l’«antica alleanza» proclamata nelle loro sinagoghe. La vera comprensione della Legge è possibile solo mediante Cristo e, quindi, per coloro che lo accolgono nella fede. Verosimilmente Paolo lascia qui intendere che, una volta tolto il velo, diventa possibile vedere la scrittura come annuncio del Vangelo, in linea così con la lettura in chiave cristologica di essa che l’apostolo propone anche in altre sue lettere. Nel v. 15 si evidenzia, da una parte, che la lettura della «nuova alleanza» coincide essenzialmente con quella della Torà, e che il velo giace ora sul cuore degli israeliti. Dall’altra, si rafforza il parallelo tra le generazioni incredule precedenti, in particolare quella del deserto, e l’attuale: alle menti indurite dei primi subentrano i cuori velati dei secondi. Mentre qui Paolo richiama la predicazione profetica riguardo al «cuore di pietra» (Ez 11,19; 36,26), fa anche indirettamente intendere che la resistenza dei giudei all’annuncio del Vangelo non inficia la legittimità del ministero apostolico a esso legato (cfr. Rm 10,14-21). Al v. 16 l'Apostolo utilizza l’ingresso di Mosè, con il volto scoperto, nella tenda del convegno per indicare la conversione del giudeo del suo tempo, il quale resiste al Vangelo, al Signore. Quando ciò avverrà, Dio stesso toglierà il velo che copre il suo cuore e che gli impedisce di comprendere la scrittura alla luce di Cristo. Il v. 17 riprende il versetto precedente a mo’ di parentesi chiarificatrice e introduce il successivo. Paolo vi afferma che il Signore si identifica con lo Spirito e, dov’è presente lo spirito, lì si sperimenta la libertà. il testo fornisce non una definizione ontologica dello Spirito, ma una descrizione della sua signoria, in quanto appartenente a Dio e in quanto fonte di libertà. Nel nostro contesto tale libertà è da riferirsi prima di tutto al ministero apostolico esercitato con piena franchezza (cfr. v. 12) e, in seconda istanza, è ascrivibile anche ai credenti in Cristo (cfr. il «noi» del v. 18), in particolare ai Corinzi, che per mezzo dello spirito sono stati liberati dal peccato e dalla morte per vivere nella libertà dei figli di Dio chiamati alla gloria (cfr. rm 8,2.16-21). Alla fine, il v. 18, conclude e riassume la pericope con una frase molto densa e concisa, di difficile interpretazione. Il confronto con Mosè e gli Israeliti pervie- ne al termine quando paolo associa a sé non soltanto i collaboratori, ma anche i destinatari del suo ministero. rivolgendosi ai Corinzi, egli afferma che tutti i credenti, non avendo il velo sul volto, riflettono la gloria del Signore, mentre sono trasformati nella stessa immagine che riflettono, passando di gloria in gloria grazie all’azione dello spirito di Dio. per paolo e per i Corinzi, a differenza di Mosè e degli israeliti, il velo è stato tolto al momento della loro conversione al signore (cfr. v. 16) e tale è la loro situazione sino al presente, cosicché possono mostrarsi in piena franchezza e libertà a tutti (cfr. v. 12). in ragione della loro nuova condizione, essi riflettono la gloria divina che avvolge il volto di Cristo e vengono trasfigurati in Cristo stesso, immagine di Dio (cfr. 4,4). Si tratta di una trasformazione progressiva a opera dello spirito, la quale è attuale già al presente, ma trova il suo compimento alla fine dei tempi (questo è il senso dell’espressione «di gloria in gloria»). Paolo delinea la vita cristiana come un cammino progressivo sino alla definitiva somiglianza con l’immagine di Cristo (cfr. Rm 8,28-30; Fil 3,10.21).


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La lettera «tra molte lacrime» e le sue conseguenze 1Ritenni pertanto opportuno non venire di nuovo fra voi con tristezza. 2Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato? 3Ho scritto proprio queste cose per non dovere poi essere rattristato, alla mia venuta, da quelli che dovrebbero rendermi lieto; sono persuaso, riguardo a voi tutti, che la mia gioia è quella di tutti voi. 4Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, non perché vi rattristiate, ma perché conosciate l’amore che nutro particolarmente verso di voi. 5Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma, in parte almeno, senza esagerare, tutti voi. 6Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dalla maggior parte di voi, 7cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte. 8Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità; 9e anche per questo vi ho scritto, per mettere alla prova il vostro comportamento, se siete obbedienti in tutto. 10A chi voi perdonate, perdono anch’io; perché ciò che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l’ho fatto per voi, davanti a Cristo, 11per non cadere sotto il potere di Satana, di cui non ignoriamo le intenzioni. 12Giunto a Tròade per annunciare il vangelo di Cristo, sebbene nel Signore mi fossero aperte le porte, 13non ebbi pace nel mio spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedatomi da loro, partii per la Macedonia.

Ringraziamento a Dio per l’apostolato e prima tesi 14Siano rese grazie a Dio, il quale sempre ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde ovunque per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza! 15Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo per quelli che si salvano e per quelli che si perdono; 16per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all’altezza di questi compiti? 17Noi non siamo infatti come quei molti che fanno mercato della parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La lettera «tra molte lacrime» e le sue conseguenze Paolo comincia con l’affermare che, a seguito di un’attenta riflessione, ha deciso di non ritornare con tristezza dai Corinzi. Si tratta di un riferimento all’afflizione che egli avrebbe potuto causare ai suoi con una visita immediatamente successiva, nella quale con ogni probabilità sarebbe stato costretto a rimproverarli con durezza e prendere anche misure disciplinari: tutta la vicenda precedente ha provocato dolore sia in Paolo sia nei destinatari, e la soluzione del contrasto ha l’effetto di una gioia reciproca. L’apostolo esprime in questo modo come egli soffra e gioisca con loro. Nel v. 3 Paolo afferma che la lettera da lui scritta «tra molte lacrime» aveva come primo scopo di non ricevere tristezza dai Corinzi che sono quelli che dovrebbero rallegrarlo. L’apostolo è convinto che la sua gioia e quella della comunità coincidano! Probabilmente, dal punto di vista pastorale, Paolo ritiene necessario lasciar calmare gli animi dopo l’incidente occorso nella visita precedente (cfr. 2,5; 7,12). Per questo invia in sua vece la lettera. Infatti, generalmente nell’antichità, in un mondo dove gli spostamenti non erano così veloci e agevoli, lo scritto epistolare fungeva da sostituto della persona e talvolta anche del discorso che l’autore avrebbe potuto fare se fosse stato presente in mezzo ai suoi destinatari. Ritornando sullo scopo della lettera «tra molte lacrime», al v. 9 Paolo afferma di avere scritto ai Corinzi anche per mettere alla prova la loro obbedienza nei suoi confronti, cioè il riconoscimento del suo ruolo apostolico di fondatore. Implicitamente, allo stesso modo, ora con la sua nuova epistola chiede loro di seguire le sue indicazioni, perdonando l’offensore. Per i Corinzi obbedire a Paolo (cfr. 2Cor 10,6; 2Ts 3,14; Fm 21) è una questione legata non alla persona, ma al suo compito di rappresentante di Cristo e del Vangelo (cfr. 2Cor 4,5). Paolo afferma che a chi la comunità perdona, anche lui fa altrettanto, e che, se ha perdonato qualcosa, l’ha compiuto per il bene della comunità al cospetto di Cristo. Nel v. 11 Paolo afferma che la riconciliazione con l’offensore è necessaria per non essere ingannati da satana, le cui macchinazioni sono ben note. L’apostolo si mette dalla stessa parte dei Corinzi parlando di «noi», alludendo alle circostanze negative che comporterebbe la continuata esclusione dalla comunità di colui che ha sbagliato. satana, del quale si fa menzione anche in 4,4, potrebbe prendere vantaggio dalla situazione. In questo modo satana avrebbe derubato la comunità di uno dei suoi membri. in secondo luogo, il riferimento è anche alla comunione tra Paolo e i Corinzi, che potrebbe essere messa a repentaglio attraverso il perdurare di una situazione non riconciliata. il diavolo, proprio in base al significato del suo nome («Divisore»), prevarrebbe, alimentando tale divisione. Il discorso però si chiude con una nota di fiducia, perché l’apostolo afferma che lui e i cristiani di Corinto possono ben riconoscere le macchinazioni di satana e per questo fare in modo di non concedergli opportunità di azione. Al v. 12 Paolo comincia ricordando che è giunto a Troade per annunciare il Vangelo e che il Signore ha dato un esito favorevole alla sua missione. Qui il successo dell’evangelizzazione è riportato da Paolo all’azione di Dio che apre le porte delle case delle persone e quindi i loro cuori all’accoglienza dell’annuncio. Comunque, secondo il testo della nostra lettera, nonostante tale incoraggiante risultato, l’apostolo aveva al momento un’altra urgenza. Infatti, al v. 13 rivela che egli non ebbe pace a Troade perché non vi trovò Tito e per questo, avendo salutato la comunità della città, partì alla volta della Macedonia.

Ringraziamento a Dio per l’apostolato e prima tesi Non deve sorprendere il lettore il fatto di trovare un ringraziamento a questo punto della lettera, perché ciò non è fuori dal comune per Paolo, ma ritorna nelle sue lettere anche in forma simile a questa (cfr., p. es., Rm 6,17-18; 1Cor 15,57; 1Ts 2,13-16). Inoltre, è da rammentare che nella retorica era prevista la possibilità di avere un secondo esordio; in questo lo si collocava per lo più poco prima dell’argomentazione. In contrasto con la situazione di angoscia sperimentata a Troade (cfr. v. 13), l’apostolo esprime ora il suo grazie a Dio, richiamando il tema della consolazione divina nella tribolazione (cfr. 1,3-7). Possiamo evidenziare tre aspetti messi in evidenza da Paolo in 2,14: è Dio che agisce nei suoi inviati; Cristo è il punto focale di questa azione; l’attività divina in relazione al Vangelo si configura come continua e universale. Ciò costituisce, già all’inizio dell’argomentazione, un orizzonte nel quale comprendere il significato del ministero apostolico. L'originalità di questi versetti sta nel passare dalla presentazione dell’apostolo come colui che ha la funzione di manifestare la fragranza del Vangelo, a quella dell’apostolo come colui che è lo stesso profumo di Cristo, segnando così la piena identificazione tra annuncio e annunciatore. Il v. 16b pone una domanda sulla capacità degli apostoli di fronte alle gravi responsabilità del loro ministero di annuncio, la cui accoglienza o rifiuto determina il destino degli ascoltatori. La questione riecheggia l’affermazione di Mosè di fronte alla missione richiesta da Dio. Il v. 17, che costituisce insieme al v. 16b la tesi, fornisce una risposta affermativa alla domanda posta in precedenza. Tale risposta si configura come una precisazione correttiva, passando dal negativo al positivo. Infatti, Paolo afferma che lui e i restanti apostoli non si comportano come altri, che fanno mercato della parola di Dio, falsificandola per il proprio interesse, ma l’annunciano, in unione con Cristo, con la sincerità derivante dal loro essere inviati da Dio e posti di fronte al suo giudizio. La tesi di 2,16b-17 assume un aspetto apologetico e, in misura minore, polemico, perché vi compare la contrapposizione agli avversari dell’apostolo. Tali caratteristiche, come visto nella presentazione di tutta l’argomentazione, non possono però essere disgiunte dalla prospettiva pedagogica nei confronti dei destinatari, chiamati a (ri)scoprire il significato e il valore del ministero apostolico.


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Praescriptum 1Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Timòteo, alla Chiesa di Dio che è a Corinto e a tutti i santi dell’intera Acaia: 2grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

Benedizione 3Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! 4Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio. 5Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. 6Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. 7La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione. 8Non vogliamo infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione, che ci è capitata in Asia, ci abbia colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, tanto che disperavamo perfino della nostra vita. 9Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte, perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti. 10Da quella morte però egli ci ha liberato e ci libererà, e per la speranza che abbiamo in lui ancora ci libererà, 11grazie anche alla vostra cooperazione nella preghiera per noi. Così, per il favore divino ottenutoci da molte persone, saranno molti a rendere grazie per noi.

Tesi generale: vanto del comportamento sincero con la grazia di Dio 12Questo infatti è il nostro vanto: la testimonianza della nostra coscienza di esserci comportati nel mondo, e particolarmente verso di voi, con la santità e sincerità che vengono da Dio, non con la sapienza umana, ma con la grazia di Dio. 13Infatti non vi scriviamo altro da quello che potete leggere o capire. Spero che capirete interamente – 14come in parte ci avete capiti – che noi siamo il vostro vanto come voi sarete il nostro, nel giorno del Signore nostro Gesù.

NARRAZIONE APOLOGETICA: IL COMPORTAMENTO DI PAOLO (1,15–2,13)

Difesa riguardo ai piani di viaggio 15Con questa convinzione avevo deciso in un primo tempo di venire da voi, affinché riceveste una seconda grazia, 16e da voi passare in Macedonia, per ritornare nuovamente dalla Macedonia in mezzo a voi e ricevere da voi il necessario per andare in Giudea. 17In questo progetto mi sono forse comportato con leggerezza? O quello che decido lo decido secondo calcoli umani, in modo che vi sia, da parte mia, il «sì, sì» e il «no, no»? 18Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». 19Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». 20Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. 21È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, 22ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori. 23Io chiamo Dio a testimone sulla mia vita, che solo per risparmiarvi rimproveri non sono più venuto a Corinto. 24Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La Seconda Lettera ai Corinzi presenta una rottura della sua integrità letteraria nel passaggio dal capitolo 9 al capitolo 10. È probabile che un redattore – senza preoccuparsi della conseguente incoerenza, ma di conservare e trasmettere gli scritti dell’apostolo – abbia unito una prima lettera di Paolo ai Corinzi, comprendente i capitoli 1–9 e mutila del postscriptum, a una seconda, costituita dai capitoli 10–13 e privata del praescriptum, così da formare l’attuale 2 Corinzi. Questo quadro è ben compatibile con la complessa situazione della corrispondenza corinzia. infatti in 1 Corinzi si parla di una lettera precedente, nella quale Paolo invitava i suoi a non mescolarsi con gli immorali (cfr. 1Cor 5,9), mentre in 2 Corinzi si accenna a un’altra scritta «tra molte lacrime» (2Cor 2,4), cosicché alla fine si può pensare all’esistenza di almeno cinque missive dell’apostolo inviate alla sua comunità. D’altra parte dobbiamo ricordare che la Seconda lettera ai Corinzi è testimoniata dagli antichi manoscritti del nuovo testamento unicamente nella sua forma attuale: l’epistola presa nella sua interezza rispetta il tipico canovaccio epistolare paolino (praescriptum, corpus, postscriptum), che il vocabolario presente in 2 Corinzi è omogeneo (p. es., i campi semantici dell’apostolato, del vanto e della raccomandazione) e che è possibile vedere almeno una tematica comune che la percorre tutta (quella dell’apostolato). Verrà adottato questo schema di lettura: 2 Corinzi A = 2Cor 1,1-9,15 2 Corinzi B = 2Cor 10,1-13,13

Praescriptum Il praescriptum è composto, come nel nostro caso, di tre elementi: mittente, destinatario, saluto. Colui che è associato a Paolo nel praescriptum di questa lettera, pur non essendone co-autore ma co-mittente, cioè Timoteo, è un fratello nella fede e un suo stretto collaboratore, coinvolto nella fondazione della comunità di Corinto (cfr. At 18,5; 2Cor 1,19) e in una visita successiva alla stesura della 1 Corinzi (cfr. 1Cor 4,17; 16,10). Il destinatario è la comunità cristiana di Corinto di cui viene sottolineata l’appartenenza a Dio. Il saluto «grazia e pace» (v. 2), pur derivando probabilmente dalla tradizione liturgica cristiana, attesta anche la duplice cultura, ebraica e greca, di Paolo: con «grazia e pace» si mostra sin dall’inizio l’essenza del Vangelo, in quanto buona novella per ogni uomo, di cui Paolo si fa araldo.

Benedizione La benedizione iniziale di Paolo è “generale”, ma prepara aspetti “particolari” che saranno successivamente sviluppati nella lettera e legati alla vicenda stessa dell’apostolo. Infatti, egli ha sperimentato la misericordia di Dio proprio nella sua chiamata al ministero (cfr. 4,1) e ha provato la sua multiforme consolazione (cfr. 1,3: «ogni») nei diversi interventi a suo sostegno in mezzo alle sofferenze derivanti proprio dal suo apostolato (cfr. 7,4-7). Il v. 4 fornisce la ragione per la benedizione stessa: Dio è benedetto perché è colui che ci conforta in ogni tribolazione che possiamo incontrare. Paolo, come ogni apostolo del Vangelo, è in grado di consolare gli afflitti a causa della consolazione che ha ricevuto, attraverso Cristo, in mezzo alle sofferenze derivanti dal ministero. Tali sofferenze mostrano così una valenza positiva non solo in relazione alla consolazione ricevuta a seguito di esse, ma anche come strumento di comunione e conformazione a Cristo. Il v. 7 porta a conclusione le motivazioni generali riguardanti la benedizione di Dio cominciata al v. 3, esprimendo la speranza di Paolo riguardo i Corinzi. Come essi hanno parte alle sofferenze, così l’avranno anche alla consolazione. Quindi, la comunione dei Corinzi con Paolo e, attraverso di lui, con Cristo passa attraverso la condivisione di una medesima situazione di tribolazione, ma anche nella speranza derivante dalla fede che tutto ciò è legato allo stesso conforto divino. Dai riferimenti generali alle afflizioni presenti nei vv. 3-7 si passa ora a un’afflizione particolare, quella capitata a Paolo (e forse anche ai suoi collaboratori) nella provincia romana dell’Asia (v. 8). Si è trattato di una tribolazione insostenibile con le sole forze umane, confidando nelle quali ci sarebbe stato solo da disperare, e ancor più, visto ciò che si dice nei vv. 9-10, è stato un vero e proprio pericolo di morte. L’azione futura di Dio è collegata nel v. 11 alla preghiera dei Corinzi a beneficio di Paolo. Questo annodarsi tra intercessione e ringraziamento in merito al dono di Dio si riproporrà significativamente riguardo alla colletta (cfr. 9,13-14), ma da subito mostra il senso della comunione ecclesiale promossa da Paolo, una comunione che lega lui, la comunità e il Signore in un’unica relazione. Infine, la benedizione che così si conclude ci ha mostrato che, da una lato, i Corinzi già prendono parte, condividendone sofferenza e consolazione, all’esistenza dell’apostolo e, quindi, pure al suo legame con Cristo; dall’altro, sono invitati a progredire ulteriormente in questa comunione anche attraverso la preghiera di intercessione rivolta per lui a Dio.

Tesi generale: vanto del comportamento sincero con la grazia di Dio I vv. 12-14, in quanto “tesi”, presentano la questione sulla quale verterà il resto di 2 Corinzi A: il comportamento di Paolo verso tutti e in particolare verso i Corinzi. Il comportamento semplice e sincero di Paolo verso i Corinzi è dimostrato dal fatto che le sue lettere non sono ambigue. Infatti, l’apostolo afferma, probabilmente rispondendo ad alcune critiche mosse nei suoi confronti, che i destinatari non devono cercare altro nelle sue epistole (si tratta di quelle scritte loro finora e di quella che sta stendendo) se non ciò che sentono al momento della lettura fatta in assemblea e che immediatamente possono comprendere. In questo modo il versetto anticipa tutta la narrazione apologetica di 1,15–2,13; in particolare 1,17, dove Paolo è accusato di un comportamento ambiguo, e 2,4, dove egli chiarisce i fraintendimenti nati dalla lettera «tra molte lacrime». Inoltre prepara l’immagine della comunità come lettera degli apostoli scritta e leggibile da tutti (cfr. 3,2). il v. 13 si chiude poi con la speranza dell’apostolo che i Corinzi comprendano appieno e sino alla fine. La tesi generale di 1,12-14, che si era aperta con il tema del vanto, si chiude quindi con lo stesso motivo, il quale si trova legato all’apostolato paolino. Ma, se al v. 14 si guarda alla riuscita di tale ministero in vista della parusia, il v. 12 presentava i presupposti di questa riuscita nel modo trasparente di vivere la missione in grazia di Dio. Viene quindi mostrata la problematica sulla quale si soffermeranno i primi nove capitoli di 2 Corinzi (in particolare sino al termine del c. 7): la difesa del comportamento di Paolo e dei suoi collaboratori di fronte ai Corinzi. Lo scopo sarà quello di conseguire una piena sintonia relazionale tra l’apostolo e i destinatari, resa possibile proprio da una comune valutazione positiva dell’agire ministeriale degli evangelizzatori. A dimostrare quanto asserito in 1,12- 14 provvederà da subito la narrazione apologetica, che aprirà immediatamente il “corpo” della lettera.

Difesa riguardo ai piani di viaggio Con 1,15 si entra nel “corpo” della lettera. Il brano è una difesa di Paolo dovuta probabilmente a critiche ricevute per la modifica della prevista doppia visita a Corinto. Il testo può essere diviso in tre parti: il piano originario di viaggio (1,15-16), motivazione teologica dell’affidabilità di Paolo (1,17-22); giustificazione del cambiamento di piano in base ai fatti (1,23-24). Paolo aveva ipotizzato una seconda visita a Corinto, dopo quella di fondazione della comunità, in modo che i suoi potessero ricevere un secondo beneficio, legato ai doni spirituali provenienti dalla grazia di Dio. Tuttavia, questo piano di viaggio non sarà rispettato. Dal v. 17 inizia la difesa vera e propria di Paolo riguardo al cambiamento di piano da lui effettuato: vengono riprese le accuse menzionate già al v. 12 in merito al comportamento di Paolo e concernenti ambiguità e opportunismo. Nel v. 18 Paolo chiama Dio, che è fedele, come testimone del fatto che la parola apostolica (quella sua, di Silvano e di Timoteo, cfr. v. 19) non è sì e no, cioè doppia e ambigua. La fedeltà di Dio è presa a garanzia dell’affidabilità della parola dei suoi inviati. Tale «parola» può essere in riferimento a qualsiasi comunicazione orale o scritta intercorsa tra l’apostolo e i suoi collaboratori da una parte e i Corinzi dall’altra. Il contenuto di essa, in considerazione del v. 19, è rappresentato dal Vangelo stesso, ma anche, in ragione dei versetti precedenti, dal piano di viaggio. Quindi Paolo intende affermare che come è affidabile per l’annuncio, così lo è anche per i suoi progetti di visita della comunità corinzia, mostrando indirettamente come la sua esistenza quotidiana è inscindibilmente legata al proprio ministero a favore del Vangelo. Nel v. 20 Paolo amplifica l’affermazione precedente, approfondendo il «sì» di Dio in Cristo: tutte le promesse di salvezza di Dio hanno trovato nel Messia di Nazaret il suo adempimento. Il v. 21 passa a esplicitare l’azione del Dio fedele sui credenti in Cristo, evidenziando la comunione tra apostoli e Corinzi a questo profondo livello. Egli è colui che continua a rendere sicura e a sostenere l’esistenza dei cristiani in relazione al loro Signore e li ha fatti conformi e partecipi della consacrazione e della missione di salvezza del Cristo. Senza soluzione di continuità con quanto precede, il v. 22 afferma che i credenti possiedono un sigillo segno di appartenenza a Dio, come suoi eletti, e hanno ricevuto nei loro cuori il dono dello Spirito come anticipo della salvezza definitiva alla risurrezione finale. Dopo avere difeso a livello teologico la sua posizione e avere detto che, nonostante il cambiamento di piano, egli è affidabile perché al servizio del Dio fedele, Paolo si muove nel v. 23 a livello pratico. Infatti, l’apostolo vuole presentare la concreta ragione per la quale egli non è ritornato a Corinto dopo il passaggio in Macedonia, al contrario di quanto doveva avere convenuto con i destinatari. Paolo ha rinunciato a raggiungere di nuovo Corinto per risparmiare i destinatari, quindi per il loro bene... c'è un riferimento ad alcune misure disciplinari che avrebbero potuto essere prese dall’autorità apostolica nei confronti dei destinatari! Tutto questo, però, potrebbe anche portare i Corinzi a pensare che Paolo e gli altri missionari intendano spadroneggiare su di loro. Così l’apostolo pone una precisazione: lui, Silvano e Timoteo non vogliono dominare sulla fede dei destinatari, ma collaborare tra di loro affinché i Corinzi accrescano la gioia da essa derivante. Così, il motivo della gioia va a caratterizzare non solo il riconoscimento del dono ricevuto da Dio, ma anche la comunione che si crea tra coloro che condividono la stessa fede. Interessante è notare che in 1Cor 3,9 si afferma che gli apostoli sono «collaboratori di Dio», insistendo sull’origine del loro ministero, mentre ora con «collaboratori della vostra gioia» (v. 24) si sposta l’attenzione sulla finalità di esso. Paolo, poi, con una captatio benevolentiae nei confronti dei Corinzi afferma che ciò è tanto più vero dato che in merito alla fede essi sono già ben saldi, cioè hanno un loro valido cammino di vita cristiana (molto diversamente, a indicare una situazione successiva ormai mutata, si esprimerà a riguardo in 2Cor 13,5). Si chiude così il brano di 1,15-24 dedicato alla difesa di Paolo di fronte alle critiche suscitate dal suo cambiamento di programma rispetto alla visita che avrebbe dovuto fare a Corinto.


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Invito a proseguire la colletta 1Riguardo poi alla colletta in favore dei santi, fate anche voi come ho ordinato alle Chiese della Galazia. 2Ogni primo giorno della settimana ciascuno di voi metta da parte ciò che è riuscito a risparmiare, perché le collette non si facciano quando verrò. 3Quando arriverò, quelli che avrete scelto li manderò io con una mia lettera per portare il dono della vostra generosità a Gerusalemme. 4E se converrà che vada anch’io, essi verranno con me.

Progetti missionari 5Verrò da voi dopo aver attraversato la Macedonia, perché la Macedonia intendo solo attraversarla; 6ma forse mi fermerò da voi o anche passerò l’inverno, perché prepariate il necessario per dove andrò. 7Non voglio infatti vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po’ di tempo con voi, se il Signore lo permetterà. 8Mi fermerò tuttavia a Èfeso fino a Pentecoste, 9perché mi si è aperta una porta grande e propizia e gli avversari sono molti. 10Se verrà Timòteo, fate che non si trovi in soggezione presso di voi: anche lui infatti lavora come me per l’opera del Signore. 11Nessuno dunque gli manchi di rispetto; al contrario, congedatelo in pace perché ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli. 12Riguardo al fratello Apollo, l’ho pregato vivamente di venire da voi con i fratelli, ma non ha voluto assolutamente saperne di partire ora; verrà tuttavia quando ne avrà l’occasione.

Inviti conclusivi 13Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti. 14Tutto si faccia tra voi nella carità. 15Una raccomandazione ancora, fratelli: conoscete la famiglia di Stefanàs. Furono i primi credenti dell’Acaia e hanno dedicato se stessi a servizio dei santi. 16Siate anche voi sottomessi verso costoro e verso quanti collaborano e si affaticano con loro. 17Io mi rallegro della visita di Stefanàs, di Fortunato e di Acàico, i quali hanno supplito alla vostra assenza: 18hanno allietato il mio spirito e allieteranno anche il vostro. Apprezzate persone come queste.

Saluti 19Le Chiese dell’Asia vi salutano. Vi salutano molto nel Signore Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa. 20Vi salutano tutti i fratelli. Salutatevi a vicenda con il bacio santo. 21Il saluto è di mia mano, di Paolo.

Formule liturgiche conclusive 22Se qualcuno non ama il Signore, sia anàtema! Maràna tha! 23La grazia del Signore Gesù sia con voi. 24Il mio amore con tutti voi in Cristo Gesù!

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Invito a proseguire la colletta Anzitutto l'apostolo rivolge ai Corinzi l'appello di proseguire la colletta per i cristiani bisognosi della Chiesa madre di Gerusalemme (vv. 1-4). Nonostante l'indigenza economica dei fedeli di Gerusalemme, Paolo li chiama «santi» (v. 1), riconoscendo loro la stessa dignità e la stessa vocazione dei cristiani di Corinto, «che sono stati santificati in Cristo Gesù» e «chiamati (a essere) santi» (1,2). Per venire in loro soccorso, l'apostolo esorta i Corinzi a perseverare nell'iniziativa, attenendosi alle disposizioni che egli ha già dato alle comunità cristiane della Galazia settentrionale. S'intuisce che tali disposizioni fossero note pure ai Corinzi. Paolo dà ai Corinzi alcune disposizioni pratiche sui tempi e sui modi della colletta (v. 2), precisando anche come intende procedere per inviare la somma di denaro a Gerusalemme (vv. 3-4). Per aiutare i Corinzi a superare il rischio di procedere in modo affrettato e forse anche poco generoso, chiede loro di risparmiare soldi un po' alla volta. L'indicazione cronologica lega questo gesto di carità alla celebrazione eucaristica domenicale (cfr. At 20,7; Ap 1,10), in cui i cristiani si radunavano in assemblea per annunciare la morte del Signore, in attesa della sua venuta gloriosa (cfr. 1Cor 11,26). Paolo intende la colletta non tanto come un'elemosina, quanto piuttosto come un servizio sacro reso a Dio, oltre che ai fratelli (cfr. 2Cor 9,1).

Progetti missionari Lasciando trasparire tutto il suo affetto per i figli spirituali di Corinto, l'apostolo annuncia un prossimo soggiorno piuttosto prolungato nella loro comunità (v. 7). Paolo dettando la Prima lettera ai Corinzi, manifesta loro la decisione di trattenersi fino a Pentecoste nella città di Efeso. E questo, per due ragioni: in positivo, si rende conto di avere una chance irrinunciabile per la diffusione del cristianesimo: con la metafora della «porta» che si «è aperta» Paolo esprime la consapevolezza credente nella costante assistenza dello Spirito Santo, che gli dischiude sempre nuove possibilità pastorali (cfr. At 14,27; 2Cor 2,12; Col 4,3; e anche Ap 3,8); in negativo, ha da risolvere varie tensioni intraecclesiali dovute ai numerosi oppositori, presenti anche lì (vv. 8-9). Sul punto di partire per Corinto è invece il suo collaboratore Timoteo (v.1O; cfr. 4,17). Paolo mette in guardia i fedeli, specialmente quelli a lui contrari, di non mancare di rispetto a Timoteo (v. 11a)! Con Timoteo non partirà Apollo, benché Paolo gli abbia chiesto calorosamente di recarsi anche lui a Corinto. Paolo non precisa i motivi per cui questo predicatore colto preferisca rimanere con lui a Efeso.

Inviti conclusivi Nei vv. 13-14 l'apostolo rammenta ai Corinzi le virtù cristiane principali (cfr. 1Cor 13,13): la speranza vigilante, la fede salda e forte e specialmente la carità. La comunità era guidata da alcune figure di riferimento, come sembrano essere Stefana, Fortunato e Acaico (vv. 15.17). Battezzati da Paolo stesso (cfr. l, 16), Stefana e la sua famiglia erano stati tra i primi a convertirsi al cristianesimo nell'Acaia, ossia nella regione intorno a Corinto. Da tempo si stavano dedicando al servizio degli altri fedeli. Paolo designa questo loro «servizio» ecclesiale con il sostantivo greco diakonia (v. 15). Pur tuttavia, bisognerà attendere le successive lettere pastorali per trovarvi riferimenti espliciti al diaconato come ministero ecclesiale (cfr. specialmente 1Tm 3,8-13). Certo è che già nella Prima lettera ai Corinzi i diversi ministeri («servizi») nell'ambito della comunità cristiana sono intesi come doni, che hanno origine nel Signore risorto (cfr. 12,5). Il probabile compito direttivo svolto nella Chiesa corinzia da Stefana e da alcuni membri della sua famiglia, dovuto inizialmente alloro essere «primizia dell'Acaia» (v. 15), emerge dalla raccomandazione rivolta da Paolo ai fedeli di rimanere sottomessi a loro e ai loro collaboratori. Tra costoro probabilmente c'erano pure Fortunato e Acaico, ai quali l'apostolo riconosce un ruolo di rappresentanti dei Corinzi (v. 17). Paolo è stato allietato dalla loro visita perché gli hanno portato notizie (pur non sempre rasserenanti) della vitalità della Chiesa di Corinto. Ma l'apostolo, dopo aver dichiarato la sua stima per loro, raccomanda anche ai Corinzi di stimarli e -sottinteso- di obbedire loro (v. 18).

Da questi cenni conclusivi della Prima Lettera ai Corinzi ci rendiamo conto dell'infondatezza della supposizione che, nel periodo apostolico, le Chiese paoline, sostanzialmente carismatiche, fossero prive di una gerarchia paragonabile a quella della Chiesa petrina di Gerusalemme. Persino in una comunità così carismatica come quella di Corinto, un gruppo di persone si faceva carico dei cammini di fede degli altri cristiani. Probabilmente questo ruolo di governo era gestito in maniera collegiale da Stefana, cui era riconosciuta una certa preminenza («primizia»), e da altre persone, come Fortunato e Acaico, che mantenevano stretti rapporti con l'apostolo Paolo. Così, attraverso una fitta rete di contatti, costui riusciva a dare alcune direttive pastorali necessarie alle variegate comunità da lui fondate, pur continuando a spostarsi infaticabilmente per fame sorgere altre.

Saluti Ai saluti personali, scritti di suo pugno (v. 21; cfr. Gal 6,11), Paolo premette quelli di «tutti i fratelli» delle comunità cristiane dell'Asia Minore (vv. 19-20). In una vita comunitaria animata dalla carità (cfr. 1Cor 13,1-13; 16,14), il saluto attraverso un «bacio santo» (v. 20) è un gesto semplice e significativo, che va ben al di là delle formalità. Le comunità cristiane dell'epoca apostolica assunsero il «bacio santo» come gesto liturgico, forse proprio a partire dal fatto che le lettere paoline venivano lette nel contesto di una celebrazione. Tuttavia alcuni Padri della Chiesa, come Atenagora e Clemente di Alessandria, denunciarono i possibili atteggiamenti ambigui e i veri e propri inconvenienti morali cui questa consuetudine poteva dare adito.

Formule liturgiche conclusive Già la preghiera di ringraziamento con cui si apre la lettera (cfr. 1,4-9) si adatterebbe bene a un contesto liturgico. Similmente, questa formula di benedizione conclusiva sarebbe una degna conclusione di uno scritto di cui Paolo prevedeva una lettura pubblica, davanti alla comunità cristiana tendenzialmente al completo («con tutti voi», v. 24) raccolta in assemblea (cfr. 1Ts 5,27; Col 4, 16), magari per celebrare l'eucaristia domenicale (cfr. 1Cor 11,17-34; 16,2; anche At 20,7; Ap 1,10). È in questo contesto comunitario, se non addirittura eucaristico, che l'apostolo esprime il suo amore per tutti i Corinzi, nonostante i problemi dottrinali e morali di tanti di loro e persino l'avversione nei suoi confronti provata da una parte della comunità. Ma la carità – di Paolo, a imitazione di quella di Cristo (cfr. 1Cor 11,1) – «non s'arrabbia, non tiene conto del male (ricevuto),[...] tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (13,5-7).


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Il Vangelo della risurrezione di Cristo 1Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi 2e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano! 3A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che 4fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture 5e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. 6In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. 7Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. 9Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. 10Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. 11Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto.

La risurrezione dai morti 12Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? 13Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! 14Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. 15Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. 16Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini.

Risurrezione di Cristo e risurrezione dei cristiani 20Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. 21Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. 22Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. 23Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. 24Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. 25È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. 26L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte, 27perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però, quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. 28E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Altre conseguenze in una vita senza la speranza nella risurrezione 29Altrimenti, che cosa faranno quelli che si fanno battezzare per i morti? Se davvero i morti non risorgono, perché si fanno battezzare per loro? 30E perché noi ci esponiamo continuamente al pericolo? 31Ogni giorno io vado incontro alla morte, come è vero che voi, fratelli, siete il mio vanto in Cristo Gesù, nostro Signore! 32Se soltanto per ragioni umane io avessi combattuto a Èfeso contro le belve, a che mi gioverebbe? Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo. 33Non lasciatevi ingannare: «Le cattive compagnie corrompono i buoni costumi». 34Tornate in voi stessi, come è giusto, e non peccate! Alcuni infatti dimostrano di non conoscere Dio; ve lo dico a vostra vergogna.

Come si risorge dai morti? 35Ma qualcuno dirà: «Come risorgono i morti? Con quale corpo verranno?». 36Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muore. 37Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. 38E Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo. 39Non tutti i corpi sono uguali: altro è quello degli uomini e altro quello degli animali; altro quello degli uccelli e altro quello dei pesci. 40Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, altro quello dei corpi terrestri. 41Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle. Ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. 42Così anche la risurrezione dei morti: è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; 43è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; 44è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che 45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità.

Trasformazione dei risorti 51Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, 52in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. 53È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. 54Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata inghiottita nella vittoria. 55Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? 56Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge. 57Siano rese grazie a Dio, che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo! 58Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.

Approfondimenti

(cf PRIMA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Franco Manzi © EDIZIONI SAN PAOLO, 2013)

Il Vangelo della risurrezione di Cristo Il punto di partenza dell'argomentazione paolina sulla risurrezione dai morti è la citazione di uno dei primi simboli di fede della Chiesa apostolica, ossia di una formula sintetica capace di riassumere le verità fondamentali della fede cristiana. Riallacciandosi alla vivente tradizione della Chiesa, Paolo trasmette fedelmente questo simbolo di fede, sentendosi parte egli stesso di questa tradizione, come ultimo testimone oculare di Cristo risorto. Molto probabilmente Paolo apprese questo simbolo di fede negli anni 40-42, vale a dire subito dopo il suo incontro sconvolgente e straordinario con il Signore risorto sulla via di Damasco (cfr. v. 8; 1Cor 9,1; Gal 1,15-17). Forse questa arcaica formula di fede, di matrice giudaico-palestinese, era il «credo» che si recitava nella comunità cristiana di Antiochia di Siria. Il neoconvertito Paolo vi risedette per qualche tempo, prima di partire in missione con Barnaba (cfr. At 13,1-3). Con le parole del credo antiocheno, Paolo dichiara la propria fede nel fatto che la morte in croce di Cristo sia avvenuta «per i nostri peccati secondo le Scritture». In secondo luogo, il credo antiocheno professa che Cristo «venne sepolto». Da un punto di vista umano, con la sepoltura di Gesù si sarebbe conclusa la sua vicenda terrena. Quindi, questa annotazione non fa che confermare quella sulla morte. Una volta che Cristo fu deposto nel sepolcro come cadavere impotente (cfr. Mt 27,59-60 e paralleli), Dio Padre, che «non è un Dio di morti, ma di viventi» (Mt 22,32), «lo ha sopraesaltato» (Fil 2,9), risuscitandolo dai morti. Per iniziare a comprendere qualche aspetto del fatto che Cristo «sia stato risuscitato» da Dio Padre, bisogna rendersi conto, anzitutto, di avere a che fare con un'espressione analogica o antropomorfica: facendo leva cioè sulla somiglianza parziale (analogia) tra l'umano e il divino (cfr. Sap 13,5). Anche il termine «risurrezione» riesce a rendere soltanto qualche sfaccettatura di un atto divino, che comunque è, e rimarrà sempre, del tutto singolare nella storia. Infrangendo le leggi della natura, l'intervento di Dio Padre di risuscitare dai morti Cristo, suo Figlio, pur essendo annunciato con parole umane, trascende ogni esperienza umana. Il credo antiocheno, che precisa che la risurrezione di Cristo avvenne «il terzo giorno» e «secondo le Scritture». Infine, i l credo antiocheno, senza accennare al dato -anch'esso ben attestato (cfr. p. es. Mt 28,6 e paralleli; Lc 24,24; Gv 20,1-2) – del sepolcro vuoto, testimonia le cosiddette apparizioni del Crocifisso risorto. Dalla concisa formulazione del credo antiocheno si può già intuire come le apparizioni del Signore fossero atti inscindibilmente legati alla sua risurrezione, senza però coincidere con essa: Cristo, in virtù della risurrezione, è entrato in una dimensione diversa da quella terrena. Per questa ragione egli non è più immediatamente percepibile dai sensi delle persone viventi sulla terra come invece lo era prima, fino alla sua morte. Il Crocifisso risorto è sempre lo stesso individuo che, pochi giorni prima, è morto crocifisso; tant'è che ha le cicatrici della passione (cfr., p. es., Gv 20,20.25.27). Eppure è entrato nello stesso modo di vivere di Dio, per cui non è più soggetto alle nostre leggi spazio-temporali (cfr. Lc 24,31; Gv 20,19.26). Di conseguenza ha un aspetto non più immediatamente sperimentabile dai sensi umani (cfr. Mc 16,12), se non a condizioni che egli stesso, nella sua libertà, voglia farsi percepire dai suoi discepoli che accolgano con fede questa sua manifestazione (cfr., p. es., Lc 24,31; Gv 20, 16.28). La prima apparizione menzionata è rivolta a Cefa, ossia a Simon Pietro. Alla fine dell'elenco di apparizioni del Risorto, Paolo inserisce anche il ricordo del proprio incontro con lui sulla via di Damasco (v. 8; cfr. At 9,1-19; 22,4-21; 26,12-18). Il suo incontro con il Risorto è dunque del tutto equiparabile a quello degli altri apostoli, Dodici inclusi (cfr. 15,5.6.7). Paolo però è consapevole di aver incontrato il Risorto in ritardo rispetto al periodo delle apparizioni agli altri testimoni. In questo senso, quindi, sarebbe simile a un feto abortito perché nato in un momento sbagliato.

La risurrezione dai morti Facendo leva sulla fede dei Corinzi nella risurrezione del Signore Gesù, Paolo viene incontro alle loro perplessità sulla risurrezione universale, suscitate da «alcuni» cristiani che non vi speravano (v. 12). Paolo sembra dire ai Corinzi: ammettiamo per assurdo che non si risorga dai morti. Se così fosse, si dovrebbe negare anche la risurrezione di Cristo; cioè si dovrebbe concludere per la falsità della verità di fede centrale del cristianesimo. Ma se davvero non credeste in questo evento, conclude l'apostolo, come potreste professarvi cristiani? In effetti certi fedeli di Corinto, magari senza neppure rendersene conto, stavano muovendosi verso questa posizione. Perciò l'apostolo, dopo aver rammentato loro il credo antiocheno (vv. 3b-5) al quale anch'essi avevano dato il proprio assenso di fede convertendosi al cristianesimo, mostra la contraddittorietà di certe loro dichiarazioni attuali. Se Cristo non fosse risorto, tutta la vita dei fedeli di Corinto, che nonostante tutto tenevano a dichiararsi cristiani, sarebbe vuota, essendo privata della sua meta ultima: la comunione eterna con il Signore. Bene che vada, i cristiani potrebbero sperare qualche soccorso da Cristo «solo per questa vita», ma non oltre.

Risurrezione di Cristo e risurrezione dei cristiani Paolo giunge così al cuore del suo discorso sulla risurrezione dei cristiani, che egli pare curare particolarmente dal punto di vista della struttura letteraria. Il suo scopo è mostrare come la speranza nella risurrezione universale dei cristiani si fondi sulla solidarietà che lega Cristo risorto ai credenti in lui. Perciò Paolo ricorre a due argomenti, ciascuno dei quali è strutturato concentricamente. Anzitutto approfondisce un parallelismo antitetico tra Adamo e Cristo (vv. 20-23): noi moriamo in Adamo, ma vivremo in Cristo risorto. Per essere più precisi, si potrebbe dire che il rapporto vivificante di solidarietà con cui siamo legati a Cristo è ben più stretto della connivenza mortifera con Adamo. La seconda argomentazione paolina (vv. 24-28), che precisa il passaggio dal regno storico di Cristo al regno escatologico del Padre, è scandita in modo concentrico: un primo sguardo è rivolto alla fine dei tempi e al regno eterno di Dio Padre (a: v. 24); un secondo colpo d'occhio è orientato all'attuale regno in fieri di Cristo (v. 25-27) e, infine, una scorsa contemplativa va ancora alla fine della storia e alla signoria universale del Padre (v. 28). Paolo crede fermamente che la risurrezione di Cristo abbia anticipato nel «centro del tempo» ciò che avverrà per tutti i cristiani alla sua fine. Ma questo evento singolare, verificatosi per una persona nella storia, non solo precede la risurrezione di tutti i cristiani, ma ne è anche la causa e il modello. In sostanza, esiste un legame di solidarietà, che unisce il Risorto ai credenti in lui, che non s'infrange nemmeno quando costoro s'addormentano nella morte (v. 20b). Proprio in quanto fin d'ora sono uniti a lui, soprattutto nel battesimo (1Cor 1,13.15; cfr. Rm 6,4; Gal 3,27-28; Col 2,12) e nell'eucaristia (1Cor 10,16-17), sono destinati a risorgere come lui. Per mostrare la conseguenza universalmente salvifica della risurrezione di Cristo, vale a dire che tutti i credenti saranno risuscitati grazie a lui, Paolo dichiara che alla fine della storia, ossia quando essa giungerà al suo «fine» ( télos v. 24), Cristo porterà a termine la sua vittoria, sconfiggendo persino la morte degli uomini (v. 26). Allora tutto sarà davvero sottomesso a Cristo tranne Dio Padre (v. 27), al quale il Figlio riconsegnerà l'intera umanità, anzi, l'intera creazione (cfr. Rm 8,22), ormai pienamente redenta. Ogni creatura, a cominciare dall'uomo, sarà resa partecipe della comunione filiale che unisce il Figlio amato al Padre amante tramite lo Spirito-amore.

Altre conseguenze in una vita senza la speranza nella risurrezione Ora Paolo mette in luce che, se non ci fosse la possibilità di risorgere, sarebbe inutile sia farsi battezzare per i propri defunti (v. 29) sia affrontare, come stava facendo lui stesso, tanti parimenti e difficoltà per annunciare il Vangelo (vv. 30-32). Paolo sta giocando tutta la sua vita per testimoniare il Crocifisso risorto. Se Paolo non sperasse di essere risuscitato dai morti per essere «sempre col Signore» (1Ts 4, 17), non continuerebbe a vivere in questa maniera. Che senso avrebbe per lui affrontare tutti questi patimenti unicamente per motivi umani, cioè legati a un mondo transitorio (cfr. 7,31), destinato a finire nel nulla? A una domanda posta in termini personali Paolo dà una risposta di carattere tendenzialmente universale: se così fosse, sarebbe meglio mangiare e bere (v. 32b), ossia godersi spensieratamente i piaceri della vita, consapevoli che al di là della morte non ci sarebbe nulla da attendersi. Dal punto di vista letterario, la conclusione dei vv. 33-34 riprende l'interrogativo con cui si apriva la sezione (v. 12): lì Paolo ricordava come «alcuni» dei Corinzi «dicessero» che non esiste la risurrezione dai morti. Ora, è l'apostolo che replica «dicendo» ai cristiani di Corinto che «alcuni» di loro vivono ignorando Dio. Per cercare di farli ravvedere, così da evitare i peccati (v. 34b) che possono facilmente scaturire da una vita senza speranza, Paolo cita un verso della commedia Taide del poeta Menandro (ca. 342-291 a.C.) a riguardo della corruzione morale causata dalle conversazioni all'interno di cattive compagnie. Con questo detto, che all'epoca forse circolava come un proverbio, l'apostolo avverte la comunità corinzia di non lasciarsi abbindolare dalle opinioni fuorvianti di alcuni scettici a riguardo della risurrezione universale dai morti. Sostenendo certe concezioni contrarie al nucleo fondamentale della fede cristiana, persone del genere, benché si dichiarino credenti in Cristo, mostrano di non conoscere veramente il Dio rivelato definitivamente da lui (v. 34): soltanto apparentemente si sono convertiti dal paganesimo (cfr. 1Ts 4,5). Chiunque si lasci ingannare da costoro deve solo vergognarsi.

Come si risorge dai morti? Come avverrà questo processo di continuità dell'identità della persona risorta, nella trasformazione positiva delle sue condizioni di vita? Paolo ricorre a tre paragoni terreni, forse già in uso nelle scuole rabbiniche dell'epoca: la similitudine del seme e della pianta (vv. 36-38), quella della carne umana e dei vari generi di carne animale (v. 39) e, infine, quella della luminosità dei corpi terrestri e di quelli astrali (vv. 40-41). Tra la persona che vive in questo mondo e la medesima persona risorta esiste una continuità nella differenza e questa differenza è in meglio. La persona risorta, con la sua corporeità, rimane la stessa. Tuttavia raggiunge quella perfezione di cui era priva prima della sua morte (cfr. 15,42-44). Non si tratta però di una novità verificabile per chi è ancora in vita sulla terra. Di conseguenza l'apostolo ha cercato di renderne l'idea con le tre similitudini precedenti (vv. 36-41). Grazie a esse, egli intende correggere, in primo luogo, il bieco materialismo di chi riteneva che la risurrezione dai morti coincidesse con una specie di vivificazione del cadavere. Il defunto avrebbe ripreso a vivere in una situazione sostanzialmente coincidente con quella terrena. Paolo professa di credere non solo nella continuazione dell'identità personale dell'individuo, ma anche nella risurrezione della persona in ogni sua dimensione, inclusa quella corporea. Giunge così a parlare di un «corpo spirituale» donato da Dio ai risorti che, come un seme nella terra, sono morti con il loro «corpo animale» (v. 44). Più esattamente: l'apostolo prende le distanze dalla posizione di alcuni cristiani spiritualisti di Corinto, i quali disprezzavano la debolezza del corpo umano e il suo squallore, specialmente se preda della vecchiaia, della malattia e della morte. Senza celare la fragilità e la corruttibilità del corpo terreno dell'uomo, Paolo ribadisce che il corpo risorto sarà perfezionato. Non sarà quindi più soggetto alla corruzione né alle varie forme di miseria e di debolezza come quello terreno, entrando invece a partecipare della stessa condizione gloriosa di Dio (vv. 42-43). Oltre a ciò, dichiarando che «viene seminato un corpo animale, viene risuscitato un corpo spirituale» (v. 44), l'apostolo ci consente di sperare che sia proprio il «corpo» a essere completamente trasfigurato dallo Spirito Santo e a essere introdotto nella gloria di Dio. A conferma della propria visione della condizione risorta, Paolo porta il passo del libro della Genesi che racconta la creazione dell'essere umano come «anima vivente» (v. 45a; cfr. Gen 2,7). In sintesi: Paolo pensa alla risurrezione dai morti come a una nuova creazione (cfr. Gen 1,27). Grazie a essa, il credente in Cristo viene trasfigurato dall'immagine di Adamo a quella del Risorto, nel senso che il suo «corpo naturale» viene plasmato come «corpo spirituale» (vv. 44.46). Qui giunto, Paolo può riprendere in termini conclusivi il duplice interrogativo d'inizio paragrafo sul modo in cui si risorge corporalmente dai morti (v. 35). In negativo egli precisa che l'essere umano nella sua fragilità creaturale («la carne e il sangue», v. 50) non è in grado da solo di risorgere e di entrare nel regno di Dio. In quanto essere corruttibile, l'uomo non è capace di passare in una dimensione di vita incorruttibile, com'è quella che caratterizza i risorti.

Trasformazione dei risorti Nella letteratura biblica e giudaica di genere apocalittico, il termine «mistero» designava un intervento salvifico che il Signore avrebbe portato a termine in un futuro indeterminato. A un suo inviato, poi, Dio stesso ne manifestava il significato salvifico con il compito di comunicarlo ai fedeli (cfr., p. es., Dn 2,18- 19.27-30.47; Ap 1O,7). Ispirato da Dio, anche Paolo rivela ai Corinzi che c'è un salto qualitativo da fare per entrare in un'altra dimensione di vita ed «è necessario» per tutti farlo (v. 53). Lo devono fare persino i fedeli che, al termine della storia, saranno ancora in vita (vv. 51-52). Non solo il corpo corrotto dei defunti, ma anche quello dei viventi, che comunque è corruttibile e mortale, deve diventare incorruttibile e immortale (v. 53). Sia per gli uni che per gli altri sarà come indossare un vestito d'incorruttibilità (cfr. 2Cor 5,2-4). D'altronde, se è vero che tutti, sia morti che vivi, dovranno fare questo salto di qualità, è altrettanto vero che in questa trasformazione positiva sarà comunque salvaguardata l'identità personale. Giunto al termine del suo lungo discorso sulla risurrezione universale dei cristiani, Paolo esulta di gioia sulla sconfitta definitiva della morte e rende grazie a Dio che l'ha portata a termine tramite Cristo. In conclusione Paolo esprime tutta la sua riconoscenza a Dio perché ha vinto in modo definitivo la morte, pur passando paradossalmente attraverso la morte in croce di Cristo (v. 57). Come al v. 34 Paolo aveva concluso la risposta al primo quesito sull'esistenza della risurrezione dai morti con un'esortazione, così con un'esortazione conclude anche la risposta al secondo interrogativo sul modo in cui si risorge dai morti.


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