Transit

Il blog di Alessandra Corubolo e Daniele Mattioli (on-line, in varie forme, dal 2005.)

(151)

(News)

Nel suo film “La giusta distanza” (del 2007, che sembra un secolo fa), Carlo Mazzacurati narra la vicenda di un giovane, apprendista giornalista, che non riesce, in merito ad un fatto di cronaca, a mantenere la “giusta distanza” dai fatti, come gli ha suggerito il suo mentore. Ovvero non riesce ad approfondire abbastanza quel che accade per averne una visione imparziale, il più possibile corretta e scevra da opinioni ed idee personali: quello che, nella teoria, ogni giornalista dovrebbe tendere a fare nel suo mestiere.

Da parte di molte testate giornalistiche e di TG d'ogni canale è un muoversi nelle direzioni più disparate: dapprima per rimanere “sul pezzo” e, passata la fase di “picco” della notizia, per estendere all'infinito una serie di tematiche, perlopiù allarmistiche e con un alto tasso di sensazionalismo, fino a coprire intere giornate di trasmissione.

E' anche un po' il limite, per esempio, dei canali “All News”, dove per ventiquattro ore al giorno si trasmette ogni sorta di dettaglio, di accadimento, di vocio per coprire la giornata intera. Reiterando all'infinito le stesse cose (non può accadere qualcosa di clamoroso ogni ora), si finisce con il “caricare” la notizia fino allo spasimo, spesso inserendo note di colore che rendono la narrazione volutamente altisonante, pervasiva, angosciante. Una estremizzazione indotta per mantenere lo spettatore attento e soprattutto sintonizzato.

Chiaramente è una maniera d'operare per nulla corretta e, per quanto giornalisti ed opinionisti lo neghino, appare abbastanza chiaro che è un mare in cui a loro piace nuotare. Possiamo comprendere che sia più semplice fare così che mantenere quella distanza di cui sopra: si rischia, magari, la noia o una maniera troppo blanda di porgere le notizie e molte persone amano, inconsciamente o meno, il clamore e la chiacchiera, a discapito di coloro che, invece, vorrebbero leggere o sentire semplicemente ciò che è successo, senza fronzoli.

(News2)

D'altro canto ognuno può essere un amplificatore dei fatti: basta un account su “Facebook” o su “X” dove riprendere e commentare ogni cosa venga detta, magari distorcendo ulteriormente le cose, caricandole con opinioni personali (cui si ha diritto) e facendo rimbalzare tutto ovunque. Una sorta di cerchio infinito in cui la sconfitta è l'informazione di qualità, quella cui dovrebbero sempre ambire tutti. Sarebbe un freno per un mondo già pieno di input, dove siamo “bombardati” senza sosta, senza tregua di cose da seguire.

Un corto circuito permanente d'attenzione e di sovraccarico mediatico. E come ogni cosa portata all'eccesso, è un danno cui, temo, non si possa più porre rimedio, se non con la volontà personale di distaccarsi da questa narrazione sbilanciata, reinserendo nel proprio modo di informarsi una quanto mai necessaria dose di distacco e di ragionamento. Cose difficili da fare, ma non impossibili.

#Informazione #SocialMedia #Giornalismo #News #Italia

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(150)

(1)

Qualche giorno fa, se stavate su “X”, qualcuno avrà saputo di che umore eravate. No, non i vostri “follower”; meglio, non solo. All' “UVM” nel Vermont è stato, già da tempo, messo a punto e migliorato un sistema di indagine denominato “Edonometro”. Detta in soldoni un modello virtuale che analizza l'umore che facciamo trasparire quando inviamo ai nostri amici, o al mondo intero (se vogliamo), un post. Non importa l'argomento o se sia una risposta ad un un altro “cinguettio”: l'edonometro analizza giornalmente cinquanta milioni di tweet e traccia una mappa dei sentimenti espressi sui #SocialMedia. Quindi, almeno in parte, dell'umore di una massa imponente di persone.

L'utilizzo attivo di tale mezzo è ancora abbastanza lontano. Le variabili linguistiche e la difficoltà di un apparato meccanico nell'interpretare le sfumature letterali rendono l'edonometro uno strumento in evoluzione permanente, ma già abbastanza efficace per poter valutare parecchie situazioni generalizzate: sappiamo, quindi, se le cose sono viste con, per esempio, prudenza, o panico, o se, più semplicemente, la gente è arrabbiata e delusa. Appare chiaro come un tale sistema possa, nel futuro (anche se in parte lo sta già facendo) essere assai utile per uno screening psicologico ad uso della sanità pubblica o, più prosaicamente, per indirizzare messaggi pubblicitari sempre più mirati.

(2)

Ma al di là di tali considerazioni ciò che potrebbe farci riflettere sull'immediato è il cambiamento del “mezzo” #Internet, della rete. Se l'affermazione “Il mezzo è neutro: è l'uso che ne fai che lo rende più o meno utile, più o meno pericoloso, più o meno efficace” l'abbiamo recepita, adesso la possiamo ribaltare. Noi siamo il mezzo. L'utente è il mezzo. Chi fa un post non usa solo i Social media: lui è la piattaforma cui guardare. Il suo umore, le parole che usa, l'atteggiamento che ha nei confronti degli altri sono il mezzo. E' un'evoluzione in senso personalistico di internet: è divenuto la rete “delle cose” e chi lo fa girare, chi lo influenza è il singolo, staccato dal resto.

Ciò che potrà divenire questa nuova concezione della rete lo stiamo già scoprendo. Sarebbe utile arrivare ad una consapevolezza piuttosto profonda, intanto, di come noi tutti siamo stati cambiati da questa evoluzione della comunicazione. Renderci conto che si vuole che i nostri sentimenti siano valutabili, spendibili; che ciò che proviamo e che esprimiamo vada al di là della nostra opinione personale e che io, proprio io, sono una rotella dell'ingranaggio. Ci stiamo dentro, non siamo più fuori pensando che le conseguenze si limitino alla “perdita” di follower o di pochi like ai nostri post.

Oltre la gratificazione personale, ci giochiamo perfino l'umore: se stare su “X” o Facebook ci crea ansia e depressione, anche questo disagio ha un suo scopo. E non lo decidiamo. Noi, ingenuamente, continuiamo regalare anima e mente a coloro che vogliono creare persone modellate su un sistema che mira al profitto: potete pensare, se volete, ai bozzoli di “Matrix”, creati per dare linfa vitale al mondo che tutti credono reale. Invece è fittizio, come lo è la notorietà che ognuno di noi pensa o vuole avere. Quasi a tutti costi.

Quindi un mezzo che ingabbia, quasi senza via d'uscita. E tutti, tutti sanno che la porta che conduce al vero cambiamento non è quella di un PC, ma della vita: occorre definirla “reale”? A quanto pare sì. Ed è quella in cui le idee, i confronti, gli scontri, le chiacchiere, lo stato umorale di altri e tutto ciò che ogni giorno incessantemente vogliamo far sapere (ed è un bene, spesso, sia chiaro) devono tradursi in atti, in fatti. Azioni che migliorino noi stessi e la società, prima che tutto si confonda irrimediabilmente. Là fuori.

Piccola nota personale. Centocinquanta post, se non si scrive per mestiere, possono essere tanti. In effetti l'impegno è discontinuo, ma anche bello. Proprio perchè non obbligato. Grazie soprattutto alla mia amatissima moglie Alessandra, per la pazienza e per avermi fatto capire, a forza di dai, la profonda vacuità di tutto questo, che era e resta un esercizio personale per non addormentarsi.

Le foto sono di Lasse Hoile.

#Rete #Opinioni #Post #Blog

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(149)

(Acerbi)

A me appare stranissimo che nel 2024 si parli ancora di calcio. Figuriamoci di #razzismo. Si sa, però, che toccare il fondo non ha mai fermato moltissime persone. Non sapevo chi fosse #Acerbi e ben che meno mi importa. In questi giorni, nonostante tutto, questa paradossale e -diciamolo- noiosa vicenda ha accalappiato il mainstream e, perciò, tutti quanti, che siamo colpevoli di mancanza di umiltà.

Ci sono, evidentemente, persone che credono di non fare parte del mondo: in qualche maniera, nota solo a loro, credono di vivere in bolle impermeabili a qualsiasi spiffero che provenga da quel pianeta scassapalle che sta all'esterno. Lo steso che cerca, non riuscendoci mai appieno, a progredire. Meglio, quel sasso volante che collasserà per la stupidità di chi lo abita, compresi questi che si sentono esenti da qualsiasi obbligo, morale e mentale.

Buttiamo da un'altra parte la cultura, è troppo svilente chiamarla in causa. E' evidentemente un guaio che deriva dal non capire che stare fermi è morire. Acerbi è uno che va aiutato a afferrare una complessità fastidiosa: quella del mutare dei tempi, della società, del linguaggio, del (sic) pensiero. Con lui i milioni che hanno lo stesso comportamento. Frega assai di dieci, trenta, cinquanta giornate di squalifica.

(Razzismo)

Il cervello si può educare, una questione di volontà. Come quella di andare oltre agli stereotipi, che sono più facili e che non impegnano nessun organo vitale. Se uno non vuole crescere, non lo farà. Può avere miliardi in quella cazzo di cassaforte, ma resta un poveretto. Anzi, un miserabile. Qui non siamo né giudici né carnefici: qui stiamo alla umana conoscenza.

Pertanto, se non vogliamo più perdere tempo con queste banali questioni, che ci sono guerre, fame, carestie ed altre quisquilie più urgenti, bisogna incominciare ad essere duri. Con se stessi e con chi si comporta -e non ragiona- da pesce. Ché anche il mare può essere affollato ed è fastidioso, fastidioso, fastidioso. (D.)

#Italia #Opinioni #World #Society

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(148)

(FA)

Diritto. Non obbligo. Su questa cosa molte brave persone ci marciano, in Italia. Dalla Francia siamo abituati a prendere poco, con quel revanscismo di vecchia memoria, un pochino liso e folcloristico. Ciò che è stato deciso, ovvero l'inserimento nella #Costituzione del diritto delle donne ad abortire, non dovrebbe nemmeno stupire, come fa, invece.

Anche i paragoni stonano e continuare a proporne non sposta l'obiettivo, che è uno solo. Quello di una carta costituzionale che si può aggiornare sui diritti e sulla laicità dello Stato. Quindi, non per meri scopi elettorali o di favore politico a qualcheduno (qui, sì, sentiamoci parte in causa), ma per aderire ad un mondo che si evolve e con lui le persone che lo popolano.

Chi ha il dovere di opporsi, lo farà. A certi livelli le implicazioni filosofiche e morali si spargono come coriandoli e, spesso, non si spazza per raccoglierli e gettarli. D'altro canto, se voglio cambiare le gomme dell'auto non vado dal pizzicagnolo. In molti casi la convinzione cieca (sorda, muta) è l'appiglio di coloro che hanno paura.

(FA)

Guardare bene, in fondo, presuppone un certo impegno, che verso le donne si stenta ancora moltissimo ad avere. Questa mossa dovrebbe perlomeno far riflettere, tornando al nostro orto. Un paese immobile, che preferisce voltarsi indietro e sospirare per la perduta grandezza, è sconfitto. Non lo dico io, che non conto un'ostia, ma la storia.

E' anche più comodo, certo. La maggioranza delle persone, a queste cose, evita di pensare, credendo che siano secondarie. Guerre, genocidi, fame, bollette, la “Serie A” sono argomenti così densi che quello del diritto delle donne a decidere del proprio corpo, della propria gravidanza è cosa secondaria, da demandare a qualche trafiletto di sinistra, ca va sans dire.

La crescita di una nazione è un coacervo praticamente inestricabile di azioni, di scelte: come nella vita di ogni singola persona. Ma se si vuole il bene della comunità, diventa tutto più chiaro: prima io e le mie convinzioni, poi gli altri. Anche per questo stiamo ancora qui a combattere con il patriarcato e l'ignoranza, con la violenza psicologica, con l'indottrinamento oscurantista di certe figure meschine. Io sarei stufo. Tanto. Mi piacerebbe che ci fossero politici con gli attributi per farmi respirare. Anzi per *farci respirare. Tuttə. (D.)

#Francia #Aborto #Costituzione #Opinioni

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(147)

(Fine corsa)

Me lo ricordo bene quel periodo in cui già iniziavi a pensare che #Twitter e #Facebook fossero un po' uno schifo, ma la gente ti rispondeva che stavano tutti lì. Quindi. E basta. Quindi. Poi la cosa si è trascinata, come una rete bucata dal granchio blu: inutile, fa scappare qualsiasi cosa che, poi, viene mangiata dal predatore. Quindi -appunto- è passato tutto in cavalleria, per usare un'espressione dei miei tempi.

C'è la pancia. Quella che ti fa scrivere cento post al giorno perchè i tuoi neuroni si nutrono di apprezzamenti. La via più semplice è scrivere contro il Governo (che se lo merita), a favore delle popolazioni mondiali massacrate da chiunque, dei #Vip che mangiano i tuoi like a colazione e li sputano pure. Sei contento così, tra i cento e i mille cuoricini.

C'è l'incazzatura e quella, i neuroni, li fa morire. Però è liberatoria, fa fare carriera tra i compulsivi dei like, fa avanzare in graduatoria tra quelli che le medaglie le hanno perchè le regole inconsistenti, ridicole ed offensive dei #SocialMedia li bloccano. Così poi tornano ancora più livorosi, ma si sentono un Achille sulla spiaggia di Troia.

(FC2)

C'è la testa, che si cerca di usare, magari associandola ad un italiano corretto (in linea di massima), la cosiddetta profondità che bisogna far stare in pochi caratteri, però. Non ci si può permettere, a nessun stadio, di annoiare alcuno. La soglia di attenzione è quella di un sasso di fiume, ma lanciato a caso da un ponte. Fa un bel rumore, quando atterra.

C'è chi è bravo, e c'è sempre stato. C'è chi ci prova e farebbe meglio a coltivare zucchine. C'è chi non c'è ed è pure meglio, che a fare massa sono miliardi (il guaio è che le tastiere, a forza di “dai”, le conosciamo bene) e miliardi di troppo. E' la rete, bruttezza. Fare il giro e ritrovarsi con una mano davanti e l'altra dietro è costante.

Tutto questo a dire che la via d'uscita è indicata a colori variabili, ma tanti sono daltonici. Il libero arbitrio esiste, ma ci muoviamo a scatti come la Bella di “Poor Things”, circondati da creature fantasiose, perlopiù con la testa di cazzo e le mani libere -purtroppo-. Adattarsi o crepare, ma sarebbe troppo tranchant: meglio illudersi che la prossima fermata è un pollice in più. Dove volete voi.

Il fine corsa non c'è mai. Tanto ci siamo venduti anni fa, quando ci sentivamo rispondere “Quindi? Ci sono tutti.” come se fosse merito, come se dire al mondo “Eccomi” non avesse monetizzato ogni singola parola, ache e soprattutto quelle che non sappiamo. Molto semplice. (D.)

#SocialMedia #Internet #Opinioni #Blog

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(146)

“Anatomie d'une chute”, Francia, 2023.

(ADC)

Un premio come l’#Oscar ti apre moltissime strade. Piaccia o meno, è così. Per i film non americani vale di più. Anche questo è un argomento relativo. Personalmente, una delle difficoltà più evidenti e non poter vedere tutti i film inseriti nella competizione: intendo tutti, che sarebbe perfetto. I motivi li potete immaginare.

La passione arriva fino ad un certo punto e quel limite è, spesso, imposto. La cosa importante è, comunque, continuare ad amare il cinema. Lo slancio, a volte, ti porta davvero a guardare pellicole di una qualità ormai rara. Prendete “Anatomia di una caduta”, candidato al suddetto premio.

Sono sempre più convinto che quando ti “innamori” di un lungometraggio non c’è un genere, una regia, una piccola sega mentale che tenga: ti piace e basta, tanto c’è sempre chi ne farà una recensione edotta, zeppa di riferimenti cinematografici strabilianti, con un sacco di vocaboli azzeccati. E, magari, bella fredda.

Qui, di freddo, c’è solo l’ambientazione. Il resto è costruito su una narrazione a più livelli, di certo usata in migliaia di altre situazioni: eppure la capacità di scrittura di Arthur Harari e Justine Triet (anche regista) fa quello che a sempre meno sceneggiatori riesce. Scrivere bene. Scrivere un bel film, complesso, emozionale, profondo.

Il resto, magari con fortuna, è fatto dagli attori, dalle scelte di inquadratura, dalla -pochissima -ottima scelta- musica. E’ costruito dai dialoghi (su tutti quello della lite precedente all’evento, in Inglese) e da come gli stessi riportino ad una quotidianità che diventa straniamento ed introspezione, violenza e perdono.

(ADUC2)

Il diavolo sta nei dettagli e “Anatomia di una caduta” ne è colmo: dalle espressioni del viso di ogni personaggio, all’uso di più lingue -straniante ed efficace-, alle aule di un tribunale riprese quasi sempre con “non luogo”, più un confessionale che imparziali spazi dove si dovrebbe amministrare la giustizia.

E’ un film lungo, come amo io lento, ponderato. Fateci caso: nella vita ci sono accelerazioni e quiete, momenti di improvvisa passione e lunghe distrazioni. Ci sono coloro che non sappiamo collocare e coloro che, più da vicino, non riusciamo lo stesso a comprendere appieno. Buio e luce. Più il buio, forse.

Lo dico con grande serenità. Se “Anatomia di una caduta”, in una improbabile corsa a due con “Io capitano”, vincesse ne sarei lieto. E’ un’opera più completa, compatta, più convincente e tutto questo sapendo che il film italiano ha moltissimi meriti. Questo non è dettato solo dal fatto che mi sono emozionato maggiormente con questa pellicola, ma esclusivamente di validità artistica.

Per fortuna, la mia è solo una delle infinite opinioni. Conta come tale. Sarebbe un piccolo peccato, però, non prestare a attenzione al vincitore della “Palma d’oro”. Non per il fatto in sé, che è ampiamente secondario, ma per dire di aver visto un ottimo film, sotto tutti moltissimi punti di vista. Come amo ripetere -sic-, mica poco, nel 2024. (D.)

#CBS #Film #Opinioni #Blog

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(145)

(Rafah)

Sfiancante. Questo è il termine. Credo che i quattro lettori di questo #Blog abbiano provato, io spesso, cosa significhi, nei fatti, questi parola. Sarà più probabile per chi ha collaboratori o responsabili inetti e menefreghisti. O quando, anche solo camminando, si nota la mancanza di educazione civica ormai dilagante. Alla fine, si cede per sfinimento.

E' quello che si prova dinnanzi a ciò che i più definiscono “rischio”, parlando del genocidio che #Israele perpetra, da qualche mese (nella realtà fattuale, da decenni), nei confronti del Popolo Israeliano a #Gaza. Tra poche ore, assai probabilmente, a #Rafah. Gran Bretagna, Francia, Cina e tanti altri stanno tentando di fermare, a parole, questo disastro che è già epocale.

L'inutilità di questi atti, più programmatici che altro, la leggiamo e la sentiamo quotidianamente ed è, appunto, sfiancante. Molto peggio è l'assoluta baldanza, il totale menefreghismo, la protervia Israeliana nel perseguire i propri scopi, che sono quelli di una pulizia etnica (va detto, va scritto). Le parole pesano, ma non come le bombe, come i morti.

(Rafah2)

Fregarsene di tutto e di tutti, ben sapendo che armi e sostegno morale arrivano in ogni caso, è la vera forza di uno come #Netanyahu: non fa più nemmeno “finta” di ascoltare. Anche tramite i Ministri del suo Governo, guerrafondai e profondamente inumani, perpetra una sorta di guerra psicologica che hanno già vinto i suoi predecessori.

Inermi, quasi volutamente, stiamo qui, a indignarci e a scagliare offese contro chi, bellamente, ha “colto al balzo” gli atti terroristici di #Hamas (che, qui, nessuno difende) per finire il lavoro. Tutto questo è sterile. La stessa volontà che si sta mettendo a difesa degli interessi economici nel #MarRosso, con armi e proclami, per #Rafah non è presa nemmeno lontanamente in considerazione.

Troppo rischioso, ed è vero. Con l'#Egitto difeso solo da una rete arrugginita, nessuno vuole fare un passo. Eppure la litania dei morti, che hanno un peso diverso a seconda di chi ne parla, ammonisce. Più questo, quasi nulla. Il vortice di una umanità selettiva grava su tutto il globo. Lezione inascoltata, destinata a finire sotto le macerie di #Rafah. Un luogo che ha tutti i nomi che volete.

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(144)

(CDR)

Si deve stare attenti a non offendere nessuno. In teoria. Il paragone con alcune razze canine è corretto: esistono “cani da riporto”, soprattutto in quella pratica ormai inutile e barbara che è la caccia si trovano animali di questo genere. Posso definirmi persona piuttosto cattivella anzichè no ed osservo. Osservo molto. Lo faccio perchè, in teoria, si deve tendere a non replicare i comportamenti che riteniamo sbagliati, tossici. Nel mondo del lavoro oserei dire che questa pratica sarebbe obbligatoria, ma chi non ha peccato etc. etc.

Vedo queste persone che riportano la carcassa della loro dignità al “padrone”. Solerti, affannate, preoccupate di stare dalla parte giusta, che è quella del servo acculturato (be', più o meno.) Pronte in ogni occasione a far sapere che chi comanda -sic- è nel giusto, che ha brillanti idee, che sa come fare. Come fare tutto: nessun aspetto lavorativo o dello scibile umano è a loro precluso. Quindi, se mi faccio vedere così vicino, moralmente e fisicamente, un premio è certo.

Che sia un caffettino, una promozione, un discorsetto personale poco cambia. La mia autostima cresce, cresce, cresce. Chi non si adegua a questo “pensiero” non ha capito come va il mondo. La ciotola piena, un regaletto qui ed un là e la vita sembra meno buia e grigia. Non ci si ricorda dello stipendio inadeguato, degli straordinari letteralmente regalati, dei colleghi infastiditi dalla propria inadeguatezza e mancanza di professionalità. Tutto splende nella corsa verso la pietosa, amichevole mano che ci getta un avanzo.

E la cosa più triste è che ci si illude di essere al pari di coloro che ci sfruttano, che di certo non pagano le nostre bollette o ci fanno la spesa. Come obbedienti cagnolini, con un guinzaglio lunghissimo, e che senz'altro si sentono superiori in tutto. E' molto triste, nel 2024, comprendere come l'evoluzione di alcune persone stia retrocedendo, invece di procedere. Ce ne sono ovunque, intorno a noi. Fateci caso e cercate sempre di fare il contrario.

Opinioni #Personal #Lavoro

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(143)

(ZC)

Alla fine della lettura dell'ottima grapich novel (si dice così?) “In fondo al pozzo” di #Zerocalcare sul numero 1545 di #Internazionale (qui), si parla di responsabilità. A me ha colpito, come dovrebbe, ma ha anche fatto seguire un po' di timore. In fondo c'è sempre stato, diciamo dal 2005, quando è nato questo #Blog. Parlando di #IlariaSalis e della sua vicenda (ma anche di altre, altrettanto e anche più gravi), l'autore romano crea un piccolo corto circuito doveroso.

A dire che la paura di assumersi una responsabilità diretta, in qualunque maniera noi agiamo (quindi sì, anche scrivendo un post), soprattutto sui #socialmedia, non è cosa di poco conto. Non so se ci riflettiamo abbastanza, prima di accendere il PC, di mandare una foto al mondo, di maledire politicanti e cialtroni vari. Io no, di certo. Non mi giustifica una impulsività di fondo ben radicata nel mio (pessimo) carattere. Eppure non serve avere un cervello da 242 di q.i. per comprendere che è questo, il punto essenziale.

Chi, come Ilaria Salis, ci mette la faccia e tutto il resto, può sbagliare, può andare oltre quello che le convenzioni chiamano “buon comportamento”. Intanto, per farla corta, queste persone rischiano molto e subiscono anche di più. Da una tastiera, ammettendo che la Polizia Postale si dedichi ai delinquenti veri, la probabilità di rimetterci i denti o la mandibola è milioni di volte inferiore. Zerocalcare lo spiega bene e non serve arrivare a tanto.

Fermarsi o riflettere? Le due cose non si elidono, seppur nell'era della velocità mediatica e della ricerca ossessiva della notorietà, anche se non si vuole rischiare di prenderle veramente. A me torna piuttosto arduo fare il secondo step, come detto. Quindi, sbaglio. E aggiungo, senza sentirmi retorico, che solo nella realtà si realizza la vera responsabilità, qualsiasi cosa riguardi. Praticamente le obiezioni stanno a zero (calcare.)

Tuttavia, ed è sempre l'esperienza personale di cui scrivevo ieri, sembra così semplice e giusto, tanto giusto. Adamantino. Ma i diamanti non fanno nascere nulla (lo cito apposta): è sporcandosi che si possono creare le cose, la giustizia, la lotta per chi non può difendersi, la ricerca di un mondo un po' meno schifoso. Il mezzo, a questo punto, conta pochissimo. Se ci pensiamo più di tre secondi dovremmo tacere e fare sì con la testa. Punto. Due punti e a capo.

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(142)

(Merito)

Partendo dalla nuova denominazione del “Ministero dell'istruzione”, passando attraverso cosette abbastanza scialbe come il “Liceo del Made In Italy” (in Inglese, ché l'italiano è secondario, a scuola), il #GovernoMeloni spinge come un ossesso sul “merito.” Ora, dato che l'esperienza personale sbandierata va di moda sulla rete, butto qui la mia. Spero sia condivisa o condivisibile.

Avendo a che fare per la natura del mio lavoro, ogni giorno, con molta gente (tra cui ingegneri, tecnici specializzati, fornitori di servizi etc. etc.), lo affermo con una certa sicurezza: in Italia il merito esiste solo come idea, peraltro molto astratta. Direte che non è un'affermazione nuova, nemmeno originale. Vero. Molto, molto vero.

Eppure a me risulta ancora come un boccone amaro da mandare giù. Dalla scuola (forse fin dalla famiglia), al lavoro, alla quotidianità più spicciola, vi sfido a trovare tale qualità in più di una persona all'anno. O al decennio? Tralasciamo il discorso politico, quanto mai difficoltoso sull'argomento.

Restiamo alla giornata lavorativa. Davvero non mi capita quasi mai e, quando accade, è per persone che sono relegate ad avere molto meno spazio di quello che meriterebbero. La norma è l'arroganza di un titolo di studio da mettere sulle mail, del servilismo per fare carriera, di una malsana idea del lavoro sempre inteso come di una utilità che può essere paragonata solo a quella di un tecnico della sicurezza nucleare. Poi, in realtà, molti sembrano pesci dentro ad un acquario piuttosto sporco.

E' così che siamo fatti, in questo paese. Probabilmente anche nel resto del mondo, ma meglio guardare alla propria, di aia. Un eterno vivere sopra le righe, con un'aria di sufficienza verso chiunque, ma proprio tutti. Il cipiglio di generazioni intere votate al “Non sai chi sono io” (il “tu” è obbligatorio, devi fare sentire gli altri inferiori), che è il vero insegnamento multimediale, trasversale, politicamente corretto e comprensibile in venti dialetti.

Un caravanserraglio di protervia ed egoismo (*) che fa marciare il carrozzone sbullonato dell'Italia “che fa”, contrapposta a quella che non muove un dito, ma che comunque serve per il voto. Quindi non si deve dire nulla. Bisogna annuire sorridenti e compiaciuti di fronte a chi ne sa sempre una più di te, su qualsiasi argomento. E, chiaramente, che conosce tutte le aziende, i lavori, i responsabili, i Conti, i visconti e qualche Re d'avanzo.

Sguazzare in tutto ciò va di lusso per un Governo come quello attuale, che percepisce netto il valore dell'ideologia (le altre sono tutte sbagliate) e della retorica. Trova terreno fertilissimo in milioni di itaglioni che non aspettavano che vedere sdoganate le proprie pessime “qualità.” Più che di merito bisognerebbe scrivere di superficialità trasmissibile, in tutte le maniere. Ma sia “Made in Italy”, che sennò ci sentiamo offesi.

(*): l'egoismo non è, per forza, insalubre. Serve per andare avanti, per proteggersi dalla mediocrità. Sia detto a fin di bene.

#Opinioni #Italia #IlBelpaese

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