📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

1Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. 2Ecco, io, Paolo, vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. 3E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la Legge. 4Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella Legge; siete decaduti dalla grazia. 5Quanto a noi, per lo Spirito, in forza della fede, attendiamo fermamente la giustizia sperata. 6Perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità. 7Correvate così bene! Chi vi ha tagliato la strada, voi che non obbedite più alla verità? 8Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! 9Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. 10Io sono fiducioso per voi, nel Signore, che non penserete diversamente; ma chi vi turba subirà la condanna, chiunque egli sia. 11Quanto a me, fratelli, se predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? Infatti, sarebbe annullato lo scandalo della croce. 12Farebbero meglio a farsi mutilare quelli che vi gettano nello scompiglio! 13Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. 14Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso. 15Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! 16Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. 17La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. 19Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, 20idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. 22Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23contro queste cose non c’è Legge. 24Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito. 26Non cerchiamo la vanagloria, provocandoci e invidiandoci gli uni gli altri.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

1Dico ancora: per tutto il tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno schiavo, benché sia padrone di tutto, ma 2dipende da tutori e amministratori fino al termine prestabilito dal padre. 3Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo. 4Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, 5per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli. 6E che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: «Abbà! Padre!». 7Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio. 8Ma un tempo, per la vostra ignoranza di Dio, voi eravate sottomessi a divinità che in realtà non lo sono. 9Ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? 10Voi infatti osservate scrupolosamente giorni, mesi, stagioni e anni! 11Temo per voi di essermi affaticato invano a vostro riguardo. 12Siate come me – ve ne prego, fratelli –, poiché anch’io sono stato come voi. Non mi avete offeso in nulla. 13Sapete che durante una malattia del corpo vi annunciai il Vangelo la prima volta; 14quella che, nella mia carne, era per voi una prova, non l’avete disprezzata né respinta, ma mi avete accolto come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. 15Dove sono dunque le vostre manifestazioni di gioia? Vi do testimonianza che, se fosse stato possibile, vi sareste cavati anche gli occhi per darli a me. 16Sono dunque diventato vostro nemico dicendovi la verità? 17Costoro sono premurosi verso di voi, ma non onestamente; vogliono invece tagliarvi fuori, perché vi interessiate di loro. 18È bello invece essere circondati di premure nel bene sempre, e non solo quando io mi trovo presso di voi, 19figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi! 20Vorrei essere vicino a voi in questo momento e cambiare il tono della mia voce, perché sono perplesso a vostro riguardo. 21Ditemi, voi che volete essere sotto la Legge: non sentite che cosa dice la Legge? 22Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. 23Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. 24Ora, queste cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar 25– il Sinai è un monte dell’Arabia –; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava insieme ai suoi figli. 26Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi. 27Sta scritto infatti: Rallégrati, sterile, tu che non partorisci, grida di gioia, tu che non conosci i dolori del parto, perché molti sono i figli dell’abbandonata, più di quelli della donna che ha marito. 28E voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. 29Ma come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava quello nato secondo lo spirito, così accade anche ora. 30Però, che cosa dice la Scrittura? Manda via la schiava e suo figlio, perché il figlio della schiava non avrà eredità col figlio della donna libera. 31Così, fratelli, noi non siamo figli di una schiava, ma della donna libera.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Polemica con i Galati 1O stolti Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso! 2Questo solo vorrei sapere da voi: è per le opere della Legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver ascoltato la parola della fede? 3Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne? 4Avete tanto sofferto invano? Se almeno fosse invano! 5Colui dunque che vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della Legge o perché avete ascoltato la parola della fede?

I credenti sono figli di Abramo – seconda tesi 6Come Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia, 7riconoscete dunque che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede.

La benedizione divina è veicolata dalla fede 8E la Scrittura, prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede, preannunciò ad Abramo: In te saranno benedette tutte le nazioni. 9Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono benedetti insieme ad Abramo, che credette. 10Quelli invece che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione, poiché sta scritto: Maledetto chiunque non rimane fedele a tutte le cose scritte nel libro della Legge per metterle in pratica. 11E che nessuno sia giustificato davanti a Dio per la Legge risulta dal fatto che il giusto per fede vivrà. 12Ma la Legge non si basa sulla fede; al contrario dice: Chi metterà in pratica queste cose, vivrà grazie ad esse. 13Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno, 14perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito.

Legge e promessa 15Fratelli, ecco, vi parlo da uomo: un testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. 16Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: «E ai discendenti», come se si trattasse di molti, ma: E alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. 17Ora io dico: un testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo nullo una Legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando così la promessa. 18Se infatti l’eredità si ottenesse in base alla Legge, non sarebbe più in base alla promessa; Dio invece ha fatto grazia ad Abramo mediante la promessa. 19Perché allora la Legge? Essa fu aggiunta a motivo delle trasgressioni, fino alla venuta della discendenza per la quale era stata fatta la promessa, e fu promulgata per mezzo di angeli attraverso un mediatore. 20Ma non si dà mediatore per una sola persona: ora, Dio è uno solo. 21La Legge è dunque contro le promesse di Dio? Impossibile! Se infatti fosse stata data una Legge capace di dare la vita, la giustizia verrebbe davvero dalla Legge; 22la Scrittura invece ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, perché la promessa venisse data ai credenti mediante la fede in Gesù Cristo.

Lo statuto garantito dalla fede 23Ma prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva essere rivelata. 24Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. 25Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo. 26Tutti voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, 27poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. 28Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. 29Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI GALATI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Stefano Romanello © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)


🔝C A L E N D A R I OHomepage

La seconda visita a Gerusalemme 1Quattordici anni dopo, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito: 2vi andai però in seguito a una rivelazione. Esposi loro il Vangelo che io annuncio tra le genti, ma lo esposi privatamente alle persone più autorevoli, per non correre o aver corso invano.

La non circoncisione di Tito 3Ora neppure Tito, che era con me, benché fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere; 4e questo contro i falsi fratelli intrusi, i quali si erano infiltrati a spiare la nostra libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi; 5ma a loro non cedemmo, non sottomettendoci neppure per un istante, perché la verità del Vangelo continuasse a rimanere salda tra voi.

Comunione tra le autorità di Gerusalemme e Paolo sul suo Vangelo 6Da parte dunque delle persone più autorevoli – quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non guarda in faccia ad alcuno – quelle persone autorevoli a me non imposero nulla. 7Anzi, visto che a me era stato affidato il Vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi – 8poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per le genti – 9e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi. 10Ci pregarono soltanto di ricordarci dei poveri, ed è quello che mi sono preoccupato di fare.

Un forte contrasto ad Antiochia 11Ma quando Cefa venne ad Antiòchia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma, dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, tanto che pure Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ma quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?».

Vangelo, giustificazione e Legge 15Noi, che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, 16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato per le opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Cristo Gesù per essere giustificati per la fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge non verrà mai giustificato nessuno. 17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, Cristo è forse ministro del peccato? Impossibile! 18Infatti se torno a costruire quello che ho distrutto, mi denuncio come trasgressore. 19In realtà mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, 20e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me. 21Dunque non rendo vana la grazia di Dio; infatti, se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI GALATI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Stefano Romanello © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

La seconda visita a Gerusalemme Una seconda permanenza di Paolo a Gerusalemme avviene «dopo quattordici anni». Egli spiega così i motivi del viaggio: «presentai loro il Vangelo che annuncio tra le genti». Si noti il gioco di verbi: «presentai» (al passato) il Vangelo che «annuncio» (al presente)! Paolo non ha cambiato modo di annunciare il Vangelo, anche al presente lo annuncia con quelle stesse modalità su cui si è discusso a Gerusalemme, e il risultato di quella discussione interessa anche la Chiesa galata, evangelizzata da Paolo. Gal 2, 1-10 sembra la versione paolina di At 15,1-29, l'importante assise tenuta a Gerusalemme con Paolo e Barnaba, delegati della Chiesa di Antiochia, vertente proprio sulla questione della circoncisione per i pagani che aderivano al Vangelo: per Paolo si tratta di un incontro privato con le sole persone ragguardevoli della comunità. I due testi riferiscono lo stesso episodio da due prospettive diverse. La «rivelazione» che induce Paolo ad andare a Gerusalemme rimarca nuovamente la sua autorità di ricettore della volontà divina ed evidenzia come nessun soggetto ecclesiale gli abbia imposto la visita. In tal caso, infatti, la sua autorità sarebbe risultata irrimediabilmente subordinata. Pertanto è ovvio che egli non si sia recato nella città santa per ricevere una conferma della propria legittimità apostolica che, come appena chiarito, gli deriva da Dio stesso per la rivelazione del Figlio. Al contempo l'esposizione alle autorità gerosolimitane del proprio Vangelo implica una verifica dello stesso e una ricerca di comunione con queste. Le nuove comunità, in prevalenza composte di pagano-cristiani, non possono, per l'apostolo, considerarsi indipendenti dalla Chiesa madre giudeo-cristiana, e che una comunione tra le due dimensioni sia da ricercarsi assolutamente!

La non circoncisione di Tito Tito è un pagano-cristiano, al quale né Paolo e Barnaba prima, né la Chiesa di Gerusalemme, a seguito dell'incontro, hanno imposto la circoncisione. Questa verrebbe invece richiesta da «intrusi falsi fratelli»; dove? È difficile pensare a una loro intrusione a Gerusalemme, per cui si deve supporre una loro venuta ad Antiochia in conformità a quanto detto da At 15,1-2. È proprio l'acceso dibattito suscitato dalla richiesta della circoncisione in tale comunità da parte di persone esterne in essa sopraggiunte, infatti, a causare l'assemblea di Gerusalemme, ed è allora ad Antiochia che Paolo e Barnaba, ancora in atteggiamento congiunto, si oppongono fermamente alla pretesa della circoncisione. Siffatta opposizione non è motivata per ragioni di opportunità tattica, bensì perché in gioco vi è un qualcosa di sostanziale, la «verità» del Vangelo. Inoltre i Galati possono abbastanza esplicitamente rileggere la loro vicenda in quella qui riportata: se Tito non fu costretto a circoncidersi, nemmeno essi, pure pagano-cristiani, lo devono fare. Inoltre quelli che lo pretenderebbero da loro, annunciando un preteso Vangelo diverso (1,6-7), sono in realtà falsi fratelli.

Comunione tra le autorità di Gerusalemme e Paolo sul suo Vangelo Il v. 6 ritorna al confronto con i personaggi ragguardevoli della Chiesa gerosolimitana introdotto al v. 2, chiarendo il punto decisivo: essi non avanzarono richieste ulteriori all'annuncio paolino, ossia non pretesero la circoncisione dei pagani giunti alla fede in Cristo. L'unica richiesta formulata a Paolo non riguarda in alcun modo queste questioni fondamentali, ma lasolidarietà verso i credenti poveri di Gerusalemme, comunità che doveva avere maggiori ristrettezze rispetto a quelle della missione paolina. L'impegno paolino a questo proposito è comprovato dalla collett ache le sue comunità, dietro suo invito, hanno organizzato a tale fine (cfr. 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Rm 15,25-27).

Un forte contrasto ad Antiochia La comunione sancita a Gerusalemme si infrange ad Antiochia, ove Paolo prende posizione pubblica contro Pietro. Altri personaggi qui menzionati servono solo a circostanziare l'episodio, che iniziando con la menzione di Pietro e terminando con le parole a lui rivolte da Paolo, s'impernia sui due apostoli. Antefatto di tutto ciò è la commensalità tra pagani ed ebrei ad Antiochia, adottata in un primo momento dallo stesso Pietro. Paolo ci assicura che ad Antiochia Pietro mangiava abitualmente con i non ebrei, ma cambia repentinamente atteggiamento al sopraggiungere di giudeo-cristiani da Gerusalemme, tanto da indurre altri giudeo-cristiani di Antiochia, tra cui lo stesso Barnaba, a seguire la sua nuova scelta. Ciò è decisamente contestato da Paolo. La questione non è quella discussa a Gerusalemme: non si tratta di eventuale circoncisione di pagani, ma delle leggi di purità alimentare per ebrei. Secondariamente, coloro che sono sopraggiunti ad Antiochia non sono «inviati da Giacomo» (per controllare Paolo o quant'altro), ma sono «dalla parte di Giacomo», ossia giudeo-cristiani di Gerusalemme. Risulta che, per tale gruppo, l'accordo sulla non circoncisione dei pagano-cristiani non implicava conseguenze sulla prassi alimentare degli ebrei. È verosimile ipotizzare che a Gerusalemme, nell'assise narrata sopra, la questione alimentare non si fosse posta, avendo tutti i convenuti seguito la prassi di tale comunità. Nella comunità mista di Antiochia, invece, tale prassi non era seguita, di modo che l'arrivo di un gruppo legato all'osservanza delle norme di purità alimentare, che ha contagiato con tale scelta gli altri giudeo-cristiani, ha avuto un effetto dirompente, causando l'esclusione dei pagano-cristiani dalla comunione di mensa con gli altri. Ricordiamo anche che, parlando di mensa, dobbiamo probabilmente includervi la Cena del Signore, cosicché le divisioni che erano in tal modo provocate andavano al cuore di quello che dovrebbe essere il momento manifesto dell'unione comunitaria. E allora si comprende come la posta in gioco sia qui la stessa del dibattito a Gerusalemme. pur nella diversità della questione. Si tratta, cioè, di stabilire la portata fondante dell'evento-Cristo, che permette a chi crede in lui, a qualsiasi etnia appartenga, la vita di fede e di relazione con chi condivide la stessa fede senza discriminazioni di sorta. Nell'episodio di Antiochia Pietro non ha coraggio nel sostenere questa posizione e ciò comporta una relativizzazione di Cristo rispetto alle esigenze della Legge. Il suo atteggiamento è dettato da timore, e conduce altri alla «simulazione», rinnegando le convinzioni maturate sul rilievo dell'evento-Cristo che avevano già portato a ritenere del tutto legittima la commensalità con i pagani, giungendo in tal modo a compromettere la «verità del Vangelo» (cfr. 2,5). Questa va intesa in senso operativo, ossia in una prassi conformata alle esigenze dello stesso. Paolo rivendica per sé tale prassi, dimostrando ancora la sua relazione con il Vangelo, non determinata da criteri di convenienza umana (1,11).

Vangelo, giustificazione e Legge Paolo giunge qui a un'argomentazione concettualmente densa, il cui tenore la distacca da quella precedente, narrativa, e dall'esortazione successiva. Paolo, Pietro e gli altri Giudei che sono giunti a credere in Cristo, hanno operato una ridefinizione radicale delle loro convinzioni previe. Questo atto di fede, infatti, comporta la convinzione che la giustificazione non venga dalla Legge e dalle sue opere, ma dalla fede in Cristo, realtà che nel v. 16 sono continuamente poste in antitesi. Di conseguenza essi, i giudeo-cristiani, sono giunti anche alla convinzione che la distinzione tra ebrei e pagani peccatori non ha motivo di sussistere. Il verbo «giustificare» ha alla radice il concetto di «giustizia», che è, nell'accezione ebraica ma non solo, sicuramente relazionale. «Essere giusto con» un soggetto, infatti, significa che sono in relazione con lui, e che tale relazione comporta diritti e obbligazioni reciproci che il giusto osserva. Qui Paolo traspone la categoria della giustizia nella nostra relazione con Dio e, in maniera sorprendente, assicura che è Dio a introdurci in una giusta relazione con lui, e lo fa (il verbo ricorre qui sempre al passivo divino!) in maniera assolutamente gratuita, senza che ci venga richiesta alcuna condizione previa. È una convinzione che Paolo condivide con i giudeo-cristiani, e deriva dalla comprensione dell'agire di Dio in Cristo. Questi, infatti «ha dato se stesso per i nostri peccati, per sottrarci dal presente secolo malvagio secondo la volontà di Dio e Padre nostro» (1.4), e così facendo rende a noi possibile la nostra relazione con Dio. Ne consegue che questa relazione non può instaurarsi per le «opere della Legge». Tale dinamica ci è resa invece possibile affidandoci a quello che Dio ha operato in Cristo, ossia dalla «fede in Cristo». Qui il termine «fede» è ambivalente: oltre alla nostra fede riposta in Cristo, potrebbe indicare pure la «fedeltà», «l'affidabilità» o persino «l'affidamento» al Padre dimostrato da Cristo nella sua vita obbediente sino alla morte. Inoltre, avendo già chiarito che l'opera della giustificazione parte da un agire incondizionato di Dio, sembra logico attendersi l'enunciazione del corrispettivo umano che permette di accogliere tale agire, e questa è la fede, ossia l'affidarsi ad esso. Infine in 3.2.5 «le opere della Legge» sono poste in antitesi con «l'ascolto della fede», locuzione che, nuovamente, ha come soggetto indiscusso i credenti. Tutto questo rappresentava una convinzione condivisa dei giudeo-cristiani. Ma Paolo, ai vv. 17-18, trae da essa delle conseguenze che non dovevano essere colte come tali da Kefa ad Antiochia, né dai cristiani della Galazia.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Prescritto 1Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, 2e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia: 3grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, 4che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, 5al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

Biasimo degli interlocutori 6Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. 7Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. 8Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema! 9L’abbiamo già detto e ora lo ripeto: se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anàtema! 10Infatti, è forse il consenso degli uomini che cerco, oppure quello di Dio? O cerco di piacere agli uomini? Se cercassi ancora di piacere agli uomini, non sarei servitore di Cristo!

La natura del Vangelo di Paolo – prima tesi 11Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; 12infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

La rivelazione del Figlio di Dio 13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. 15Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque 16di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, 17senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.

L'indipendenza di Paolo dalla Chiesa di Gerusalemme 18In seguito, tre anni dopo, salii a Gerusalemme per andare a conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; 19degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. 20In ciò che vi scrivo – lo dico davanti a Dio – non mentisco. 21Poi andai nelle regioni della Siria e della Cilìcia. 22Ma non ero personalmente conosciuto dalle Chiese della Giudea che sono in Cristo; 23avevano soltanto sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, ora va annunciando la fede che un tempo voleva distruggere». 24E glorificavano Dio per causa mia.

Approfondimenti

(cf LETTERA AI GALATI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Stefano Romanello © EDIZIONI SAN PAOLO, 2014)

Prescritto Paolo scrive la lettera in quanto «apostolo»; quello dell'apostolo è un ministero specifico, propri odi chi ha fatto esperienza del Signore risorto (1Cor 9,1-2; 15,8-10), e perciò è abilitato a fondare comunità cristiane in cui ha una posizione di autorevolezza unica (1Cor 12,28). L'apostolo Paolo invoca il nome di «Dio Padre» e del «Signore Gesù Cristo» sui Galati, perché abbiano «grazia» e «pace». Il primo sostantivo da una parte riflette il verbo utilizzato nei saluti epistolari profani nel senso di «sta' bene», ma dall'altra assume il più pregnante senso di bene salvifico gratuitamente elargito da Dio mediante Cristo, che verrà invocato nuovamente nei saluti finali (6,18). Il secondo esprime lo shalom ebraico, ossia la pienezza della condizione salvifica propria dell'era messianica. Si coglie già, con la scelta di tali termini, la duplice radice culturale, greca-ellenista ed ebraica, di Paolo. Singolare è poi l'appendice dei vv. 4-5, che costituisce la prima delle originali riformulazioni paoline, presenti nella lettera, di un dato fondante della fede: la dimensione salvifica della morte di Cristo. Perché una tale appendice? Forse l'immediato porre all'attenzione dei lettori l'opera salvifica di Cristo fa sospettare che la sua valenza era da loro persa di vista. Il seguito della lettera permetterà di verificare quest'ipotesi.

Biasimo degli interlocutori Contrariamente alle altre lettere, Paolo non s'introduce nell'argomentazione con un rendimento di grazie, ma con un esplicito biasimo dei suoi interlocutori! Questo rivela la serietà della posta in gioco: l'adesione autentica, o la defezione, dei Galati al Vangelo. Infatti i termini «Vangelo» e «annunciare il Vangelo» ricorrono qui cinque volte, dando unità letteraria al brano. L'ultimo versetto, volgendo l'attenzione alla condotta di Paolo, funge da transizione alla successiva sezione autobiografica. I Galati sono stati oggetto di una chiamata salvifica da parte di Dio, e ciò è avvenuto proprio grazie all'annuncio evangelico offerto loro da Paolo. Ora, però, stanno passando a un qualcosa di diverso. La defezione è in atto e motiva l'intervento senza mezzi termini dell'apostolo, che così si prefigge di ripristinare il giusto stato delle cose. Tale incipiente defezione era causata da predicatori sopraggiunti nella comunità. Il contenuto della loro predicazione non è qui esplicitato, sia perché conosciuto dai Galati, sia perché l'apostolo intende così portare l'attenzione sull'autentica posta in gioco della questione. L'attenzione così rimarcata al «Vangelo» si capisce perché l'adesione allo stesso è garanzia e condizione della salvezza (1Cor 15,1-2: Rm 10,9), proprio perché esso è l'annuncio dell'opera liberante di Cristo (Gal 1,4). Ne consegue che chi lo stravolge si pone al di fuori dal regime di salvezza in esso veicolato, in una condizione di “anatema”. Alla lettera il termine greco significa «offerta votiva». Nella Settanta denota anche ciò che dev'essere votato allo sterminio dagli Israeliti, perché in qualche modo proprietà di Dio e non a loro disposizione (corrisponde al termine ebraico che si trova, per esempio, in Gs 6,16-17;7,1.11-13: 22,20); con tale accezione passa in Paolo. Con questo termine però lui (al pari degli altri autori del NT) non intende un'azione umana; piuttosto invoca una sorta di giudizio di Dio su chi si oppone al Vangelo.

Nell'antichità un'argomentazione era considerata credibile se anche l'oratore lo era! Per cui questi poteva presentare all'uditorio la propria integrità (ethos). Paolo lo fa, a conclusione di questi versetti, rimarcando come la sua esistenza sia totalmente orientata a Dio. Egli, in realtà, cerca il consenso degli uomini, non a sé, ma al Vangelo, come detto chiaramente in 2Cor 5,11. Qui intende, però, un atteggiamento opportunista e adulatorio, da cui egli sicuramente rifugge (cfr. 1Ts 2,4); tale sua rivendicata rettitudine d'intenzione è ciò che gli ha permesso queste righe decise, e che sarà poi descritta estesamente nell'argomentazione successiva.

La natura del Vangelo di Paolo – prima tesi Il tenore biasimante dell'esordio è qui proseguito. Esso però non è totalizzante, tale da far dimenticare che c'è un effettivo terreno di comunione tra l'apostolo e la comunità, i cui membri vengono qualificati «fratelli». Essi sono interpellati a riconoscere l'autentica natura del Vangelo paolino, che non è d'indole umana e nemmeno segue criteri umani. In caso contrario, Paolo cercherebbe di accattivarsi un consenso umano, ma egli può ben rivendicare di essere libero da ciò (v. 10), e la successiva narrazione autobiografica lo chiarirà. La precisazione del v. 12, che verte sull'origine non umana del Vangelo, risulta pertanto una sua parziale spiegazione. Con essa veniamo assicurati del fatto che il Vangelo è giunto a Paolo «mediante una rivelazione di Gesù Cristo». La locuzione è da intendersi sia in senso soggettivo, indicando in Cristo l'autore di una rivelazione che esclude che soggetti umani siano all'origine della consegna del Vangelo a Paolo, sia in senso oggettivo, facendo intendere che Dio Padre è all'origine ultima di tale episodio di rivelazione che ha per contenuto Cristo risorto (così si esprimeranno i vv. 15-16). D'altronde, l'agire di Cristo e quello del Padre ormai coincidono, giacché Cristo, glorificato, è colui che condivide nella pienezza della vita gloriosa di Dio e, quindi, anche della sua opera (cfr. 1,1.3). Ad ogni buon conto Paolo continua a rimarcare il proprio ethos, assicurando che egli non è un anello intermedio di una catena di trasmissione del Vangelo. Avendolo ricevuto per rivelazione divina, lo annuncia perché abilitato a tale missione da Dio stesso: è, quindi, apostolo nel senso pregnante del termine (cfr. 1,1).

La rivelazione del Figlio di Dio I versetti sono incorniciati dalla menzione della vita di Paolo prima (vv. 13-14) e dopo (vv. 16b-17) l'incontro con il Risorto, enfatizzando a chiare lettere la diversità: il persecutore diviene apostolo. Al centro (vv. 15-16a), nel dovuto rilievo, è situata la narrazione dell'iniziativa divina in Paolo che opera la svolta. Sottolineata da un «quando» che si contrappone al previo «un tempo». Paolo potrà ancora dirsi appartenente al popolo giudaico (2,13-15; cfr. Rm 11,1;2 Cor 11,22), ma in una forma che lo porta a una condotta radicalmente diversa da quella di un tempo. La sua condotta non lo preparava certo a ricevere il Vangelo. Se questo è avvenuto, lo è stato grazie solamente all'iniziativa gratuita di Dio, che ha manifestato il Figlio Risorto nella vita di Paolo, e tale gratuità è sottolineata dalle espressioni del v. 15 («chiamò mediante la sua grazia»; «compiacque»). Anche i profeti, nell'Antico Testamento, colgono la loro missione totalmente dipendente dalla chiamata loro rivolta da Dio, e la fraseologia utilizzata qui dall'apostolo richiama più da vicino la vocazione di Geremia («Prima che ti formassi nell'utero ti ho conosciuto, prima che uscissi dal grembo ti ho consacrato; profeta delle nazioni ti ho designato»; Ger 1,5) e quella del Servo di YHWH («YHWH dal ventre mi ha chiamato, dalle viscere di mia madre ha pronunciato il mio nome»; Is 49,1). È possibile che ciò sia dovuto anche al fatto che questi profeti rivolgessero la propria missione pure al di fuori di Israele (per il Servo di YHWH vedi Is 49,6), a ogni modo Paolo coglie questa sua esperienza in stretta continuità con la tradizione dei profeti d'Israele. Il v. 16, però, dice un qualcosa che eccede enormemente le vocazioni profetiche: a Paolo, infatti, Dio rivela «suo Figlio». Nulla di più è detto sulle modalità della rivelazione, ma dalla narrazione degli Atti sappiamo che è stata un'esperienza del Risorto (At 9,1-9; 22,6-16: 26,12-18). Ora, proprio dalla risurrezione Paolo coglie l'identità profonda di Gesù, quella di Figlio di Dio a titolo unico (Rm 1,4), che può rendere anche noi partecipi del suo statuto (Gal 3,26 4.7). La risurrezione, infatti, è l'agire escatologico di Dio che, unico, può far trionfare la vita sulla morte. Se questo è manifesto in Cristo, allora egli dev'essere non uno dei tanti profeti inviati da Dio, ma colui che veicola personalmente in sé la presenza stessa di Dio, colui che è relazionato a Dio a titolo unico, ossia suo Figlio. Tale rivelazione coinvolge Paolo in una relazione del tutto singolare, palesata dalla locuzione «rivelare in me», che indica una comunione continua (cfr. Gal 2, 19-20). Si spiega, allora, il repentino cambiamento avvenuto in Paolo, che non ritiene più le «tradizioni dei padri» veicolo della rivelazione definitiva di Dio, bensì il suo Figlio, il quale non dev'essere più avversato nei suoi seguaci ma, al contrario, testimoniato come persona vivente. È verosimilmente già per operare un primo annuncio che egli si reca nel regno degli Arabi Nabatei (v. 17), in una missione che non è dipendente da alcun soggetto umano; la rivelazione del Figlio abilita Paolo ad essere suo apostolo e annunciatore. Da lì egli ritorna a Damasco, suggerendo così che la rivelazione del Figlio sia avvenuta nei pressi di quella città, proprio come detto dalle narrazioni degli Atti. La svolta causata in Paolo dalla rivelazione del Risorto è stata enorme, ma non tale da poter essere qualificata «conversione». Egli, infatti, si riterrà ancora appartenente al popolo ebraico, citerà le sue Scritture come voce divina, e riporterà la fondamentale professione di fede ebraica sull'unicità di Dio (Dt 6,4) nelle sue lettere (cfr. Rm 3,20; 1Cor 8,6: Gal 3,20). Nella rivelazione di Damasco tale fede trova piuttosto il suo compimento, che comporta pure un ripensamento radicale delle tradizioni in essa veicolate, come verrà motivato con forza, anche polemica, proprio nella lettera che qui leggiamo. Tutto questo, però, senza giungere alla smentita dei tratti costitutivi della fede d'Israele.

L'indipendenza di Paolo dalla Chiesa di Gerusalemme Paolo sale a Gerusalemme solo tre anni dopo l'incontro con il Risorto, per fare la conoscenza di “Cefa”. Non viene chiarito perché senta il bisogno di questa conoscenza, né la dinamica del suo soggiorno. Possiamo però dedurre da una parte che egli riconosce l'autorità di Pietro – nonostante le polemiche che lo vedranno con lui coinvolto, come in seguito dirà –, ma, dall'altra, che questo non comporti il ricevere da quegli il Vangelo. L'autorità apostolica di Paolo deriva dal suo incontro con il Risorto; Pietro, solo in seguito, la riconoscerà (2,9). Oltre a Pietro egli vede anche Giacomo. Questi è il personaggio conosciuto dalla tradizione sinottica come uno dei parenti di Gesù (Mc 6,3 // Mt 13,55), che guiderà la Chiesa di Gerusalemme a capo del collegio dei presbiteri (At 12,17; 15,13; 21,18). Non va confuso con Giacomo di Zebedeo, uno dei Dodici, tra i primi chiamati da Gesù stando ai Sinottici (Mc 1,19 // Mt 4,21), ucciso da Erode nel 42d.C. (At 12,2), né con Giacomo di Alfeo, un altro dei Dodici. In quanto destinatario delle apparizioni del Risorto, anche Giacomo può essere annoverato tra gli apostoli (1Cor 15,7), pur non essendo uno dei Dodici. La sua menzione nel racconto paolino suggerisce il ruolo di rilievo già da lui assunto a Gerusalemme. Tutta questa sezione rileva l'indipendenza di Paolo da Gerusalemme, e il fatto che egli sia divenuto apostolo grazie all'iniziativa di Dio. La conclusione lo rimarca, attraverso la menzione della lode delle stesse comunità giudaiche, che riconoscono come, in lui, l'opera di Dio abbia reso apostolo un persecutore.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Preparativi della visita 1Questa è la terza volta che vengo da voi. Ogni questione si deciderà sulla dichiarazione di due o tre testimoni. 2L’ho detto prima e lo ripeto ora – allora presente per la seconda volta e ora assente – a tutti quelli che hanno peccato e a tutti gli altri: quando verrò di nuovo non perdonerò, 3dal momento che cercate una prova che Cristo parla in me, lui che verso di voi non è debole, ma è potente nei vostri confronti. 4Infatti egli fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio. E anche noi siamo deboli in lui, ma vivremo con lui per la potenza di Dio a vostro vantaggio.

Esortazione alla revisione di vita 5Esaminate voi stessi, se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi? A meno che la prova non sia contro di voi! 6Spero tuttavia che riconoscerete che la prova non è contro di noi. 7Noi preghiamo Dio che non facciate alcun male: non per apparire noi come approvati, ma perché voi facciate il bene e noi siamo come disapprovati. 8Non abbiamo infatti alcun potere contro la verità, ma per la verità. 9Per questo ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti. Noi preghiamo anche per la vostra perfezione. 10Perciò vi scrivo queste cose da lontano: per non dover poi, di presenza, agire severamente con il potere che il Signore mi ha dato per edificare e non per distruggere.

PostScriptum 11Per il resto, fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi. 12Salutatevi a vicenda con il bacio santo. Tutti i santi vi salutano. 13La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Preparativi della visita Al v. 1 per la quarta volta Paolo fa menzione della sua terza visita a Corinto: ormai non si tratta più di un puro annuncio ma di una certezza che spinge a volgersi a una vera e propria preparazione di essa. Così l’apostolo afferma che, giungendo dai destinatari, seguirà la regola di Dt 19,15, secondo la quale ogni questione sarà esaminata sulla testimonianza di due o tre persone. Il v. 2 richiama ancora l’imminente arrivo a Corinto, mettendo però in risalto l’intervento punitivo di Paolo come conseguenza del procedimento di giudizio appena presentato. Le ammonizioni dell’apostolo, presentate nell’ambito della sua seconda visita, avevano prodotto successivamente un certo risultato positivo nella comunità (7,5-16) ma poi, a causa dell’influsso degli avversari, i Corinzi erano ritornati ai loro comportamenti scorretti. Il riferimento è probabilmente alle tendenze disgregatrici e agli abusi in campo sessuale dei quali si è trattato in 12,20-21 e che per Paolo rappresentano non problemi di singoli o di gruppi isolati, ma questioni riguardanti l’intera comunità e la sua crescita nella fede. Al v. 3 giunge la motivazione del comportamento non indulgente di Paolo con un ritorno anche al binomio debolezza/forza, che campeggiava nel discorso del folle. Inoltre la questione della capacità di parlare era al centro della tesi di 11,5-6. ora l’apostolo dice conclusivamente che, come negli antichi profeti, il Signore si esprime attraverso di lui. Ciò è indicazione della forza di Cristo, che può agire anche attraverso la debolezza degli strumenti umani (cfr. 12,9) e che è già in azione nella comunità nei segni compiuti da Paolo stesso (cfr. 12,12) e in tutti i doni di grazia concessi ai Corinzi (cfr. 9,8). Il v. 4 spiega il precedente e mette in collegamento la debolezza e la potenza di Cristo con quella di Paolo. Egli, infatti, dice che Cristo è stato crocifisso a causa della debolezza della natura umana da lui assunta, ma come risorto vive in forza della potenza di Dio. In conseguenza di tutto questo l’apostolo sperimenta nella fragilità della sua umanità, per mezzo della sua unione con Cristo, già la vita segnata dalla dinamica della risurrezione che opera anche nei destinatari. Il parallelo tra Cristo e Paolo nell’ambito del paradossale binomio debolezza/forza vuole così definitivamente accreditare e av- valorare l’autorità apostolica del secondo presso i Corinzi, in vista della sua terza visita.

Esortazione alla revisione di vita Se nei versetti precedenti Paolo aveva parlato della prova della sua autenticità apostolica, attestata da un paventato intervento disciplinare, ora al v. 5 mette in campo l’esigenza di un’autovalutazione critica da parte dei Corinzi, in modo anche da evitare di infliggere la suddetta punizione. Infatti, egli esorta i destinatari a esaminare piuttosto se stessi, così da valutare se effettivamente vivono la fede cristiana. Al v. 6, dopo avere chiesto ai Corinzi di esaminarsi, Paolo torna a parlare di sé in vista della sua terza visita a Corinto. Egli esprime così la speranza che i destinatari possano riconoscere che egli non è disapprovato. L’apostolo manifesta il desiderio che, in occasione della propria venuta, i Corinzi non diano più credito alle accuse formulate nei suoi confronti sotto l’influsso degli avversari e riconoscano l’autenticità del suo apostolato. Questo auspicio è un secondo risultato del processo di discernimento proposto ai destinatari nel versetto precedente: i Corinzi, verificando se stanno davvero camminando nella fede, riconosceranno anche il valore e la grandezza del ministero di Paolo al quale è dovuto proprio il loro itinerario cristiano (cfr. 10,15). Con il v. 7 l’attenzione dell’apostolo si volge di nuovo verso i destinatari, riportando l’invocazione che egli innalza a Dio per loro. L’apostolo intende sottolineare che il suo fine ultimo non è quello di superare la prova come vero inviato di Dio, ma il bene dei Corinzi. Infatti, se i destinatari cambieranno il loro modo di agire, Paolo non avrà occasione di mostrare la sua forte autorità apostolica con un’azione disciplinare nei loro confronti. Al v. 8 Paolo afferma di non potere fare nulla contro la verità, ma solo ciò che è al suo servizio. Che la verità si difenda da sola e che sia necessario arrendersi a essa da parte dell’uomo saggio è affermato sia in ambito greco che biblico-giudaico (cfr. Sir 4,25.28; 3 Esdra 4,35.38). Tuttavia l’apostolo, in maniera originale, lega la verità a Cristo e al suo Vangelo (cfr. 2Cor 11,10; Gal 2,5.14). Il v. 9 si ricollega al v. 7 come sua seconda motivazione, immettendo in 2 Corinzi B per la prima e unica volta il motivo della gioia. Così Paolo afferma di rallegrarsi quando lui risulta debole e i destinatari forti. Inoltre, aggiunge di pregare per il riordinamento della comunità corinzia. Il binomio debolezza/forza, ripreso dai vv. 3-4, è qui applicato soprattutto alla speranza che l’apostolo ha di non dovere mostrare la sua autorità disciplinare in occasione della prossima terza visita a Corinto: se egli non sarà costretto a intervenire con un’azione punitiva, risulterà ancora una volta debole (cfr. 10,10; 11,6); d’altra parte, ciò significa che i destinatari saranno provati forti nella fede (cfr. 13,5). Il v. 10 conclude le indicazioni preparatorie della terza visita, menzionando il motivo dello scrivere, tipico delle conclusioni delle epistole paoline (cfr., p. es., Rm 15,21; Gal 6,11; 1ts 5,1; Fm 21), ritornando su quello presenza-assenza e specificando una ragione per l’estensione di 2 Corinzi B. Egli, infatti, afferma che ha scritto queste cose da lontano per evitare di dovere intervenire con tagliente severità al momento della sua venuta, dato che l’autorità apostolica ricevuta da Dio è in vista dell’edificazione e non della distruzione della comunità. Come già sottolineato con le stesse parole in 10,8 e in 12,19, Paolo ha di mira la crescita spirituale della sua comunità e non il suo annichilimento. Per questo nel brano che ora termina egli ha chiesto insistentemente ai Corinzi di compiere un cambiamento sostanziale di atteggiamento in vista del suo arrivo da loro.

Post Scriptum Nell’antichità il Post Scriptum non ha la specifica funzione di aggiungere quanto è stato dimenticato nel corpo della lettera, secondo quello che avviene per noi oggi; in epoca classica riveste valore giuridico, di autenticazione della lettera, scritta normalmente da un segretario. Così accade, con ogni probabilità, anche nelle lettere paoline, poiché alcune volte, alla fine delle medesime, l’apostolo segnala il suo intervento autografo (cfr. 1Cor 16,21; Gal 6,11; Col 4,18; 2ts 3,17; Fm 19). L’importanza del Post Scriptum nelle lettere paoline può essere individuata nel fatto che esso contribuisce a mettere le Chiese in contatto le une con le altre e quindi a farle crescere nella comunione, basata sul medesimo dono di grazia ricevuto da Dio. Inoltre, questo elemento epistolare assume di tanto in tanto la funzione di ricapitolare i temi trattati nella lettera (cfr. Gal 6,12-17; 1tm 6,20-21; Fm 21). Nella sua laconicità, da una parte, il Post Scriptum di 2Cor 13,11-13 propone i seguenti usuali elementi: ultime raccomandazioni (v. 11), saluti (v. 12), benedizione (v. 13); dall’altra, non menziona, contrariamente al solito, nessuno dei nomi dei destinatari. Il motivo potrebbe essere che Paolo, per scongiurare il pericolo di fomentare ulteriori divisioni nella comunità, eviterebbe di ricordare alcuni a scapito di altri. Con il v. 11 sono introdotte le ultime raccomandazioni dell’apostolo ai Corinzi attraverso una serie di cinque imperativi presenti, che suggeriscono un’azione continua e duratura, ai quali segue una promessa divina. Egli si rivolge ai destinatari come fratelli e li invita a rallegrarsi, a correggersi ed esortarsi vicendevolmente, a tenere lo stesso orientamento cristiano di vita e a stare in pace nella comunità. All’esortazione fa da pendant l’affermazione che Dio, fonte dell’amore e della pace, sarà in mezzo a loro, condizione indispensabile per poter realizzare quanto qui l’apostolo ha richiesto loro in preparazione alla sua imminente visita. Al v. 12 si passa ai saluti, attraverso i quali Paolo mette in contatto i cristiani del luogo dal quale scrive con quelli ai quali egli si rivolge. Qui l’apostolo invita i destinatari a scambiarsi il bacio santo e invia i saluti per loro da parte dei cristiani macedoni. La pratica di baciarsi era già diffusa nel mondo antico in diversi contesti e per differenti scopi: tra amanti, in famiglia, con gli amici, all’interno di gruppi religiosi al fine di esprimere affetto, riconciliazione, fratellanza, rispetto. Paolo specifica che quello che i credenti debbono darsi vicendevolmente è «il bacio santo», perché essi sono chiamati alla santità. Attraverso questo segno egli insiste ancora sull’unità da promuovere nella Chiesa divisa di Corinto. Successivamente il «bacio» da scambiare sarà indicato come un elemento proprio della celebrazione eucaristica (Giustino, Apologia 1,65); in 2Cor 13,12 si può soltanto pensare a un gesto proprio di un’assemblea comunitaria che poteva avere un carattere liturgico (cfr. 1pt 5,14). Il v. 13 finale è costituito da un’originale benedizione, contenente l’asserzione trinitaria più chiara di tutto l’epistolario attribuito a Paolo. Infatti, l’apostolo benedice tutti i Corinzi, menzionando i doni della grazia, dell’amore e della comunione che provengono rispettivamente da Cristo, da Dio e dallo Spirito Santo. Come negli altri Post Scriptum paolini, qui si presenta il contenuto, la fonte divina e i destinatari della benedizione, ma con una rilevante espansione verso un’embrionale teologia delle persone divine. Tale dottrina sarà sviluppata in maniera compiuta solo successivamente. tuttavia, di essa si trovano altre tracce nel nuovo testamento, per esempio, nel passaggio paolino di 1Cor 12,4-6 o nella formula battesimale di Mt 28,19. Così, se al v. 11 Paolo aveva promesso la continua presenza di Dio nella comunità di Corinto, ora al v. 13 invoca su questa i doni divini. In fondo l’apostolo affida la Chiesa destinataria a Dio, solo al quale essa appartiene, con la speranza che grazie all’azione divina possa ritrovare la strada perduta. E, in effetti, dalla conclusione di romani, scritta con ogni probabilità a Corinto, è da presumere un esito positivo, grazie anche alla sofferta 2 Corinzi B, nella relazione tra Paolo e la sua comunità, con il completamento della colletta (cfr. Rm 15,26).


🔝C A L E N D A R I OHomepage

L’inversione dell’elogio di sé 1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. 6Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me 7e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni. Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. 8A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. 9Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. 10Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.

Riepilogo sulla superiorità di Paolo rispetto agli avversari 11Sono diventato pazzo; ma siete voi che mi avete costretto. Infatti io avrei dovuto essere raccomandato da voi, perché non sono affatto inferiore a quei superapostoli, anche se sono un nulla. 12Certo, in mezzo a voi si sono compiuti i segni del vero apostolo, in una pazienza a tutta prova, con segni, prodigi e miracoli. 13In che cosa infatti siete stati inferiori alle altre Chiese, se non in questo: che io non vi sono stato di peso? Perdonatemi questa ingiustizia!

Difesa del comportamento di Paolo e dei collaboratori 14Ecco, è la terza volta che sto per venire da voi, e non vi sarò di peso, perché non cerco i vostri beni, ma voi. Infatti non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli. 15Per conto mio ben volentieri mi prodigherò, anzi consumerò me stesso per le vostre anime. Se vi amo più intensamente, dovrei essere riamato di meno? 16Ma sia pure che io non vi sono stato di peso. Però, scaltro come sono, vi ho preso con inganno. 17Vi ho forse sfruttato per mezzo di alcuni di quelli che ho inviato tra voi? 18Ho vivamente pregato Tito di venire da voi e insieme con lui ho mandato quell’altro fratello. Tito vi ha forse sfruttati in qualche cosa? Non abbiamo forse camminato ambedue con lo stesso spirito, e sulle medesime tracce?

Rimprovero dei destinatari 19Da tempo vi immaginate che stiamo facendo la nostra difesa davanti a voi. Noi parliamo davanti a Dio, in Cristo, e tutto, carissimi, è per la vostra edificazione. 20Temo infatti che, venendo, non vi trovi come desidero e che, a mia volta, venga trovato da voi quale non mi desiderate. Temo che vi siano contese, invidie, animosità, dissensi, maldicenze, insinuazioni, superbie, disordini, 21e che, alla mia venuta, il mio Dio debba umiliarmi davanti a voi e io debba piangere su molti che in passato hanno peccato e non si sono convertiti dalle impurità, dalle immoralità e dalle dissolutezze che hanno commesso.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

L’inversione dell’elogio di sé Il v. 1, da una parte, continua a essere legato agli ultimi versetti del capitolo precedente dal punto di vista argomentativo e terminologico (cfr. «bisogna vantarsi», 11,30); dall’altra, introduce con una titolatura sulle visioni e sulle rivelazioni il testo successivo sino al v. 10. infatti, Paolo afferma che, seppur il vantarsi non sia conveniente, egli parlerà dei fenomeni estatici la cui personale esperienza deriva dall’intervento del suo signore. Ancora una volta l’apostolo ricorda che di per sé il vantarsi non è utile né per il singolo né per la comunità, tuttavia nel presente contesto c’è la necessità di replicare agli avversari; inoltre il suo ormai comincia a essere un vanto «nel Signore» e per questo accettabile (cfr. 10,17). In maniera sorprendente, al v. 2 Paolo comincia a parlare di una visione da lui ricevuta, riferendosi a sé in terza persona. Paolo attua un processo di transfert lodando, a motivo delle esperienze estatiche, non la propria persona ma il suo “io” ormai «in Cristo» e perciò scorto a distanza come un altro uomo: di sé non potrà altro che vantarsi delle debolezze (cfr. v. 5). L’apostolo, dunque, sostiene di sapere che un credente in Cristo, in ragione del legame con lui, quattordici anni prima rispetto al momento nel quale scrive la lettera, fu rapito da Dio al terzo cielo. Se questa sia stata un’esperienza corporea o extra-corporea Paolo lo ignora e solo il suo Signore può saperlo: con ciò si sottolinea l’aspetto divino e al di là dell’umana comprensione di quanto è accaduto. Paolo indica di essere giunto al terzo cielo, indicando così il limite massimo di un qualsiasi rapimento estatico che va a coincidere, secondo il v. 4, con lo stesso paradiso. I vv. 3-4 svelano e contemporaneamente velano l’esperienza mistica accaduta a Paolo. Infatti, nel v. 3 egli anzitutto ripete di non sapere se l’uomo in questione fosse fuori o dentro del corpo e che solo Dio ne è a conoscenza. Poi al v. 4 prosegue col dire che nel suo rapimento in paradiso udì parole inesprimibili che nessun uomo ha la capacità di comunicare. Così l’evento ha coinvolto non soltanto la vista, ma anche la facoltà uditiva e ha comportato un’esperienza della meta finale dell’esistenza dei credenti che per Paolo è costituita più che da un luogo da un incontro, quello con il Signore Gesù (cfr. 1Ts 4,17). Al v. 5 Paolo ritorna a parlare del vanto, indicando la chiave di lettura con la quale leggere le sue esperienze estatiche e riproponendo il ritornello del v. 1. Le visioni e le rivelazioni ricevute sono da considerarsi come un puro dono ricevuto da Dio, mentre le fragilità e i limiti sono propri dello stesso apostolo. Al v. 6 Paolo non riferisce a proprio merito le esperienze estatiche, invece, riguardo a sé, invita i Corinzi a considerarlo per quello che egli è come persona. L’apostolo desidera pure evitare che gli ascoltatori possano erroneamente leggere nel suo rapimento un motivo di vanto carnale. Infine, nel v. 6 Paolo aggiunge l’indicazione di guardare al suo esempio di vita e al suo insegnamento. Si comincia così a intravedere una progressione argomentativa nelle prove del vanto di sé invertito di 11,30–12,10: dalla fuga da Damasco, che mostra come Paolo non sia un eroe indefesso, alle visioni e rivelazioni che indicano il passaggio alla sua nuova identità in Cristo, al climax della «spina nella carne», dove l’elogio è quello delle proprie debolezze, cosicché Cristo dimori pienamente nella persona dell’apostolo. Al v. 7 il testo diventa ridondante ed enfatico proprio per segnalare l’arrivo al culmine del percorso argomentativo. Le visioni e le rivelazioni ricevute potevano essere mal comprese non solo dai Corinzi, come evocato in 12,6, ma dallo stesso apostolo, che avrebbe potuto farne motivo di un vanto individuale. Così Dio gli ha dato la «spina nella carne», che allo stesso tempo rappresenta una realtà mandata da satana per umiliarlo. Questa sorprendente coincidenza operativa è da spiegarsi probabilmente nel senso di una permissione divina secondo la quale Satana si trova, pur essendo sottoposto alla volontà di Dio, libero di operare il male nei confronti di uno dei suoi prediletti, ma con relativi effetti ultimi positivi (cfr. Gb 1,8-12; 2,3-6, 1Cor 5,5). L’apostolo non ci dice niente della natura della «spina nella carne», bensì soltanto quello che gli sta più a cuore, cioè la sua funzione rispetto al vanto nella debolezza. Raccogliendo le scarne indicazioni provenienti dal testo, notiamo che la «spina nella carne» è vista in stretta relazione con le summenzionate esperienze estatiche paoline, deve essere un dolore che colpisce a livello fisico, è una condizione permanente (cfr. 12,8), ha un’origine divina e una manifestazione legata all’azione di colui che è causa prima di ogni male dell’uomo, infine mostra un carattere umiliante e costituisce una debolezza personale. In considerazione di questi elementi è preferibile vedere nella famosa espressione una malattia fisica che affligge cronicamente l’apostolo e che lo rende fragile e disprezzabile di fronte ai suoi interlocutori (cfr. 2Cor 10,10; Gal 4,13-14), condizione che dovrebbe essere di impedimento alla missione, mentre paradossalmente ne diventa occasione, perché permette il dispiegarsi della potenza di Cristo (cfr. vv. 9-10). Nonostante Paolo nel versetto precedente abbia segnalato la finalità positiva e voluta da Dio della «spina nella carne», al v. 8 egli ricorda di avere pregato tre volte affinché il Signore lo liberasse da tale «angelo di Satana». Questa duplicità di aspetti, come anche la frequenza della supplica, sembra richiamare la triplice invocazione di Gesù nel Getsemani, dove da una parte chiede di non bere il calice della sua passione, dall’altra si affida alla volontà del Padre (cfr. Mt 26,39-44; Mc 14,32-42; Lc 22,39-46). Al v. 9 la risposta di Cristo è riportata da Paolo, a differenza di quanto udito al terzo cielo, ed è addirittura presentata in un discorso diretto, unico oracolo del risorto nelle lettere paoline; esso richiama le «rivelazioni del Signore» menzionate al v. 1. La risposta di Cristo non si situa allo stesso livello della richiesta dell’apostolo, perché non è guarito dalla sua malattia, ma la preghiera è comunque esaudita perché a Paolo è promesso l’aiuto della grazia, non solo in questo caso ma in ogni situazione di fragilità derivante dalla sua attività missionaria. Se la potenza di Cristo viene ad abitare nella debolezza e solo in essa agisce, allora Paolo accetterà le proprie fragilità e si vanterà di esse perché luogo di presenza del risorto. Questa prospettiva paradossale, da una parte, corrisponde all’agire di Dio che sceglie la debolezza della croce per mostrare la sua potenza salvifica e i deboli come suoi eletti per confondere i forti (cfr. 1Cor 1,18-31); dall’altra, indica che l’apostolo e poi ogni credente sono chiamati a ripercorrere nella propria esistenza lo stesso percorso di morte e risurrezione del loro Signore, che «fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio» (2Cor 13,4). Con tale condizione di debolezza che lo rende simile a Cristo, Paolo dimostra ancora una volta la validità di quanto asserito nella tesi di 11,5-6: egli è inesperto nell’arte del parlare, ma non nella sua conoscenza esperienziale del Signore. Dietro l’immagine della dimora di Cristo c’è probabilmente l’idea rabbinica della šekînâ, cioè della presenza di Dio in mezzo al suo popolo attraverso la tenda del convegno; sulla stessa linea si muoverà Gv 1,14 dicendo che «il Lógos divenne carne e prese dimora [alla lettera: pose la sua tenda] in mezzo a noi». Il v. 10 si presenta come conseguenza del precedente e come conclusione del brano della seconda parte della dimostrazione (11,21b–12,10). Infatti, se la debolezza è il luogo in cui si manifesta la potenza di Cristo, allora Paolo è contento delle debolezze sperimentate a favore di Cristo e del suo Vangelo le quali consistono, secondo un ultimo catalogo di avversità, In oltraggi, necessità, persecuzioni e angosce. inoltre, a chiusura e culmine di tutto il discorso del folle, l’apostolo esprime la sua paradossale sicurezza con un motto personale: ogni qualvolta sperimenta nell’esercizio del suo ministero la propria fragilità, contemporaneamente fa esperienza della forza proveniente dalla grazia di Cristo.

Riepilogo sulla superiorità di Paolo rispetto agli avversari Con il v. 11 Paolo comincia una riflessione e una ricapitolazione di quanto ha appena scritto. Egli afferma che è stato costretto a ricorrere alla follia del vanto di sé a causa dei Corinzi, poiché lo avrebbero dovuto sostenere, dato che durante il suo ministero in mezzo a loro l’apostolo ha mostrato di essere superiore agli avversari, pur non essendo niente. Per necessità, dovuta alla presenza degli oppositori e alla conseguente difesa dei suoi dal loro influsso, Paolo ha intessuto un elogio di sé che nella sua prima parte era folle, perché «secondo la carne» come quello degli altri (11,18). Qui sono poi rimproverati i destinatari che avrebbero dovuto difenderlo di fronte agli avversari che si sono auto-raccomandati (cfr. 10,12). Infine l’apostolo, mentre ribadisce in modo definitivo la sua superiorità rispetto ai rivali, allo stesso tempo riconosce di essere nulla di fronte al suo Signore, attraverso il precedente vanto «in Cristo» e nella propria debolezza. il v. 12 spiega perché l’apostolo è superiore ai suoi avversari e, nello stesso tempo, si considera nulla. Il versetto sottolinea da una parte l’azione di Dio, ma dall’altra anche la capacità di sopportazione mostrata dall’apostolo, già evocata nei suoi cataloghi di avversità. Il v. 13 appare richiamare il v. 11, fornendo nello specifico la ragione per la quale i Corinzi l’avrebbero dovuto sostenere.

Difesa del comportamento di Paolo e dei collaboratori Con il v. 14 viene introdotta la terza visita di Paolo a Corinto. Tuttavia qui tale aspetto è funzionale a quello dell’indipendenza economica dell’apostolo dalla comunità, vero centro del versetto. Così egli annunzia che è pronto ad andare dai suoi una terza volta, ma che non sarà di peso per loro perché è interessato non a quanto possiedono ma alle persone dei destinatari. Infatti, egli è loro padre; quindi, spetta a lui mettere da parte per i suoi figli Corinzi, non viceversa. La terza visita viene dopo quella della fondazione (cfr. At 18,1-18) e quella legata all’episodio dell’offensore (cfr. 2Cor 2,1-13; 7,12). Era già stata preannunciata in 9,4 per raccogliere la colletta insieme ad alcuni inviati macedoni, ma in 13,1-3 è presentata come una visita punitiva da parte del solo fondatore della comunità a conferma del fatto che i due annunzi appartengono a due lettere diverse, scritte a distanza temporale di alcuni mesi. Il v. 15 sviluppa la metafora paterna ancora in riferimento al futuro, mentre rimarca l’amore presente di Paolo per i Corinzi con l’esigenza di un contraccambio. L’apostolo, infatti, prima afferma che non solo donerà ai suoi quanto ha, ma che darà loro tutto se stesso, poi con una domanda retorica chiede se al suo affetto più intenso è giusto che ne corrisponda uno inferiore da parte dei destinatari. Così Paolo insiste di nuovo sull’elemento della gratuità della sua evangelizzazione a Corinto che lo differenzia completamente dagli avversari (cfr. 11,20) e che è dimostrazione di vero amore per la comunità (cfr. 11,11). Essa è così indirettamente rimproverata, perché non comprende che questo affetto passa attraverso il dono gratuito del Vangelo e perché non è capace di rispondere con un amore della stessa intensità di quello dell’apostolo. A partire dal v. 16 l’attenzione è spostata sulla passata condotta di Paolo e dei suoi collaboratori nei confronti dei Corinzi, in merito soprattutto alle questioni economiche. Con il v. 17 Paolo intende indirettamente sostenere che non si è mai reso colpevole di una scaltra pratica finanziaria orchestrata ai danni dei Corinzi per mezzo dei suoi delegati. Al v 18 termina il “discorso del folle” con un accorato invito ai destinatari a non dare credito alle calunnie nei confronti del fondatore e padre della comunità, ma a riporre in lui la piena fiducia che gli avevano accordato all’inizio quando aveva annunciato loro per la prima volta il Vangelo. Concluso il corpus di 2 Corinzi B e il suo ragionamento in ordine alla persuasione degli ascoltatori, Paolo passerà a preparare la sua terza visita, già annunciata e in precedenza rimandata.

Rimprovero dei destinatari Avendo già in mente la sua prossima visita, Paolo vuole eliminare ogni impedimento che possa incidere negativamente su di essa. Per questo al v. 19 comincia con il chiarire che tutto quanto ha scritto nel suo discorso del folle non è una vera e propria apologia, perché egli si è posto da credente in Cristo di fronte al giudizio di Dio e con la finalità del progresso spirituale dei destinatari, da lui amati nonostante le rilevanti tensioni relazionali. Il v. 20 spiega il perché della finalità di edificazione del discorso di Paolo a partire dalla situazione della comunità corinzia, tratteggiata probabilmente in base alle informazioni ricevute dall’apostolo. Egli teme che al momento della visita trovi i destinatari in una condizione non auspicabile e che, a loro volta, essi debbano sopportare una poco desiderabile punizione da parte sua nei loro confronti. Il v. 21 aggiunge altri timori di Paolo in relazione alla sua prossima terza visita alla comunità di Corinto. Nel versetto è presente la paura che Dio permetta un’altra umiliante esperienza all’apostolo, come quella avvenuta in occasione della sua seconda visita a Corinto (cfr. 2,1-11), perché secondo l’apostolo, la penetrazione degli avversari a Corinto ha prodotto una tragica regressione all’interno della comunità, così da mettere in discussione l’intero percorso di fede dei destinatari.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Appello ai Corinzi 1Se soltanto poteste sopportare un po’ di follia da parte mia! Ma, certo, voi mi sopportate. 2Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta. 3Temo però che, come il serpente con la sua malizia sedusse Eva, così i vostri pensieri vengano in qualche modo traviati dalla loro semplicità e purezza nei riguardi di Cristo. 4Infatti, se il primo venuto vi predica un Gesù diverso da quello che vi abbiamo predicato noi, o se ricevete uno spirito diverso da quello che avete ricevuto, o un altro vangelo che non avete ancora sentito, voi siete ben disposti ad accettarlo.

La superiorità di Paolo sugli avversari 5Ora, io ritengo di non essere in nulla inferiore a questi superapostoli! 6E se anche sono un profano nell’arte del parlare, non lo sono però nella dottrina, come abbiamo dimostrato in tutto e per tutto davanti a voi.

La gratuità dell’evangelizzazione a Corinto 7O forse commisi una colpa abbassando me stesso per esaltare voi, quando vi ho annunciato gratuitamente il vangelo di Dio? 8Ho impoverito altre Chiese accettando il necessario per vivere, allo scopo di servire voi. 9E, trovandomi presso di voi e pur essendo nel bisogno, non sono stato di peso ad alcuno, perché alle mie necessità hanno provveduto i fratelli giunti dalla Macedonia. In ogni circostanza ho fatto il possibile per non esservi di aggravio e così farò in avvenire. 10Cristo mi è testimone: nessuno mi toglierà questo vanto in terra di Acaia! 11Perché? Forse perché non vi amo? Lo sa Dio!

Attacco agli avversari 12Lo faccio invece, e lo farò ancora, per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano. 13Questi tali sono falsi apostoli, lavoratori fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. 14Ciò non fa meraviglia, perché anche Satana si maschera da angelo di luce. 15Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere.

La follia del vanto di sé 16Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri un pazzo. Se no, ritenetemi pure come un pazzo, perché anch’io possa vantarmi un poco. 17Quello che dico, però, non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto, nella fiducia che ho di potermi vantare. 18Dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano, mi vanterò anch’io. 19Infatti voi, che pure siete saggi, sopportate facilmente gli stolti. 20In realtà sopportate chi vi rende schiavi, chi vi divora, chi vi deruba, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia. 21Lo dico con vergogna, come se fossimo stati deboli!

L’elogio di sé con i suoi motivi Tuttavia, in quello in cui qualcuno osa vantarsi – lo dico da stolto – oso vantarmi anch’io. 22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. 24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?

L’inversione dell’elogio di sé – inizio 30Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. 32A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, 33ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Appello ai Corinzi L’appello rivolto da Paolo ai Corinzi al v. 1 è una preventiva richiesta di scuse, attraverso la quale l’autore chiede la pazienza degli ascoltatori per ciò che sta per dire in quanto potenzialmente inadatto o stravagante. Il tono dell’appello è ironico e mette in gioco la tematica della pazzia che sarà ripresa lungo il discorso. il v. 2 fornisce una motivazione della follia paolina menzionata in precedenza rispetto al vanto di sé che egli andrà a presentare. L’apostolo afferma che ha un premuroso affetto per i Corinzi, come quello mostrato da Dio per Israele (cfr., p. es., Es 34,14; Dt 5,9; Gs 24,19): nel testo domina la metafora matrimoniale che nell’antico testamento descrive il rapporto d’amore, talvolta turbolento, tra Dio e il suo popolo (cfr., p. es., Is 54,5-6; Ez 16,6-19; Os 2,16-22). Nel nuovo testamento tale immagine è utilizzata per descrivere le nozze escatologiche di Cristo con l’umanità, in particolare con la Chiesa (cfr., p. es., Mt 25,1-13; Ef 5,21-32, Ap 19,7-9; 21,2). Nello specifico, in 2Cor 11,2 possiamo ritrovare le due fasi del matrimonio ebraico: il momento in cui è stipulato il contratto matrimoniale in base al quale gli sposi, pur non vivendo ancora insieme, sono ormai indissolubilmente vincolati l’uno all’altra; e le nozze vere e proprie con la relativa consumazione del matrimonio e il conseguente inizio della convivenza. Come evidenziato anche in Ap 21,9 con «la fidanzata» che diviene «sposa dell’Agnello», si tratta prima della Chiesa nel tempo della storia terrena, poi nel compimento escatologico. Così Paolo, come il padre della sposa che doveva garantire la verginità della figlia sino alla consumazione del matrimonio (cfr. Dt 22,13-21), ha promesso di mantenere la comunità illibata e legata esclusivamente a Cristo suo sposo fino al momento di poterla presentare a lui per le nozze eterne. In questo modo l’apostolo da una parte esprime il suo veemente affetto per la comunità; dall’altra sa che non è lui che la possiede e al quale appartiene, mentre teme che essa si conceda a un altro Cristo, quello presentato dagli avversari (cfr. v. 4). Al v. 3 Paolo mostra il timore di non potere assolvere al suo compito in relazione alla comunità; quindi, manifesta la sua effettiva gelosia per lei. Infatti, l’apostolo afferma di temere che, come Eva fu fuorviata a causa della furbizia del serpente, così anche i Corinzi siano sviati nei pensieri perdendo la loro semplicità e purità in relazione a Cristo. Il v. 4 vuol motivare la paura di Paolo per la comunità e per la sua perseveranza nella fede in Cristo, timore dovuto all’azione degli avversari. L’apostolo, anche con amara ironia, mette i destinatari di fronte alle loro responsabilità, sottolineando il negativo cambiamento intervenuto nel loro cammino di fede rispetto al momento nel quale hanno accolto l’annuncio da lui recato.

La superiorità di Paolo sugli avversari Al v. 5, da una parte, si presenta l’ultima e decisiva ragione, legata all’esistenza degli oppositori, per la quale i Corinzi dovrebbero tollerare la follia di Paolo; dall’altra, si introduce la tesi che regge tutta l’argomentazione successiva. L’apostolo sostiene che egli non si ritiene in niente inferiore agli avversari, indicati con un’ironia pungente come «super-apostoli» infatti non afferma più di essere al pari degli altri come in 10,7, ma superiore a loro! Al v. 6 Paolo da una parte ammette di essere inesperto nell’arte del parlare, dall’altra, sostiene di non esserlo nel conoscere, così come ha manifestato in ogni modo e in ogni circostanza ai Corinzi. Nel complesso i vv. 5-6 introducono le due parti della dimostrazione con le rispettive prove di fatti, derivanti dalla concreta realtà del ministero e della persona dell’apostolo: la gratuità dell’evangelizzazione di Paolo (11,7-21a), la sua forza nella debolezza in Cristo (11,21b–12,10). Si tratta quindi di due porzioni testuali finalizzate a sostenere la tesi della superiorità dell’apostolo rispetto agli avversari nella conoscenza di Cristo.

La gratuità dell’evangelizzazione a Corinto Al v. 7 Paolo domanda ai Corinzi se egli ha forse sbagliato quando ha loro annunciato gratuitamente il Vangelo di Dio vivendo in indigenza affinché i destinatari ricevessero un arricchimento spirituale. L’apostolo rimprovera la comunità per la sua ingratitudine di fronte al fatto che egli ha lavorato con le proprie mani e non è stato di peso a essa, mentre la riempiva dei doni divini attraverso la sua predicazione. Al v. 8, dopo avere ricordato la non accettazione del sostegno economico proveniente dai Corinzi, Paolo sottolinea che la cosa è avvenuta a scapito di altre Chiese. Infatti l’apostolo afferma, attraverso un linguaggio militare venato di sarcasmo, di avere saccheggiato altre comunità cristiane accettando da loro il suo salario allo scopo di servire i destinatari. Dunque, l’assistenza ricevuta dagli altri cristiani non è stata un beneficio tipico del patrono, così come vorrebbe essere quella dei destinatari nei confronti di Paolo; in più è ricaduta a vantaggio dei Corinzi, che quindi non possono ritenersi offesi da tale diverso comportamento dell’apostolo. Nel v. 9 Paolo afferma che durante la sua permanenza a Corinto si è trovato nella necessità, ma non ha gravato su nessuno. probabilmente durante la permanenza a Corinto l’apostolo non è riuscito a sostenersi con il proprio lavoro, anche perché l’impegno di evangelizzazione deve avere tolto tempo all’attività di fabbricatore di tende, ma per sua fortuna ha ricevuto un aiuto spontaneo dalla Macedonia. Al v. 10 Paolo ricorre a una formula di giuramento simile a quella utilizzata in Rm 9,1, secondo la quale si dice che la verità di Cristo dimora in lui ed è garanzia della veridicità dell’apostolo. Il contenuto del giuramento è il fatto che il suo vanto, riguardo alla gratuità dell’evangelizzazione, non sarà fatto tacere nella provincia romana dell’Acaia. La scelta di non farsi sostenere dalla comunità deve avere suscitato fraintendimenti e insinuazioni nella Chiesa di Corinto, sentimenti forse ulteriormente fomentati dagli avversari sopraggiunti in essa. Per questo al v. 11 l’apostolo sente la necessità di chiarire, attraverso uno stile dialogico evocativo della diatriba (scritto o discorso nel quale si rimprovera l’interlocutore per mostrargli il suo errore), che se non ha accettato l’aiuto economico dei Corinzi non è perché egli non li ami (in effetti essi dovevano leggere tale comportamento come il rifiuto di un rapporto di reciprocità). A sostegno della sua posizione e del suo amore per i destinatari Paolo chiama a testimone, attraverso una formula di giuramento, Dio, che tutto conosce. Così, in conclusione, appare chiaro che nei vv. 7-11 l’elemento del pathos gioca un suo ruolo al fine di suscitare un atteggiamento positivo dei Corinzi nei confronti dell’apostolo.

Attacco agli avversari Al v. 12, dopo avere negato che il rifiuto del sostentamento significhi una mancanza di affetto per i destinatari, Paolo fornisce una motivazione in positivo per la continuazione di tale atteggiamento. Egli afferma, ricorrendo all’elemento del confronto retorico, che mentre lui annuncia gratuitamente il Vangelo, gli avversari si fanno mantenere dalla comunità e ciò rappresenta una chiara e tangibile differenza tra lui e gli altri. Se egli decidesse di rinunciare alla sua posizione, tale scelta diventerebbe un utile pretesto per gli oppositori per mostrare che il loro è un apostolato al pari di quello paolino. Il v. 13 intende spiegare perché qualsiasi equiparazione tra l’apostolo e gli avversari sia completamente inopportuna. Tale spiegazione comincia anche a fornire elementi utili per abbozzare l’identità degli oppositori riuniti in un gruppo, i quali tuttavia, rimangono anonimi. Prima di tutto Paolo definisce gli avversari «falsi apostoli», richiamando la figura anticotestamentaria e neotestamentaria del falso profeta che non annunciava la parola di Dio, ma la propria (cfr., p. es., Ger 6,13; Zc 13,2; Mt 7,15): essi infatti annunciano un Gesù, uno spirito, un Vangelo diversi da quelli dell’apostolo (cfr. 11,4). Poi si comportano come «operai fraudolenti», probabilmente perché nella loro missione a Corinto agiscono in maniera astuta invadendo il campo di evangelizzazione di Paolo (cfr. 10,13; 11,3). In fondo, secondo l’apostolo, gli avversari pretendono di essere inviati da Cristo e di appartenere a lui, mentre tutto ciò è pura falsità e ipocrisia (cfr. 10,7). Al v. 14 lo mascheramento degli avversari è giustificato a partire da quello di satana. Paolo afferma, infatti, che non deve destare meraviglia la trasformazione degli oppositori, perché l’Avversario stesso è solito prendere le sembianze di un angelo luminoso. Al v. 15 l’attacco contro gli avversari raggiunge la sua conclusione e il suo climax con parole molto forti nei loro confronti. L’apostolo, etichettando gli oppositori cristiani come ministri di Satana, usa toni comparabili soltanto a Fil 3,18-19 dove altri credenti sono designati come «nemici della croce di Cristo», in vista anche del giudizio ultimo. In ogni caso, la finalità dei vv. 13-15 non è tanto denigrare gli avversari, quanto provocare una presa di distanza dei Corinzi nei loro confronti attraverso il risveglio di un pathos negativo, cosicché pure i destinatari li considerino come nemici. Il loro mascheramento nelle vesti di «ministri della giustizia» non intende tanto evocare la questione della giustificazione per la fede, soltanto menzionata in 2 Corinzi (cfr. 3,9; 5,21), quanto riferirsi a un ministero apparentemente giusto e secondo la volontà di Dio, ma effettivamente fraudolento (cfr. 2Cor 6,7). In ogni caso, secondo Paolo essi non potranno più ingannare nessuno di fronte al giudizio finale, dove saranno giudicati e quindi condannati in ragione delle loro opere.

La follia del vanto di sé In maniera simile al v. 1, da una parte Paolo afferma che non vorrebbe essere considerato un folle a fronte dell’elogio di sé che sta per intraprendere; dall’altra si vede costretto a ricorrere a tale pratica a motivo dei Corinzi (cfr. 12,11) che stanno sotto l’influenza degli avversari, i quali si vantano oltre misura (cfr. 10,12-14). La sottolineatura paolina è quella di sostenere che egli sta semplicemente giocando un ruolo al quale si adatta, per il bene dei suoi, al fine di poter vincere sul loro stesso piano gli oppositori, dai quali però egli intende differenziarsi in tutto. Col v. 17 Paolo precisa il senso del suo autoelogio. Infatti, sostiene che ciò che sta per dire non è secondo una prospettiva di fede, ma nella modalità di un folle vanto. Secondo l’apostolo seguire l’atteggiamento degli avversari implica non un vantarsi «nel signore» (cfr. 10,17) ma, all’opposto, «secondo la carne», così come si esprimerà nel versetto successivo. Tuttavia, anche in questo modo egli tiene a far sapere ai destinatari che la sua pazzia è fittizia («come nella follia») ed è assunta proprio per mostrare l’insensatezza dei suoi oppositori e ristabilire la sua autorità nella Chiesa di Corinto. Al v. 18 Paolo continua ad approfondire le circostanze del suo prossimo elogio di sé. Egli sostiene infatti che la motivazione è data dal fatto che gli avversari si vantano secondo criteri puramente umani e mondani; quindi, lui farà altrettanto. In apparenza l’apostolo si contraddice, visto che in 10,3 aveva affermato di non comportarsi «secondo la carne». La presenza degli avversari, qui menzionata con enfasi, è una delle motivazioni tipiche per giustificare il ricorso all’elogio di sé. Il v. 19 fornisce una ragione sia per l’accettazione di Paolo come folle (cfr. v. 16), sia della follia del suo vanto (cfr. vv. 17-18). Così l’apostolo con fine ironia afferma che, giacché i Corinzi sono così saggi, volentieri sopportano i folli. Il riferimento è all’atteggiamento dei destinatari nei confronti dei rivali, da loro ben accolti (cfr. 11, 4), nonostante il fatto che secondo Paolo lo smisurato vanto degli avversari sia folle (cfr. 10,12-14). Di conseguenza, l’apostolo fa intendere come egli si aspetti che il suo elogio di sé sia tollerato dai Corinzi senza problemi (cfr. v. 1). Nel v. 20 è presentata una lista enfatica di cinque verbi utilizzati per descrivere gli abusi degli avversari a Corinto, a fronte dell’accoglienza loro riservata dai destinatari, già ricordata nel versetto precedente. Nonostante questo elenco, l’attenzione del versetto è posta non sugli avversari, che come al solito rimangono senza volto, ma sulla scioccante accoglienza dei destinatari nei loro confronti. Così l’apostolo mette i Corinzi di fronte alle loro responsabilità, alludendo anche al suo comportamento diametralmente opposto (cfr. 11,7.11.21a), che paradossalmente ha ricevuto ben altra accoglienza. il v. 21a chiude il brano con un ritorno al comportamento di Paolo a confronto con quello degli avversari. Il tono è ironico e provocatorio rispetto ai destinatari, d’altra parte il riferimento non è tanto alla dimessa presenza fisica di Paolo, come in 10,10, quanto alla sua scelta di non imporsi e non sfruttare economicamente la comunità di Corinto. Di fronte all’atteggiamento protervo degli oppositori tale opzione risulta, secondo l’apostolo, nient’altro che debolezza. Ma questa tematica costituirà un aspetto saliente dell’elogio di sé di 11,21b–12,10, cosicché 11,21a rappresenta una cerniera, poiché mentre conclude 11,7-21a, prima prova della superiorità di Paolo rispetto agli avversari in ragione del suo annuncio gratuito del Vangelo, prepara lo sviluppo seguente.

L’elogio di sé con i suoi motivi Con il v. 21b l’«io» di Paolo non si nasconde più dietro il «noi» come è avvenuto in precedenza, ma esce alla ribalta. Paolo afferma che se i rivali hanno la temerarietà di ricorrere al vanto di sé, allora anche lui può farlo, sebbene tutto ciò lo dica in una prospettiva folle. Come avviene in ogni elogio o autoelogio, Paolo comincia con un riferimento alle “origini” (così anche in Fil 3,5). In questo modo parte anche il confronto retorico con gli avversari, mettendo prima di tutto l’apostolo al loro pari. Ciò non attesta semplicemente l’identità ebraica degli oppositori, ma evidenzia soprattutto una precisa strategia argomentativa, con la quale si decide di giocare sullo stesso terreno degli avversari, vedendo ciò che è in comune con loro, per poi sconfiggerli. Al v. 23a c'è, invece, un riferimento alle “azioni”: è quello che riveste maggiore importanza, perché è ciò che permette di rendere maggiore testimonianza alle virtù della persona elogiata. Qui Paolo mette in gioco l’agire missionario a servizio di Cristo e del suo Vangelo. Se da una parte l’apostolo sembra riprendere le pretese degli avversari, che si dovevano considerare «super-apostoli» dall’altra egli afferma, con un folle vanto di sé, di essere superiore a loro riguardo al ministero per Cristo (cfr. «io di più») e, di conseguenza, anche riguardo alla conoscenza di Lui. Il passaggio dalla parità alla superiorità con gli avversari, di cui indirettamente è attestato il profilo di missionari cristiani, deve essere ampiamente giustificato, ed è ciò che accade nei versetti successivi, i quali mostrano le diverse situazioni di difficoltà incontrate nel servizio per il Vangelo da parte di Paolo. Le numerose figure presenti nel testo sono al servizio di una retorica dell’amplificazione e dell’eccesso, volta a enfatizzare colui che si loda, al fine di mostrarne l’incomparabile superiorità sui rivali con i quali si confronta. Di conseguenza, il tenore amplificante dell’elenco invita a guardare i dati relativi alle avversità subite da Paolo con una certa circospezione. Al v. 27 sono presentate le sofferenze di Paolo derivanti dalle privazioni sopportate nell’esercizio del suo ministero, con una ripresa di alcune di esse dalle liste di 1Cor 4,10-13 e di 2Cor 6,4b-5. L’apostolo afferma così di essersi molto affaticato nel lavoro (probabilmente per il Vangelo e per il proprio fabbisogno, avendo deciso di non farsi sostenere dalle sue comunità), di avere spesso rinunciato al sonno e al cibo per compiere il proprio servizio, di avere sofferto la fame e la sete nella totale indigenza e di avere patito il freddo derivante da una mancanza di adeguato vestiario. I vv. 28-29 concludono la lista delle avversità, aggiungendo quelle più direttamente legate alle situazioni ecclesiali. Trovandosi al termine dell’elenco, tali sofferenze possono essere considerate il suo climax, ciò che dimostra più chiaramente la statura apostolica di Paolo e, quindi, la sua superiorità sugli avversari. Attraverso l’uso del linguaggio della debolezza, il v. 29 introduce il successivo e con esso la seconda parte del brano, la quale focalizzerà l’attenzione su tale tematica.

L’inversione dell’elogio di sé – inizio Con il v. 30 assistiamo a un mutamento: se finora l’apostolo aveva seguito i canoni retorici intessendo un elogio di se stesso basato sulle sue origini e sulle sue azioni, ora invece decide di vantarsi di ciò che è normalmente disprezzato dai contemporanei, cioè delle proprie debolezze (la frase: «mi vanterò delle mie debolezze» ritorna anche in 12,5.9). L’elogio di sé è dunque invertito, diviene paradossale e corrisponde al vantarsi «secondo il Signore» (cfr. 11,17). Infatti, la seconda parte dell'autoelogio avrà come sue motivazioni questi tre fatti: la fuga da Damasco, le visioni e le rivelazioni dell’«io in Cristo», la «spina nella carne». La superiorità di Paolo sugli avversari comincia, quindi, a essere dimostrata giocando su un terreno completamente diverso dal loro, ma proprio per questo risalterà ancor più, di fronte ai destinatari, la sua eccellenza rispetto agli oppositori e, quindi, il suo incomparabile profilo apostolico. L’inversione dell’elogio di sé avviene anche nel testo parallelo di Fil 3,1–4,1, laddove Paolo annuncia che i doni ricevuti e le virtù acquisite che considerava come guadagni sono diventati perdita – anzi, spazzatura – di fronte al valore sovreminente della conoscenza di Cristo (cfr. Fil 3,7-8). il v. 31 è caratterizzato da un formula di giuramento, congiunta a una di benedizione, che intende dare autorevolezza all’asserzione del versetto precedente. Paolo presenta nei vv. 32-33, con una certa autoironia, l’episodio concernente la sua fuga da Damasco, avvenimento che lo rivela tutto l’opposto di quell’eroe indefesso che sembrava emergere dal catalogo dei vv. 23b-29, ma che dimostra invece la sua debolezza della quale paradossalmente sceglie di vantarsi. Nonostante alcuni studiosi sollevino questioni sino a considerarli fuori luogo e a espungerli dal testo in quanto interpolazione, dal punto di vista argomentativo il ruolo di questi versetti, come notato, è abbastanza chiaro, mentre meno evidenti appaiono i contorni storici dell’episodio qui narrato.


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Esordio 1Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io che, di presenza, sarei con voi debole ma che, da lontano, sono audace verso di voi: 2vi supplico di non costringermi, quando sarò tra voi, ad agire con quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni, i quali pensano che noi ci comportiamo secondo criteri umani. 3In realtà, noi viviamo nella carne, ma non combattiamo secondo criteri umani. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, 4ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, 5distruggendo i ragionamenti e ogni arroganza che si leva contro la conoscenza di Dio, e sottomettendo ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo. 6Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta.

Confutazione delle accuse 7Guardate bene le cose in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che, se lui è di Cristo, lo siamo anche noi. 8In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò da vergognarmene. 9Non sembri che io voglia spaventarvi con le lettere! 10Perché «le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa». 11Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole, per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza. 12Certo, noi non abbiamo l’audacia di uguagliarci o paragonarci ad alcuni di quelli che si raccomandano da sé, ma, mentre si misurano su se stessi e si paragonano con se stessi, mancano di intelligenza. 13Noi invece non ci vanteremo oltre misura, ma secondo la misura della norma che Dio ci ha assegnato, quella di arrivare anche fino a voi. 14Non ci arroghiamo un’autorità indebita, come se non fossimo arrivati fino a voi, perché anche a voi siamo giunti col vangelo di Cristo. 15Né ci vantiamo indebitamente di fatiche altrui, ma abbiamo la speranza, col crescere della vostra fede, di crescere ancor più nella vostra considerazione, secondo la nostra misura, 16per evangelizzare le regioni più lontane della vostra, senza vantarci, alla maniera degli altri, delle cose già fatte da altri. 17Perciò chi si vanta, si vanti nel Signore; 18infatti non colui che si raccomanda da sé viene approvato, ma colui che il Signore raccomanda.

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

La sezione dei capitoli 10–13 rappresenta una lettera successiva alla precedente, benché priva del suo praescriptum. Se i capitoli 1–9 avevano indicato una riconciliazione ormai raggiunta nei rapporti tra l’apostolo e la sua comunità, quelli successivi si presentano inaspettatamente segnati da un profondo conflitto, dovuto all’azione degli avversari giudeo-cristiani, che hanno creato tale frattura. Inoltre, mentre in 2 Corinzi A Paolo tratta di sé insieme ai suoi collaboratori, in 2 Corinzi B l’«io» paolino è del tutto preponderante e l’apostolo si trova da solo sulla scena, rivolgendosi direttamente alla comunità, ma tenendo ben conto della presenza degli oppositori con i quali si confronta. In generale, il problema sottostante la sezione non è principalmente quello della polemica contro gli avversari, sebbene essi abbiano uno spazio rilevante, bensì quello del ministero di Paolo nei confronti dei destinatari: egli si scaglia contro i primi non tanto per denigrarli, quanto per riconquistare a sé i secondi, che subivano l’influenza degli oppositori.

Esordio Il testo di 10,1-6 introduce 2 Corinzi B presentandone i protagonisti: Paolo, i Corinzi, con i quali egli si relaziona direttamente, e, sullo sfondo, gli avversari. Da subito è chiaro anche il clima di conflitto che segna la nuova lettera. Perciò già all’inizio l’apostolo, rivolgendosi accoratamente ai destinatari, si scaglia contro gli avversari al fine di difendere il proprio apostolato da generiche critiche. L’apostolo poi riferisce di un’accusa sollevata a Corinto nei suoi confronti, riguardo all’incapacità di imporsi quando si trova all’interno della comunità, mentre si dimostra forte da lontano, scrivendo le sue lettere. Al v. 2 Paolo riprende l’appello nei confronti dei Corinzi, mostrandone il contenuto: chiede ai suoi, allorché li visiterà, di non essere costretto ad agire audacemente con quella fermezza che ritiene invece di dover utilizzare nei confronti degli avversari, che, a loro volta, lo giudicano come uno che si comporta secondo la mentalità mondana. La pavidità che, secondo il versetto precedente, è attribuita all’apostolo troverà quindi una concreta smentita in occasione della sua terza visita a Corinto, che egli desidererebbe non fosse segnata dallo scontro, ma dalla riconciliazione con la comunità (cfr. 12,14; 13,10), mentre promette un duro intervento nei confronti dei suoi detrattori. Al v. 3 Paolo, da una parte, ammette di vivere l’esistenza naturale e limitata di ogni uomo; dall’altra, sostiene di non svolgere il combattimento, che è il suo ministero apostolico, seguendo criteri mondani. Amplificando quanto affermato nel v. 3, Paolo nel v. 4a si diffonde a parlare della sua battaglia non «secondo la carne». infatti, egli afferma che le sue armi non sono mondane, ma hanno una forza che è posta al servizio di Dio per la distruzione delle fortezze innalzate contro il Vangelo. Nei vv. 4b-5 si comincia a fornire l’interpretazione dell’immagine militare. Dapprima Paolo afferma che le fortezze votate alla distruzione sono i vani ragionamenti e gli atteggiamenti arroganti che si pongono da ostacolo alla conoscenza di Dio. Poi, alla fine di 10,5, in positivo, attraverso la metafora militare si sviluppa l’idea del prendere prigioniera ogni mente per condurla all’obbedienza di fede a Cristo, contenuto della predicazione paolina. Il v. 6 conclude l’esplicitazione della metafora militare: Paolo sostiene che è preparato a castigare ogni disobbedienza a Corinto non appena l’obbedienza dei destinatari sarà piena. Non è chiaro come Paolo possa punire i primi, se non forse cacciandoli dalla comunità, mentre per i secondi è più facile pensare a un intervento medicinale trattandosi di membri della Chiesa corinzia (cfr. 1Cor 5,4-7; 2Cor 2,6-7). Il versetto conclude l’esordio con il tentativo di separare i destinatari dagli oppositori paolini penetrati nella comunità, richiamando la fedeltà a Cristo e al suo Vangelo, predicato da Paolo. Tutto questo ci dice che la riconciliazione tra l’apostolo e la comunità, celebrata in 2 Corinzi A attraverso la manifestazione di una piena fiducia e la conseguente iniziativa di ripresa della colletta (cfr. 7,16; 9,2.13-15), appartiene ormai al passato. Infatti Paolo, come si mostrerà nello sviluppo successivo, deve di nuovo e più aspramente lottare per riconquistare a sé i Corinzi.

Confutazione delle accuse Paolo comincia col rivolgersi esplicitamente ai destinatari, che intende convincere dell’infondatezza delle accuse a lui rivolte. al v. 7 l’elemento del confronto retorico ruota attorno alla questione del ministero cristiano, e Paolo sembra concedere agli oppositori lo status apostolico che poi negherà loro (cfr. 11,13-15). Tuttavia, il testo indica che tale piuttosto è la loro percezione e che di questo, al momento, l’autore non si preoccupa, perché più importante è mettere i destinatari di fronte all’evidenza della sua apostolicità, dimostrata proprio a partire da quanto operato nella loro comunità (cfr. 1Cor 9,1-2). al v. 8, Paolo offre una conferma della sua dichiarazione di essere ministro di Cristo e parla di un suo vanto. L’apostolo sostiene la positiva natura dell’esercizio della sua autorità a Corinto, volta a fare crescere la comunità e ciascuno dei suoi membri. D’altra parte la strategia della distruzione, come visto nell’esordio di 2Cor 10,1-6, è riservata agli avversari. Apparirà ben presto chiaro che di questo suo agire ministeriale, soprattutto a vantaggio della comunità corinzia non avrà paura a vantarsi. Il v. 9 riprende quanto detto nel precedente riguardo all’autorità paolina indirizzata a edificare la comunità di Corinto e non a distruggerla. L’apostolo, per non sembrare troppo arrogante di fronte ai suoi detrattori, ammette indirettamente il fatto che le sue lettere siano in un certo qual modo dure e quindi spaventino gli ascoltatori, benché questo non rappresenti lo scopo voluto dall’autore. Il v. 10 chiarisce il motivo per il quale l’apostolo ha avanzato la questione della severità delle sue lettere: egli deve controbattere una calunnia diffusa a Corinto dai suoi avversari. Finalmente, dopo gli accenni presenti nell’esordio riguardanti le critiche nei suoi confronti, qui – a differenza degli altri passaggi paolini dove non si riportano direttamente le posizioni degli oppositori – viene esplicitata un’accusa rivolta a Paolo che poi sarà confutata. essa consiste nell’incongruenza tra le lettere, da una parte, e la presenza e la parola, dall’altra. Nel contesto culturale del tempo si poneva attenzione al modo di presentarsi dell’oratore in ordine alla sua capacità comunicativa e persuasiva; questo modo di pensare potrebbe essere dietro all’accusa di discrepanza tra le lettere inviate dall’apostolo e la sua effettiva presenza a Corinto. Al v. 11, Paolo risponde all’accusa sollevata dagli avversari. La confutazione paolina sostiene che l’apostolo è lo stesso, da assente come da presente, e allude probabilmente anche alla prossima futura terza visita a Corinto nella quale egli promette di far sperimentare ai destinatari la forza della sua presenza (cfr. 13,2-3). Tutta la questione qui affrontata è comprensibile all’interno di un mondo dove gli spostamenti non erano così veloci e agevoli. Perciò lo scritto epistolare fungeva da sostituto della persona e talvolta anche del discorso che l’autore avrebbe potuto fare se fosse stato presente in mezzo ai suoi destinatari. Inoltre nel versetto è presente il problema della coerenza tra «parola» e «azione», affrontato nella letteratura greca, ma anche dal Nuovo Testamento con le critiche di Gesù all’atteggiamento farisaico (cfr. Mt 23,1-3) e da Paolo stesso, che in Rm 2,17-24 mostra l’ipocrisia del suo fittizio interlocutore giudeo. Al v. 12 continua la confutazione paolina, introducendo la difesa da un’altra accusa proveniente dagli oppositori. In 3,1 si era parlato della raccomandazione degli avversari di Paolo attraverso lettere; ora il discorso è diverso, perché la questione è intrecciata con quella del vanto ed è legata ai criteri sui quali basarsi per tutto ciò, così come chiariranno anche i vv. 17-18. Per il momento Paolo invita i Corinzi a riconoscere che gli oppositori sono insensati, perché si valutano da se stessi – al limite confrontandosi semplicemente con quelli della propria cerchia – senza aprirsi a un giudizio esterno. Nel testo l’insistente ripetizione di «se stessi» in relazione agli avversari indica la loro chiusura. Al v. 13 l’apostolo riporta l’accusa di un vanto indebito riguardo il suo ministero di evangelizzatore. Inoltre contrasta il suo atteggiamento con quello degli avversari, promettendo di diffondersi in un elogio di sé, cosa che avverrà soprattutto in 11,21b–12,10. Qui, a motivo anche del versetto precedente, l’apostolo indirettamente critica gli oppositori di un vanto smisurato, perché non basato sulla competenza e sull’autorità conferita da Dio come avviene invece per lui. Il v. 14 riprende e motiva il vanto del versetto precedente, cominciando la confutazione vera e propria dell’accusa sollevata nei confronti di Paolo. Infatti, egli sostiene che non si esalta oltre il dovuto, perché è giunto sino a Corinto e lo ha fatto portandovi il Vangelo che ha come contenuto lo stesso Cristo. I Corinzi stessi permetteranno così all’apostolo di autoelogiarsi, senza risultare arrogante, dal momento che ‒ come detto pure al v. 13 ‒ egli rispetta i limiti derivanti dal mandato divino. Ma l’attenzione del v. 14 è soprattutto al contenuto dell’annuncio paolino; si tratta come già visto in 2,12 del «Vangelo di Cristo». Implicitamente il testo fa intendere che è questo l’elemento che differenzia l’apostolo dagli avversari che annunciano un altro Vangelo e un altro Cristo (cfr. 2Cor 11,4). Il v. 15 riprende il v. 13, ma continua anche la confutazione iniziata al versetto precedente. paolo, infatti, afferma che il suo vanto non è basato sul lavoro missionario di altri, ma egli nutre la speranza che i Corinzi, con la crescita della loro fede, facciano crescere anche la loro considerazione per lui in ragione del mandato ricevuto da Dio. Il v. 16 mostra con chiarezza la ragione per la quale Paolo desidera di essere apprezzato e considerato a Corinto. La finalità è quella di portare il Vangelo oltre Corinto senza gloriarsi di quanto compiuto dagli altri missionari all’interno del loro campo d’azione. Al v. 17 abbiamo il riferimento scritturistico più chiaro di tutta la sezione. Infatti, senza introdurlo come citazione, è presentato il testo di Ger 9,23 LXX. Il riferimento alla Scrittura vuole sancire in definitiva qual è il vanto legittimo: è quello di colui che si vanta nel Signore. Il v. 18 riprende dal v. 12 il tema della raccomandazione, vicino a quello del vanto, e conclude la confutazione paolina con una nuovo probabile riferimento di contrasto con gli avversari. Egli vuol far intendere ai Corinzi che lui solo, e non alcun avversario, è approvato da Dio come apostolo, in quanto egli lascia, ancora a differenza degli oppositori, che sia il Signore a operare, accogliendo da lui il mandato e l’ambito della propria missione, la quale l’ha condotto sino a Corinto (cfr. v. 13).


🔝C A L E N D A R I OHomepage

Fiducia nei Corinzi 1Riguardo poi a questo servizio in favore dei santi, è superfluo che io ve ne scriva. 2Conosco infatti la vostra buona volontà, e mi vanto di voi con i Macèdoni, dicendo che l’Acaia è pronta fin dallo scorso anno e già molti sono stati stimolati dal vostro zelo.

Compito dei delegati 3Ho mandato i fratelli affinché il nostro vanto per voi su questo punto non abbia a dimostrarsi vano, ma, come vi dicevo, siate realmente pronti. 4Non avvenga che, se verranno con me alcuni Macèdoni, vi trovino impreparati e noi si debba arrossire, per non dire anche voi, di questa nostra fiducia. 5Ho quindi ritenuto necessario invitare i fratelli a recarsi da voi prima di me, per organizzare la vostra offerta già promessa, perché essa sia pronta come una vera offerta e non come una grettezza.

Motivazione scritturistica sulla natura della colletta 6Tenete presente questo: chi semina scarsamente, scarsamente raccoglierà e chi semina con larghezza, con larghezza raccoglierà. 7Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia. 8Del resto, Dio ha potere di far abbondare in voi ogni grazia perché, avendo sempre il necessario in tutto, possiate compiere generosamente tutte le opere di bene. 9Sta scritto infatti: Ha largheggiato, ha dato ai poveri, la sua giustizia dura in eterno. 10Colui che dà il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, darà e moltiplicherà anche la vostra semente e farà crescere i frutti della vostra giustizia.

Il frutto della colletta 11Così sarete ricchi per ogni generosità, la quale farà salire a Dio l’inno di ringraziamento per mezzo nostro. 12Perché l’adempimento di questo servizio sacro non provvede solo alle necessità dei santi, ma deve anche suscitare molti ringraziamenti a Dio. 13A causa della bella prova di questo servizio essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza e accettazione del vangelo di Cristo, e per la generosità della vostra comunione con loro e con tutti. 14Pregando per voi manifesteranno il loro affetto a causa della straordinaria grazia di Dio effusa sopra di voi. 15Grazie a Dio per questo suo dono ineffabile!

Approfondimenti

(cf SECONDA LETTERA AI CORINZI – Introduzione, traduzione e commento – a cura di Francesco Bianchini © EDIZIONI SAN PAOLO, 2015)

Fiducia nei Corinzi Al v. 1 l’apostolo afferma che riguardo alla colletta non è necessario che egli ne parli ancora ai destinatari. La raccolta è chiamata, esattamente come in 8,4, «servizio a beneficio dei santi» e Paolo intende proprio a partire da qui approfondirne il significato: vuole rimarcare l’importanza di una questione e approfondirne i fondamenti, mentre nello stesso tempo desidera esprimere la sua fiducia nei destinatari. il v. 2 fornisce la motivazione del versetto precedente. Infatti, l’apostolo afferma che sa della disponibilità dei destinatari, della quale si vanta con i Macedoni, sostenendo che l’Acaia si è preparata per la colletta sin dall’anno precedente; in effetti il loro ardore ha funzionato da positivo stimolo per gran parte di coloro che hanno ascoltato Paolo. Se in 8,1-6 Paolo aveva usato l’esempio dei Macedoni per incoraggiare i Corinzi, ora fa esattamente il contrario. In ogni modo egli desidera promuovere una positiva emulazione tra le sue comunità (cfr. 1Ts 1,7; 2,14), nel nostro caso riguardo all’iniziativa della colletta.

Compito dei delegati Paolo afferma che sta per mandare Tito e gli altri due fratelli a Corinto, affinché il vanto dei destinatari in merito alla colletta non risulti ingiustificato, e affinché essi siano del tutto pronti al momento dell’arrivo dell’apostolo. Alle due finalità dell’invio dei delegati, espresse nel v. 3, è aggiunta una terza finalità nel v. 4, questa volta in negativo: quella di non doversi vergognare dei Corinzi, per non dire della vergogna degli stessi destinatari riguardo al progetto della colletta. Come in 2,3 e in 8,19, ma in maniera più chiara, qui Paolo fa riferimento a una sua prossima visita della comunità. Al v. 5 Paolo sostiene che ritiene necessario pregare i delegati di recarsi prima di lui a Corinto e di fare in modo che la colletta, da tempo iniziata, sia completata prima che lui giunga nella comunità accompagnato dai Macedoni. Nella seconda parte del versetto l’apostolo chiede che la colletta sia un dono generoso da parte dei destinatari e non il frutto della loro grettezza; in questo modo è annunciata la riflessione sulla natura della raccolta che sarà sviluppata in 9,6-15. Ancora una volta Paolo parla di essa in termini non economici, ma teologici, perché non solo l’«offerta» generosa è vista in relazione a Dio, ma anche la stessa «spilorceria» in quanto forma di idolatria (cfr. Col 3,5) ha chiaramente a che fare con lui.

Motivazione scritturistica sulla natura della colletta Al v. 6 Paolo approfondisce quanto appena detto a proposito della natura della colletta attraverso una frase che introduce un detto dal sapore proverbiale: chi semina poco, poco raccoglierà; chi semina molto, molto raccoglierà. In altre parole: il raccolto dipende dalla semina, ovvero, meno i destinatari della lettera daranno, meno riceveranno in cambio; al contrario, più daranno, più riceveranno in cambio. Al v. 7 Paolo invita infatti ciascuno a donare in base a quanto ha deliberato nel suo cuore, senza addolorarsi o sentirsi costretto, perché Dio si compiace di colui che fa il suo dono con gioia: la decisione deve essere interiore, non con tristezza e non per forza. Paolo desidera evitare che il suo invito alla raccolta e la relativa azione degli stessi delegati possano essere compresi dai Corinzi come delle forme di imposizione; per questo rimanda alla volontà di Dio citata per mezzo del ricorso a Pr 22,8a. il v. 8 vuol mostrare in che cosa consistono l’amore e l’approvazione di Dio per colui che dona con gioia. Paolo sostiene quindi che Dio può far abbondare nei Corinzi ogni dono spirituale e materiale in modo che, avendo in ogni circostanza e ambito il necessario, compiano generosamente le opere dell’amore. La grazia di Dio, già richiamata in 8,1 a proposito della partecipazione alla colletta dei Macedoni, ha il potere di rendere i destinatari capaci di «ogni opera buona». Riguardo all’opera di carità dei Corinzi, al v. 9 Paolo introduce, attraverso una formula di citazione, una parte del Sal 111,9 LXX (TM 112,9). Il testo biblico annuncia che l’uomo che largheggia e dona ai poveri vedrà la sua giustizia rimanere per sempre. Così l’apostolo desidera promuovere la generosità dei Corinzi, invitando a vedere nelle parole del salmo un riferimento loro diretto. Il v. 10 riprende, attraverso l’uso della scrittura, sia il v. 8, rimarcando la generosità dei doni divini, sia il v. 9, riferendosi alla giustizia dei destinatari. Come Dio provvede all’uomo i mezzi per la produzione del cibo, così provvederà ai destinatari i mezzi per contribuire alla colletta e incrementerà i buoni frutti del loro giusto agire. L’insistenza paolina è sul fatto che all’origine della possibilità stessa della raccolta sta l’azione di Dio, il quale fornirà un’abbondante quantità di risorse, in modo che i Corinzi possano donare ai poveri di Gerusalemme, senza paura di trovarsi a loro volta nel bisogno.

Il frutto della colletta il v. 11 riprende i versetti precedenti e introduce i successivi. In maniera entusiastica l’apostolo comincia qui a parlare degli effetti della colletta con la sicurezza che i destinatari vi aderiranno, poiché essi abbondano dei doni di grazia di Dio, concessi loro non solo in vista della raccolta, ma anche per il compimento di ogni altra opera buona (cfr. v. 8). Poi il dono dei Corinzi, recato da Paolo e dai suoi collaboratori, condurrà la comunità di Gerusalemme a innalzare un ringraziamento a Dio. Dalla grazia (greco, cháris) della colletta si passerà quindi al relativo rendimento di grazie (greco, eucharistía), in ogni caso Dio vi sarà sempre pienamente coinvolto. Il v. 12 funge da spiegazione dell’ultima parte del versetto precedente che riguardava il ringraziamento a Dio. Paolo afferma così che il ministero della colletta non solo provvede all’indigenza dei cristiani di Gerusalemme ma, cosa ancor più importante, è fecondo di molti ringraziamenti rivolti a Dio. Appare evidente che la liturgia voluta da Dio per i suoi si deve esprimere nell’aiuto concreto ai fratelli in difficoltà, e la colletta è perciò un vero atto di culto a lui rivolto. Il v. 13 motiva ed espande la questione dei molti ringraziamenti menzionati nel versetto precedente. Qui la raccolta è vista da Paolo come prova concreta dell’amore cristiano maturato dai Corinzi (cfr. 8,8.24). D’altro canto, secondo l’apostolo, i beneficiari di essa, glorificando Dio, riconosceranno nella colletta il segno che davvero il Vangelo è stato accolto in Acaia e il desiderio dei Corinzi di una profonda comunione con la Chiesa madre di Gerusalemme e con tutte le altre comunità cristiane. Alla glorificazione di Dio del versetto precedente, segue nel v. 14 la preghiera di intercessione. Infatti, Paolo sostiene che i credenti di Gerusalemme pregheranno per quelli di Corinto, manifestando in questo modo la loro affettuosa riconoscenza a motivo della straordinaria grazia di Dio donata alla comunità dell’Acaia nell’ambito della colletta. L’espressione di affetto dei beneficiari verso i donatori è normale, ma nel nostro caso essa è legata al riconoscimento dell’azione di Dio. Di nuovo viene ribadito che, come per i Macedoni, anche per i Corinzi all’origine della loro generosità c’è la grazia di Dio (cfr. v. 8), cosicché essa si trova all’inizio e alla fine di tutta l’esortazione alla colletta, attestando il suo ruolo fondamentale nella raccolta (cfr. 8,1). Avendo parlato nei versetti precedenti dei positivi effetti della colletta sostenuta dall’azione di Dio, Paolo conclude al v. 15 tutta la sezione con un breve ma denso ringraziamento al suo Signore, segnato da un linguaggio enfatico tipico del climax finale. L’apostolo, infatti, esprime il suo «grazie» (da notare il nuovo uso di cháris) a Dio per il dono ineffabile da lui concesso. Si tratta proprio della raccolta per i poveri della comunità di Gerusalemme che ancora una volta, com’è avvenuto nel corso della sezione, viene nominata con un eufemismo, in questo caso al fine di indicare che essa è un dono divino sia per i benefattori che per i beneficiari. In questo modo l’apostolo tiene alto il valore della colletta e la riporta a Dio, dalla cui grazia trae inizio e compimento, desiderando unire nel suo ringraziamento tutti coloro che in ogni modo sono coinvolti in essa.

Con questo climax di ringraziamento il percorso epistolare appare opportunamente concluso, cosicché si deve pensare che il corpus di 2 Corinzi a terminasse qui, e a esso seguisse soltanto il tipico postscriptum paolino con i saluti e la benedizione finali. Paolo chiude la sua lettera con un senso di ottimismo sul completamento della colletta derivante, più che dalla confidenza nei destinatari, dalla fiducia nella grazia di Dio che è vista all’opera nella Chiesa. D’altronde la fiducia di Paolo negli ascoltatori e nel loro completamento della colletta non fa presagire in alcun modo quanto troveremo in 2 Corinzi B. Nei capitoli 10–13 infatti assisteremo a una difesa dell’apostolo segnata da forti rimproveri nei confronti della comunità che, tra l’altro, lo attacca proprio per la sua gestione della colletta a Corinto (cfr. 12,14-18), la quale comunque deve avere avuto alla fine un certo frutto (cfr. Rm 15,26-27).


🔝C A L E N D A R I OHomepage