📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA: Regole; a Diogneto ● PROFETI ● Concilio Vaticano II ● NUOVO TESTAMENTO

LETTERA DI GEREMIA

Introduzione 1Per i peccati da voi commessi di fronte a Dio sarete condotti prigionieri a Babilonia da Nabucodònosor, re dei Babilonesi. 2Giunti dunque a Babilonia, vi resterete molti anni e per lungo tempo fino a sette generazioni; dopo vi ricondurrò di là in pace. 3Ora, vedrete a Babilonia idoli d’argento, d’oro e di legno, portati a spalla, i quali infondono timore alle nazioni. 4State attenti dunque a non divenire in tutto simili agli stranieri; il timore dei loro dèi non si impadronisca di voi. 5Alla vista di una moltitudine che prostrandosi davanti e dietro a loro li adora, dite a voi stessi: «Te dobbiamo adorare, Signore». 6Poiché il mio angelo è con voi, ed è lui che si prende cura delle vostre vite.

Gli idoli non possono salvare 7Essi hanno una lingua limata da un artefice, sono coperti d’oro e d’argento, ma sono simulacri falsi e non possono parlare. 8E come per una ragazza amante degli ornamenti, prendono oro e acconciano corone sulla testa dei loro dèi. 9Talvolta anche i sacerdoti, togliendo ai loro dèi oro e argento, lo spendono per sé, e lo danno anche alle prostitute nei postriboli. 10Adornano poi con vesti, come gli uomini, gli dèi d’argento, d’oro e di legno; ma essi non sono in grado di salvarsi dalla ruggine e dai tarli. 11Sono avvolti in una veste purpurea, ma bisogna pulire il loro volto per la polvere del tempio che si posa abbondante su di essi. 12Come il governatore di una regione, il dio ha lo scettro, ma non stermina colui che lo offende. 13Ha il pugnale e la scure nella destra, ma non si libererà dalla guerra e dai ladri. 14Per questo è evidente che essi non sono dèi; non temeteli, dunque!

Gli idoli sono insensibili 15Come un vaso di terra una volta rotto diventa inutile, così sono i loro dèi, posti nei templi. 16I loro occhi sono pieni della polvere sollevata dai piedi di coloro che entrano. 17Come per uno che abbia offeso un re si tiene bene sbarrato il luogo dove è detenuto perché deve essere condotto a morte, così i sacerdoti assicurano i templi con porte, con serrature e con spranghe, perché non vengano saccheggiati dai ladri. 18Accendono lucerne, persino più numerose che per se stessi, ma gli dèi non possono vederne alcuna. 19Sono come una trave del tempio il cui interno, si dice, viene divorato, e anch’essi, senza accorgersene, insieme con le loro vesti sono divorati dagli insetti che strisciano fuori dalla terra. 20Il loro volto si annerisce per il fumo del tempio. 21Sul loro corpo e sulla testa si posano pipistrelli, rondini, gli uccelli, come anche i gatti. 22Di qui potrete conoscere che essi non sono dèi; non temeteli, dunque!

Gli idoli sono svergognati dai loro fedeli 23L’oro di cui sono adorni per bellezza non risplende se qualcuno non ne toglie la ruggine; persino quando venivano fusi, essi non se ne accorgevano. 24Furono comprati a qualsiasi prezzo, essi che non hanno alito vitale. 25Senza piedi, vengono portati a spalla, mostrando agli uomini la loro vile condizione; provano vergogna anche coloro che li servono, perché, se cadono a terra, non si rialzano più. 26Neanche se uno li colloca diritti si muoveranno da sé, né se si sono inclinati si raddrizzeranno, ma si pongono offerte innanzi a loro come ai morti. 27I loro sacerdoti vendono le loro vittime e ne traggono profitto; allo stesso modo le mogli di costoro ne pongono sotto sale una parte e non ne danno né ai poveri né ai bisognosi. Anche una donna mestruata e la puerpera toccano le loro vittime. 28Conoscendo dunque da questo che essi non sono dèi, non temeteli!

Gli idoli non possono aiutare i loro fedeli 29Come dunque si potrebbero chiamare dèi? Poiché anche le donne sono ammesse a servire questi dèi d’argento, d’oro e di legno. 30Nei loro templi i sacerdoti guidano il carro con le vesti stracciate, le teste e le guance rasate, a capo scoperto. 31Urlano alzando grida davanti ai loro dèi, come fanno alcuni durante un banchetto funebre. 32I sacerdoti si portano via le vesti degli dèi e le fanno indossare alle loro mogli e ai loro bambini. 33Gli idoli non potranno contraccambiare né il male né il bene ricevuto da qualcuno; non possono né costituire né spodestare un re. 34Allo stesso modo non possono dare né ricchezze né denaro. Se qualcuno, fatto un voto, non lo mantiene, non lo ricercheranno. 35Non libereranno un uomo dalla morte né sottrarranno il debole dal forte. 36Non renderanno la vista a un cieco, non libereranno l’uomo che è in difficoltà. 37Non avranno pietà della vedova e non beneficheranno l’orfano. 38Sono simili alle pietre estratte dalla montagna quegli dèi di legno, d’oro e d’argento. Coloro che li servono saranno disonorati. 39Come dunque si può ritenere e dichiarare che essi sono dèi?

I Caldei disonorano i loro idoli 40Inoltre, persino gli stessi Caldei li disonorano; questi, infatti, quando vedono un muto incapace di parlare, lo presentano a Bel, pregandolo di farlo parlare, quasi che costui potesse capire. 41Ma, pur rendendosene conto, non sono capaci di abbandonare gli dèi, perché non hanno senno. 42Le donne siedono per la strada cinte di cordicelle e bruciano della crusca. 43Quando qualcuna di loro, tratta in disparte da qualche passante, si è coricata con lui, schernisce la sua vicina perché non è stata stimata come lei e perché la sua cordicella non è stata spezzata. 44Tutto ciò che accade loro, è falso; dunque, come si può credere e dichiarare che essi sono dèi?

Gli idoli sono lavoro delle mani dell'uomo 45Essi sono stati costruiti da artigiani e da orefici; non diventano nient’altro che ciò che gli artigiani vogliono che siano. 46Coloro che li fabbricano non hanno vita lunga; come potrebbero le cose da essi fabbricate essere dèi? 47Essi hanno lasciato ai loro posteri menzogna e vergogna. 48Difatti, quando sopraggiungono la guerra e i mali, i sacerdoti si consigliano fra loro dove potranno nascondersi insieme con i loro dèi. 49Come dunque è possibile non comprendere che non sono dèi coloro che non salvano se stessi né dalla guerra né dai mali? 50In merito a questo si riconoscerà che gli dèi di legno, d’oro e d’argento sono falsi; a tutte le nazioni e ai re sarà evidente che essi non sono dèi, ma opere degli uomini, e non c’è in loro nessuna opera di Dio. 51A chi dunque non è evidente che essi non sono dèi?

Gli idoli non hanno alcun potere 52Essi infatti non potranno costituire un re sulla terra né concedere la pioggia agli uomini; 53non risolveranno le contese né libereranno chi è offeso ingiustamente, poiché non hanno alcun potere. Sono come cornacchie fra il cielo e la terra. 54Infatti, se il fuoco si attacca al tempio di questi dèi di legno, d’oro e d’argento, mentre i loro sacerdoti fuggiranno e si metteranno in salvo, essi bruceranno là in mezzo come travi. 55A un re e ai nemici non potranno resistere. 56Come dunque si può ammettere e pensare che essi siano dèi?

Gli idoli non recano benefici agli uomini 57Né dai ladri né dai briganti si salveranno questi dèi di legno, d’oro e d’argento, ai quali i ladri toglieranno l’oro e l’argento e le vesti che li avvolgevano, e fuggiranno; gli dèi non potranno aiutare neppure se stessi. 58Per questo è superiore a questi dèi bugiardi un re che mostri coraggio oppure un oggetto utile in casa, di cui si servirà chi l’ha acquistato; anche una porta, che tenga al sicuro quanto è dentro la casa, è superiore a questi dèi bugiardi, o persino una colonna di legno in un palazzo. 59Il sole, la luna, le stelle, essendo lucenti e destinati a servire a uno scopo, obbediscono volentieri. 60Così anche il lampo, quando appare, è ben visibile; anche il vento spira su tutta la regione. 61Quando alle nubi è ordinato da Dio di percorrere tutta la terra, esse eseguono l’ordine; il fuoco, inviato dall’alto per consumare monti e boschi, esegue l’ordine. 62Gli dèi invece non assomigliano, né per l’aspetto né per la potenza, a queste cose. 63Da questo non si deve ritenere né dichiarare che siano dèi, poiché non possono né rendere giustizia né beneficare gli uomini. 64Conoscendo dunque che essi non sono dèi, non temeteli!

Le belve sono migliori degli idoli 65Essi non malediranno né benediranno i re; 66non mostreranno alle nazioni segni nel cielo né risplenderanno come il sole né illumineranno come la luna. 67Le belve sono migliori di loro, perché possono fuggire in un riparo e aiutare se stesse. 68Dunque, in nessuna maniera è evidente per noi che essi siano dèi; per questo non temeteli!

Conclusione 69Come infatti uno spauracchio che in un campo di cetrioli nulla protegge, tali sono i loro dèi di legno, d’oro e d’argento; 70ancora, i loro dèi di legno, d’oro e d’argento si possono paragonare a un arbusto spinoso in un giardino, su cui si posa ogni sorta di uccelli, o anche a un cadavere gettato nelle tenebre. 71Dalla porpora e dal bisso che si logorano su di loro comprenderete che non sono dèi; infine saranno divorati e nel paese saranno una vergogna. 72È migliore dunque un uomo giusto che non abbia idoli, perché sarà lontano dal disonore.

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Approfondimenti

Introduzione 6,1-6 1-2. L'esilio babilonese è visto come conseguenza dei peccati degli Israeliti. Diversamente da Ger 25,11; 29,10, la durata dell'esilio non sarà di 70 anni, ma di sette generazioni; Dn 9,24 parla invece di settanta settimane di anni. Può darsi che si faccia allusione all'epoca in cui fu scritta la lettera; ma è anche possibile che si tratti di una cifra simbolica. Dopo un certo tempo, Dio ricondurrà il suo popolo in patria. JHWH parla direttamente agli esiliati in prima persona (cfr. v. 6: «il mio angelo è con voi»).

3-4. Gli idoli sono d'argento, d'oro e di legno: cfr. Sal 115,4; 135,15. L'autore sembra avere davanti agli occhi le impressionanti processioni sacre che si svolgevano a Babilonia, portando a spalla le immagini degli idoli. Il «timore» suscitato dagli idoli non è soltanto la rispettosa riverenza per il divino, ma è la “paura” e l'“intimidazione” cui il culto idolatrico soccombe di fronte a divinità minacciose e vendicatrici. Il ripetuto invito a «non temere» gli idoli è l'affermazione sia della loro nullità sia della loro falsità. Timor creat deos: non così è della fede ebraica. Il biblico “timor di Dio” equivale alla fiducia in Dio.

5-6. L'atteggiamento della minoranza ebraica in diaspora è anzitutto la fedeltà al primo comandamento: «Te dobbiamo adorare, Signore» (cfr. Dt 5,9; 8,19; 11,16, ecc.). Si suggerisce la distanza e il rifiuto interiore, non l'azione rivoluzionaria o violenta contro gli idoli; si mette in guardia dall'imitare i pagani (v. 4), ma implicitamente si invita a una certa tolleranza esteriore. Come l'angelo di Dio guidò e protesse gli Ebrei nel deserto (Es 23,23; 32,34; 33,2), così farà nell'esilio. L'espressione resa con «si prenderà cura di voi» (v. 6) letteralmente suona: «cercherà le vostre vite», echeggiando forse l'ebraico biqqeš nepeš che significa «far pagare con la vita». Le versioni proposte sono varie: per es.: «sonda le coscienze», «veglierà sulle vostre vite», «sarà responsabile delle vostre vite», «chiederà conto delle vostre vite».

Gli idoli non possono salvare 6,7-14 La critica verso gli idoli riguarda anzitutto la loro incapacità di salvare e di salvarsi. Sono opera umana; non sanno nemmeno vestirsi da soli; non sono in grado di proteggersi dalla ruggine e dai tarli; non sono capaci di pulirsi il volto dalla polvere del tempio; hanno scettro, pugnale e scure, segni di potere e di autorità, ma non liberano dalla guerra e dai ladri nemmeno se stessi. La satira identifica le divinità con le loro raffigurazioni fatte di materia inerte e corruttibile. Si screditano anche i sacerdoti idolatri sia per la loro avidità (v. 9) sia per l'uso profanatore dell'oro e argento offerto agli idoli. Non sembra trattarsi di prostitute sacre, poiché, nel tardo greco, il termine tegos significa «postribolo, bordello», senza riferimento a rituali religiosi. Dunque tutto lo sfarzo d'oro e d'argento, di vestiti ornamentali e di segni del potere, non è che illusione e falsità. Gli idoli sono impotenti e vuoti. Non c'è da temerli.

Gli idoli sono insensibili 6,15-22 Continua la critica corrosiva degli idoli, inutili come un vaso di terra andato in frantumi. Essi non vedono, anzi i loro occhi sono pieni della polvere sollevata dai visitatori del tempio; sono circondati da innumerevoli lumi, più di quelli che si usano nelle case, ma essi non ne vedono alcuno. Gli idoli non sono in grado di difendersi e perciò i sacerdoti assicurano i templi con portoni, serrature e spranghe, tenendo gli dei prigionieri, come si fa con i malfattori. La satira diventa brutale: gli idoli sono come le travi del tempio, perché anch'essi e le loro vesti sono divorati dagli insetti; il loro volto si annerisce per il fumo del tempio e sul loro corpo si posano pipistrelli, rondini, e altri uccelli, perfino i gatti. La derisione è feroce: gli idoli sono inutili; invece di proteggere e di salvare, hanno bisogno essi stessi di essere custoditi e salvaguardati. Essi non sono dei!

Gli idoli sono svergognati dai loro fedeli 6,23-28 Gli adoratori di idoli spendono patrimoni ingenti (v. 24: «a qualsiasi prezzo») per fabbricarli, ma i loro idoli nemmeno si rendono conto. I fedeli portano a spalla le statue degli idoli senza piedi, mostrando così a tutti la loro condizione vergognosa di impotente fragilità. Ciò che si fa per gli idoli manifesta non la loro grandezza, potenza, vita, ma il loro nulla. Si fanno loro offerte «come ai morti» (v. 26), perché gli idoli non le toccano nemmeno, mentre i sacerdoti avidi ne approfittano. In Israele, certe offerte avanzate dai sacrifici non potevano essere immesse sul mercato per un consumo “profano” , ma dovevano essere destinate solo al sostentamento dei sacerdoti (Lv 6-7). Invece le offerte fatte agli idoli possono essere acquistate da chiunque, anche da una donna in stato di impurità (v. 27). È una profanazione. In Israele, la legge sulle decime (cfr. Dt 14,28-29; 26,12-14) prevedeva che queste offerte fossero devolute in beneficenza per i più bisognosi. Non così fanno i sacerdoti idolatri, che non danno nulla né ai poveri né ai bisognosi (v. 27). Tutto il culto che dovrebbe onorare gli idoli, in realtà non fa che svergognarli di fronte a tutti, dimostrando che essi non sono dei.

Gli idoli non possono aiutare i loro fedeli 6,29-39 Come si potrebbero chiamare dei degli idoli che non parlano, non possono contraccambiare le offerte ricevute, non arricchiscono e non danno né tolgono potere a un re, non si curano dei voti dei loro fedeli, non liberano né dalla morte né dall'oppressione, non guariscono né consolano, insomma non sono in grado di aiutare chi li adora e li invoca? Gli idoli sono privi di vita, come pietre (v. 38) e i loro fedeli restano sempre delusi (cfr. Is 42,17; 44,11; Ger 10,14). A differenza di quel che accade in Israele, perfino le donne presentano loro offerte (v. 29) e i sacerdoti compiono riti funerari come quelli compiuti a Babilonia per la festa del Nuovo Anno (vv. 30-31), proibiti dalla legge israelitica (cfr. Lv 21,5.10; Dt 14,1), come radersi la testa e stracciarsi le vesti. Il culto diventa inoltre un indegno commercio: i sacerdoti si portan via le vesti preziose donate agli dei e ne rivestono le loro mogli e i loro bambini (v. 32). Si sottintende una netta contrapposizione con JHWH che invece compie tutto ciò che gli idoli non possono fare: costituisce e destituisce re (1Sam 2,8), dà povertà o ricchezza (Prv 30,8), domanda conto dei voti fatti (Dt 23,22), strappa dalla morte (Sal 9,14), libera il debole dal più forte (Sal 35,10), ridona la vista ai ciechi (Is 29,18; 35,5), libera dalle angosce (Sal 25,22), difende le vedove e gli orfani (Sal 68,6; 146,9).

I Caldei disonorano i loro idoli 6,40-44 Sono presentati due esempi: un muto che vuol pregare e la prostituzione.

Il muto è soccorso dai sacerdoti che parlano per lui al dio Bel, ma questi è sordo. La situazione è assurda: un muto vuol parlare a un sordo e i sacerdoti sono mediatori dell'impossibile. Invece JHWH ascolta prima ancora che l'orante pronunci una parola (Sal 139,4; Is 65,24); egli fa parlare i muti (Is 35,6). Bel (= signore) è il nome dato a Marduk, il dio protettore dello stato e della città di Babilonia.

L'altro caso è la prostituzione sacra, di cui parla anche Erodoto, severamente proibita in Israele (Dt 23, 18-19). Erodoto afferma che ogni donna babilonese, una volta nella sua vita, doveva concedersi a un estraneo nel tempio di Afrodite. Qui invece, al v. 42 si dice che le prostitute siedono per la strada cinte di cordicelle e bruciano della crusca. Le cordicelle erano forse un segno di riconoscimento o un simbolo che quelle donne erano tenute legate da forze demoniache. Erodoto menziona le cordicelle ma la loro funzione è diversa: «... (le donne con) il capo cinto da una cordicella... Delle corsie tracciate in tutti i sensi con delle corde tese permettono ai visitatori di circolare tra di loro e di fare la loro scelta». Bruciare della crusca (v. 42) era probabilmente un rito per invocare la divinità: in un inno a Marduk si menziona «la vedova con crusca bruciata». Teocrito (Le incantatrici, 33) menziona questo rito magico: «Ora brucerò crusca». Ma non è chiaro il significato.

Gli idoli sono lavoro delle mani dell'uomo 6,45-51 Gli idoli sono frutto del lavoro di uomini mortali, dunque anch'essi sono mortali. Non possono lasciare ai posteri che menzogna e ignominia. La guerra e le calamità minacciano tanto la vita degli uomini quanto quella degli idoli, anch'essi fragili e mortali. Se gli idoli non possono liberare i re e il loro popolo da guerre e calamità è perché sono privi di ogni qualità divina. Essi sono soltanto opera umana: non godono di vita immortale. Il loro culto è dunque una menzogna e un inganno.

Gli idoli non hanno alcun potere 6,52-56 Con una serie di negazioni si ripete l'argomento: gli idoli “non possono” fare nulla perché «non hanno alcun potere» (v. 53). Essi sono come cornacchie fra il cielo e la terra: non sono nemmeno come nubi benefiche perché non possono concedere la pioggia (v. 52); gracchiano inutilmente! In caso di incendio non sanno mettersi in salvo (v. 54). A un re e ai nemici non possono resistere (v. 55), figurarsi se possono liberare gli oppressi! Sono come semplici cornacchie o corvi, animali impuri, uccelli del malaugurio e messaggeri di sventure (cfr. Is 34,11).

Gli idoli non recano benefici agli uomini 6,57-64 Anzitutto gli idoli non sanno salvare se stessi da ladri, briganti; non hanno nemmeno uno scopo cui servire, come le stelle, il sole, la luna, il lampo, il vento, le nubi o il fuoco; non sono di alcuna utilità, nemmeno quanto una porta che tiene al sicuro o una colonna che sostiene un soffitto. Non hanno né la potenza né l'utilità di tutte queste cose. Dunque gli idoli sono inerti e passivi: a loro si possono fare offerte, ma si può anche derubarli dell'oro, argento e vesti di cui sono rivestiti. Non hanno né vita né potenza. Devoti e ladri per gli idoli sono la stessa cosa. Gli idoli non possono far nulla per gli uomini: né rendere giustizia né beneficarli.

Le belve sono migliori degli idoli 6,65-68 Nell'ambiente babilonese si temevano le maledizioni degli dei e si invocavano le loro benedizioni, si cercava di scrutare – mediante l'astrologia – e di interpretare i segni celesti dati dagli dei. Ma gli astri sono semplici creature di Dio (cfr. Gn 1), al quale obbediscono (v. 59). Perciò non maledicono né benedicono. Anzi sono meno potenti delle fiere, che sono esseri vivi e sanno difendersi. Gli astri sono utili; le fiere sono sottomesse al dominio dell'uomo; ma gli dei sono soltanto disprezzabili. Non sono né utili né temibili. Geremia invitava a non aver paura dei segni del cielo perché «ciò che è il terrore dei popoli è un nulla... gli idoli sono come uno spauracchio in un campo di cocomeri... Non temeteli, perché non fanno alcun male, come non è loro potere fare il bene» (Ger 10,3.5).

Conclusione 69-72 Tre paragoni illustrano la non temibilità degli idoli: sono come uno spaventapasseri in una melonaia (cfr. Ger 10,5), come un cespuglio spinoso nell'orto (cfr. Gdc 9, 15), come un morto gettato nelle tenebre. Si è raggiunto il colmo della satira: gli idoli appartengono al regno dei morti. Come ci si deve guardare dalla morte, così occorre evitare gli idoli e il loro culto. Essi non proteggono e non fanno vivere. Anzi si logorano e si consumano, dapprima nelle loro vesti di porpora e di bisso e poi nel loro interno, diventando una vergogna per chi li adora. È meglio essere persone oneste e pie, che credono in JHWH e non negli idoli, perché non ci si dovrà mai vergognare della propria fede. Infatti «Il Signore veglia sul cammino dei giusti, ma la via degli empi andrà in rovina» (Sal 1,6).

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La gloria di Gerusalemme 1Deponi, o Gerusalemme, la veste del lutto e dell’afflizione, rivèstiti dello splendore della gloria che ti viene da Dio per sempre. 2Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo il diadema di gloria dell’Eterno, 3perché Dio mostrerà il tuo splendore a ogni creatura sotto il cielo. 4Sarai chiamata da Dio per sempre: «Pace di giustizia» e «Gloria di pietà». 5Sorgi, o Gerusalemme, sta’ in piedi sull’altura e guarda verso oriente; vedi i tuoi figli riuniti, dal tramonto del sole fino al suo sorgere, alla parola del Santo, esultanti per il ricordo di Dio. 6Si sono allontanati da te a piedi, incalzati dai nemici; ora Dio te li riconduce in trionfo, come sopra un trono regale. 7Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno, perché Israele proceda sicuro sotto la gloria di Dio. 8Anche le selve e ogni albero odoroso hanno fatto ombra a Israele per comando di Dio. 9Perché Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui.

Lettera di Geremia Copia della lettera che Geremia mandò a coloro che stavano per essere condotti prigionieri a Babilonia dal re dei Babilonesi, per annunciare loro quanto era stato ordinato a lui da Dio.

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Approfondimenti

La gloria di Gerusalemme 5,1-9 Con il linguaggio e le immagini del Secondo Isaia, Gerusalemme è invitata a rivestirsi della gloria splendente di Dio (Is 52,1; 61,10), a indossare il manto della giustizia divina (Is 48,18; 51,5-8; 54,14-17) e a mettersi la corona della gloria dell'Eterno. Dio comunica al suo popolo sia la sua «gloria» sia la sua «giustizia»: la gloria di Dio è menzionata sei volte in dieci versetti (4,37; 5,1.2.4.6.7.9) per indicare la sua presenza vittoriosa, potente ed efficace; il «diadema» (in greco: mitran) è un ornamento del capo portato dalle donne sia sposate (cfr. Gdt 10,3; 16,8) sia non sposate (Is 61,10); più precisamente è un «diadema di gloria» con cui Dio riabilita Gerusalemme, la ristabilisce nei suoi diritti e la fa trionfare sui nemici. Così Dio mostrerà a tutti i popoli una città piena del suo splendore (4,3) e Gerusalemme stessa risplenderà della nuova giustizia che le viene da Dio.

La città riceverà un nome nuovo, segno della sua rinnovata identità (5,4) (cfr. Is 1,26; 60,14.18; 62,4.12). Il “nome” indica anche il ruolo e la missione, i valori che la città dovrà incarnare: la pace, la giustizia, la pietà o rispetto del Signore come sua gloria (5,4).

Dalla posizione di prostrazione nella polvere e di abbattimento dolorante, la città si ergerà in piedi sull'altura (5,5), fiera e lieta per il ritorno dei suoi figli da ogni luogo della diaspora, da occidente a oriente, obbedienti alla parola efficace di Dio. Si realizzano le profezie del Secondo Isaia (40,9; 49,18; 51,17; 60,4). Tutti sono esultanti perché Dio si è ricordato di loro (5,5) intervenendo vittoriosamente.

Il ritorno è un trionfo (cfr. Is 49,22; 60,4.9; 66,12), simile a un corteo regale: si erano allontanati a piedi, ora ritornano come portati su una carrozza regale (5,6; la BC ha «trono», ma sembra trattarsi di una «lettiga, portantina, carrozza»).

Come prevedeva la profezia di Is 40,3-4, la via del ritorno sarà piana, senza asperità e difficoltà; anche il deserto (cfr. Is 41,19) diventerà una selva ombrosa, piena di alberi odorosi (5,8): il cammino sarà gradevole e sicuro sotto la guida della gloria di Dio (cfr. Is 52,12; 58,8). Tutto ciò avverrà perché «Dio ha stabilito» e ha dato un «comando»; tutto è opera sua. Sarà Dio che «ricondurrà Israele con gioia» (5,9). Così egli farà conoscere il trionfo della sua «gloria», della sua «misericordia» e della sua «giustizia».

Nella Vulgata manca la “soprascritta”, perché la lettera è considerata come c. 6 del libro di Baruc; è riportata invece nel testo greco, quella frase che, nel nostro, testo chiude il capitolo 5.

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Il dono della sapienza-legge a Israele 3,36-4,4 1Essa è il libro dei decreti di Dio e la legge che sussiste in eterno; tutti coloro che si attengono ad essa avranno la vita, quanti l’abbandonano moriranno. 2Ritorna, Giacobbe, e accoglila, cammina allo splendore della sua luce. 3Non dare a un altro la tua gloria né i tuoi privilegi a una nazione straniera. 4Beati siamo noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio è da noi conosciuto.

ORACOLO PROFETICO DI CONSOLAZIONE

Introduzione: restaurazione di Gerusalemme 5Coraggio, popolo mio, tu, memoria d’Israele! 6Siete stati venduti alle nazioni non per essere annientati, ma perché avete fatto adirare Dio siete stati consegnati ai nemici. 7Avete irritato il vostro creatore, sacrificando a dèmoni e non a Dio. 8Avete dimenticato chi vi ha allevati, il Dio eterno, avete afflitto anche colei che vi ha nutriti, Gerusalemme.

Gerusalemme vedova e desolata 9Essa ha visto piombare su di voi l’ira divina e ha esclamato: «Ascoltate, città vicine di Sion, Dio mi ha mandato un grande dolore. 10Ho visto, infatti, la schiavitù in cui l’Eterno ha condotto i miei figli e le mie figlie. 11Io li avevo nutriti con gioia e li ho lasciati andare con pianto e dolore. 12Nessuno goda di me nel vedermi vedova e abbandonata da molti; sono stata lasciata sola per i peccati dei miei figli, perché hanno deviato dalla legge di Dio, 13non hanno riconosciuto i suoi decreti, non hanno seguito i suoi comandamenti, non hanno proceduto per i sentieri della dottrina, secondo la sua giustizia.

Il nemico straniero 14Venite, o città vicine di Sion, ricordatevi la schiavitù in cui l’Eterno ha condotto i miei figli e le mie figlie. 15Ha mandato contro di loro una nazione da lontano, una nazione malvagia di lingua straniera, che non ha avuto rispetto dei vecchi né pietà dei bambini. 16Hanno strappato via i prediletti della vedova e l’hanno lasciata sola, senza figlie».

La solitudine della città 17E io come posso aiutarvi? 18Chi vi ha afflitto con tanti mali saprà liberarvi dalle mani dei vostri nemici. 19Andate, figli miei, andate, io sono rimasta sola. 20Ho deposto l’abito di pace, ho indossato la veste di sacco per la supplica, griderò all’Eterno per tutti i miei giorni.

Il ritorno 21Coraggio, figli miei, gridate a Dio, ed egli vi libererà dall’oppressione e dalle mani dei nemici. 22Io, infatti, ho sperato dall’Eterno la vostra salvezza e una grande gioia mi è venuta dal Santo, per la misericordia che presto vi giungerà dall’Eterno, vostro salvatore. 23Vi ho lasciati andare con dolore e pianto, ma Dio vi ricondurrà a me con letizia e gioia, per sempre. 24Come ora le città vicine di Sion vedono la vostra schiavitù, così ben presto vedranno la salvezza che vi giungerà dal vostro Dio; essa verrà a voi con grande gloria e splendore dell’Eterno. 25Figli, sopportate con pazienza la collera che da Dio è venuta su di voi. Il tuo nemico ti ha perseguitato, ma vedrai ben presto la sua rovina e gli calpesterai la nuca. 26I miei teneri figli hanno camminato per aspri sentieri, sono stati portati via come gregge rapito dal nemico.

La conversione 27Coraggio, figli, gridate a Dio, poiché si ricorderà di voi colui che vi ha afflitti. 28Però, come pensaste di allontanarvi da Dio, così, ritornando, decuplicate lo zelo per ricercarlo; 29perché chi vi ha afflitto con tanti mali vi darà anche, con la vostra salvezza, una gioia perenne.

La maledizione dei nemici 30Coraggio, Gerusalemme! Colui che ti ha dato un nome ti consolerà. 31Sventurati coloro che ti hanno fatto del male, che hanno goduto della tua caduta; 32sventurate le città in cui sono stati schiavi i tuoi figli, sventurata colei che li ha trattenuti. 33Come ha gioito per la tua caduta e si è allietata per la tua rovina, così si affliggerà per la sua solitudine. 34Le toglierò l’esultanza di essere così popolata, la sua insolenza sarà cambiata in dolore. 35Un fuoco cadrà su di essa per lunghi giorni per volere dell’Eterno, e per molto tempo sarà abitata da dèmoni.

La gioia viene da Dio 36Guarda a oriente, Gerusalemme, osserva la gioia che ti viene da Dio. 37Ecco, ritornano i figli che hai visto partire, ritornano insieme riuniti, dal sorgere del sole al suo tramonto, alla parola del Santo, esultanti per la gloria di Dio.

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Approfondimenti

ORACOLO PROFETICO DI CONSOLAZIONE 4,5-5,9 Mentre la seconda parte era di tipo sapienziale, la terza è di stile protetico-lirico, ispirata al modelli del Secondo e Terzo Isaia. I frequenti imperativi richiamano in particolare Is 51,9-52,6. Si articola in tre sezioni:

  • nella prima il profeta parla al popolo (4,5-8),
  • nella seconda è Gerusalemme che si rivolge ai suoi figli (4,9-29),
  • nella terza ancora il profeta parla a Gerusalemme (4,30-5,9).

Il tono cambia: dalla lamentazione alla speranza, dalla tristezza alla gioia. Il centro geografico (e teologico) non è più l'esilio, ma Gerusalemme, punto da cui si contempla il movimento di allontanamento e di ritorno. Lo sguardo si volge ad oriente (4,36), si fa poi universale «da occidente ad oriente» 5,5). Ma soltanto gli Israeliti sono in movimento verso Gerusalemme, non i popoli pagani come in Is 2,2-5; Is 66; Zc 8,20-23.

Al posto della relazione di alleanza subentrano immagini di rapporti familiari: Dio è come un Padre che ha creato, allevato e nutrito i suoi figli (4,7-8), Gerusalemme è una madre feconda di figli (4,10), divenuta vedova desolata (4,12.16) e sola (4,19), ma che ora li vede ritornare esultanti (4,37); Gerusalemme è la sposa dell'Eterno, alla quale egli ha dato un nome (cfr. Sal 46,5; Is 60,14; Is 62,1-9; «dare un nome» è farla la propria città-sposa). Dio è chiamato «l'Eterno» otto volte (4,10.14.20.22[2 volte].24.35; 5,2) oppure «Dio eterno» (4,8).

Importante è la simbolica del vestito: «l'abito di pace» (4,20), «la veste del lutto e dell'afflizione» (5, 1), «il manto della giustizia» (5,2).

Alcuni segnali di struttura sottolineano, con la loro ripetizione, l'unità dell'intero brano: «Coraggio, popolo mio» (4,5; cfr. 4,21.27.30); «Ascoltate, città vicine di Sion» (4,9; cfr. 4,14); «Guarda ad oriente, Gerusalemme» (4,36; cfr. 5,5).

Il tema dominante è il ritorno alla città santa dalla dispersione attraverso la conversione a Dio. Se il popolo si converte al suo Dio, allora l'Israele disperso ritroverà la sua unità intorno al suo centro, Gerusalemme.

Il parallelismo tra questa parte di Baruc e l'apocrifo Salmo 11 di Salomone (metà del sec. I a.C.) e la probabile dipendenza del nostro testo da codesto scritto giudaico fanno concludere che verosimilmente Baruc non ebbe la sua redazione definitiva prima della metà del I sec. a.C.

Introduzione: restaurazione di Gerusalemme 4,5-8 Con riferimento a Dt 32,15-21, si afferma che Israele fu consegnato in mano ai suoi nemici a causa della sua cattiva condotta (cfr. Is 50,1) e per la sua idolatria. I «demoni» (in greco: daimoniois) sono i falsi dei e gli idoli (cfr. Sal 106,37-38; 96,5 LXX: daimonia per «idoli»). Il popolo ha «irritato» il suo creatore, per usare una terminologia cara al Dt e a Ger; ha «dimenticato» l'Eterno, il vero Dio (cfr. Is 40,28), da cui ha avuto la vita (Dt 32, 18); ha «afflitto» la propria madre, Gerusalemme. Tuttavia esso conserva la memoria e il nome di Israele (4,5) e le promesse di Dio. Non è dunque destinato all'annientamento e può sperare nella liberazione.

Gerusalemme vedova e desolata 4,9-13 La metropoli di Gerusalemme, ora privata dei suoi figli e figlie, rimasta vedova (cfr, Lam 1,1), spiega alle «città vicine» (4,9) la sventura che l'ha colpita. Le «città vicine» sono le capitali dei regni vicini (cfr. Ez 16,57; 23,48). La madre addolorata, che ha visto andarsene i figli, riconosce coraggiosamente la causa della loro dispersione: con terminologia deuteronomistica, sono «i peccati dei miei figli» (v. 12), che deviarono dalla legge (cfr. Dt 5,32; 9,12-16; Gs 23,6; 1Re 15,5), non si curarono dei decreti di Dio (cfr. 2Re 17,26), non seguirono i suoi comandamenti (cfr. Dt 8,6; 10,12; 26,17; 28,9; 30,16); non hanno seguito i sentieri o la via della giustizia (cfr. Prv 8,20). La vedova esclama: «Dio mi ha mandato un grande dolore» (4,9), segno dell'ira divina. Che senso ha la metafora dell'ira divina? Dire che Dio è adirato o che Dio invia un dolore significa aiutare il peccatore a porsi davanti a Dio e dire: contro te solo ho peccato! Infatti misura del peccato è il “davanti a Dio” e non la coscienza del peccatore. E per questo che occorre che un altro denunzi il peccato, perché la coscienza è essa stessa inclusa nel peccato e diventa menzogna e malafede. L'ira divina è una metafora per annunciare il peccato.

Il nemico straniero 4,14-16 Come era stato minacciato nelle maledizioni di Dt 28,49-50 e da Geremia (5,15.17; 6,22-23), Dio ha mandato contro Israele un popolo lontano, straniero, crudele e senza pietà per nessuno, nemmeno per i vecchi e i bambini. Ancora è rimarcato che è stato l'Eterno a condurre in schiavitù (4,14). Se Dio non fosse presente, la condizione del suo popolo gli sarebbe estranea; attribuirla a lui è un modo per dire che egli può anche cambiarla.

La solitudine della città 4,17-20 La “madre” Gerusalemme si rivolge ai suoi figli, non invitandoli alla ribellione contro il Signore bensì affermando: «Chi vi ha afflitto... saprà liberarvi» (4,18). Addirittura esclama: «Andate, ...andate» (4,19). Non è possibile evitare ogni male, sfuggire ad ogni sventura. Sarebbe un'illusione pensare di potersi sottrarre a qualsiasi disgrazia. La madre ha deposto «l'abito di pace», cioè dei tempi felici; ha indossato il cilicio della penitenza, della supplica fiduciosa all'Eterno che può cambiare la sua condizione miserevole.

Il ritorno 4,21-26 Ecco la certezza della madre: «Dio vi ricondurrà a me con letizia e gioia, per sempre» (4,23). La salvezza (4,24) non tarderà, anzi verrà «ben presto» (4,22.24.25). Dio è il salvatore: egli libererà (4,21), opererà la salvezza come «Eterno vostro salvatore» (4,22), «vi ricondurrà a me» (4,23). Da Dio verrà allora «letizia e gioia», che durerà per sempre (4,23). Dio farà trionfare la sua «misericordia» (4,22), la sua «grande gloria» e il suo «splendore» (4,24). Il ritorno, insomma, sarà opera di Dio, sua “grazia”; in lui dunque occorre sperare (4,22), gridando a lui (4,21: «gridate a Dio»). Allora apparirà la rovina del nemico (4,25) e la sua reale debolezza, tanto che Israele calcherà il piede sul suo collo, cioè lo dominerà e gli sarà superiore (4,25; cfr. Gs 10,24), vittorioso. I piedi delicati degli Israeliti hanno dovuto camminare per aspri sentieri (4,26), il popolo era stato ridotto a un gregge rapito dal nemico (4,26), ma la «tenera e voluttuosa» (Is 47,1) Babilonia scenderà dal suo trono e siederà sulla polvere.

La conversione 4,27-29 Ora l'esortazione è a convertirsi al Signore, a decuplicare lo zelo per ricercarlo (4,28). Questo è il kerygma centrale: il ritorno attraverso la conversione; «decuplicate»: il numero dieci indica la totalità e perciò anche la continuità della ricerca (cfr. Nm 14,22; Gb 19,3). Dio infatti «si ricorderà di voi», cioè interverrà a vostro favore, potendo liberarvi dalla prova che egli controlla e domina, poiché egli «vi ha provati» (4,27). La salvezza, e la gioia perenne (cfr. Is 35,10; 51,11; 61,7) che ne consegue, saranno dono di Dio. In realtà non sarà Dio a “cambiare” atteggiamento, ma gli Israeliti che si erano allontanati da Dio (4,28) e ora ritornano a lui e lo ricercano.

La maledizione dei nemici 4,30-35 Una promessa di consolazione (come in Sof 3,16) per Gerusalemme: Dio stesso la consolerà (cfr. Is 51,3.12), ossia cambierà la sua condizione perché la città gli appartiene, avendole egli dato un nome (4,30). Ma non può mancare la maledizione per chi ha oppresso, trattenuto e ridotto in schiavitù gli Israeliti, per chi ha goduto e gioito per la rovinosa caduta di Gerusalemme. La principale responsabile è l'innominata Babilonia, che «ha trattenuti» (4,32) i figli di Gerusalemme schiavi. Essa sarà devastata, spopolata, riempita di lutti: il giudizio divino piomberà su di essa come un fuoco (cfr. Is 47,14) e per molto tempo sarà abitata da «demoni» (4,35; cfr. Is 13,19-21 dove si parla di «satiri», ma nella versione greca di «demoni»). Si tratta probabilmente della credenza che i luoghi deserti e disabitati fossero la dimora dei demoni. «Maledire» significa escludere dalla propria vita, quindi negare qualsiasi connivenza e corresponsabilità. Chi ha oppresso, ucciso, devastato deve sentire una condanna inequivocabile. Il duro linguaggio della maledizione è un modo per esprimere la sete di giustizia, il desiderio che nel mondo finisca per sempre il dominio del male.

La gioia viene da Dio 4,36-37_ Il ritorno dei figli dalla diaspora e dall'esilio è «la gioia che ti viene da Dio» (4,36). Non solo tornano dall'oriente (=esilio), ma «dall'oriente all'occidente» (4,37), da ogni luogo della diaspora. Tutti sono guidati dalla parola del Santo (4,37), sono «riuniti» come un solo popolo ed esultanti non per una vittoria propria ma «per la gloria di Dio» che si manifesta potente e invincibile. Le promesse si adempiono: «guarda, osserva, ecco»; non si tratta del futuro, ma del presente.

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Richiesta di perdono 1Signore onnipotente, Dio d’Israele, un’anima nell’angoscia, uno spirito tormentato grida verso di te. 2Ascolta, Signore, abbi pietà, perché abbiamo peccato contro di te. 3Tu regni per sempre, noi per sempre siamo perduti. 4Signore onnipotente, Dio d’Israele, ascolta dunque la supplica dei morti d’Israele, dei figli di coloro che hanno peccato contro di te: essi non hanno ascoltato la voce del Signore, loro Dio, e siamo stati attaccati dai mali. 5Non ricordare le ingiustizie dei nostri padri, ma ricòrdati ora della tua potenza e del tuo nome, 6poiché tu sei il Signore, nostro Dio, e noi ti loderemo, Signore. 7Per questo tu hai posto il timore di te nei nostri cuori, perché invocassimo il tuo nome. E ti loderemo nel nostro esilio, perché abbiamo allontanato dal nostro cuore tutta l’ingiustizia dei nostri padri, i quali hanno peccato contro di te. 8Eccoci ancora oggi nel nostro esilio, dove tu ci hai disperso, oggetto di obbrobrio, di maledizione e di condanna per tutte le ingiustizie dei nostri padri, che si sono ribellati al Signore, nostro Dio».

POEMA SULLA SAPIENZA

Esortazione e invito alla sapienza 9Ascolta, Israele, i comandamenti della vita, porgi l’orecchio per conoscere la prudenza. 10Perché, Israele? Perché ti trovi in terra nemica e sei diventato vecchio in terra straniera? 11Perché ti sei contaminato con i morti e sei nel numero di quelli che scendono negli inferi? 12Tu hai abbandonato la fonte della sapienza! 13Se tu avessi camminato nella via di Dio, avresti abitato per sempre nella pace. 14Impara dov’è la prudenza, dov’è la forza, dov’è l’intelligenza, per comprendere anche dov’è la longevità e la vita, dov’è la luce degli occhi e la pace.

Il potere non dà la sapienza 15Ma chi ha scoperto la sua dimora, chi è penetrato nei suoi tesori? 16Dove sono i capi delle nazioni, quelli che dominano le belve che sono sulla terra? 17Coloro che si divertono con gli uccelli del cielo, quelli che ammassano argento e oro, in cui hanno posto fiducia gli uomini, e non c’è un limite ai loro possessi? 18Coloro che lavorano l’argento e lo cesellano senza rivelare il segreto dei loro lavori? 19Sono scomparsi, sono scesi negli inferi e altri hanno preso il loro posto. 20Generazioni più giovani hanno visto la luce e hanno abitato sopra la terra, ma non hanno conosciuto la via della sapienza, 21non hanno compreso i suoi sentieri e non si sono occupate di essa; i loro figli si sono allontanati dalla loro via.

La presunta sapienza dei popoli 22Non se n’è sentito parlare in Canaan, non si è vista in Teman. 23I figli di Agar, che cercano la sapienza sulla terra, i mercanti di Merra e di Teman, i narratori di favole, i ricercatori dell’intelligenza non hanno conosciuto la via della sapienza, non si sono ricordati dei suoi sentieri. 24O Israele, quanto è grande la casa di Dio, quanto è esteso il luogo del suo dominio! 25È grande e non ha fine, è alto e non ha misura! 26Là nacquero i famosi giganti dei tempi antichi, alti di statura, esperti nella guerra; 27ma Dio non scelse costoro e non diede loro la via della sapienza: 28perirono perché non ebbero saggezza, perirono per la loro indolenza.

Dio solo conosce la via della sapienza 29Chi è salito al cielo e l’ha presa e l’ha fatta scendere dalle nubi? 30Chi ha attraversato il mare e l’ha trovata e l’ha comprata a prezzo d’oro puro? 31Nessuno conosce la sua via, nessuno prende a cuore il suo sentiero. 32Ma colui che sa tutto, la conosce e l’ha scrutata con la sua intelligenza, colui che ha formato la terra per sempre e l’ha riempita di quadrupedi, 33colui che manda la luce ed essa corre, l’ha chiamata, ed essa gli ha obbedito con tremore. 34Le stelle hanno brillato nei loro posti di guardia e hanno gioito; 35egli le ha chiamate ed hanno risposto: «Eccoci!», e hanno brillato di gioia per colui che le ha create.

Il dono della sapienza-legge a Israele 36Egli è il nostro Dio, e nessun altro può essere confrontato con lui. 37Egli ha scoperto ogni via della sapienza e l’ha data a Giacobbe, suo servo, a Israele, suo amato. 38Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini.

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Approfondimenti

Richiesta di perdono 3,1-8 Quest'ultima sezione della preghiera rinnova la richiesta di perdono: «Ascolta, Signore, abbi pietà, perché abbiamo peccato contro di te» (3,2). Il popolo è ancora esiliato 3,8: «siamo ancor oggi esiliati e dispersi»), ma il cuore è cambiato, riempito del timore di Dio (3,7) e liberato da tutta l'iniquità dei padri (3,7). L'anima è angosciata, afflitta, e lo spirito è tormentato e abbattuto (3, 1), ma ora il «timore di Dio» (3,7), cioè il rispetto e il riconoscimento e l'adesione al Signore secondo l'accezione deuteronomica, fa sgorgare la lode (3,7: «Noi ti lodiamo») insieme con la supplica e il pentimento. Nasce una generazione nuova, che si è allontanata spiritualmente dalla via peccaminosa dei padri, che hanno traviato. L'obbrobrio, la maledizione e la condanna per le iniquità commesse dai padri ribelli (3,8) pesano ancora sul popolo d'Israele. Ma ora è rinata la speranza nel Kyrios pantokratōr («Signore onnipotente») che guida e protegge il popolo perché è il «Dio di Israele» (3,1.4). E alla potenza di Dio che l'orante fa appello (3,5: «ricordati ora della tua potenza») e al suo «nome» (3,5), cioè a quello che Dio è ed ha mostrato nella storia di voler fare. Questa è «la supplica dei morti d'Israele» (3,4), di coloro che continuamente periscono (3,3), mentre Dio è un re eterno. Israele si percepisce come “morto”, oppresso dalle conseguenze delle colpe commesse dai padri, che si sono ribellati al Signore. E la condizione che emerge pure nei vari salmi di lamentazione, quando l'orante sente su di sé gli artigli della morte per i mali che l'opprimono. Forse si può vedere un'allusione a Ez 37,11 in cui l'esilio equivale alla morte. Alcuni uppongono che dietro il greco tethnēkotōn («morti») si debba pensare a un ebraico mētîm («mortali, condannati a morte», cfr. Sal 79, 11); altri ancora ipotizzano un testo ebraico che avesse m'tē («uomini, genti [di Israele]») invece di mētē («morti»). Non sembra comunque che si tratti della supplica sia degli Israeliti già morti sia dei figli di coloro che peccarono. I «morti» sono i figli di coloro che hanno peccato e ora sopportano i mali conseguenti (cfr. 1,20). Si tratta di “morte” in senso metaforico.

POEMA SULLA SAPIENZA 3,9-4,4 Questo testo è una composizione unitaria, che gli studiosi considerano originariamente autonomo, probabilmente in lingua ebraica. I vv. 3, 9-13 lo collegano con la prima parte di Bar 1,15-3,8 spiegando l'esilio come conseguenza dell'abbandono della sapienza. Anche i vv. 3,37b-4,4 sono funzionali alla prima parte del libro; dicono che cosa ora si deve fare: il popolo del Signore deve seguire la legge di Dio, che è il mezzo per operare il cambiamento radicale rispetto al passato. Il poema si ispira a Gb 28, Sir 24, Dt 4 che identificano sapienza e torah.

Il tema-guida è suggerito dalla ripetizione dell'espressione «la via della sapienza» (vv. 20.23.27.31.37). Il tono e lo stile sapienziale differiscono sia da 1,15-3,8 sia dal discorso profetico di 4,5-5,9. Si evita, in particolare, il linguaggio antropomorfico. È difficile stabilire una datazione e il luogo di origine. Poiché si ispira a Sir 24, deve collocarsi tra il Il e il I sec. a.C. Lo scopo è didattico-esortativo: vuole mostrare a Israele che la via della sapienza si trova soltanto presso il Signore; lo sappia Israele e si regoli di conseguenza, cercando la prudenza (=phronesis vv. 9.14), l'intelligenza (=synesis vv. 14.23.32), la sapienza o il sapere (epistème vv. 20.27.37).

Si tratta di una “ricerca” della sapienza, come sottolineano i verbi e i sostantivi che alludono a un “cammino” da compiere: via (vv. 20.23.27.31.37), camminare (3,13; 4,2), sentieri (vv. 3,13.21.31), salire e scendere (3, 19.29). Israele deve scoprire la via giusta e mettersi in cammino su di essa se vuol vivere. In 3,9.14 e 4,2 abbondano gli imperativi esortativi (ascolta, porgi l'orecchio, impara, ritorna, cammina).

Tutto il poema è una composizione ritmica; ogni versetto consta di due stichi, eccetto 3,12 che ha un solo stico. Il poema si articola in tre parti:

a) 3, 9-14: esortazione e invito alla sapienza; b) 3, 15-35: inno alla sapienza; c) 3, 36 – 4, 4: il dono della sapienza, identificata con la torah.

La sezione centrale è a sua volta articolata in tre parti:

1) 3,16-21: è rivolta ironicamente ai governanti che non hanno trovato la sapienza; 2) 3,22-28: constata l'insuccesso dei popoli tradizionalmente considerati come saggi; 3) 3,29-35: risponde alla domanda formulata al v. 15, è il creatore che solo conosce la sapienza.

Esortazione e invito alla sapienza 3,9-14 L'inizio evoca Dt 4,1: «Ora, Israele, ascolta le leggi». Si tratta di «comandamenti della vita», che conducono alla vita (cfr. Es 20,12; Dt 4,1-4; 30,15; Ez 33,15); sono la legge della vita (Sir 17,9; 45,5). La «prudenza» (v. 9) è la conoscenza pratica della volontà di Dio equivalente di «intelligenza» (v. 14). Ciò cui conducono prudenza e intelligenza è “una buona qualità della vita” (in greco: zōē) e non semplicemente la vita in senso fisiologico (in greco: bios). La «vita» (vv. 9.14) è pace (vv. 13.14), longevità (v. 14), è luce degli occhi o gioia di vivere (v. 14), è forza morale e spirituale (v. 14). Insomma è semplicemente il contrario della condizione dei morti che scendono negli «inferi» (v. 11), ai quali può essere paragonato il popolo di Israele che vive in terra nemica, anzi ormai da lungo tempo «invecchia in terra straniera» (v. 10), contaminandosi con gli stranieri che sono come cadaveri (v. 11; cfr. Lv 11,29; Lv 21,1-3; Nm 19,11-13 sulla contaminazione per contatto coi cadaveri).

Israele si trova in esilio perché ha abbandonato la fonte della sapienza (cfr. Ger 2,13), cioè Dio dal quale viene ogni sapienza (Sir 1,1). La sapienza divina è espressa concretamente nei comandamenti della vita (v. 9), che sono chiamati anche «sentieri di Dio» (v. 13). Israele ha smarrito la «via» della sapienza, ora deve apprendere a conoscere «dov'è» (ripetuto 4 volte al v. 14). Ritorna la domanda dell'inno di Gb 28: «chi ha trovato il luogo della sapienza?» (cfr. Gb 28, 12-20 e Bar 3, 15). La storia avrebbe seguito un corso diverso se Israele avesse obbedito ai comandamenti della vita.

Il potere non dà la sapienza 3,15-21 Innanzitutto si dice che cosa non ha dato l'accesso alla sapienza: non il potere politico, non la ricchezza o le attività commerciali o il lavoro dell'artigiano. Il testo di Gb 28,12-20 resta sempre sullo sfondo: nessun uomo ha trovato i tesori della sapienza. Non hanno scoperto la sapienza i capi delle nazioni (3,16) che, come Nabucodonosor, dominano perfino sulle fiere (cfr. Ger 27,6) e si divertono con gli uccelli del cielo (cfr. Gb 40,29); essi ammassano argento e oro, dai quali gli uomini si aspettano sicurezza, una qualità buona della vita, potenza. Questi capi delle nazioni sono come artigiani presi totalmente dall'argento da cesellare con un'arte che non vogliono svelare (3, 17). Ma i loro piani segreti e la loro arte consumata non sono la sapienza. Anche i capi delle nazioni sono comuni mortali: muoiono e scendono agli inferi come tutti gli altri, senza possibilità di ritorno, lasciando ad altri il loro posto (3,19). Sorgono nuove generazioni, la società avanza e progredisce, ma non e questo che ta conoscere la via della sapienza (3,20). Nel contesto storico del postesilio, questo brano suona come una critica acerba e polemica degli imperi che hanno imposto con la forza il loro dominio (Persiani, Lagidi, Seleucidi). Non hanno trovato né insegnato la sapienza. La soluzione dunque non sta, come pensavano i Maccabei, nella conquista del potere politico anche con l'uso delle armi. Più ampiamente, potremmo dire che non è il potere (economico, politico, militare, tecnologico) a dare la sapienza.

La presunta sapienza dei popoli 3,22-28 I popoli, che tradizionalmente sono ritenuti campioni di sapienza come Canaan, Teman, Ismaeliti e Nabatei, non hanno conosciuto la via della sapienza. Forse anche «i mercanti di Merra e di Teman» (3, 23) indicano gruppi di popolazioni.

I Cananei o Filistei, come furono chiamati più tardi (cfr. Sof 2,5: «Canaan, terra dei Filistei»), furono maestri degli Israeliti nelle arti plastiche (1 Re 7,13), nella letteratura, nel commercio (cfr. Is 23,8 ed Ez 28).

Teman era una città edomita famosa per la sua sapienza, come testimonia Ger 49,7: «Su Edom. Così dice il Signore degli eserciti: Non c'è più sapienza in Teman? È scomparso il consiglio dei saggi? È svanita la loro sapienza?» (cfr. Abd 8-9). Nel libro di Giobbe, uno dei saggi amici è Elifaz il Temanita (cfr. Gb 2, 11).

I figli di Agar sono gli Ismaeliti e i Nabatei, beduini carovanieri (cfr. Gn 16, 15; 37, 25; Sal 83, 7). Essi «cercano sapienza terrena» (3, 23), che riguarda cioè la sfera pratica e materiale dell'esistenza.

I «mercanti» (3,23) viaggiano e sono ricchi di esperienza, per questo sono ritenuti sapienti. I «narratori di favole» (mythologoi), che raccontano storie di divinità, divulgano saghe e miti, sono anch'essi stranieri.

Ebbene, tutti costoro sono «ricercatori dell'intelligenza», del sapere sapienziale (cfr. Prv 14,6; 18,15; Sir 39,1-3), ma non hanno trovato la via della sapienza e neppure i suoi sentieri.

Rivolgendosi enfaticamente a Israele (v. 24), il poeta invita a contemplare la grandezza delle «casa di Dio», cioè l'universo intero – come lo chiama anche Filone –, la cui altezza, ampiezza e profondità non ha confini. Dio, che ha come propria casa e suo dominio l'immensità dell'universo, non ha bisogno di viaggiare per cercare la sapienza.

In questo mondo, nell'antichità ci furono i giganti famosi, alti di statura ed esperti guerrieri (3,26). Si fa allusione ad esseri divino-umani, la cui presenza favorisce un progresso umano, che Dio ritiene eccessivo tanto da intervenire per porre un limite all'esistenza umana (cfr. Gn 6,1-4 dove n'pilim è reso dalla LXX con gigantes). L'episodio genesiaco è stato ripreso in 1Enoch 6-11 in forma molto diversa, cioè trattando di esseri intermedi, o «vigilanti», che si ribellano unendosi a donne e dando origine così a giganti. La malvagità di questi ultimi provoca violenza e male sulla terra. Il tema dei giganti è quindi unito a quello della ribellione e della violenza: così appare anche in Sir 16,7 (dove «giganti» è solo nel greco, mentre l'ebraico e il siriaco hanno rispettivamente «principi» e «re»); Sap 14,6; 3Мас 2,3-6; 2Pt 2,4; Gd 6 e altri scritti giudaici. Qui si vuol dire che ai giganti, nonostante la loro origine divina, la loro statura e la loro forza straordinaria quali guerrieri, Dio non concesse la sapienza. Essi perirono perché non possedevano la sapienza e la prudenza. Né potevano prenderle per sé, perché soltanto Dio dona (3,27) la sapienza. Insomma nemmeno i giganti, alla pari dei popoli ritenuti sapienti, sono riusciti a trovare la via della sapienza. Essa infatti non può “venire” che da un dono di Dio.

Dio solo conosce la via della sapienza 3,29-35 Chi dunque ha scoperto la dimora e i forzieri dove sono custoditi i tesori della sapienza? (3,15). La risposta, già anticipata al v. 27, ora viene sviluppata, premettendo due domande retoriche (3,29-30) che riprendono l'interrogativo di 3,15, ricalcato su Dt 30,12 ss. Ecco la sentenza: nessun uomo conosce veramente la sapienza. Solo Dio la conosce e l'ha scrutata perché egli sa tutto (3,32) (cfr. Gb 28,24.27). Egli infatti «ha fondato la terra con la sapienza» (Prv 3,19; cfr. Ger 10,12), l'ha stabilita «per sempre» (eis ton aiona cfr. Sir 1,4). Dio ha creato gli animali sulla terra (3,32) e le stelle luminose nei loro posti di guardia (3,34). Gli astri brillano di gioia (3,35); Dio li chiama per nome ed essi rispondono obbedienti (cfr. Sir 43, 10: «Si comportano secondo gli ordini del Santo, non si stancano al loro posto di sentinelle»; cfr. Gb 38, 7). Dio chiama la luce ed essa obbedisce prontamente (cfr. Gn 1, 3-5), con rispettoso tremore. Il dominio incontrastato di Dio sulla terra e sul cielo dimostra che «Egli è il nostro Dio» (3,36), l'incomprensibilmente unico. Ma con questa affermazione inizia l'ultima sezione del poema. Il creatore dell'universo è il Dio d'Israele, che ha dato al suo popolo la sapienza.

Il dono della sapienza-legge a Israele 3,36-4,4 Dio, che conosce la via della sapienza, «ne ha fatto dono a Giacobbe suo servo» (cfr. Is 44,1; 45,4), al popolo d'Israele «suo diletto» (cfr. Dt 33,12). Per dono di Dio è dunque apparsa sulla terra la sapienza e perciò essa equivale alla rivelazione di Dio. Gesù Cristo, la sapienza divina incarnata, è la piena e definitiva rivelazione di Dio (cfr. 1Cor 1,24). La sapienza si identifica concretamente con «il libro dei decreti di Dio» e la «legge che sussiste nei secoli» (4,1), come in Dt 6,4 e Sir 24, 23. Il «libro dei decreti di Dio» (cfr. 2Re 22,11; Gs 24,26 e anche Dt 28,61) non designa soltanto la legge deuteronomica, bensì l'intero Pentateuco (la torah). Vita e morte sono legati all'osservanza e all'abbandono della torah secondo Dt 30, 5-16: nella sua legge, Dio ha messo davanti al suo popolo «la vita e la felicita, la morte e l'infelicità», a seconda che la si osservi o no e aggiunge: «scegli dunque la vita!» (Dt 30,19). Vita e sapienza, quindi, sono strettamente interdipendenti (cfr. Prv 4,13; 11,19). Che la sapienza offra la «vita», ossia una qualità buona della vita, è un motivo tradizionale (per es. cfr. Prv 3,18; 4,13.22.23; 13,14; 16,22).

Il poema si chiude con l'invito profetico alla conversione «ritorna»; cfr. Os 14,2-3; Ger 3,12-14) e a camminare alla luce della sapienza (4,2). Essa infatti è «il sentiero dei giusti» (Prv 4,18). La «gloria» di Israele (4,3) è la legge-sapienza (cfr. Sir 49,5) da non lasciare ad altri popoli. Perciò gli altri popoli non possono gloriarsi di possedere la vera sapienza (4,3). La legge è un privilegio dato a Israele, che per questo si “differenzia” da tutti gli altri popoli. Qualche studioso parla, in proposito, di «orizzonte nazionalistico e ostile verso gli stranieri». Questa soluzione non è soddisfacente perché la sapienza è strettamente connessa con la creazione: il creatore l'ha trovata (3,32-34) nell'universo; essa sembra identificarsi con un essere universale e cosmico. In 3,38 («è apparsa sulla terra e ha vissuto tra gli uomini») si sottolinea la presenza universale della sapienza. Si deve dunque affermare che la sapienza, pur essendo presente nell'universo, non è conosciuta da nessun popolo; incarnata concretamente nella torah, essa è data ad Israele. Nella torah trova la sua migliore e inequivocabile formulazione, valida e accessibile a tutti i popoli, la sapienza o l'ordine primordiale cosmico che tutti gli uomini cercano. Gloria e privilegio, ma anche principio di identità per Israele, è il possesso della sapienza-legge. Beato Israele cui è stata rivelata la volontà di Dio (4,4).

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Confessione dei peccati 1Per questo il Signore ha adempiuto le sue parole pronunciate contro di noi, contro i nostri giudici che governarono Israele, contro i nostri re e contro i nostri capi, contro ogni uomo d’Israele e di Giuda. 2Non era mai avvenuto sotto la volta del cielo quello che egli ha fatto a Gerusalemme, secondo ciò che è scritto nella legge di Mosè, 3fino al punto di mangiarsi uno le carni di suo figlio e un altro quelle di sua figlia. 4Il Signore li ha sottoposti al potere di tutti i regni intorno a noi, come oggetto di disprezzo e di desolazione per tutti quei popoli in mezzo ai quali li aveva dispersi. 5Essi furono resi schiavi, non padroni, perché abbiamo peccato contro il Signore, nostro Dio e non abbiamo ascoltato la sua voce. 6Al Signore, nostro Dio, la giustizia, a noi e ai padri nostri il disonore sul volto, come avviene ancora oggi. 7Tutti i mali che il Signore ci aveva minacciato, ci sono venuti addosso. 8Ma noi non abbiamo pregato il volto del Signore, abbandonando ciascuno i pensieri del cuore malvagio. 9E il Signore ha vegliato su questi mali e li ha mandati sopra di noi, poiché egli è giusto in tutte le opere che ci ha comandato, 10mentre noi non abbiamo dato ascolto alla sua voce, camminando secondo i decreti che aveva posto davanti al nostro volto.

Richiesta di perdono 11Ora, Signore, Dio d’Israele, che hai fatto uscire il tuo popolo dall’Egitto con mano forte, con segni e prodigi, con grande potenza e braccio possente e ti sei fatto un nome, qual è oggi, 12noi abbiamo peccato, siamo stati empi, siamo stati ingiusti, Signore, nostro Dio, verso tutti i tuoi comandamenti. 13Allontana da noi la tua collera, perché siamo rimasti pochi in mezzo alle nazioni fra le quali tu ci hai dispersi. 14Ascolta, Signore, la nostra preghiera, la nostra supplica, liberaci per il tuo amore e facci trovare grazia davanti a coloro che ci hanno deportati, 15perché tutta la terra sappia che tu sei il Signore, nostro Dio, e che il tuo nome è stato invocato su Israele e sulla sua stirpe. 16Guarda, Signore, dalla tua santa dimora e pensa a noi; porgi il tuo orecchio, Signore, e ascolta. 17Apri, Signore, i tuoi occhi e guarda: perché non i morti che sono negli inferi, il cui spirito se n’è andato dalle loro viscere, daranno gloria e giustizia al Signore, 18ma l’anima colma di afflizione, chi cammina curvo e spossato, e gli occhi languenti e l’anima affamata, ti renderanno gloria e giustizia, Signore. 19Non per le opere giuste dei nostri padri e dei nostri re presentiamo la nostra supplica davanti al tuo volto, Signore, nostro Dio, 20ma perché tu hai mandato sopra di noi la tua collera e il tuo sdegno, come avevi dichiarato per mezzo dei tuoi servi, i profeti, dicendo: 21“Così dice il Signore: Curvate le vostre spalle, servite il re di Babilonia e dimorerete nella terra che ho dato ai vostri padri. 22Ma se non darete ascolto alla voce del Signore, che comanda di servire il re di Babilonia, 23farò cessare nelle città di Giuda e farò uscire da Gerusalemme la voce della gioia e la voce della letizia, la voce dello sposo e della sposa, e tutta la terra diventerà un deserto senza abitanti”. 24Noi non abbiamo dato ascolto al tuo invito a servire il re di Babilonia, perciò tu hai eseguito le parole che avevi detto per mezzo dei tuoi servi, i profeti, e cioè che le ossa dei nostri re e dei nostri padri sarebbero state rimosse dal loro posto. 25Ed eccole abbandonate al calore del giorno e al gelo della notte. Essi sono morti fra atroci dolori, di fame, di spada e di peste; 26la casa su cui è stato invocato il tuo nome, tu l’hai ridotta nello stato in cui oggi si trova, per la malvagità della casa d’Israele e di Giuda.

Fiducia nella promessa 27Tuttavia tu hai agito verso di noi, Signore, nostro Dio, secondo tutta la tua bontà e secondo tutta la tua grande misericordia, 28come avevi detto per mezzo del tuo servo Mosè, quando gli ordinasti di scrivere la tua legge davanti ai figli d’Israele, dicendo: 29“Se voi non darete ascolto alla mia voce, certo, questa moltitudine grande e numerosa sarà resa piccola tra le nazioni fra le quali io la disperderò; 30poiché io so che non mi ascolteranno, perché è un popolo di dura cervìce. Però nella terra del loro esilio rientreranno in se stessi 31e riconosceranno che io sono il Signore, loro Dio. Darò loro un cuore e orecchi che ascoltino; 32nella terra del loro esilio mi loderanno e si ricorderanno del mio nome. 33E abbandoneranno la loro ostinazione e le loro azioni malvagie, perché ricorderanno il cammino dei loro padri che hanno peccato contro il Signore. 34Io li ricondurrò nella terra che ho promesso con giuramento ai loro padri, ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe; essi la possederanno e io li moltiplicherò e non diminuiranno più.35Farò con loro un’alleanza perenne: io sarò Dio per loro, ed essi saranno popolo per me, né scaccerò mai più il mio popolo Israele dal paese che gli ho dato”.

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Approfondimenti

Richiesta di perdono 2,11-26 In questa sezione domina la richiesta di perdono, sebbene sia ripetuta la confessione dei peccati («abbiamo peccato, siamo stati empi, abbiamo trasgredito i comandamenti», 2,12). Si susseguono gli imperativi della supplica: «ascolta» (2,14), «guarda» (2,16), «apri gli occhi e osserva» (2,17), «facci trovar grazia» (2,14). Ma il “perdono” vero e proprio è invocato con due specifiche formule: «allontana da noi lo sdegno» (2, 13); «liberaci» (2,14).

La «collera e lo sdegno» (2,20) del Signore erano stati minacciati dai profeti e i peccati del popolo li hanno resi effettivi. La collera e lo sdegno sono la reazione di Dio di fronte al rifiuto libero dell'uomo, ma non sono un giudizio definitivo di condanna né propriamente una “pena”. Non indicano cioè il venir meno della bontà di Dio e proprio per questo l'orante può invocare di allontanare da sé lo sdegno.

L'invocazione «liberaci» suppone la condizione di schiavitù sotto una potenza straniera: come ha liberato il suo popolo dall'Egitto, ascoltando il grido dei suoi fedeli (cfr. Es 3,7-9), ora il Signore liberi il suo popolo disperso in mezzo alle genti (2,13), deportato in esilio (2,14) e gemente sotto il peso del dominio straniero (2,18; cfr. 2,22-23). Il popolo soffre per i propri morti, per la fame, la spada (cioè la violenza mortale) e la peste (2,25), Il perdono invocato coincide con la liberazione dai mali che gravano su Israele.

La preghiera adduce anche le motivazioni della supplica. Anzitutto non si fa appello ai propri meriti, né a quelli dei padri né a quelli dei re (2,19); infatti si riconosce di aver peccato.

Dio viene invocato:

a) perché già ha liberato il suo popolo schiavo in Egitto (2,11); b) perché gli israeliti sono rimasti pochi, un “resto” disperso (2,13); c) «per il tuo amore» (2,14), cioè perché Dio lo vuole; d) «perché tutta la terra sappia che tu sei il Signore nostro Dio» (2,15); e) perché il popolo geme e langue umiliato e afflitto, contrito dei suoi peccati di cui porta le conseguenze (2,18); f) perché gli stranieri sappiano che il Signore usa compassione e misericordia col suo popolo: «faccia trovar grazia davanti a coloro che ci hanno deportati» (2,14).

Ascolti Dio e guardi «dalla sua santa dimora» (2,16), che qui non è Sion ma la dimora celeste, come nella preghiera di Salomone (cfr. 1Re 8,29.30.32.34.36.39.43.45.49). Infatti anche il tempio, «che porta il tuo nome» (cfr. 1Re 8,43; Ger 7,10.11.14.30), è in rovina per la malvagità della casa d'Israele e di Giuda (2,26; cfr. Ger 32,34; 34,15). Non dunque fidando nelle proprie opere e nei propri meriti si invoca Dio.

Fiducia nella promessa 2,27-35 C'è una ragione per chiedere perdono e sperare nella salvezza: è la bontà e la misericordia di Dio (2,27) proclamate già fin dalle origini mediante la legge di Mosè (cfr. Lv 26,14-44).

Attraverso Mosè, fin dall'inizio Dio aveva ammonito il suo popolo «di dura cervice» (cfr. Dt 31,27) prevedendo la possibilità che esso non ascoltasse la voce del suo Signore e deviasse dalle sue vie (cfr. Dt 28,15 e Ger 7,26-27).

Ma Israele non ha ascoltato e le conseguenze della disobbedienza, descritte con le parole di Geremia (42,2; 24,9), sono:

a) il popolo è «ridotto a un piccolo resto» (2,29); b) è stato disperso in mezzo alle nazioni (2,29).

Ora non c'è spazio per la speranza di un futuro nuovo se non basandosi sulla fedeltà di Dio alla sua «alleanza perenne» (2,35): Dio agirà secondo la sua bontà e misericordia.

Ecco quello che il Signore farà:

a) «Darò loro un cuore e orecchi che ascoltano» (2,31); b) «farò con loro un'alleanza perenne» (2, 5); c) «i ricondurrò nella terra promessa con giuramento ai loro padri» (2,34); d) «li moltiplicherò e non diminuiranno più» (2,34).

Di conseguenza, il popolo assumerà atteggiamenti nuovi, in particolare:

a) «ritorneranno in sé e riconosceranno che io sono il Signore loro Dio» (2,30-31); b) «nella terra del loro esilio mi loderanno e si ricorderanno del mio nome» (2,32); c) «abbandoneranno la loro caparbietà e la loro malizia» (2,33); d) «avranno di nuovo il dominio (della terra)» (2, 34).

L'alleanza perenne è precisamente l'attuazione effettiva della volontà efficace di Dio accolta liberamente dal suo popolo. La formula dell'alleanza dà espressione alla reciproca appartenenza di Dio e popolo: «io sarò Dio per loro ed essi saranno popolo per me» (2,35). Non sarà semplice continuazione dell'alleanza sinaitica, infranta per la disobbedienza del popolo, ma la «nuova alleanza» predetta da Geremia (31,31). Non ci sarà quindi una mera restaurazione del passato, ma sorgerà una realtà nuova, che la bontà del Signore renderà effettivamente possibile.

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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INTRODUZIONE 1Queste sono le parole del libro che Baruc, figlio di Neria, figlio di Maasia, figlio di Sedecìa, figlio di Asadia, figlio di Chelkia, scrisse a Babilonia 2nell’anno quinto, il sette del mese, al tempo in cui i Caldei presero Gerusalemme e la diedero alle fiamme. 3Baruc lesse le parole di questo libro alla presenza di Ieconia, figlio di Ioiakìm, re di Giuda, e di tutto il popolo, accorso per ascoltare la lettura del libro, 4e alla presenza dei potenti, dei figli del re, degli anziani, di tutto il popolo, piccoli e grandi, quanti insomma abitavano a Babilonia presso il fiume Sud. 5E piangevano, digiunavano e pregavano davanti al Signore. 6Poi raccolsero del denaro, secondo quel che ognuno poteva dare, 7e lo mandarono a Gerusalemme al sacerdote Ioakìm, figlio di Chelkia, figlio di Salom, e ai sacerdoti e a tutto il popolo che si trovava con lui a Gerusalemme. 8Era il dieci del mese di Sivan, quando Baruc ricevette, per portarli nella terra di Giuda, i vasi della casa del Signore, che erano stati portati via dal tempio. Erano i vasi d’argento che Sedecìa, figlio di Giosia, re di Giuda, aveva fatto rifare, 9dopo che Nabucodònosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme a Babilonia Ieconia, con i capi, i prigionieri, i potenti e il popolo della terra e lo aveva condotto a Babilonia. 10E dissero: «Ecco, vi mandiamo il denaro; comprate olocausti, sacrifici espiatori e incenso e offrite sacrifici sull’altare del Signore, nostro Dio. 11Pregate per la vita di Nabucodònosor, re di Babilonia, e per la vita di suo figlio Baldassàr, perché i loro giorni siano lunghi come i giorni del cielo sulla terra. 12Allora il Signore ci darà forza e illuminerà i nostri occhi e vivremo all’ombra di Nabucodònosor, re di Babilonia, e all’ombra di suo figlio Baldassàr e li serviremo per molti giorni e acquisteremo favore davanti a loro. 13Pregate il Signore, nostro Dio, anche per noi, perché abbiamo peccato contro di lui e fino ad oggi il suo sdegno e la sua ira non si sono allontanati da noi. 14Leggerete perciò questo libro che vi abbiamo mandato per fare pubblica confessione nella casa del Signore, nel giorno della festa e nei giorni opportuni.

PREGHIERA PENITENZIALE

Confessione dei peccati 15Direte dunque: Al Signore, nostro Dio, la giustizia; a noi il disonore sul volto, come oggi avviene per l’uomo di Giuda e per gli abitanti di Gerusalemme, 16per i nostri re e per i nostri capi, per i nostri sacerdoti e i nostri profeti e per i nostri padri, 17perché abbiamo peccato contro il Signore, 18gli abbiamo disobbedito, non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, che diceva di camminare secondo i decreti che il Signore ci aveva messo dinanzi. 19Dal giorno in cui il Signore fece uscire i nostri padri dall’Egitto fino ad oggi noi ci siamo ribellati al Signore, nostro Dio, e ci siamo ostinati a non ascoltare la sua voce. 20Così, come accade anche oggi, ci sono venuti addosso tanti mali, insieme con la maledizione che il Signore aveva minacciato per mezzo di Mosè, suo servo, quando fece uscire i nostri padri dall’Egitto per concederci una terra in cui scorrono latte e miele. 21Non abbiamo ascoltato la voce del Signore, nostro Dio, secondo tutte le parole dei profeti che egli ci ha mandato, 22ma ciascuno di noi ha seguito le perverse inclinazioni del suo cuore, ha servito dèi stranieri e ha fatto ciò che è male agli occhi del Signore, nostro Dio.

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Approfondimenti

INTRODUZIONE 1,1-14 Questo artificioso prologo storico ha la funzione di creare una cornice “storica” alle parti successive: Baruc è in esilio a Babilonia (v. 1), dove scrive e legge ai deportati un testo di liturgia penitenziale, durante una cerimonia commemorativa della caduta di Gerusalemme. In alcuni passi del libro di Geremia, Baruc appare come suo compagno e segretario (cfr. Ger 32;36; 43; 45), ma sulla sua sorte non sappiamo nulla di preciso. Per questo fiorirono le leggende sul suo conto. Qui Baruc è nominato soltanto in 1,1.3 e non compare come protagonista né come “locutore”. Potrebbe quindi anche trattarsi di uno pseudonimo dietro cui si nasconde l'autore del libretto.

Alcuni dati sembrano contraddittori: ad es. nel v. 2 si parla della distruzione e incendio di Gerusalemme (cfr. 2Re 25,9), ma al v. 10 si tratta di offrire sacrifici sull'altare del Signore; gli arredi del tempio (v. 8.9) furono riportati a Gerusalemme soltanto al tempo di Ciro, secondo Esd 1,7-11, mentre qui si invita a vivere in pace sotto Nabucodonosor (v. 12). Alcuni studiosi ipotizzano un testo originale, al quale sarebbero state fatte aggiunte tardive. Altri invece pensano che l'autore abbia immaginato una situazione ideale: i deportati con il loro re, vassallo dell'imperatore babilonese, si orientano verso Gerusalemme come al loro centro spirituale. Tale era la situazione, pur mancando un re giudeo, sotto i Persiani, i Lagidi e i Seleucidi. Si tratta dunque di una situazione “tipica”, nella quale tuttavia non è chiaro quale sia la funzione del re. Forse è il segno di una speranza messianica di epoca postesilica?

1-2. I dati genealogici corrispondono a quelli forniti da Ger 32,12 e 36,4. Come è abituale nella letteratura apocalittica si contano gli anni dalla distruzione della città (o del tempio): qui l'anno quinto anniversario è il 5 agosto del 581 a.C. (cfr. Ez 1,1-3: si tratta sempre dell'anno quinto). Baruc è uno “scrittore” (v. 1) e legge (v. 3) ciò che ha scritto; non è un profeta e un messaggero che parla in nome di Dio. Egli ha studiato le tradizioni religiose e ora ne espone il significato con la preghiera, l'esortazione e parole di consolazione. I destinatari del suo scritto sono anzitutto gli esiliati, non solo quelli in Babilonia ma quelli dispersi fra tutti i popoli (2,4.29; 3,8; 5,5-6).

3-4. Baruc legge il suo scritto davanti a un'assemblea ben strutturata: c'è il re Ieconia, i nobili e alti funzionari, i figli del re o principi, gli anziani o senatori, «tutto il popolo dal più piccolo al più grande». Tutti i Giudei presenti in Babilonia sono riuniti; l'assemblea è ovviamente ideale. Il fiume, presso cui si tiene, ha un nome simbolico: «Sud» evoca l'ebraico sod, che significa «devastazione». Là dove vivono gli esuli scampati alla grande devastazione si riunisce idealmente tutto il popolo di Dio per una grande liturgia della parola.

5-7. Il v. 5 scandisce le fasi del rito: lettura, pianto rituale, digiuno penitenziale, preghiere. Infine si fa una colletta per i sacrifici da compiere nel tempio di Gerusalemme (cfr. Gdt 4,14 e l'offerta di Giuda Maccabeo in 2Mac 12,43). Solo là infatti, secondo la teologia deuteronomica, si possono offrire sacrifici; mai lontano e fuori dal tempio. Ioakim è sacerdote a Gerusalemme, (come in Gdt 4,6); tra il 597 a.C. e il 586 a.C. sommo sacerdote era invece Seraia (cfr. 2Re 25,18). Si è dunque lontani dall'epoca dell'esilio; infatti il costume dei Giudei della diaspora di inviare un tributo annuale per il tempio di Gerusalemme diventò abituale solo dopo l'esilio. Ma secondo Ger 36,9 nel quinto anno di Ioiakim si tenne a Gerusalemme un'assemblea di tutto il popolo; «secondo quel che ognuno poteva dare» (v. 6): l'espressione ricalca Dt 16,17 e ricorre pure in Esd 2,69.

8-9. Le notizie fornite riguardano il bottino della prima deportazione del 597 a.C. (cfr. 2Re 24,13) per gli oggetti d'oro e della seconda deportazione del 586 a.C. (cfr. 2Re 25,15 e Ger 52,19) per gli oggetti d'argento e di bronzo. Questi ultimi non sono nominati, ma si dice che Sedecia li aveva fatti rifare. La datazione è precisa: il mese di Sivan è il terzo mese del calendario postesilico (maggio/giugno). In Ger 27-28 si esprime la speranza di una restituzione prossima degli oggetti del tempio, che secondo Esd 1,7-11 soltanto Ciro consegnò a Sesbassar che li portò a Gerusalemme. Il v. 9 è una citazione di Ger 24,1, ma senza fare la distinzione tra “buoni” e “cattivi”; «popolo del paese» designava, in Geremia, i possidenti terrieri; qui sembra indicare il «popolo». È significativo che tra i deportati non vengano menzionati i sacerdoti.

10-13. La colletta deve servire soprattutto per fare «sacrifici espiatori» (v. 10) o meglio «sacrifici per i peccati», cioè che esprimono il pentimento e la confessione dei peccati (cfr. Lv 6,18 ss.). Infatti il sacrificio non è propriamente una “espiazione”. Seguono tre imperativi (= «pregate»; ma nel testo originale sono solo due, al v. 11 e 13) che riecheggiano la lettera di Ger 29,7: «Pregate il Signore per il paese in cui vi ha fatto deportare, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere». Si invita a pregare per Nabucodonosor che iniziò l'esilio e per Baldassar, figlio di Nabonide, ultimo re babilonese; dunque «figlio» (vv. 11.12) non è da intendersi in senso fisico. I due nomi evocano l'inizio e la fine dell'esilio; «vivere all'ombra di Nabucodonosor» (cfr. Is 30,2; Ez 31,6 per l'espressione «all'ombra») significa accettare la condizione di diaspora, imparare a vivere senza indipendenza politica. Non c'è, in questo passo, né la ribellione né lo spirito nazionalista dei Maccabei; ma non sembra essere stato questo l'atteggiamento degli Ebrei durante l'esilio. Il testo riflette piuttosto un'epoca molto tarda, quando Israele aveva ormai imparato che era suo destino vivere in diaspora. Come popolo di Dio, Israele deve preoccuparsi, più che del rapporto politico con le potenze straniere, della relazione con Dio: «noi lo abbiamo offeso» (v. 13). Il peccato provoca lo sdegno e l'ira di Dio, il quale infatti non può che disapprovarlo. Il popolo di Dio vuole essere composto di cittadini leali e intende «servire» (v. 12) lo stato in cui vive; prega e intercede anche per i pagani, come Nabucodonosor e Baldassar; riconosce e confessa i propri peccati. L'autore di questo testo finge che questa situazione sia cominciata già durante l'esilio babilonese.

14. Come in esilio (v. 3) così a Gerusalemme, il popolo deve radunarsi in giorno di festa per leggere il documento scritto di Baruc. Non sembra quindi che si intenda soltanto la lettura della preghiera seguente (1,15-3,8). La pubblica confessione dei peccati (cfr. Lv 5,5 e Dn 9,20) è parte essenziale della celebrazione comunitaria.

PREGHIERA PENITENZIALE 1,15-3,8 È la preghiera degli esiliati, ma si può leggerla anche come orazione degli Ebrei sottomessi al dominio straniero, ovunque si trovino. È dunque la preghiera del popolo di Dio in diaspora, consapevole della sua identità spirituale ma privo di autonomia nazionale. Tutto il popolo si sente solidale nella colpa comune, anche con la storia passata di peccati e di promesse divine. I padri, i re, i profeti, i sacerdoti, i Giudei e gli abitanti di Gerusalemme (1,15-16) rappresentano l'intera storia del popolo di Dio vista come un'unità di solidarietà comune. Questa preghiera si adatta ad ogni epoca e ad ogni situazione del popolo di Dio.

Tutta la storia del popolo di Dio è stata una storia di ribellioni, disobbedienze, peccati. L'inizio, l'uscita dall'Egitto, è menzionato tre volte (1,19.20; 2,11); il dono della terra è ricordato in 1,20; 2,21.34: è la terra promessa con giuramento ai padri, ad Abramo, Isacco e Giacobbe (2,34). Dio ha inviato Mosè (1,20; 2,2.28), mediante il quale ha dato la legge (2,2.28) e ha parlato attraverso i profeti, suoi servi (1,21; 2,20.24). I doni di Dio al suo popolo sono stati continui e grandiosi, eppure – dice la preghiera con espressione tipicamente deuteronomistica – «noi non abbiamo ascoltato la sua voce» (1,17.19.21; 2,5.10.24; 3,4). La disobbedienza e la ribellione sono tanto più gravi quanto più grande di ogni previsione fu la bontà di Dio.

La confessione delle proprie colpe è anche riconoscimento della giustizia e innocenza di Dio: «Al Signore nostro Dio la giustizia» (1,15; 2,6). Dio infatti ha agito verso Israele «secondo tutta la sua bontà e secondo tutta la sua grande misericordia» (2,27). Dio dunque è innocente e giusto, non è responsabile dei mali che si sono abbattuti sul popolo. Il Signore aveva messo in guardia per mezzo di Mosè dalla «maledizione» (1,20), aveva minacciato calamità per mezzo dei profeti (2,7), ha ritardato il castigo aspettando la conversione che non è venuta (2,9) e ha mandato sul suo popolo la sua collera e il suo sdegno che aveva minacciato per mezzo dei profeti (2,20). Dunque, se la sventura è accaduta, ciò è dovuto soltanto all'ostinata disobbedienza umana e non alla malvagità divina. Il popolo sa bene che Dio è pur sempre, come è ripetuto di continuo, «il Signore nostro Dio». Proprio perché egli non cessa mai di essere «il suo Dio», c'è per Israele la possibilità di sperare nel futuro. È esclusa la disperazione tragica.

Al tempo in cui fu scritta questa preghiera sembra che l'AT sia già in gran parte formato: si nomina infatti la legge di Mosè e i profeti; ci sono citazioni di Dt, Is, Ger, Sal, 2Cr; si nota l'influsso delle preghiere di Esd 9; Ne 9; Dn 3 e 9. Dominanti soprattutto termini e allusioni a Ger e temi della teologia deuteronomistica.

La struttura della preghiera segue uno schema chiaro e semplice:

a) confessione dei peccati (1,15-2,10); b) richiesta di perdono (2,11-26); c) fiducia nella promessa (2,27-35); d) richiesta di perdono (3,1-8).

Confessione dei peccati 1,15-2,10 Tutto il popolo è solidale nella confessione dei peccati, autorità (re, principi, sacerdoti, profeti, i padri) e gente comune. Tutta la storia d'Israele, fin dall'uscita dall'Egitto (1,19), è stata una sequela ininterrotta di colpe. Fino ad «oggi» (1,15.19.20; 2,6): è l'oggi liturgico, sempre attuale.

La confessione dei peccati si articola nelle espressioni condensate in 1,17: abbiamo offeso il Signore, abbiamo disobbedito a lui, non abbiamo ascoltato la voce del Signore, non abbiamo camminato secondo i suoi decreti. Queste formule sono ripetute e riprese più volte, con qualche variazione. In fondo si tratta di un unico peccato: idolatria, servire dei stranieri (1,22) e trascurare il comandamento principale (cfr. Ger 11,10; 16,11-13). Il popolo ha seguito «le perverse inclinazioni del suo cuore» (1,22; cfr. 2,8). A nulla sono valsi i richiami e le minacce dei profeti: «noi non abbiamo placato lo sdegno del Signore, rinunziando ai perversi affetti del nostro cuore» (2,8). Di conseguenza si sono adempite le minacce espresse da Mosè in Dt 28, 53 («mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie») e Lv 26,29 («Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie») (cfr. 2,3). Anche la “dispersione” tra i popoli (2,4-5) era prevista nella legge di Mosè (cfr. Dt 28,37 e Ger 29,18). Israele dunque conosceva ciò che gli sarebbe accaduto se avesse peccato eppure l'ha voluto; la «maledizione» (1, 20) non era una fatalità tragica. Israele ha scelto liberamente la sua rovina. L'opposizione dunque è tra la giustizia di Dio e il peccato di Israele. Si ripete infatti: «Al Signore nostro Dio la giustizia; a noi il disonore sul volto» (1,15; 2,6). Ripercorrendo a ritroso la propria storia, Israele ammette che Dio «è giusto in tutte le opere» (2,9). La colpa e il male non stanno dalla parte di Dio.

(cf. ANTONIO BONORA, Baruc – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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QUINTA LAMENTAZIONE 1Ricòrdati, Signore, di quanto ci è accaduto, guarda e considera la nostra umiliazione. 2La nostra eredità è passata a stranieri, le nostre case a estranei. 3Orfani siamo diventati, senza padre, le nostre madri sono come vedove. 4La nostra acqua beviamo a pagamento, dobbiamo acquistare la nostra legna. 5Con un giogo sul collo siamo perseguitati, siamo sfiniti, non c’è per noi riposo. 6All’Egitto abbiamo teso la mano, all’Assiria per saziarci di pane. 7I nostri padri peccarono e non sono più, noi portiamo la pena delle loro iniquità. 8Schiavi comandano su di noi, non c’è chi ci liberi dalle loro mani. 9A rischio della nostra vita ci procuriamo il pane, minacciati dalla spada del deserto. 10La nostra pelle si è fatta bruciante come un forno a causa degli ardori della fame. 11Hanno disonorato le donne in Sion, le vergini nelle città di Giuda. 12I capi sono stati impiccati dalle loro mani, i volti degli anziani non sono stati rispettati. 13I giovani hanno girato la mola, i ragazzi sono caduti sotto il peso della legna. 14Gli anziani hanno disertato la porta, i giovani le loro cetre. 15La gioia si è spenta nei nostri cuori, si è mutata in lutto la nostra danza. 16È caduta la corona dalla nostra testa. Guai a noi, perché abbiamo peccato! 17Per questo è diventato mesto il nostro cuore, per tali cose si sono annebbiati i nostri occhi. 18È perché il monte di Sion è desolato, vi scorrazzano le volpi. 19Ma tu, Signore, rimani per sempre, il tuo trono di generazione in generazione. 20Perché ci vuoi dimenticare per sempre, ci vuoi abbandonare per lunghi giorni? 21Facci ritornare a te, Signore, e noi ritorneremo, rinnova i nostri giorni come in antico. 22Ci hai forse rigettati per sempre, e senza limite sei sdegnato contro di noi?

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Approfondimenti

QUINTA LAMENTAZIONE 5,1-22 A differenza delle altre quattro, questa lamentazione non ha una struttura alfabetica. Tuttavia consta di 22 versi, equivalenti al numero delle lettere dell'alfabeto. In Lam 1-4 domina il metro di 3+2 o 2+2 accenti, mentre in Lam 5 il metro prevalente è 3+3, che non è tipico della qînâ (=lamento). Lam 5 è più simile a quel genere salmico chiamato “lamentazioni comunitarie” (cfr. ad es. Sal 44; 60; 74; 79). Si usa il “noi”. Contiene l'esposizione della situazione di sventura e un appello a Dio perché soccorra. La struttura è la seguente:

  • v. 1: appello a Dio;
  • vv. 2-18: descrizione della sventura e sue cause;
  • vv. 19-21: Lode a Dio e supplica.

È chiamata anche “orazione del profeta Geremia” in alcune versioni greche e latine, ma è un'attribuzione storicamente senza attendibilità.

1. L'invocazione a JHWH è espressa con tre verbi: «ricordati-guarda-considera». La rovina di Gerusalemme è un «obbrobrio», una condizione vergognosa o umiliante di privazione dell'onore.

2-3. L'«eredità» è la terra promessa e data al popolo; le «case» sono i beni privati. Territorio e case erano un segno dei doni divini; passando in mano di stranieri hanno perduto i loro carattere di segno per il popolo. È la fine del rapporto con Dio? Gli Israeliti sono diventati «orfani» e «vedove», cioè deboli e senza difesa, affidati alla protezione di Dio (cfr. Sal 68,6).

4-5. Anche il necessario quotidiano, l'acqua e la legna, deve essere pagato caro. E un segno del duro dominio straniero. Ma più grave ancora è la perdita della libertà: il giogo di persecuzioni e lavori forzati sfinisce, pesando senza posa.

6-7. La condizione presente è la conseguenza di una catena di errori politici, alla ricerca di alleanze o con l'Egitto o con l'Assiria «per il pane», cioè per risolvere problemi economici. Quelle nazioni sono state «amanti» traditori (cfr. Os 2,7). Non si tratta di gettare tutta la colpa sui «padri» (cfr. Ger 31,29; Ez, 18,2), secondo un cinico detto popolare, ma di esprimere la solidarietà di tutta la comunità giudaica con la sua storia: i contemporanei del poeta non sono diversi dai loro padri. Il «ресcato» (non solo la «pena» come traduce la Bibbia-Cei al v. 7) è anche «nostro», non dei padri soltanto; infatti al v. 16 i popolo dice: «abbiamo peccato». In ebraico il termine 'awôn indica sia il «peccato» sia le sue «conseguenze».

8. Gli ufficiali babilonesi, insolenti e brutali, che comandano in Giuda sono «schiavi» del loro sovrano-tiranno. La sorte peggiore è proprio quella di essere dominati da schiavi: tra le cose più insopportabili è «uno schiavo che diventa re» (Prv 30,21-22; cfr. Is 3,4.12; Qo 10,16).

9-10. Viene meno ogni legge e ogni ordinamento, mentre imperversa la carestia di cibo. La spada dei beduini del deserto, di razziatori e briganti ha preso il posto dell'ordine legale. Procurarsi il pane quotidiano è un pericolo. I morsi della fame sono strazianti come una febbre che sembra bruciare la pelle.

11-12. Violenza e atrocità dilagano nella città di Giuda. La violenza su donne e ragazze e l'impiccagione dei capi-famiglia e dei dirigenti mostrano il volto crudele dei dominatori.

13-16. La violenza non risparmia i minorenni costretti a lavori forzati (v. 13) e ridotti a schiavi. La «porta» o piazza della città non è più il tribunale dove si garantisce la giustizia da parte degli anziani. I giovani non rallegrano più le vie e le piazze con i loro suoni, i canti e le danze (v. 14). Non c'è più gioia; c'è soltanto lutto e tristezza (v. 15). La «corona», con cui ci si adornava per i banchetti di festa (Is 28,1), ma anche quella del re (cfr. Ger 13,18), è caduta. Il «nostro» peccato è la causa vera di tanta rovina e così grande dolore.

17-18. Perfino il «monte di Sion», sede del tempio del Signore, è devastato e ridotto a uno sterpaio dove scorrazzano le volpi. Il luogo della presenza di Dio, àncora di speranza, è desolato. Dio ci ha abbandonato? cuore e mesto, incapace di sperare; gli occhi sono annebbiati, non vedono alcun futuro davanti a sé. Israele è arrivato al punto zero! C'è forse qualche possibilità di riuscita?

  1. Viene meno tutto, ma il Signore «rimane per sempre» sul suo saldo trono. Cade il trono terreno di Dio (Ger 3,16), cioè il tempio, ma Dio rimane re. Cade il trono davidico, ma Dio regna per sempre dal cielo.

20-22. Dunque è possibile appellarsi al re eterno. Due domande retoriche (v. 20) sottolineano le caratteristiche di Dio: egli non «dimentica» e non «abbandona» per sempre. La desolazione e il dolore non sono l'unica via d'uscita. Dio ha la capacità e il desiderio di «far ritornare», cioè di “convertire” e di “trasformare”, il suo popolo rinnovandolo come ha già fatto «in antico», cioè in passato. Può esserci dunque una svolta nella storia. Non si vede, per ora, nessun segno tangibile del rinnovamento che Dio opererà. Tuttavia la speranza non è morta, poiché Dio «non ci ha rigettati per sempre». Il v. 22 è inteso da molti esegeti come una domanda e allora il libro finirebbe con un problema: «O ci hai rigettati per sempre e sei sdegnato contro di noi senza misura?». L'ebraico inizia il v. 22 con kî'im, che però non è usato altrove per introdurre una domanda. E comunque una finale sobria, ma non priva di speranza.

(cf. ANTONIO BONORA, Lamentazioni – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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QUARTA LAMENTAZIONE Alef 1Come si è annerito l'oro, come si è alterato l'oro migliore! Sono disperse le pietre sante all'angolo di ogni strada. Bet 2I preziosi figli di Sion, valutati come oro fino, come sono stimati quali vasi di creta, lavoro delle mani di vasaio! Ghimel 3Persino gli sciacalli porgono le mammelle e allattano i loro cuccioli, ma la figlia del mio popolo è divenuta crudele come gli struzzi nel deserto. Dalet 4La lingua del lattante si è attaccata al palato per la sete; i bambini chiedevano il pane e non c'era chi lo spezzasse loro. He 5Coloro che si cibavano di leccornie languiscono lungo le strade; coloro che erano allevati sulla porpora abbracciano letame. Vau 6Grande è stata l'iniquità della figlia del mio popolo, più del peccato di Sòdoma, la quale fu distrutta in un attimo, senza fatica di mani. Zain 7I suoi giovani erano più splendenti della neve, più candidi del latte; avevano il corpo più roseo dei coralli, era zaffìro la loro figura. Het 8Ora il loro aspetto s'è fatto più scuro della fuliggine, non si riconoscono più per le strade; si è raggrinzita la loro pelle sulle ossa, è divenuta secca come legno. Tet 9Più fortunati gli uccisi di spada che i morti per fame, caduti estenuati per mancanza dei prodotti del campo. Iod 10Mani di donne, già inclini a pietà, hanno cotto i loro bambini, che sono divenuti loro cibo nel disastro della figlia del mio popolo. Caf 11Il Signore ha esaurito la sua collera, ha rovesciato l'ira ardente; ha acceso in Sion un fuoco che ha divorato le sue fondamenta. Lamed 12Non credevano i re della terra e tutti gli abitanti del mondo che l'avversario e il nemico sarebbero penetrati entro le porte di Gerusalemme. Mem 13Fu per i peccati dei suoi profeti, per le iniquità dei suoi sacerdoti, che versarono in mezzo ad essa il sangue dei giusti. Nun 14Costoro vagavano come ciechi per le strade, insozzati di sangue, e non si potevano neppure toccare le loro vesti. Samec 15“Scostatevi! Un impuro!”, si gridava per loro, “Scostatevi! Non toccate!”. Fuggivano e andavano randagi tra le genti, non potevano trovare dimora. Pe 16La faccia del Signore li ha dispersi, egli non continuerà più a guardarli; non si è avuto riguardo dei sacerdoti, non si è usata pietà agli anziani. Ain 17Ancora si consumavano i nostri occhi, in cerca di un vano soccorso. Dal nostro osservatorio scrutavamo verso una nazione che non poteva salvarci. Sade 18Hanno spiato i nostri passi, impedendoci di andare per le nostre piazze. Prossima è la nostra fine, sono compiuti i nostri giorni! Certo, è arrivata la nostra fine. Kof 19I nostri inseguitori erano più veloci delle aquile del cielo; sui monti ci hanno inseguiti, nel deserto ci hanno teso agguati. Res 20Il soffio delle nostre narici, il consacrato del Signore, è stato preso in un agguato, lui, di cui dicevamo: “Alla sua ombra vivremo fra le nazioni”. Sin 21Esulta pure, gioisci, figlia di Edom, che abiti nella terra di Us; anche a te arriverà il calice, ti inebrierai ed esporrai la tua nudità. Tau 22È completa la tua punizione, figlia di Sion, egli non ti manderà più in esilio; ma punirà la tua iniquità, figlia di Edom, svelerà i tuoi peccati.

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Approfondimenti

QUARTA LAMENTAZIONE 4,1-22 Anche questo poema ha una struttura alfabetica, ma a differenza di Lam 1-3 ogni strofa è costituita da due sole linee dell'ebraico. Qui il poeta ritorna, con l'immaginazione, alla visione della catastrofe del 587 a.C., la caduta di Gerusalemme. Allora tutto crollava, ogni valore e ogni istituzione, a causa della «grande iniquità» (v. 6) di tutti, compresi i peccati e la malvagità dei sacerdoti e dei profeti (v. 13). Il poema è una sorta di enumerazione delle realtà che sono travolte nella catastrofe, dove niente si salva. Tutto sembra finito. Ma è invece aperta una via d'uscita: «egli non ti manderà più in esilio» (v. 22). Dunque, l'esilio finirà. La struttura è semplice:

  • i vv. 1-16 sono un lamento, quasi un elenco delle rovine;
  • i vv. 17-20 usano il “noi” e segnano l'intervento della comunità, quasi un coro che dà risonanza al lamento;
  • i vv. 21-22 sono un discorso diretto a Edom e a Sion.

1-2. Sion, paragonata all'oro fino e costruita con «pietre sante» (forse c'è un'allusione alle pietre preziose del vestito dei sacerdoti), una volta era orgogliosa dei suoi figli, preziosi come l'oro fino, ora giace in rovina e i suoi abitanti sono come vasi di creta, oggetti senza valore.

3-4. La rovina della “madre” Sion si fa sentire soprattutto nella «fame» e nella «sete» dei più deboli (lattanti, bambini). Essa è caduta talmente in basso che gli sciacalli e gli struzzi, al confronto, sono meno crudeli e insensibili verso i loro piccoli. Per la proverbiale crudeltà dello struzzo, cfr. Gb 39,15-16. Il poeta sembra avere ancora davanti agli occhi la sofferenza dei lattanti e dei bambini in una città devastata.

5. La catastrofe si è abbattuta anche sui ricchi, che si cibavano di leccornie e sui loro figli allevati sulla porpora. «Abbracciano letame» (v. 5): indica la miseria in cui sono caduti, costretti a vivere tra i rifiuti e a languire lungo la strada, perché le case sono distrutte. Anche le classi sociali elevate sono dunque trascinate nella rovina generale.

6. Al poeta viene spontaneo paragonare Gerusalemme a Sodoma, simbolo della corruzione (cfr. Is 1,7.10; 3,9; Ger 23,14). Addirittura si afferma che il peccato di Sion è più grave e quindi prolungata e devastante la sua distruzione, mentre Sodoma ha sofferto di meno perché «fu distrutta in un attimo». Gerusalemme ha assaporato lentamente, con più grande dolore, la propria rovina compiutasi dopo una lunga agonia (= assedio). La rovina è effetto della malvagità umana. Sodoma invece scomparve «senza fatica di mani» umane, ossia, senza le sofferenze causate da un lungo assedio.

7-11. Ora il poeta pensa ai «giovani» (v. 7) caduti, che secondo il TM sono n'zirêāh, «i suoi nazirei», cioè i giovani soldati consacrati (cfr. Nm 6; Am 2,11) o un gruppo scelto (cfr. Dt 33,16). Molti congetturano che si tratti soltanto dei n''ārêāh (= i suoi giovani). «Prima» erano splendenti, candidi, paragonabili ai coralli e allo zaffiro (v. 7); «ora» (v. 8) la loro pelle è scura, raggrinzita e secca come legno per effetto della fame e della carestia (v. 9). Meglio sarebbe stata una morte improvvisa, violenta, che una lenta agonia. Fu proprio la carestia provocata dal lungo assedio che condusse perfino a forme disumane e atroci di cannibalismo (v. 10). L'ira ardente del Signore fu come un fuoco che bruciò Sion dalle fondamenta (v. 11): per la metafora del «fuoco» (= ira divina), cfr. Dt 32,22; Is 10,17; Ger 17,27; Am 1,4. Ci può essere un'allusione anche al fuoco appiccato dai Babilonesi. Parlare di «disastro» e «ira» divina è un modo per dire che Dio non poteva approvare, proteggere e custodire la malvagità di Sion. Non è possibile accumulare delitti e infedeltà e pretendere che Dio legittimi una tale condotta! Dio «si adira», cioè prende le distanze dall'agire perverso e peccaminoso degli uomini.

12. È difficile pensare che «i re della terra» e «tutti gli abitanti del mondo» fossero interessati alla sorte della città di Gerusalemme, che pure era nota nel Vicino Oriente per le sue fortificazioni. Si tratta di retorica ironica rivolta contro quelli che pensavano, alla maniera dei Sal 46; 48; 87, all'inviolabilità della città santa. Il fatto di essere il luogo della “presenza” di Dio nel tempio non costituiva una garanzia di indistruttibilità.

13. Il poeta accusa i profeti e i sacerdoti di avere ingannato il popolo dandogli la sicurezza che la città non sarebbe mai caduta in rovina. Essi dovevano invece «svelare le iniquità» (cfr. 2,14) che avrebbero provocato la catastrofe e quindi, in qualche modo, impedire che fosse versato il sangue dei giusti con oppressioni, violenze, malvagità di ogni genere. L'autore non vuol dire probabilmente che furono i profeti e i sacerdoti a commettere direttamente e personalmente delitti sanguinosi. Questa accusa ricorre anche in Ger 2,8; 5,31; 6,13; 23,11.

14-15. Sono versetti oscuri. Soggetto sono «profeti e sacerdoti» oppure i «giusti», cioè il popolo fedele (cfr. v. 13)? Se si tratta dei sacerdoti, custodi della purità rituale, si capisce come essi, insozzati di sangue, siano diventati impuri come i lebbrosi (cfr. Lv 13,45) dal momento che il sangue contamina (cfr. Nm 35,33; Ez 22,1-5; Sal 106,38-39). Essi erano allora schivati e tenuti lontani, costretti a fuggire e vagare come randagi, pervertendo la loro funzione. Ma poiché nel v. 15 si può intendere che «essi» vagano «tra le genti», può trattarsi del popolo d'Israele nella sua totalità, reso impuro come un lebbroso per i suoi sanguinosi delitti. Noi preferiamo questa seconda interpretazione: i cittadini di Gerusalemme, prima dell'assalto finale dei Babilonesi, si aggiravano per la città come ciechi e come lebbrosi impuri da evitare, condannati ormai ad essere randagi e vagabondi, come di fatto accadrà quando andranno in esilio «tra le genti». Nascerebbe qui il tema popolare dell'ebreo errante.

16. Né i sacerdoti, per la loro funzione sacra, né gli anziani, per la loro veneranda età, possono garantire l'inviolabilità di Gerusalemme. Dio non trova più in essa nulla di attraente e degno, volge lo sguardo dall'altra parte. È una città dove non si ha riguardo e non si ha pietà di nessuno, nemmeno dei sacerdoti e degli anziani. Perciò Dio li ha dispersi, non potendo approvare una condotta indegna e impenitente. Ma nel primo stico, invece di billeg (= distruggere, disperdere) secondo il TM, si potrebbe leggere beleq (= porzione), ottenendo la frase seguente: «La faccia del Signore è la sua porzione» (cfr. 3,24). I senso sarebbe: pur essendo la faccia del Signore la loro porzione, il suo sguardo è distolto da loro!

17. Inizia la sezione col “noi”, il popolo testimone degli avvenimenti. C'è il ricordo di una disperata e insensata ricerca di aiuto dall'Egitto contro i Babilonesi (cfr. Ger 37,5-10). Ma quell'aiuto era vano, non poteva aiutare.

18. I Babilonesi, di fatto, strinsero d'assedio la città, dandole la caccia e privandola della libertà di movimento: non si poteva più entrare ed uscire. Oramai tutti capivano e andavano ripetendo che la fine era prossima, inevitabile. La triplice ripetizione («è prossima – son compiuti – è arrivata») rimarca l'idea di inesorabilità della fine.

19-20. Di fronte alla fine imminente, il re Sedecia (cfr. 2Re 25,3-6), con i suoi fedeli soldati, fece aprir una breccia nelle mura della città e cercò di fuggire nella notte, per la via dell'Araba. Ma i Babilonesi, più veloci delle aquile, li inseguirono per i monti e il deserto di Giuda fino alla steppa di Gerico catturando infine il re, cui furono cavati gli occhi prima di essere incatenato e condotto a Babilonia. Il re riceve tre titoli: «unto del Signore – nostro respiro – ombra (protettrice)». La sua cattura (cfr. Ger 39,4-5; 52,7-9) fu la cessazione del respiro, cioè la morte, per Giuda (cfr. la concezione cananea ed egiziana del re come “respiro vitale”; Ramses II era chiamato «respiro delle nostre narici» ed anche «il bel falcone che protegge i suoi sudditi con le sue ali e spande l'ombra su di loro» (J. de Savignac). Anche i testi babilonesi parlano dell'ombra del re (cfr. A.L. Oppenheim).

21-22. Edom ha esultato per la rovina di Gerusalemme (cfr. Abd 11; Sal 137,7; Ez 35), ma a lui toccherà lo stesso «calice» o sorte. Su Uz cfr. Gn 36,28; Gb 1,1. Edom berrà il calice dell'ira divina e se ne inebrierà, mostrando vergognosamente la sua «nudità», cioè la sua debolezza e miseria. La «nudità» è metafora per «fragilità, povertà, debolezza». La condanna si è compiuta; forse – al tempo in cui scrive l'autore – è già del passato; Dio non manderà più in esilio il suo popolo, mentre Edom – che rappresenta il mondo pagano – continuerà a pagare per i propri peccati. E come dire: per chi crede in Dio c'è la possibilità di un futuro diverso, di una salvezza che viene da Dio.

(cf. ANTONIO BONORA, Lamentazioni – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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TERZA LAMENTAZIONE Alef 1Io sono l'uomo che ha provato la miseria sotto la sferza della sua ira. Alef 2Egli mi ha guidato, mi ha fatto camminare nelle tenebre e non nella luce. Alef 3Sì, contro di me egli volge e rivolge la sua mano tutto il giorno. Bet 4Egli ha consumato la mia carne e la mia pelle, ha rotto le mie ossa. Bet 5Ha costruito sopra di me, mi ha circondato di veleno e di affanno. Bet 6Mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi come i morti da gran tempo. Ghimel 7Mi ha costruito un muro tutt'intorno, non posso più uscire; ha reso pesanti le mie catene. Ghimel 8Anche se grido e invoco aiuto, egli soffoca la mia preghiera. Ghimel 9Ha sbarrato le mie vie con blocchi di pietra, ha ostruito i miei sentieri. Dalet 10Era per me un orso in agguato, un leone in luoghi nascosti. Dalet 11Seminando di spine la mia via, mi ha lacerato, mi ha reso desolato. Dalet 12Ha teso l'arco, mi ha posto come bersaglio alle sue saette. He 13Ha conficcato nei miei reni le frecce della sua faretra. He 14Sono diventato lo scherno di tutti i popoli, la loro beffarda canzone tutto il giorno. He 15Mi ha saziato con erbe amare, mi ha dissetato con assenzio. Vau 16Ha spezzato i miei denti con la ghiaia, mi ha steso nella polvere. Vau 17Sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere. Vau 18E dico: “È scomparsa la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”. Zain 19Il ricordo della mia miseria e del mio vagare è come assenzio e veleno. Zain 20Ben se ne ricorda la mia anima e si accascia dentro di me. Zain 21Questo intendo richiamare al mio cuore, e per questo voglio riprendere speranza. Het 22Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie. Het 23Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà. Het 24“Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero”. Tet 25Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. Tet 26È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore. Tet 27È bene per l'uomo portare un giogo nella sua giovinezza. Iod 28Sieda costui solitario e resti in silenzio, poiché egli glielo impone. Iod 29Ponga nella polvere la bocca, forse c'è ancora speranza. Iod 30Porga a chi lo percuote la sua guancia, si sazi di umiliazioni. Caf 31Poiché il Signore non respinge per sempre. Caf 32Ma, se affligge, avrà anche pietà secondo il suo grande amore. Caf 33Poiché contro il suo desiderio egli umilia e affligge i figli dell'uomo. Lamed 34Schiacciano sotto i loro piedi tutti i prigionieri del paese. Lamed 35Ledono i diritti di un uomo davanti al volto dell'Altissimo. Lamed 36Opprimono un altro in una causa. Forse il Signore non vede tutto questo? Mem 37Chi mai ha parlato e la sua parola si è avverata, senza che il Signore lo avesse comandato? Mem 38Dalla bocca dell'Altissimo non procedono forse le sventure e il bene? Mem 39Perché si rammarica un essere vivente, un uomo, per i castighi dei suoi peccati? Nun 40“Esaminiamo la nostra condotta e scrutiamola, ritorniamo al Signore. Nun 41Innalziamo i nostri cuori al di sopra delle mani, verso Dio nei cieli. Nun 42Noi abbiamo peccato e siamo stati ribelli, e tu non ci hai perdonato. Samec 43Ti sei avvolto nell'ira e ci hai perseguitati, hai ucciso senza pietà. Samec 44Ti sei avvolto in una nube, perché la supplica non giungesse fino a te. Samec 45Ci hai ridotti a spazzatura e rifiuto in mezzo ai popoli. Pe 46Hanno spalancato la bocca contro di noi tutti i nostri nemici. Pe 47Nostra sorte sono terrore e fossa, sterminio e rovina”. Pe 48Rivoli di lacrime scorrono dai miei occhi, per la rovina della figlia del mio popolo. Ain 49Il mio occhio piange senza sosta perché non ha pace, Ain 50finché non guardi e non veda il Signore dal cielo. Ain 51Il mio occhio mi tormenta per tutte le figlie della mia città. Sade 52Mi hanno dato la caccia come a un passero coloro che mi odiano senza ragione. Sade 53Mi hanno chiuso vivo nella fossa e hanno gettato pietre su di me. Sade 54Sono salite le acque fin sopra il mio capo; ho detto: “È finita per me”. Kof 55Ho invocato il tuo nome, o Signore, dalla fossa profonda. Kof 56Tu hai udito il mio grido: “Non chiudere l'orecchio al mio sfogo”. Kof 57Tu eri vicino quando t'invocavo, hai detto: “Non temere!”. Res 58Tu hai difeso, Signore, la mia causa, hai riscattato la mia vita. Res 59Hai visto, o Signore, la mia umiliazione, difendi il mio diritto! Res 60Hai visto tutte le loro vendette, tutte le loro trame contro di me. Sin 61Hai udito, Signore, i loro insulti, tutte le loro trame contro di me. Sin 62I discorsi dei miei oppositori e i loro pensieri sono contro di me tutto il giorno. Sin 63Osserva quando siedono e quando si alzano; io sono la loro beffarda canzone. Tau 64Ripagali, o Signore, secondo l'opera delle loro mani. Tau 65Rendili duri di cuore, sia su di loro la tua maledizione! Tau 66Perseguitali nell'ira, Signore, e distruggili sotto il cielo. =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

TERZA LAMENTAZIONE 3,1-66 Anche questa è una composizione di struttura alfabetica, ma ogni lettera “occupa” ben tre distici, che cominciano con la medesima lettera dell'alfabeto (tre linee con la alef, tre con bet, ecc.). Tutto ciò esalta l'artificiosità, ma accresce anche la forza dello schematismo. Sorprende che quasi scompaia il riferimento esplicito alla caduta di Gerusalemme e che a parlare sia un «uomo», non la madre-sion, come negli altri poemi. Chi e quest'uomo anonimo, che ha provato il dolore e che effonde il suo lamento in termini che evocano la situazione del profeta Geremia o i discorsi di Giobbe o i cosiddetti canti del Servo di Is 50 e 53? Probabilmente non si tratta di un individuo storico determinato (ad es. il re Ioiachin) né di un personaggio che non ha nulla a che fare con il resto del libro; non pare nemmeno plausibile l'ipotesi che questo «uomo» sia da identificare semplicemente con Geremia. Tra le interpretazioni proposte, ci sembra preferibile quella che considera questo «uomo» l'incarnazione dell'innocente ingiustamente perseguitato, tipo o figura simbolica degli Israeliti rimasti fedeli eppure colpiti immeritatamente, alla pari degli altri, dalla catastofe. Il valore “tipico”, e perciò collettivo del personaggio traspare dall'uso del “noi” nei vv. 40-47. Non è da escludere un'intenzione universalizzante di estendere ad “ogni uomo” quanto qui viene detto a proposito di “quest'uomo” (cfr. vv. 1.27.39): l'Israelita diventa l'emergenza simbolica di ogni uomo sofferente (cfr. v. 27). Questo poema è il centro teologico del libro.

1-3. Il maschio vigoroso geber, che parla qui, ha provato il dolore come fosse un colpevole su cui meritatamente si sia abbattuta la implacabile sferza dell'ira divina. La mano di Dio ha guidato quest'uomo nel cammino delle tenebre, simbolo dell'oscurità spirituale (cfr. Is 8,22; 47,5; 59,9) e della sventura (cfr. Am 5,18; Gb 12, 5), invece di essere sostegno e forza protettrice (cfr. Lam 2,3: «la destra»). Le tenebre o i luoghi tenebrosi sono il segno della morte (v. 6). Dio non è nominato se non col pronome «egli» o con il possessivo: «la sua mano», colui che si «volge e rivolge» contro l'uomo appare come un potere anonimo, oscuro, indecifrabile. Dio è cambiato?

4-6. La situazione del sofferente è descritta con le immagini di una terribile malattia che consuma la carne e la pelle e spezza le ossa (cfr. l'eco dei Sal 32,3; 34,21; 51,10 e di Is 38,13). Segue poi l'immagine di una città assediata, circondata da un muro di veleno e di affanno (v. 5; cfr. Sal 17,9; 22,13); infine la visione di una casa nel regno tenebroso della morte (cfr. Sal 88,7; 143,3). Ecco ciò che «egli» fa! Veramente Dio è incomprensibile; sempre più crudele e feroce appare il suo agire anonimo. Sal 88,9 sembra un commento a questi vv.: «Sono prigioniero senza scampo» (cfr. anche Sal 105,18; 107,10-16; 116,16). In filigrana si intravede la condizione miserevole e disperata del popolo, che solo immagini di malattia gravissima e di morte riescono ad esprimere o a far intuire.

7-9. Continua l'immagine di un prigioniero “murato” senza vie d'uscita (cfr. Sal 88,9; Gb 3,23; 19,8), così che perfino la sua preghiera è soffocata (cfr. Sal 77,10). Ci sono soltanto vicoli chiusi, porte e vie sbarrate, sentieri ostruiti. Le «vie» sono anche i progetti, i pensieri, la volontà. È una vita bloccata, chiusa.

10-13. «Egli», cioè Dio, assume il volto inquietante di un orso in agguato o di un leone inseguitore (cfr. Gb 10,16; Os 13,8; Am 5,19; Prv 28,15). Nessuna via è più percorribile perché è «seminata» di spine laceranti; egli si è appostato come un cacciatore, col suo arco, per colpire con saette velenose (cfr. Gb 16,12-13; Sal 91,5). Egli mira ai «fianchi» (v. 13), cioè ai reni, che per l'AT sono l'organo centrale della vita. Dio è dunque diventato non solo crudele e feroce, come una fiera, ma anche un nemico coscientemente ostile, come un cacciatore?

14-15. Al colmo della sventura sta lo scherno e la derisione (v. 14; cfr. Lam 3,63; Sal 22,8; 35,21; Gb 16,10; 30,9-10; Ger 20,7). Le erbe amare e l'assenzio (v. 15; cfr. Ger 9,14 e Gb 9,18) sono l'opposto del buon cibo dell'ospitalità, simbolo della sofferenza (cfr. anche il v. 19). «Tutto il mio popolo» (v. 14 col TM) si fa beffe di questo pover'uomo. Il dolore fisico è ingigantito dall'incomprensione e dal disprezzo della “propria” gente.

16-18. Continuano gli stereotipi-immagini che descrivono la sofferenza umana di fronte a un Dio-nemico. Per il “formulario” del v. 16, cfr. Sal 102,10 e Prv 20,17; la versione greca qui però è differente dall'ebraico. I sassolini sono il cibo che fa spezzare i denti; polvere da cui l'uomo è tratto (Gn 2,7), è ciò contro cui è calpestato e a cui è ridotto l'uomo sofferente, oppresso e umiliato (cfr. Sal 7,6; 72,9; Am 2,7; Mic 7,17), costretto a «lambire la polvere». Lontano dal «benessere» salôm e dalla «felicità» tôbâ, privato del suo «splendore», l'uomo vede dissolversi anche la sua speranza in JHWH (v. 18). La sofferenza sembra togliere senso e scopo alla vita. Il tema della speranza ritorna ancora nei vv. 21.24.26.29: è l'atteggiamento fondamentale che è in gioco. È possibile ancora sperare? Questa è la domanda-tema dei vv. seguenti.

19-24. Il «ricordo» (vv. 19-20) delle proprie sventure è accasciante, disperante, mortale come l'assenzio e il veleno. C'è però un altro ricordo («questo» del v. 21), che fa riprendere a sperare: la misericordia e la compassione durevole del Signore (v. 22). Due ricordi: uno per la disperazione, uno per la speranza. Dio rimane fedele e rinnova ogni giorno la sua bontà, non è ambiguo né incostante. Dunque, per chi sceglie il Signore e ne fa la «sua parte» (v. 24), il suo destino, è possibile ancora sperare. Al di là di ogni apparenza, intatti, Dio non è nemico, non è all'origine delle sofferenze umane: egli è amore fedele hesed, leale. Questi vv. sono il centro teologico del poema.

25-33. Ora il poeta può fare una professione di fede: «buono è il Signore con chi spera in lui e lo cerca» (v. 25). La bontà di Dio si rivela realmente soltanto a chi spera in lui e lo cerca, a chi lo sceglie liberamente e si decide per lui. Senza gli “occhi” della libertà amante, non si riesce a vedere la bontà di Dio! Nei vv. 26-27 seguono due esortazioni in forma di proverbi sapienziali: è bene sperare «in silenzio», cioè tranquillamente; è bene portare il «giogo» della sofferenza, ma anche della legge, «fin dalla» giovinezza o, secondo il TM, «nella» propria giovinezza. Non si tratta di un invito alla rassegnazione passiva, ma a portare con fiduciosa speranza il peso della vita, compresa la fatica della fede e dell'obbedienza alla legge divina, ben sapendo che le promesse di Dio non sono vane. Il v. 28 attribuisce a Dio «egli glielo impone» la solitudine e il silenzio; ma il verbo ntl può significare «pesare (su)», cosicché il v. 28b è da rendere così: «pesa su di lui». Il v. 28 può essere reso anche così: «Sieda solitario e resti in silenzio quando (ki, la disgrazia) pesa su di lui». «Ponga nella polvere la bocca» (v. 29) è un gesto di umiliazione e di obbedienza (cfr. Mic 7,17; Sal 72,9), equivale a «prostrarsi». Nell'ora della sofferenza, la speranza in Dio fiorisce là dove c'è la calma, quieta e silenziosa, l'obbedienza e la non violenza (v. 30: «porga la guancia»), a condizione che si sia convinti che «il Signore non rigetta mai...» (v. 31). Non è proprio del «desiderio» di Dio (letteralmente del «cuore» di Dio, che è la “sede” del “desiderio”) umiliare e affliggere (v. 33); in lui la pietà e la misericordia (v. 32) sono le qualità caratteristiche. Dio è la sempiterna “simpatia” per l'uomo. Eppure si può dire che «egli affligge» (v. 32.33) l'uomo, lo castiga: che cosa significa questo linguaggio?

34-36. In realtà è il peccato (schiacciare i prigionieri, falsare o negare i diritti umani, far torto in tribunale) l'oggetto della “visione” del Signore e della sua ira-giudizio. Il peccato sta «in presenza dell'Altissimo» (v. 35) ed egli non può non vederlo e non rifiutarlo. La sua «ira» (v. 43) significa che egli non è complice, anzi si oppone rabbiosamente al peccato. La domanda retorica intende negare l'indifferenza di Dio di fronte al male. Dio «vede», cioè conosce ed interviene; ma non è Dio la causa dei mali nella storia umana.

37-39. Tre domande sottolineano la signoria divina sulla storia. Tutto ciò che accade nella storia corrisponde a un piano, dunque a una «parola» comandata da Dio e da nessun altro (v. 37; cfr. Am 3,6; Is 45,7). Da lui, infatti, procedono sia le sventure sia il bene (v. 38) (cfr. Sal 33, 9; Is 41,2-3; Sof 1,12). Alla luce di quanto è stato detto prima, riferire a Dio sia il bene sia il male è un modo per dire che nessun altro potere, umano o celeste, ha l'ultima parola. La storia umana non è abbandonata a se stessa né è in balia di potenze malvagie. Nella sua ultima profondità, ciò che Dio fa non può essere male. Il v. 39, di dubbia interpretazione, reca un po' di luce. Esso può essere reso come una domanda con risposta: «Perché si lamenta un vivente? Se è uomo, per i suoi peccati». Così inteso, il verso esclude che l'uomo possa accusare Dio per le sue sventure, che sono la conseguenza dei propri peccati. Ma il v. 39 può essere reso come una domanda: «Perché si lamenta un essere vivente, un uomo, per le conseguenze dei suoi peccati?». In ambedue le versioni è da escludere che hattā'w significhi «castighi dei suoi peccati» invece di «peccati con le loro conseguenze». Sono infatti i peccati stessi dell'uomo a portare con sé la conseguenza della sventura; non è Dio che “castiga”. L'uomo non deve ascrivere che alla sua condotta malvagia il male di cui soffre; non ha motivi per lamentarsi con Dio o accusarlo.

40-47. Coerentemente segue l'invito a un esame di coscienza e alla confessione dei propri peccati per ritornare al Signore (v. 40): il “noi” coinvolge tutto il popolo nel processo di conversione interiore, sincera, del «cuore» e non solo delle «mani» (v. 41). Ecco la confessione: «Abbiamo peccato e siamo stati ribelli» (v. 42). Il perdono divino (v. 42) non può attecchire dove non c'è conversione (cfr. Ger 5,9.29). Non sarebbe né riconosciuto né accolto. Se non c'è stato perdono è perché non c'era conversione a Dio, non per cattiva volontà divina. Al peccato ostinato del popolo corrisponde l'ira divina, la persecuzione e la morte impietosa, la sordità di Dio, l'umiliazione e la vergogna di Israele, disprezzato dai suoi famelici (v. 46) nemici. L'assenza di conversione stravolge il rapporto con Dio, che non è più sperimentato come bontà e misericordia. La conseguenza finale è un mondo ove non c'è che terrore e insidie, desolazione e rovina (v. 47). Il peccato, che è rifiuto di Dio, impedisce a Dio di essere Dio, cioè di fare valere la sua potente bontà; la conversione, invece, accoglie liberamente il perdono e la misericordia divini. Ciò significa che la potenza buona di Dio non è un meccanismo automatico, ma si rivolge sempre e soltanto alla libertà umana.

48-55. Ora il poeta, solidale con la sofferenza e il lamento del suo popolo che si è espresso con il “noi” (vv. 40-47), riprende il singolare “io”, ma non sembra identificarsi con l”io” dell'«uomo» della prima parte. Qui è il poeta che contempla in lacrime la rovina del suo popolo (v. 48), sotto un cielo impenetrabile, avvolto dalla «nube» 'ānān muta e sorda di Dio. I suoi occhi insonnemente aperti, piangenti e senza riposo (v. 49) attendono che il Signore guardi e veda dal cielo (v. 50; cfr. Is 63,15; Dt 26,15; Sal 14,2; 102,20). Gli occhi lacrimanti del poeta attendono di incontrare lo sguardo benevolo di Dio. Vedere quel che stanno soffrendo le «figlie della mia città» (v. 51), cioè i villaggi vicini alla capitale, è un dolore tormentoso. Alcune efficaci immagini poetiche descrivono la sofferenza sperimentata dal poeta. Un odio irragionevole spinge i suoi nemici a dargli la caccia (v. 52), a seppellirlo vivo in un pozzo chiuso da una grossa pietra posta alla sua cima (v. 53). Infine l'immagine delle acque infernali che sprofondano il poeta nell'abisso della morte (v. 54), tanto che egli grida di essere finito, prepara il suo De profundis (cfr. Sal 130,1-2), recitato dalla fossa profonda (v. 55). Dio sarà ancora una nube impenetrabile alla preghiera (v. 44)?

56-62. Quando la preghiera fluisce sincera da un cuore convertito, essa arriva a Dio: «Tu hai udito. Tu eri vicino. Tu hai difeso. Hai visto. Hai detto. Hai riscattato». Si è ristabilita la comunicazione e Dio interviene a favore dell'uomo per salvarlo. Nulla è sfuggito al controllo di Dio, il quale ha visto i torti, gli insulti, le trame, le ostilità operate conto il suo popolo. Dio risponde: «Non temere» (v. 57). Egli difende la causa del suo popolo e riscatta la sua vita (v. 58). È questo un De profundis pervaso dalla certezza che Dio è vicino e salva. Il lamento sfocia quasi nella lode, cioè nel riconoscimento dell'azione buona e liberatrice di Dio.

63-66. Il poeta, come il suo popolo, sono la beffarda canzone dei loro nemici, che cantano sprezzanti la loro vittoria (v. 63). Non è possibile restare indifferenti di fronte al trionfo dei malvagi! Il poeta invoca che siano pagati come si meritano, maledetti e perseguitati da Dio, fino alla loro distruzione. Propriamente questo non è desiderio di vendetta. Infatti l'orante non si arroga il diritto di “ricambiare” lui stesso il male ricevuto, ma fa appello a Dio e lascia a Dio fare giustizia. Si invoca, in fondo, che Dio faccia valere la sua giustizia; ma non si può desiderare davvero la giustizia di Dio senza bramare anche la “sconfitta” dei nemici. La “fine” dei nemici significa la liberazione: i “nemici” infatti sono la rappresentazione simbolica del male da cui si vuole essere liberati. Il doveroso rifiuto di ogni e qualsiasi giustificazione della sofferenza si esprime nella rappresentazione dei nemici da annientare. L'appello a Dio perché distrugga i nemici significa anche il rifiuto a fare di essi, e perciò anche del male-dolore, un “segno” di Dio e a vedere in essi un ostacolo inevitabile e insuperabile di fronte all'amore-misericordia di Dio per noi. Pregare che «Dio distrugga i nemici» è, dal lato positivo, credere che l'amore di Dio per noi non è né impotente né inutile per vincere il male.

(cf. ANTONIO BONORA, Lamentazioni – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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SECONDA LAMENTAZIONE Alef 1Come il Signore ha oscurato nella sua ira la figlia di Sion! Ha scagliato dal cielo in terra la gloria d’Israele. Non si è ricordato dello sgabello dei suoi piedi nel giorno del suo furore. Bet 2Il Signore ha distrutto senza pietà tutti i pascoli di Giacobbe; ha abbattuto nella sua ira le fortezze della figlia di Giuda, ha prostrato a terra, ha profanato il suo regno e i suoi capi. Ghimel 3Con ira ardente egli ha infranto tutta la potenza d’Israele. Ha ritratto la destra davanti al nemico; ha acceso in Giacobbe come una fiamma di fuoco, che divora tutt’intorno. Dalet 4Ha teso il suo arco come un nemico, ha tenuto ferma la destra come un avversario, ha ucciso quanto è delizia dell’occhio. Sulla tenda della figlia di Sion ha rovesciato la sua ira come fuoco. He 5Il Signore è divenuto come un nemico, ha distrutto Israele; ha demolito tutti i suoi palazzi, ha abbattuto le sue fortezze, ha moltiplicato alla figlia di Giuda lamento e cordoglio. Vau 6Ha devastato come un giardino la sua dimora, ha distrutto il luogo della riunione. Il Signore ha fatto dimenticare in Sion la festa e il sabato, ha rigettato nel furore della sua ira re e sacerdoti. Zain 7Il Signore ha rigettato il suo altare, ha aborrito il suo santuario; ha consegnato le mura dei suoi palazzi in mano ai nemici. Essi alzarono grida nel tempio del Signore come in un giorno di festa. Het 8Il Signore ha deciso di demolire le mura della figlia di Sion, ha steso la corda per le misure, non ritrarrà la mano dalla distruzione; ha reso desolati bastione e baluardo, ambedue sono in rovina. Tet 9Sono affondate nella terra le sue porte, egli ne ha rovinato e spezzato le sbarre. Il suo re e i suoi capi sono tra le genti; non c’è più legge e neppure i suoi profeti hanno ricevuto visioni dal Signore. Iod 10Siedono a terra in silenzio gli anziani della figlia di Sion, hanno cosparso di cenere il capo, si sono cinti di sacco; curvano a terra il capo le vergini di Gerusalemme. Caf 11Si sono consunti per le lacrime i miei occhi, le mie viscere sono sconvolte; si riversa per terra la mia bile per la rovina della figlia del mio popolo, mentre viene meno il bambino e il lattante nelle piazze della città. Lamed 12Alle loro madri dicevano: «Dove sono il grano e il vino?». Intanto venivano meno come feriti nelle piazze della città; esalavano il loro respiro in grembo alle loro madri. Mem 13A che cosa ti assimilerò? A che cosa ti paragonerò, figlia di Gerusalemme? A che cosa ti eguaglierò per consolarti, vergine figlia di Sion? Poiché è grande come il mare la tua rovina: chi potrà guarirti? Nun 14I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato la tua colpa per cambiare la tua sorte; ma ti hanno vaticinato lusinghe, vanità e illusioni. Samec 15Contro di te battono le mani quanti passano per la via; fischiano di scherno, scrollano il capo sulla figlia di Gerusalemme: «È questa la città che dicevano bellezza perfetta, gioia di tutta la terra?». Pe 16Spalancano contro di te la bocca tutti i tuoi nemici, fischiano di scherno e digrignano i denti, dicono: «L’abbiamo divorata! Questo è il giorno che aspettavamo, siamo arrivati a vederlo». Ain 17Il Signore ha compiuto quanto aveva decretato, ha adempiuto la sua parola decretata dai giorni antichi, ha distrutto senza pietà, ha fatto gioire su di te il nemico, ha esaltato la potenza dei tuoi avversari. Sade 18«Grida dal tuo cuore al Signore, gemi, figlia di Sion; fa’ scorrere come torrente le tue lacrime, giorno e notte! Non darti pace, non abbia tregua la pupilla del tuo occhio! Kof 19Àlzati, grida nella notte, quando cominciano i turni di sentinella, effondi come acqua il tuo cuore, davanti al volto del Signore; alza verso di lui le mani per la vita dei tuoi bambini, che muoiono di fame all’angolo di ogni strada. Res 20«Guarda, Signore, e considera; chi mai hai trattato così? Le donne divorano i loro frutti, i bimbi che si portano in braccio! Sono trucidati nel santuario del Signore sacerdoti e profeti! Sin 21Giacciono a terra per le strade ragazzi e anziani; le mie vergini e i miei giovani sono caduti di spada. Hai ucciso nel giorno della tua ira, hai trucidato senza pietà. Tau 22Come a un giorno di festa hai convocato i miei terrori da tutte le parti. Nel giorno dell’ira del Signore non vi fu né superstite né fuggiasco. Quelli che io avevo portati in braccio e allevato, li ha sterminati il mio nemico». =●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=●=

Approfondimenti

SECONDA LAMENTAZIONE 2,1-22 Anche questo è un canto alfabetico di 22 strofe, ciascuna di 3 righe, cioè di 6 stichi; ogni strofa inizia con una lettera progressiva dell'alfabeto. Il metro dominante è la ginâ (= elegia): 3+2 accenti. Stranamente la lettera pe precede la ain (diversamente dal c. 1, come nei cc. 3-4). Le prime otto strofe (vv. 1-8) hanno come protagonista agente il Signore; nei vv. 9-10 è descritta la situazione; nei vv. 11-16 il poeta esprime il suo dolore e apostrofa la città; nel v. 17 è ripreso il tema dei vv. 1-8: il Signore ha distrutto la città; nei vv. 18-19 il poeta invita a gridare al Signore; i vv. 20-22 contengono la supplica della città. Dominano, anche in questa elegia, i tratti lirico-drammatici e tragici, la viva partecipazione agli eventi evocati, l'intensa supplica al Signore. E quasi sempre il poeta che parla di Sion o che si rivolge alla città.

1. L'ira del Signore è come una nube, ma non più segno della presenza di Dio (cfr. 1Re 8), bensì segno della distanza tra Dio (= cielo) e il popolo (= terra). Anche lo «sgabello dei suoi piedi» (cfr. 1Cr 28,2; Sal 99,5; 132,7), cioè il tempio o l'arca dell'alleanza, è dimenticato o abbandonato. La «gloria di Israele» è caduta dal cielo, come in Is 14,12 il re di Babel o in Ez 28,17 il re di Tiro: è il segno della catastrofe. Questo è infatti «il giorno del suo furore», il “giorno di JHWH”, evocato da Am 5,18-20 come giorno della sperata salvezza nazionale, ma ora trasformato in momento del giudizio di condanna. L'incertezza del v. 1 sta soprattutto nell'espressione yā'îb resa di solito come verbo denominativo da 'ab (= nube), cioè nel senso di «coprire di nubi». L'espressione è un hapax legomenon. Sembra che l'idea espressa sia questa: nonostante Sion sia il luogo della presenza di Dio, lo sgabello dei suoi piedi, essa sarà distrutta se non obbedirà al Signore. La sua salvezza non è automatica.

2-5. Come un guerriero invincibile, come un nemico o avversario (vv. 4.5), Dio si scaglia «senza pietà» (v. 2) (cfr. Ez 9,5.10) contro il suo popolo. Egli distrugge le dimore e le fortezze (v. 2), tutti i palazzi e le fortezze (v. 5); ha prostrato e profanato il suo regno sacrale e i suoi capi (v. 2), ha ucciso «quanto è delizia dell'occhio» (v. 4), cioè i giovani e le ragazze (cfr. Ez 24,16) o le cose preziose (cfr. 1Re 20,6) oppure, in senso metaforico, il tempio, «ha distrutto Israele» (v. 5), ha infranto «la potenza» (letteralmente: il corno) di Israele (v. 3); invece di stendere la sua destra contro il nemico di Israele (cfr. Sal 118, 16), l'ha tratta indietro (v. 3); la sua ira è diventata un fuoco divoratore (vv. 3.4) e ha usato anche l'arco (v. 4); perfino «la tenda della figlia di Sion» (v. 4), che designa probabilmente il tempio (cfr. Sal 15,1; 87; Is 33,20), è stata bruciata. La «figlia di Sion» (7 volte in Lam) o «la figlia di Giuda» (2 volte in Lam) o la «figlia di Gerusalemme» (2,13.15) o «la figlia del mio popolo» (5 volte in Lam) è avvolta da «lamento e cordoglio» (v. 5). Tutta la rovina di Israele è attribuita direttamente a Dio, dipinto come un guerriero nemico, senza pietà e adirato. Il Signore è l'agente distruttore; è il rovescio della guerra santa. L'«ira» di Dio è un tema ossessivamente ricorrente nel c. 2 (vv. 1.2.3.4.6.21.22) e fa di lui un nemico e avversario (vv. 4.5). La “compassione” di Dio è scomparsa (vv. 2.17.21).

6-8. Il Signore ha distrutto i luoghi sacri (santuario e tempio, sua dimora e luogo di riunione), le cose sacre (l'altare), il popolo (re e sacerdoti), le istituzioni sacre (feste e sabato), le mura, le fortezze, bastioni e baluardi. Tutta la rovina è opera diretta di Dio, che ha consegnato Sion in balia del nemico (v. 7), agendo con la sua mano (v. 8; cfr. v. 3) che egli non ritirerà. Tutto fu un atto deliberato, progettato da Dio che «ha deciso di demolire» (v. 8), non fu un caso. I nemici gridarono nel «tempio», luogo dell'incontro con Dio, celebrando una festa macabra scandita dal grido di guerra (v. 7). Il culto non solo è finito, ma è pervertito; il popolo ha perduto tutti i punti di riferimento sia civili sia religiosi. Come quando si costruisce si prendono le misure, così, quando ha distrutto, Dio «ha steso la corda per le misure» (v. 8): ciò significa che la rovina è stata un progetto ben calcolato. Traspare dunque una precisa volontà divina di porre fine a tutte le sicurezze del suo popolo con una perfetta demolizione.

9-10. Lo stile è descrittivo della situazione del popolo: re, capi, profeti, anziani, vergini. In particolare, il re e i capi sono in esilio; i sacerdoti non insegnano più la torah, la legge; i profeti non ricevono visioni e tacciono. Il silenzio di Dio è la condanna più terribile per una città che non ha più né porte né sbarre ed è diventata come un campo aperto a tutte le scorrerie. Anziani e vergini compiono riti di lutto e di lamento: siedono a terra, si cospargono il capo di cenere, si cingono di sacco, curvano a terra il capo, stanno in silenzio (ciò fa parte del rito di lamentazione). La coppia “anziani-vergini” è forse un merismo per indicare l'intera popolazione di Gerusalemme. Dominante è il movimento verso i basso, simbolizzato dalla terra: «affondate nella terra (v. 9) – siedono a terra (v. 10) – curvano a terra il capo (v. 10)». La «terra» è simbolo di umiliazione e di mortalità (così forse la «cenere», v. 10).

11-16. L'autore continua a contemplare la rovina grande come il mare (v. 13), paragonabile a una ferita inguaribile (v. 11), a uno sfinimento (v. 11: «vien meno il bambino e il lattante»; v. 12: «venivano meno come feriti») mortale (v. 12: «esalavano il loro respiro»), incomparabile e inconsolabile (v. 13). La reazione del poeta è forte e totale: occhi, viscere e bile (v. 11) sono sconvolti e consunti. Essa corrisponde a quella dei nemici, di cui si nominano le parti del corpo che reagiscono: mani e capo (v. 15), bocca e denti (v. 16). Allo scoramento e disperazione del poeta rispondono i nemici che fischiano per deridere, scrollano il capo per schernire (v. 15), «spalancano la bocca» (cioè: si burlano) e «digrignano i denti» (v. 16) con rabbioso disprezzo; essi «battono le mani» (v. 15) in segno di vittoria e di gioia (cfr. 2Re 11,12; Sal 47,2). Gerusalemme, che tutti dicevano «bellezza perfetta, gioia di tutta la terra» (v. 15), è stata «divorata» (v. 16): è arrivato «il giorno» (v. 16) della sua fine. Ma tale fine non era inevitabile, Sion ha peccato, ha commesso «iniquità» (v. 14); e i profeti l'hanno ingannata con «visioni di cose vane e insulse» (v. 14). Invece di svelare il peccato, invitare alla conversione «per cambiare la tua sorte» (cfr. Dt 30,3; Ez 16,53; Os 6,11; Am 9,14), essi non hanno proclamato che «lusinghe, vacuità e illusioni» (v. 14). L'accusa è rivolta contro i falsi profeti, con espressioni che ricordano Geremia (cfr. 5,31; 23,13-32; 27-28; 29,8-9). Mentre i vv. 1-8 hanno presentato la rovina di Israele come atto di Dio e mentre i nemici rivendicano superbamente a sé la vittoria su Gerusalemme (v. 16: «l'abbiamo divorata»), il poeta scopre la causa della rovina nella «iniquità» (v. 14) del popolo che ha seguito le seduzioni dei falsi profeti.

17. Ciò che è accaduto rientra in un piano divino: «Il Signore ha compiuto quanto aveva decretato»; non si tratta dunque di un evento incomprensibile o assurdo. Dio ha realizzato quanto aveva minacciato, fin «dai giorni antichi», attraverso i profeti, ultimamente per bocca di Geremia. «Distruggere» è uno dei verbi ricorrenti nelle minacce di Geremia: 1,10; 24,6; 31,28; 42,10; 45,4. Dio non poteva più far giungere ed esercitare efficacemente la sua «pietà». Ma i nemici non possono ritenersi potenze antidivine, perché è stato JHWH a dare loro la potenza e la gioia della vittoria. Tutti i fili della storia sono dunque nelle mani di Dio. Se le cose stanno cosi, c'è una possibilità di «cambiare la sorte» (v. 14), di veder sorgere un nuovo giorno, perché JHWH non è il destino cieco, la necessità, il fato. E possibile pregare JHWH, iniziare a convertirsi e cambiare la qualità della vita.

18-19. La supplica deve sgorgare «dal cuore» (v. 18), con sincerità, «giorno e notte» (v. 18), senza tregua e senza riposo («non darti pace»). La supplica è fatta di «grida» e «lacrime», non contiene una petizione esplicita; è un grido nella notte (v. 19), effusione del cuore davanti al Signore, come acqua di un torrente (v. 18), mani alzate verso di lui (v. 19). I «bambini» (v. 19), per la cui vita si prega, sono i figli della Sion personificata, cioè i cittadini di Gerusalemme, ma sono anche i bambini che muoiono di fame e che il poeta porta impressi nella sua mente e nel suo cuore come il segno più drammatico della catastrofe.

20-22. Le parole della supplica della madre-Sion non chiedono a Dio che di fare attenzione: «Guarda e considera» (v. 20). Quando accade una sventura, Dio guarda dall'altra parte, i suoi occhi non sono rivolti verso di noi. Ma se lo sguardo buono di Dio è rivolto verso di noi, allora la sventura finisce. Il poeta dà sfogo ancora al lamento descrittivo. L'estrema gravità della situazione appare dai casi di cannibalismo di madri che divorano i loro piccoli (cfr. 2Re 6,28-29) e dalla violenza omicida e profanatrice che ha trucidato, proprio nel santuario, sacerdoti e profeti (v. 20). Il popolo è finito: il merismo duplice “ragazzi e vecchi – vergini e giovani” indica la totalità della popolazione, che è caduta a terra, ad opera della spada, uccisa e trucidata (v. 21). La violenza e la morte non hanno avuto limiti, non hanno risparmiato nessuno. Quello è stato il «giorno del Signore», giorno di ira e senza compassione. E stato un giorno di una festa macabra e crudele, di un sacrificio orrendo (cfr. Ger 46,10; Sof 1,7), al quale Dio ha invitato i «terrori» personificati, attori mostruosi di una liturgia mortale. In quel «giorno dell'ira del Signore» nessuno scampò alla strage. La madre-Sion conclude la sua supplica nominando, alla fine, l'agente umano della strage: «li ha sterminati il mio nemico» (v. 22). Ma quest'espressione finale è ambigua: nemico è anche il Signore (cfr. vv. 4.5)?

EXCURSUS Lo scenario del poema è fosco e terrificante. Domina il tema dell'ira divina, l'assenza di pietà, l'inimicizia di Dio e degli uomini contro Gerusalemme, la festa selvaggia dei distruttori, la fine di tutte le istituzioni sacre e civili, la violenza e la morte. E un canto tenebroso, la gravità del peccato e del giudizio non può essere presentata con maggiore efficacia. Il popolo, con le sue iniquità, ha sottoscritto un giudizio mortale su di sé, ha bloccato la pietà divina, si è esposto ad ogni violenza e distruzione, si è nutrito di illusioni e vane speranze. Ma se Dio «ha distrutto Israele» (v. 5), non è ancora lui solo che può salvarlo? Se Israele ritrova dal suo cuore (v. 18) un nuovo movimento di ritorno al Signore, di conversione, sperimenterà la liberazione. Allora comprenderà finalmente che il Signore non gli è nemico! Se anche il male, la morte e la rovina, sono attribuiti direttamente a Dio, è precisamente sia per escludere che altre potenze abbiano un dominio assoluto sulla nostra vita, sia per affermare che anche nella sventura è possibile appellarsi all'azione e alla presenza di Dio. C'è una speranza di salvezza nelle nostre sventure proprio perché esse non sono fuori dei disegni divini.

(cf. ANTONIO BONORA, Lamentazioni – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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