📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

CAPITOLO VIII – DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE DI QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO DI PENTECOSTE

1 Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. 2 Alla sua morte, l’elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; 3 e questo, una volta ogni tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato. 4 E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all’unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l’elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. 5 Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo.

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Approfondimenti

Ciò che viene in primo luogo comandata è l’opportunità che i frati si diano un ministro generale e servo, al quale tutti dovranno sottostare in ferma obbedienza. Si passa poi a considerare il Capitolo generale, ma soltanto limitatamente al suo compito di provvedere ad eleggere il ministro generale alla sua morte; è in tale contesto che viene dichiarata l’opportunità dell’assemblea generale, costituita dai ministri provinciali e dai custodi, lasciando al ministro generale la facoltà di scegliere sia il luogo in cui convenire, sia la scansione temporale con cui dev’essere celebrato il Capitolo stesso: ogni tre anni, oppure, come gli sembrerà opportuno, a scadenza maggiore o minore. L’attenzione torna poi a focalizzarsi sulla figura del ministro generale, presentando la possibilità di destituirlo dal suo ufficio di governo nel caso in cui egli fosse valutato, da parte dei ministri provinciali e dai custodi, non sufficiente per adempiere in maniera adeguata il suo incarico. Il capitolo si conclude dando la facoltà ai singoli ministri e custodi di radunare i frati delle loro giurisdizioni dopo Pentecoste, successivamente alla conclusione del Capitolo generale, ogniqualvolta esso venga celebrato.

“Ministro e servo”, costituisce un’espressione nuova soltanto in parte; tuttavia l’aggiunta della parola “servo” a “ministro” accentua maggiormente l’inclinazione al servizio che dovrebbe connotare l’ufficio di questa figura di governo. Il frate ministro che è stato posto al di sopra di tutti gli altri, vive un servizio temporaneo a favore di tutta la Fraternità, caratterizzato da un atteggiamento di espropriazione radicale. Il ministro e servo generale, chiamato a vivere un legame di obbedienza nei confronti del papa, convoca l’assemblea capitolare generale e stabilisce sia il luogo che il tempo preciso in cui essa debba tenersi, al servizio e alla comune utilità dei frati. Non si possono evidenziare altri compiti connessi con l’autorità di governo del ministro e servo generale; altre facoltà sono di pertinenza dei ministri provinciali, così come si possono evidenziare alcune attenzioni concrete che i ministri debbono avere nei confronti dei frati: attenzioni che, probabilmente, accomunano i ministri sia generali che provinciali. Il Santo raccomanda loro di prendersi cura sollecita, così come sembrerà opportuno sulla base delle effettive necessità, dei frati ammalati; di visitare e ammonire i frati che sono loro sottomessi, eventualmente correggendoli con umiltà e carità, evitando di comandare qualcosa che sia contrario all’anima e alla Regola; di mostrarsi accoglienti e familiari nei confronti di quei frati che si recheranno presso di loro per esprimere la propria situazione di impossibilità nell’osservare la Regola secondo lo Spirito; di ammettere coloro che domandano di intraprendere questa vita; di imporre la penitenza con misericordia a quei frati che avranno fatto ricorso a loro al fine di ricevere il perdono dei peccati per i quali ciò è stato ordinato e se tuttavia non sono sacerdoti, la faranno imporre da parte di altri sacerdoti dell’Ordine; di concedere ai frati che riterranno idonei il permesso di andare tra i saraceni e tra gli altri infedeli.

Non una via facile, ma votata al dono di sé mediante l’obbedienza ad altri è quella che i frati debbono percorrere, soprattutto quando il contesto attuale bolla come poco convincente la strana necessità del sacrificio. La diffusa mentalità efficientista e tecnocratica pare conferire credibilità soltanto a ciò che immediatamente produce e sin da subito funziona. Laddove, invece, non vi sia la possibilità di una misurazione quasi immediata dei risultati ottenuti e, soprattutto, qualora siano richiesti un certo sforzo e la pazienza dell’attesa, spesso l’impresa viene troppo precipitosamente dichiarata inutile, se non addirittura fallimentare. Le possibilità vitali connesse con il “patire obbedienza”, in realtà, mostrano tutta la vitalità racchiusa nei percorsi di chi sa consegnarsi fiduciosamente all’altro. A questo proposito possiamo citare un passaggio della Lettera agli Ebrei, dove appare chiaro il legame stretto con l’esperienza del patire, da cui scaturisce il frutto dell’obbedienza: lo stesso Signore Gesù «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (Eb 5,8-9). Il Figlio impara a dire il suo sì al Padre assumendo pienamente il rischio di un abbandono difficile, e tale adesione ricade a beneficio di salvezza su tutti coloro che sapranno adeguatamente reinterpretare nella loro esistenza questa obbedienza.

L’identità evocata dal nome di “Ministro generale” attribuito a colui che sta a capo dell’Ordine evidenzia come il ministro e servo generale debba fondamentalmente sapersi proporre quale espressione di una Fraternità di cui si pone a servizio. L’obbedienza richiesta anche da parte del ministro generale offre a lui stesso la possibilità di mettere in atto l’arte difficile e coraggiosa di interpretare le nuove domande che possono nascere anche presso i frati. A tal riguardo potrebbe essere opportuno chiedersi se il rischio di soggettivismo che si può manifestare in ragione delle iniziative dei singoli frati non possa verificarsi in misura inversamente proporzionale alla capacità del ministro di mantenersi autenticamente in ascolto.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VII – DELLA PENITENZA DA IMPORRE AI FRATI CHE PECCANO

1 Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio. 2 I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio. 3 E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

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Approfondimenti

Il testo di questo capitolo, piuttosto breve, vuole dare indicazioni su come regolarsi nei casi di gravi colpe pubbliche dei frati: si rivolge anzitutto ai frati che hanno peccato, invitandoli a ricorrere ai ministri; e in secondo luogo dà indicazioni ai ministri sul comportamento da tenere con questi fratelli.

Tra le parole significative del nostro testo, merita attenzione l’espressione “per istigazione del nemico”, perché il riferimento al “nemico” tentatore ritorna anche altrove negli Scritti di Francesco, sia con l’identica espressione usata nella Lettera a un ministro, sia parlando di “istigazione del diavolo” (Rnb XIII, 1: FF 39), sia parlando ripetutamente della sua instancabile attività (Am XXVII, 5: FF 177; Rnb V, 7: FF 18; VII, 10: FF 25; VIII, 4: FF 28; XXII, 13: FF 58). Nemico può essere anche “il corpo, per mezzo del quale pecchiamo”, al quale vengono subito accostati “altri nemici visibili e invisibili” (Am 10, 2.4: FF 159), e nemici dell’uomo posso essere anche “la carne, il mondo e il diavolo” (1Lf II, 11: FF 178/5; 2Lf 69: FF 204).

Per tre volte, nei suoi Scritti, il Santo parla dei “peccati mortali” (Cant 29: FF 263; 1Lf II, 15: FF 178/6; 2Lf 82: FF 205), mostrando una acuta coscienza della loro gravità, e moltissime volte parla di peccati: ricordiamo soltanto quella volta in cui all’inizio del Testamento usa la concisa espressione “essere nei peccati” per indicare la propria condizione, prima dell’incontro con i lebbrosi che gli cambiò la vita. Emerge in lui una profonda consapevolezza della umana condizione di peccatori, a fronte della chiara percezione della bontà di Dio, che è il solo bene; ma quella che potrebbe essere una negativa percezione dell’uomo è invece una cristiana intuizione, per cui ci si vede come peccatori salvati, redenti dalla bontà di Dio. È la fede profonda nell’azione di salvezza di Dio che permette di riconoscere con tanta chiarezza la condizione di peccato da cui l’uomo è stato salvato. L’aggiunta dell’aggettivo “mortale” o dell’avverbio “mortalmente”, come nel nostro caso, esplicita quel legame tra peccato e morte che viene già annunciato nei primi capitoli della Genesi e che è una ferma convinzione della fede cristiana, che proclama in Gesù il salvatore dal peccato e dalla morte.

Merita attenzione l’espressione «quei peccati per i quali è stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali»: di che peccati si tratta? Gregorio IX nella bolla Quo Elongati chiarisce che si tratta solo di peccati pubblici e manifesti (Bolla “Quo elongati” di Gregorio IX: FF 2735). Le Costituzioni Narbonensi, la prima raccolta organica di quelle norme attuative della Regola chiamate Costituzioni, danno un contenuto a questi peccati pubblici, citando espressamente cinque casi: «per il delitto di lussuria, di disobbedienza contumace, di accettazione del denaro contro la Regola, di per se stessi o per mezzo di un’altra persona, di grave furto e di violenta percossa di un altro». Comprendiamo come con il passare degli anni si rende sempre più necessario ricorrere a delle norme esplicative, quali le Costituzioni, per attuare e fornire indicazioni più specifiche al dettato della Regola, unitamente a cercare di applicare ai diversi tempi e alle diverse situazioni le indicazioni della stessa.

Il nostro testo, parlando del ricorso ai ministri, prevede che essi possano essere o non essere sacerdoti. Si fa qui riferimento alla situazione degli inizi e dei primi decenni dell’Ordine, quando le cariche di governo potevano essere ricoperte da qualsiasi frate, sacerdote o laico che fosse. Nel nostro testo, se i ministri non sono sacerdoti, sono invitati a far imporre la penitenza “dai sacerdoti dell’Ordine”: si può dunque dedurre che nel 1223, quando viene stesa la norma della Regola, i frati sacerdoti erano già presenti in numero sufficiente da permettere che ad essi si potesse fare normalmente ricorso. Con questa prescrizione la Regola viene incontro alla disposizione del Concilio Lateranense IV che invitava i fedeli a confessare almeno una volta all’anno, al proprio parroco, i loro peccati, mentre se per giusto motivo volevano rivolgersi ad un altro sacerdote dovevano ottenere licenza dal proprio parroco. Si comprende il riferimento esplicito nel nostro testo ai “sacerdoti dell’Ordine”.

L’amministrazione della penitenza è regolata dalle espressioni “con misericordia e secondo Dio”, che caratterizzano in senso tipicamente francescano la correzione fraterna. Non è importante sapere soltanto che cosa fare con i fratelli che peccano, ma è altrettanto importante sapere come comportarsi con loro. “Misericordia” è una parola importante nel vocabolario francescano. Essa è la caratteristica di Dio, ma diventa anche il tratto che caratterizza i suoi fedeli, in particolare quando si tratta della misericordia da avere verso i fratelli, nel contesto di relazioni difficoltose. In questi contesti la misericordia rimane l’unica vera indicazione importante, che manifesta nel comportamento del discepolo le qualità del maestro. Mentre per comprendere meglio l’espressione “secondo Dio”, potremmo confrontarla con le molte volte in cui Francesco dice di comportarsi “secondo il Vangelo” o “secondo la forma del santo Vangelo”, o anche “secondo quel che dice il Signore”. Il dato che emerge da queste espressioni è la volontà di conformarsi a una forma che non ci diamo da noi stessi ma che accogliamo da Dio, attraverso le vie che egli ha scelto per rivelarsi a noi.

La frase finale del nostro capitolo mette in guardia dall’ira e dal turbamento nei confronti del peccato del fratello, atteggiamenti da evitare perché contrastano radicalmente con quello che deve essere il criterio fondamentale: la carità. Va segnalato che la coppia “ira e turbamento” ricorre altrove negli Scritti del Santo (Rb VII, 3: FF 95; Rnb V, 7: FF 18; Rnb X, 4: FF 35) e normalmente segnala un peccato che potrebbe definirsi di appropriazione: si tratta di un atteggiamento che spesso scatta di fronte al peccato altrui e che è l’esatto contrario di quello che Francesco chiama “il vivere senza nulla di proprio” (Cfr. Am XI: FF 160), che consiste nel riconoscere e assecondare l’azione del Signore nel bene che facciamo, senza appropriarcene indebitamente, pensando di possedere il bene che facciamo. Oltre che dei beni che appartengono al Signore, ci si può appropriare anche del male che è nel fratello: forma triste di appropriazione, alla quale il povero evangelico si oppone con la forza della carità.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO VI – CHE I FRATI DI NIENTE SI APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L’ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI

1 I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. 2 E come pellegrini e forestieri in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. 3 Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. 4 Questa è la sublimità dell’altissima povertà quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli, vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. 5 Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi. 6 E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo. 7 E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente. 8 E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale? 9 E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi.

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Approfondimenti

La sequela della vita povera condivisa con Gesù dalla sua santissima madre, la Vergine Maria, appartiene al carisma originario di Francesco, che lo ripropone anche all’intera comunità ecclesiale: «Lui, che era ricco sopra ogni cosa, volle scegliere in questo mondo, insieme alla beatissima Vergine, sua madre, la povertà» (2Lf 5: FF 182). L’annientamento di Cristo nell’umiltà della natura umana e il mistero della sua passione e morte, non potevano non richiamare alla memoria di Francesco la suprema kenosi del figlio di Dio nel sacrificio eucaristico. Per il Santo la celebrazione eucaristica non è un semplice ricordo del sacrificio di Cristo, ma un memoriale nel senso ebraico di un evento che, pur avvenuto in passato, si rende presente sull’altare nelle mani del sacerdote, vale a dire, attraverso i segni liturgici posti dal sacerdote, il quale nel pane e vino consacrati offre ai nostri occhi di credenti il santissimo corpo e sangue vivo e vero di Cristo (cf Am I, 16-21: FF 144).

Non basta espropriarsi dei beni di famiglia. Entrando a far parte della fraternità francescana, oltre ai beni posseduti nel secolo è necessario non appropriarsi dei beni posti al servizio comune dei frati: «I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo né alcuna cosa». Dovendo andare per il mondo, i frati non potevano disporre di una dimora stabile perché dovevano vivere nel mondo «come pellegrini e forestieri» (cf 1Pt 2,11).

Non solo Francesco e i suoi frati, ma tutti gli uomini, essendo chiamati a partecipare al futuro di Dio, non devono avere in questo mondo fissa dimora né attaccarsi alle cose terrene e caduche. Per il sostentamento dei suoi frati, Francesco pone il lavoro al primo posto, ma in ordine alla sussistenza dei frati non esclude il ricorso all’elemosina con fiducia. Attraverso l’elemosina, intesa come «mensa del Signore» (2Test 22: FF 120), il Santo mette in evidenza il motivo ascetico di questa attività, in quanto permette ai frati di conformarsi a Cristo il quale, assieme alla vergine Maria e a suoi discepoli, sarebbe vissuto di elemosine. È stato notato che qui il serafico padre si allontana dai testi sacri, perché non risulta dai vangeli che Cristo andasse a chiedere l’elemosina o che inviasse i suoi discepoli a questo scopo, anzi è certo che, dalla cassa custodita da Giuda Iscariota, essi prelevavano il denaro per comperare i viveri e distribuirne in elemosina ai poveri. Oltre che esercizio delle virtù evangeliche dell’umiltà, della mansuetudine e della mortificazione, fare la questua per il sostentamento della propria comunità è, secondo Francesco, un diritto acquistato da Cristo povero per i suoi seguaci (Rnb IX, 7-9: FF 31).

Il programma di «altissima povertà» e di servizio vicendevole, modellato sull’esempio di Cristo, lascia trasparire un concetto ricorrente nei pensieri e nei detti di Francesco: la fiducia dei figli di Dio deve radicarsi non nel possesso delle cose, ma nell’amore provvidente del Padre e nell’amore “materno” – cioè oblativo, gratuito, concreto – scambiato all’interno della fraternità. Francesco d’Assisi, uomo della fratellanza universale, che chiamava fratelli e sorelle tutte le cose, nelle quali vedeva risplendere la bontà di Dio e la sua eterna bellezza, volle che i suoi seguaci si chiamassero fratelli o frati, denominazione che era certamente una novità. Il Figlio di Dio con la sua incarnazione e il suo sacrificio ha reso fratelli tutti gli uomini. È a questa unione tra fratelli, non più carnale o sociale, ma spirituale, che il serafico padre allude nei suoi Scritti. Essa consiste nell’accettare Dio come padre e l’uomo come fratello, da amare con la tenerezza di una madre.

Francesco viveva una reale maternità nei confronti dei frati (li amava con la tenerezza di una madre), un’affezione profonda e volta ad affermare il vero bene del fratello. Nella Lettera a frate Leone – giunta a noi autografa e conservata a Spoleto – si coglie bene questa tensione: «Frate Leone, il tuo frate Francesco ti augura salute e pace. Così dico a te, figlio mio, come madre». Francesco sottolinea come il vero amore fraterno contiene in sé la delicatezza confidente e la concretezza generosa dell’amore materno. La maternità è intesa da Francesco come il suo servizio, il suo vero ministero nei confronti dei fratelli e di tutti gli uomini.

Questo tipo di amore, delicato e cordiale, egli l’ha voluto lasciare in eredità ai propri frati, come leggiamo nel Testamento di Siena: «in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento, sempre [i frati] si amino gli uni gli altri».

Se Francesco era duro con se stesso, al contrario era tenero con i fratelli. Se veniva a conoscenza di frati che strapazzavano il proprio corpo praticando aspri digiuni, rinunciando a dormire o a ripararsi dal freddo, interveniva esortandoli alla prudenza e alla moderazione. Nel caso specifico delle malattie, il Santo chiede ai frati sani di essere particolarmente solleciti nell’apprestare le cure adeguate ai confratelli infermi, ma nello stesso tempo ammonisce questi ultimi a sopportare pazientemente i disagi della malattia e a non essere troppo esigenti nel chiedere «con insistenza medicine, desiderando troppo di liberare la carne che presto dovrà morire, e che è nemica dell’anima». Egli prega perciò «il frate infermo di rendere grazie di tutto al Creatore; e quale lo vuole il Signore, tale desideri di essere, sia sano che malato, poiché tutti coloro che Dio ha preordinato alla vita eterna, li educa con i richiami stimolanti dei flagelli e delle infermità e con lo spirito di compunzione» (Rnb X, 3: FF 35).

Si noti anche l’insistenza del santo sul servire così come vorrebbero essere serviti essi stessi: c’è un chiaro invito a piegare l’amore che ognuno attende per sé a diventare misura e strumento del servizio verso il fratello.

Oltre che all’espropriazione dai beni materiali, è frequente negli Scritti di Francesco il concetto di restituzione al Signore dei propri talenti, perché Dio è il datore di ogni bene e se ogni cosa appartiene a Dio, deve essergli restituito tutto quello che da lui abbiamo ricevuto; secondo il Santo, è infatti necessario che si giunga alla completa espropriazione di sé, nulla riservando a se stessi, ma donando tutto in un totale atto di amore. Questo tipo di restituzione o espropriazione conserva la sua validità spirituale ancora oggi: tutto ciò di cui l’uomo dispone, lo ha ricevuto da Dio. «Che cosa possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come se non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7) La via sicura da seguire per spogliarsi di tutto, cioè non attaccare il cuore alle cose terrene, persino alle proprie doti morali. È l’atteggiamento che, secondo l’insegnamento del serafico padre, deve tenere il religioso e chiunque voglia vivere in profondità la vita cristiana.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO V – DEL MODO DI LAVORARE

1 Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione 2 così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporali. 3 Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, 4 e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà.

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Approfondimenti

In quanto grazia, il lavoro deve essere svolto con fedeltà e con devozione. È fedele chi accoglie con fede e realizza con perseveranza il suo lavoro, che è grazia del Signore. La fedeltà implica impegno costante, svolto con rettitudine; ma non basta: al lavoro si deve devozione, perché è un servizio, che esige dedizione. È devoto chi rende quotidianamente al Signore anche il lavoro e la fatica delle proprie mani, riconoscendo che Dio e non l’uomo è autore di ogni bene. Il termine devozione, però, ha anche un altro significato nell’accezione corrente dell’epoca: è quell’atteggiamento interiore di fervido slancio che innalza l’animo e lo predispone alla contemplazione. Anche il lavoro, dunque, deve essere orientato all’elevazione spirituale: il supremo impegno dei frati è, e deve essere, quello di coltivare lo spirito della santa orazione e devozione, che non deve assolutamente essere estinto e soffocato da incombenze, le quali, se troppo coinvolgenti, rischiano di diventare fine a se stesse, spegnendo qualsiasi afflato e slancio spirituale. In questa prospettiva, nessun lavoro interno o esterno alla fraternità può sfuggire alle grandi motivazioni della vita evangelica e francescana: povertà, spirito di servizio, minorità, fedeltà umile e paziente, rendimento di grazie, sempre come conviene a servi di Dio.

Il lavoro, oltre che per guadagnarsi il pane con la propria fatica, serve anche ad allontanare l’ozio. Si sottolinea con forza che lo spirito della santa orazione e devozione deve prevalere su tutto: a esso devono servire tutte le altre cose temporali. Il Santo ammonisce i suoi frati perché il primato del Signore sia custodito, ovvero l’atteggiamento interiore di orante e devoto rapporto con Dio resti assolutamente prevalente.

Ma ci sono cose temporali che urgono come le cose necessarie al corpo: a queste, e strettamente a queste, deve essere finalizzata la ricompensa del lavoro. Chi riceve tale mercede è invitato alla condivisione con i fratelli. Rimane esclusa non solo la retribuzione in denaro, ma anche quella in beni di scambio: la pecunia. La ricompensa deve essere finalizzata direttamente ed esclusivamente alle necessarie sussistenze. È questo un preciso obbligo della povertà minoritica: come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà, che evangelicamente esclude qualsiasi forma di accumulo e di capitalizzazione; un obbligo assoluto che non ammette eccezioni. In un’epoca di passaggio progressivo dall’economia del baratto a quella del denaro, i frati devono ritornare a quella che possiamo chiamare “economia evangelica”: la libertà derivante dal non preoccuparsi per il domani e dalla cupidigia di accumulare tesori sulla terra.

L’accenno alla ricompensa lascia intuire che il lavoro si svolgesse, almeno in parte, presso terzi e che questo passo della Regola si riferisse ad attività pratiche non ancora “conventualizzate”. Di fatto, nei primi anni Venti i frati non dimoravano in maniera definitiva in sedi stabili ed esclusivamente a loro riservate. Ma questa situazione evolve velocemente verso la costituzione di comunità minoritiche con una propria sede stabile e riservata, con la conseguenza dell’emergere della tendenza all’abbandono del faticoso impegno quotidiano, è confermato dalle prescrizioni data da Francesco stesso nel suo Testamento: «Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. E quelli che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'ozio» (2Test 20-21: FF 119). Il frate deve lavorare con fedeltà verso il prossimo, con dedizione verso Dio, con modestia verso se stesso. Egli deve accedere alla mensa del Signore, il mondo, non per cupidigia della ricompensa, ma per manifestare lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, cui devono servire tutte le cose. Più chiaramente si potrebbe dire che, tra il necessario mendicato e quello acquistato con il lavoro, Francesco preferisce il primo, non quale sostentamento, ma per provocare il prossimo alla carità, chiedendo il pane per amore di Dio.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO IV – CHE I FRATI NON RICEVANO DENARI

1 Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona. 2 Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità, 3 salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia.

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Approfondimenti

È utile richiamare come il Santo all’inizio del suo cammino di conversione si spogliò di tutti i suoi beni, donandoli ai poveri, e si incamminò povero dietro il Cristo povero. Questa stessa scelta di lasciare tutto la consegnava a coloro che gli chiedevano di poter condividere la sua vita e missione. La vita semplice della prima fraternità comportava il dover lavorare per mantenersi, evitando in ogni modo l’attaccamento al denaro e l’assumere incarichi che non permettevano di vivere da minori e sottomessi a tutti. Francesco e i suoi frati iniziarono il loro viaggio comune separandosi da relazioni e da possedimenti che li legavano all’interno della società e si incamminarono su quella che compresero essere la via del Signore. Vissero tra la gente come uomini di pace e di servizio, diffondendo la luce che portavano dentro.

Questo capitolo è più restrittivo rispetto a quello di Rnb VII, infatti nel 1221 viene esplicitamente proibito ai frati di usare o ricevere denaro per procurarsi vestiti o libri, come ricompensa del lavoro, per qualunque casa o luogo o per qualsiasi altro scopo. Solo un’eccezione è ammessa: per la manifesta necessità dei malati, i frati possono usare denaro. Questa eccezione non è più prevista nel 1223, dove la proibizione del denaro è assoluta. I casi, nei quali per lo più si doveva usare denaro, necessità dei malati e vestiti, vennero regolati in modo che i ministri e i custodi, ed essi soli, dovessero pregare gli amici spirituali di pagare le spese.

Per amici spirituali si intendono quei benefattori che, essendo legati ai frati, erano disposti ad aiutarli con i loro beni. In questo modo si ottiene che i frati stessi non fossero obbligati ad usare denaro [con il termine denaro possiamo supporre che si facesse riferimento al denaro grosso] o pecunia [pecunia non è solo il denaro contante, ma ogni cosa della quale gli uomini sono soliti usare, quando serve come prezzo delle cose da pagare, o che si dà o si riceve in luogo di denaro contante], ma si rivolgevano agli amici spirituali per un aiuto esclusivamente a favore dei frati infermi. Entrambe queste precisazioni riguardo al denaro e agli amici spirituali presumono che i frati vivessero in gruppi piccoli come dei nuclei familiari e che non si appropriassero di ciò che avevano e che utilizzavano. Nel capitolo V della Rb la proibizione del denaro viene riferita al caso specifico della ricompensa del lavoro: “Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia” (Rb V, 4: FF 88).

La proibizione del denaro nella pratica provocò una serie di questioni di carattere giuridico, soprattutto a riguardo del ricorso all’amico spirituale. Nel 1230 i frati riuniti nel loro Capitolo generale discussero animatamente sulla Regola, enucleando alcune affermazioni di dubbia interpretazione, che sottoposero all’interpretazione di Gregorio IX perché sciogliesse i dubbi; tuttavia la questione degli amici spirituali non compariva tra quelle presentate. Con la bolla papale Quo elongati, i superiori si trovano affiancati da un agente finanziario che funzionava da mediatore tra l’Ordine e i suoi benefattori.

Dal punto di vista giuridico o anche materiale, come la proibizione giuridica di possedere, così anche la proibizione del denaro poteva venire osservata soltanto con l’implicazione di persone che vivevano al di fuori dell’Ordine.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO III – DEL DIVINO UFFICIO E DEL DIGIUNO, E COME I FRATI DEBBANO ANDARE PER IL MONDO

1 I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana, eccetto il salterio, 2 e perciò potranno avere i breviari. 3 I laici, invece, dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi; per prima, terza, sesta, nona, per ciascuna di queste ore, sette; per il Vespro dodici; per compieta sette; 4 e preghino per i defunti. 5 E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. 6 La santa Quaresima, invece, che incomincia dall’Epifania e dura ininterrottamente per quaranta giorni, quella che il Signore consacrò con il suo santo digiuno, coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. 7 Ma l’altra, fino alla Resurrezione del Signore, la digiunino. 8 Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. 9 Ma in caso di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale. 10 Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole, e non giudichino gli altri; 11 ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. 12 E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità. 13 In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa; 14 e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati.

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Approfondimenti

Questo capitolo riflette molto bene il modo associativo di scrivere proprio di Francesco, fenomeno che contribuisce a dimostrare il suo intervento nella redazione della Regola definitiva. Infatti, dopo aver presentato i fondamenti evangelici ed ecclesiali della forma di vita dei frati e le disposizioni sui candidati che arrivano alla fraternità, la durata del noviziato, il significato della professione e il modo di vestire, la Regola dedica una buona parte del capitolo III alla preghiera ufficiale e al digiuno, quindi di come i frati debbano andare per il mondo, dedicandosi in particolare al modo di essere minori.

Nel medioevo i termini chierici e laici, avevano essenzialmente un significato culturale, legato al fatto di sapere leggere, e non al fatto di aver ricevuto o meno il sacramento dell’Ordine. La normativa della Regola dei frati minori riguardante l’Ufficio divino presenta un forte contrasto con la precedente legislazione monastica, la quale descrive nei dettagli la forma e il contenuto del celebrare l’opus Dei. Si tratta di una normativa che si colloca in un contesto molto variegato, dato che al momento di scrivere la Regola non esisteva nella Chiesa occidentale una legislazione unitaria sulla celebrazione dell’ufficio divino. Papa Innocenzo III, probabilmente al tempo del Concilio Lateranense IV (1215), aveva introdotto per il clero romano un ufficio divino raccolto in un solo volume e abbreviato (da cui breviario). L’adozione del rito della santa Chiesa romana comportava l’uso di un breviario molto più leggero, che rendeva più comodi gli spostamenti dei frati nelle diverse regioni d’Europa ed evitava loro la scomodità di adattarsi alle liturgie proprie d’ogni luogo in cui arrivavano. L’unica eccezione al rito della Chiesa romana fatta dalla Regola è l’uso del salterio. In questo caso si fa riferimento al cosiddetto salterio romano, sostituito con quello più diffuso nelle diverse diocesi dell’Europa occidentale conosciuto come il salterio gallicano, che molti frati sapevano a memoria, dato che in esso avevano imparato a leggere. L’adozione di questo salterio si deve quindi ad una ragione pratica. La prima conseguenza della normativa che presenta la Regola bollata a proposito dell’Ufficio divino dei chierici è che a partire da allora l’Ordine incominciò ad avere un breviario proprio. L’effetto più evidente di questa norma è stato senz’altro l’unità dell’Ordine nella maniera di pregare, nonostante i frati si trovassero in luoghi tanto distanti; l’Ufficio si costituì in preghiera della fraternità perché era il medesimo per tutto l’Ordine. Infine il forte invito “e preghino per i defunti”, anche se non fa menzione del soggetto, sembra essere rivolto sia ai chierici che ai laici. Non si specifica né che cosa, né come si deve pregare per i defunti: questo lascia uno spazio per la creatività. La sobrietà di questo testo racchiude un principio di grande importanza che s’ispira al mistero della Comunione dei santi e, ancora una volta, per esprimere e stimolare l’unità dell’Ordine.

Le norme sul digiuno, collocate nella Regola come continuazione di quelle che riguardano l’Ufficio divino, acquistano uno speciale significato cultuale e teologico, tanto più che appaiono come preparazione ai momenti liturgici più importanti dell’anno. I destinatari delle disposizioni sul digiuno sono tutti i frati, chierici e laici, e il verbo digiunare, usato qui dalla Regola, significava normalmente mangiare una sola volta al giorno. La prassi del digiuno è sempre stata presente nella tradizione cristiana e occupa un posto di rilievo nell’ambiente monastico.

Il termine mondo e il sinonimo secolo, di solito avevano nella letteratura monastica del Medioevo un significato negativo; evocavano la fragilità e l’instabilità delle cose create, o il regno del peccato che si oppone alla grazia. Per tale motivo la vita monastica era concepita come una fuga mundi, come momento di conversione identificata con l’espressione exire de saeculo, che poi divenne un termine tecnico per designare l’ingresso nella Religione o la professione dei voti nella vita monastica. In contrasto con questa visione, la proposta di Francesco cerca di vivere la penitenza in mezzo al mondo, per cui egli prevede norme di comportamento per i frati quando vanno per il mondo. Se i frati lasciano il mondo come situazione di peccato, sono inviati al mondo come scenario della loro attività di penitenza e del loro contributo all’evangelizzazione. Il trittico dei verbi consiglio, ammonisco, esorto non presentano notevoli differenze di significato, ma esprimono il tipico linguaggio moltiplicativo che usava Francesco quando un argomento gli stava molto a cuore. L’andare per il mondo ha un significato reale, in quanto fa riferimento agli spostamenti che i frati devono fare normalmente nella loro forma di vita, che si realizza nel mondo, tra la gente, perché essi costituiscono una fraternità in missione. Questa missione avviene nel Signore Gesù Cristo: i frati sono chiamati a viverne i tratti della mitezza e dell’umiltà, evitando quindi i conflitti tra di loro e con chiunque incontrassero nel loro cammino.

L’augurio evangelico di pace, suggella uno stile di itineranza per il mondo ispirato alle beatitudini evangeliche e improntato da apertura colloquiale verso tutti. Infine si presenta la libertà dei frati che vanno per il mondo di fronte agli alimenti che gli vengono presentati, condividendo la situazione della gente in mezzo alla quale si trovano, quindi condizionati dalle possibilità di sussistenza che ogni luogo offre loro. È una libertà che deriva da una vera fiducia nella Provvidenza e comporta il realismo della povertà quando si va nell’esercizio della missione.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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CAPITOLO II – DI COLORO CHE VOGLIONO INTRAPRENDERE QUESTA VITA E COME DEVONO ESSERE RICEVUTI

1 Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. 2 I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa 3 e se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fermamente fino alla fine; 4 e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano dato loro il permesso con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver fatto voto di castità; e le mogli siano di tale età che non possa nascere su di loro alcun sospetto; 5 dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che «vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri». 6 Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà. 7 E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali, affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l’ispirazione del Signore. 8 Se tuttavia fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri. 9 Poi concedano loro i panni della prova cioè due tonache senza cappuccio e il cingolo e i pantaloni e il capperone fino al cingolo 10 a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio. 11 Terminato, poi, l’anno della prova, siano ricevuti all’obbedienza, promettendo di osservare sempre questa vita e Regola. 12 E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del signor Papa; 13 poiché, come dice il Vangelo, «nessuno che mette la mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio». 14 E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un’altra senza, coloro che la vorranno avere. 15 E coloro che sono costretti da necessità possano portare calzature. 16 E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. 17 Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso.

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Approfondimenti

Il capitolo II è il più esteso di tutta la Regola. A differenza di altri capitoli, però, riguarda una tematica unitaria: parla “di coloro che vogliono intraprendere questa vita e come devono essere ricevuti”. Il legame con il capitolo precedente è evidente nell’uso di alcune parole ricorrenti, come: questa vita, santo vangelo, frati, obbedienza. Nonostante questo, è tuttavia possibile notare una forte differenza nello stile: se il primo capitolo è quasi la porta della Regola, con il secondo si forniscono le condizioni dell’entrata, che appaiono particolarmente severe: “se credono...; se vogliono...; se non hanno mogli o, qualora le abbiano...; se non potranno farlo...”. Questa casistica differenzia notevolmente la prima sezione del capitolo II dall’intero capitolo I e rivela l’intervento di qualche giurista. Pur tuttavia, fatta eccezione per il v. 4, il capitolo II appare abbastanza lineare e consono allo stile semplice del Poverello e dei suoi compagni.

Per quanto riguarda la voce di Francesco, diversamente dal capitolo I, in cui frate Francesco viene nominato due volte, il capitolo II non lo cita affatto; tuttavia, sentiamo la sua voce: “Li ammonisco e li esorto”.

Coloro che chiedevano di essere ricevuti all’obbedienza non mettevano i loro beni in comune ma li distribuivano ai poveri, secondo Mt 19,21. Del modo in cui gli aspiranti alla vita evangelica francescana davano attuazione a questo precetto non doveva interessare né ai ministri né agli altri frati. Questo perché è il Signore che ispira i candidati e, per tale motivo, non sono i frati e, meno ancora, i ministri che debbano interferire in tale ispirazione. Per Francesco, l’arrivo di nuovi candidati non è frutto di una pastorale vocazionale, ma un dono dello Spirito santo. “Il Signore mi dette dei fratelli”, confessa alla fine della sua vita. La sua fede nell’ispirazione divina gli dà anche la libertà di non insistere sul fatto che i novizi vendano i loro beni ai poveri, ma fa dipendere questa scelta da una decisione volontaria e dalla capacità spirituale del candidato.

Condizionato dal contesto del tempo e della realtà climatica umbra è senza dubbio la scelta del vestiario. L’abito in forma di tonaca, più o meno corta, era in uso presso i contadini e anche gli uomini dei ceti superiori. Quello che portavano i frati minori poteva esser utile anche ad altra gente. La differenza non sta quindi negli indumenti in sé, quanto nella loro forma, qualità e apparenza, che dovevano essere più o meno uguali per tutti.

La Regola non dice niente sul contenuto o sui principi della formazione dei novizi, né fa riferimento ad una persona che li diriga. All’inizio possiamo ipotizzare che fosse Francesco stesso il formatore, considerato che era lui che accoglieva i nuovi candidati. L’obiettivo dell’anno della prova fu quello di proporre e spiegare questa vita e Regola non solo in teoria, ma anche in pratica, in modo da fare assimilare ai novizi la vita evangelica. Punti cardini di questa vita sono l’orazione privata e comune, la penitenza, il lavoro e il servizio tra i poveri. Il servizio nei lebbrosari era un impegno sistematico e prolungato di ogni frate minore, prendendo dimora tra i lebbrosi e fungeva sia come criterio di accoglienza sia come iter formativo dei candidati.

Chi ha fatto la professione, è definitivamente entrato nel gruppo dei frati minori; egli ha promesso di osservare per tutta la vita la Regola di quest’Ordine, ma anche questo si è obbligato da parte sua a provvedere per tutto il necessario, oltre a sostegno, sicurezza e calore umano.

Quanto più cresce il numero di aderenti e aumenta la stima e l’influsso dell’Ordine, tanto più ci si sente sicuri a farne parte. Era questo il caso dell’Ordine minoritico, cresciuto da una fraternità di dodici compagni nel 1209 ad un Ordine di tre-cinquemila frati nel 1223, anno della redazione della Rb. All’inizio avevano bisogno di essere incoraggiati a continuare il loro audace stile di vita malgrado il dispetto degli altri, ma nel 1223 dovevano essere messi in guardia di non gloriarsi del loro successo e di non disprezzare quanto vivevano diversamente. Se all’inizio furono disprezzati, ora erano loro a subire la tentazione di disprezzare gli altri.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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REGOLA BOLLATA approvata da Papa Onorio III il 29 novembre 1223 Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai diletti figli, frate Francesco e agli altri frati dell’Ordine dei frati minori, salute e apostolica benedizione. La Sede Apostolica suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei richiedenti. Pertanto, diletti figli nel Signore, noi, accogliendo le vostre pie suppliche, vi confermiamo con l’autorità apostolica, la Regola del vostro Ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria e qui trascritta, e l’avvaloriamo con il patrocinio del presente scritto. La Regola è questa:

CAPITOLO I Nel nome del Signore! Incomincia la vita dei frati minori. 1 La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità. 2 Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. 3 E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori.

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Approfondimenti

La Regola bollata, testo fondativo dei frati minori, è inclusa nella lettera Solet annuere, con la quale papa Onorio III la approvava definitivamente il 29 novembre 1223. La Regola bollata resta racchiusa tra le due parti della bolla e non esiste se non in quanto testo inserito nella lettera pontificia, dove Onorio III precisava con parole ponderatissime che non si trattava di una “approvazione”, ma della “conferma” di una Regola già “approvata” dal predecessore Innocenzo III, come d’altronde lasciava intendere il prologo della Regola non bollata del 1221. La bolla Solet annuere segnò l’ingresso della Regola francescana nel numero delle grandi Regole religiose, quali quelle di san Basilio, sant’Agostino e san Benedetto. Il testo della Regola si apre e si chiude con l’ardua affermazione che i frati sono tenuti ad osservare il vangelo. Tutto il dettato sembra dunque una grande inclusione, che trova in quest’impegno la chiave ermeneutica per comprenderne il senso autentico. La dichiarazione esplicita di obbedienza alla Chiesa romana (assente nel Prologo della Regola non bollata) è il primo indizio di una crescente preoccupazione di cattolicità, che viene ribadita nella conclusione e riaffiorerà con forza nei due Testamenti di S. Francesco. La vita della fraternità si concretizza dunque nel programma di osservare la povertà e l’umiltà e il vangelo di Gesù Cristo, in comunione con la Chiesa e nell’obbedienza ad essa. “La Regola e vita” che il Santo propone ai suoi frati è un modo di vivere ispirato al vangelo, una vita secondo il vangelo di Gesù Cristo. Per Francesco, il vangelo è l’unico e assoluto punto di riferimento. È il vangelo di Gesù Cristo: è lui che parla oggi attraverso di esso. La vita dei frati dovrà conformarsi fedelmente alla vita del Signore e nella misura in cui la vita dei frati è conforme al vangelo di Gesù Cristo, essa è anche il luogo in cui esso vive. Il Vangelo è uno scritto che indica la via per la vita eterna: conoscerlo e studiarlo deve servire a viverlo, altrimenti non serve a nulla, anzi è dannoso. Per Francesco, il Vangelo non è un testo letterario, ma qualcosa di vivente: le parole evangeliche sono espressione viva di Gesù Cristo, che è presente e vive nel vangelo. La vita dei frati è vita secondo il vangelo e vita del vangelo: dunque in essa vive Gesù Cristo. Seguire il vangelo è seguire Gesù Cristo, custodire il vangelo è rimanere in Cristo; il vangelo è Gesù Cristo che parla a noi oggi. Quella dei frati è una vita secondo il vangelo di Gesù Cristo: i frati debbono vivere il vangelo di Gesù Cristo. La vita evangelica dei frati è vita del vangelo di Gesù Cristo: il vangelo di Gesù Cristo vive nella vita dei frati. È in essa, infatti, che il vangelo passa alla vita esperienziale: la via diventa percorsa e visibile, la verità è accolta e continua a rivelare, la vita diventa esperienza incontrabile. Il vangelo per il Santo non costituiva una dottrina, ma era la testimonianza della vita di Cristo, che per gli uomini è Via, Verità e Vita. È proprio perché il vangelo è voce sempre viva della persona di Cristo, Francesco arriva ad una conclusione paradossale: l’unica interpretazione autentica del vangelo è la vita vissuta.

È interessante notare come sembra esserci una sostanziale convertibilità tra vita del vangelo e la professione dei tre voti religiosi, infatti nel cap I della Regola bollata e della Regola non bollata viene detto che la Regola consiste nell’osservare il vangelo vivendo in obbedienza, in castità e senza nulla di proprio. Il riferimento ai tre consigli evangelici per indicare tecnicamente la vita religiosa pare nasca proprio nel periodo che va dall’XI al XIII secolo. Francesco accoglie questa formulazione ecclesiastica e la mette accanto a quella che lui predilige “osservare il santo vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”. La vera obbedienza va sempre a Dio, e richiede innanzitutto di perseverare nei comandamenti del Signore e nella forma di vita promessa, attuando all’interno della fraternità quella santa obbedienza del Signore nostro Gesù Cristo che consiste nell’amore, nel servizio e nell’obbedienza vicendevole, pronti nel mondo ad essere minori e sottomessi a tutti e nella Chiesa ad obbedire al signor papa e ai chierici, costituiti signori e amministratori in quelle cose che riguardano la salvezza dell’anima. Parallelamente, vivere in castità per i frati non significa solo evitare la malizia dell’occhio e del cuore e il comportamento peccaminoso, ma mostrarsi con le opere l’amore che hanno fra di loro, mantenendo sempre la mente e il cuore rivolti al Signore Iddio. Quanto al vivere senza nulla di proprio, esso implica l’abbandono dei propri beni, il rifiuto delle proprietà e del denaro per vivere di lavoro e di elemosina, l’impegno a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo e della beata Vergine e dei discepoli, coronando il tutto con la restituzione al Signore di ogni bene personale e spirituale e di tutto il corpo, tutta l’anima e tutta la vita.

Fin dall’inizio, la Regola di Francesco viene presentata come una vita grata e gioiosa per la bella notizia di vivere una vita evangelica ricalcando le orme del Signore nostro Gesù Cristo. Nel testo del Santo emerge una consapevolezza molto forte che la Regola non sostituisce il vangelo, ma è come una lente per meglio leggerlo e soprattutto per meglio osservarlo o anche, come egli diceva, è “midollo del Vangelo”.

Tratto da: FRATI MINORI di Canepanova – Pavia ● Centenari francescani: la Regola bollata


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Capitolo LXXII – Il buon zelo dei monaci

1 Come c’è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all’inferno, 2 così ce n’è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna. 3 Ed è proprio in quest’ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità 4 e cioè: si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore; 5 sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali; 6 gareggino nell’obbedirsi scambievolmente; 7 nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri; 8 si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo; 9 temano filialmente Dio; 10 amino il loro abate con sincera e umile carità; 11 non antepongano assolutamente nulla a Cristo, 12 che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

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Approfondimenti

Il TESTAMENTO SPIRITUALE di S.Benedetto Con ragione il c. 72 è stato considerato sempre come una delle pagine più preziose della Regola. È certamente il capitolo più soave del codice monastico, sintesi del suo contenuto, compendio della perfezione monastica. Chiudendo la Regola il S. Patriarca non sa meglio sintetizzare il suo insegnamento se non nella parola con cui Gesù compendia e corona la sua dottrina: la CARITÀ.

RB 72 è stato chiamato il “testamento spirituale” di S. Benedetto. Si presenta in effetti con le caratteristiche di un capitolo conclusivo: esortazione, sentenze spirituali, frase finale in forma di augurio e di preghiera; veramente appare chiaro che ci troviamo di fronte alle “ultime parole” ultima verba del Santo Padre. D'altronde è abbastanza evidente che il c. 73 era stato composto prima e si trovava subito dopo il c. 66, e fu posto dopo il c. 72 nella redazione definitiva della Regola, a guisa di epilogo, quale è in realtà.

Quindi le ultime frasi che uscirono dalla penna di SB possiamo ritenerle queste sullo “zelo buono”. È stato scritto: “La cosa più importante di questo capitolo è il fatto di offrire la prospettiva in cui si deve leggere la Regola. Appare come SB, dopo essere vissuto per lungo tempo con i suoi monaci in una vita di preghiera e di osservanze monastiche, sia giunto a questa convinzione: la dimensione della carità, lo zelo buono; che ne è il segno e il risultato, è la cosa più importante per il monaco” (J. E. Bamberger).

Il testamento spirituale di SB costituisce la canonizzazione – per così dire – delle relazioni interpersonali: i fratelli che vivono in uno stesso monastero e formano una sola famiglia spirituale, debbono stimare sopra ogni altra cosa e coltivare con zelo queste relazioni interpersonali. Questa pagina così densa e soave, non può essere frutto solo di teoria, di letture, di fonti che possono avere influito; si tratta soprattutto dell'esperienza personale di SB, uomo di Dio e padre spirituale: veramente egli parla “ex abundantia cordis” (dalla sovrabbondanza del cuore). Tuttavia possiamo notare in generale l'influsso di Agostino e reminiscenze soprattutto di S. Paolo, nonché della meravigliosa Collazione 16 di Cassiano sulla “amicizia spirituale”.

Schema del capitolo Come altri legislatori, SB stende il suo testamento spirituale in forma concisa, con massime brevi e precise. Definisce prima lo “zelo buono” (vv. 1-2); esorta ad esercitarlo (v. 3); enumera otto massime in cui esso deve manifestarsi (vv. 4-11); conclude con un augurio e una preghiera (v. 12).

1-2: Lo zelo buono La parola “ZELO” viene dal greco, da una radice che significa “essere caldo”, in ebollizione; quindi si tratta di una “passione”, e comprende ira, invidia, gelosia, ecc. In latino “zelum” significa gelosia, sentimenti di rivalità, che opera da agente disgregatore della comunità, S. Paolo lo include tra le opere delle tenebre (Gal 5,20-21; cf Gc 3,14 “zelum amarum”). Anche SB usa il termine nel senso di invidia, gelosia: RB 4,66; 65,22. Tutto questo è uno zelo cattivo, amaro (v. 1). Ma la Scrittura conosce un altro genere di gelosia, quella che si applica a Dio, quando dice che “JHWH si chiama Geloso; egli è un Dio Geloso” (Es 34,14), che non tollera rivali nell'onore e nell'amore a Lui dovuti. Da questa gelosia divina deriva lo zelo che animava gli uomini di Dio; “lo zelo della tua casa mi divora” (Sal 68,10) venne in mente agli apostoli quando videro Gesù scacciare i venditori dal tempio (Gv 2,17); nello stesso senso S. Paolo scriveva ai Corinzi: “Io sono geloso di voi, della gelosia di Dio, avendovi promesso a un unico sposo per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2). È questo lo “zelo buono che allontana dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna” (v. 2).

In questo senso la parola ha il significato di ardore, fervore, come in RB 64,6; anche a proposito del portinaio si parla di fervor caritatis (fervore di carità, RB 66,4). Il doppio zelo richiama la dottrina delle due vie, come spesso nell'AT e nel discorso della montagna, Mt 7,13-14. È interessante notare che questo zelo buono che conduce a Dio e alla vita eterna si esplicita, come vedremo subito, nelle manifestazioni della carità fraterna; cioè: quella purificazione dei vizi e raggiungimento della vita eterna che SB aveva prima attribuito a tutto il cammino dell'umiltà (RB 7,67-70), qui è attribuito all'amore fraterno, quindi l'unione dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo.

Ha scritto DeVogué: “(...) l'ascetismo monastico (...) si arricchisce qui di una nuova dimensione. L'itinerario del monaco, dal timor di Dio fino alla carità perfetta, attraverso l'obbedienza, la pazienza, l'apertura della propria coscienza, l'umiltà, il silenzio, la compunzione – per non citare che le prime tappe –, nelle quali il discepolo camminava sempre solo dietro le orme del suo maestro, si allarga e completa con un nuovo tracciato, finora poco indicato. All'ascetismo individuale praticato sotto la direzione di un superiore, si aggiunge un elemento nuovo: le relazioni fraterne”.

3-11: Le massime dello zelo buono SB raccomanda dunque che “a questo zelo buono debbono darsi i monaci”, cioé agire ferventissimo amore (con ardore di carità, con intenso amore, v. 3). E passa ad enunciare alcune manifestazioni. Le otto massime, concise, sono enunziate quasi tutte col medesimo schema: all'inizio il termine principale, alla fine il verbo in forma esortativa. Le prime cinque massime si riferiscono all'amore fraterno, con varie modalità; le ultime tre all'amore a Dio, all'abate, a Cristo. Sono una specie di apoftegmi meravigliosamente espressivi.

1. (v.4) È il testo di S. Paolo (Rm 12,10) già citato in RB 63,17; però qui non si allude affatto all'ordine di precedenza, si onora il fratello senza guardare se è superiore o un inferiore: il fervore di carità non fa caso a queste distinzioni. 2. (v.5) Norma quanto mai necessaria per una vera convivenza nella carità. Chi è così perfetto da non avere qualcosa da far sopportare al vicino? In ogni comunità la massima è di costante applicazione. (L'espressione ricorda Cassiano, Coll. 19,9). 3 (v.6) Su questo tema dell'obbedienza reciproca SB ha parlato nel c. 71. Ma qui non si allude all'ordine di precedenza; e c'è anche l'avverbio “certatim” (a gara), cioé si deve proprio sentire il gusto, il compiacimento di obbedirsi a vicenda. 4. È di chiaro sapore paolino: cf 1Cor 10,24.33; 13,5; Fil 2,4. Si tratta della sollecitudine dettata dalla vera carità, e nel monastero ci sono tante occasioni di sacrificare i propri interessi, riposo, piccole comodità, ritagli di tempo, ecc. Tale pratica costante richiede una continua abnegazione e può significare spesso un vero eroismo, nascosto, ma genuino. 5. (v.8) Anche questa è ispirata a S. Paolo: cf Rm 12,10; 1Tess 4,9; cf. anche Eb 13,1 e 1Pt 1,22. L'avverbio “caste” (con amore puro, castamente), significa l'amore soprannaturale, gratuito, disinteressato, non cioé l'affetto sensibile e naturale. I monaci devono sapersi voler bene di quell'amore che scaturisce dall'amore di Cristo. Come commento ai vv. 7-8, si legga tutto il brano di S. Paolo ai Filippesi 2,1-5 (prima dell'inno cristologico sulla “kenosis” di Gesù). 6. (v.9) Da questo versetto di lascia un po' la dimensione orizzontale per elevarsi, da questa piattaforma dell'amore fraterno, verso l'alto, all'amore di Dio, dell'abate, di Cristo. “Temeranno Dio con amore”: comunemente amore e timore si interpretano come due termini antitetici. Gli antichi la pensavano diversamente (nella Scrittura il “timore di Dio” è una realtà molto complessa che significa tutto il fenomeno religioso, tutta l'esperienza di Dio, fino all'amore). S. Cipriano ha “amore e timore” nella stessa frase (preghiera del Signore, 15); nel Sacramentario Leoniano (XXX,1104) abbiamo la medesima espressione di SB: amore te timeant (ti temano con amore); secondo Cassiano, il timore amoroso di Dio, “timore di amore”, è il grado più alto e sublime a cui possono arrivare i perfetti (Coll. 11,15). 7. (v.10) È un precetto formale, anche se non del tutto nuovo; SB ha parlato dell'amore per l'abate per amore di Cristo (RB 63,13); all'abate raccomanda di farsi più amare che temere (RB 64,15); l'abate deve amare tutti i fratelli (RB 2,17). Ora chiaramente si dice che i fratelli devono amare l'abate con sincerità. Nella RM questa idea manca del tutto, lo schema è molto più verticale: per il loro maestro i discepoli non possono nutrire se non fede e obbedienza. La RB pone l'amore reciproco tra monaci e abate, nella stessa corrente di carità verso Dio: “misura del cenobitismo à la relazione mutua che unisce i fratelli all'abate in Cristo” (DeVogué). 8. (v.11) Il nome di Cristo non era ancora apparso nel testamento spirituale di SB; è stato lasciato alla fine come coronamento. L'espressione è presa da S. Cipriano: “Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, perché Egli non antepose nulla a noi” (La Preghiera del Signore, 15); anche S. Agostino ha: “Nihil praeponant Christo” (Espos. sul Salmo 29,9). SB ha già posto una simile massima tra gli strumenti delle buone opere: “Niente anteporre all'amore di Cristo” (RB 4,91). Qui la rafforza con un energico “omnino” . Il monaco ha posto l'amore di Cristo al di sopra di ogni altro amore; “Christo omnino nihil praeponant” è l'anima e l'anelito di tutta la Regola come di tutta la vita di S. Benedetto.

12: Orazione conclusiva La frase che esprime un desiderio, un augurio, un voto, una speranza, non solo chiude il capitolo, ma, nella mente del legislatore, tutta l'appendice (cc. 67-72) e quindi tutta la Regola. SB ha parlato di tante cose, ha dato tante disposizioni, consigli, esortazioni: certo, tutto si deve cercare di fare, e il monaco può attraversare tanti momenti di scoraggiamento, può sperimentare la difficoltà del cammino. E allora il S. Padre termina con una orazione breve, intensa, significativa, in prospettiva escatologica. Si tratta di arrivare alla “vita eterna”, alla patria celeste tante volte intravista e sospirata nel corso della Regola (cf Prol. 17,41; RB 4,46; 5,3.10; 7,11; 72,2): a Cristo e solo a Cristo il monaco affida la capacità di poter trionfare definitivamente nella sua “ricerca di Dio” (RB 58,7); ed Egli solo ci potrà condurre alla vita eterna, “pariter” (tutti insieme). E notiamo questo “tutti insieme”: non si tratta di un'impresa solitaria, di un cammino desertico, ma insieme: i cenobiti camminano alla pari, formando una carovana con Cristo in testa che guida e ci conduce alla vita eterna.

Conclusione Tale è il testamento spirituale di SB; un capitolo in cui scompaiono – diciamo così – le precedenze, la disciplina regolare, le difficoltà del cammino ascetico; un capitolo ridondante tutto di amore, amore a Dio, a Cristo, all'abate, in particolare dell'amore reciproco tra i fratelli: una nuova dimensione che completa, arricchisce, e in un certo senso modifica l'ascetismo monastico descritto nei primi capitoli della Regola. SB ha scoperto (nella linea di Agostino) tutto il valore umano e cristiano della comunità; è giunto alla ferma convinzione che i monaci cenobiti non vivono insieme in monastero solo per essere discepoli di uno stesso maestro, l'abate, ma che la stessa vita di comunità, la comunione di spirito costituisce un fine in sé, nello stesso tempo che è il mezzo proprio di questo genere di monaci, per correre verso la vita eterna. Perciò al termine della Regola SB dà tanta importanza alle relazioni interpersonali, alla comunione dei fratelli tra loro, con l'abate e con Cristo in Dio. Ecco allora lo zelo buono, la “gelosia” buona: “una emulazione per amore nelle diverse manifestazioni dell'amore” (DeVogué).

Concludiamo con una citazione del grande maestro della vita comune, il “Dottore della carità”, S. Agostino. Parlando delle comunità di Roma e di Milano, egli scrive: “Vi si osserva principalmente la carità. Alla carità si ispira e si adatta il loro cibo, la loro conversazione, il loro vestito, il loro ambiente. Tutto è indirizzato e coordinato verso la carità. Sanno che Cristo e gli Apostoli la raccomandarono tanto che, se essa manca, nulla conta, e, se essa è presente, tutto acquista la sua pienezza”. (De Moribus Ecclesiae Catholicae 33,73). Non ci sono parole più belle per esprimere l'ideale comunitario di S. Benedetto.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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Capitolo LXXI – L’obbedienza fraterna

1 La virtù dell’obbedienza non dev’essere solo esercitata da tutti nei confronti dell’abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro, 2 nella piena consapevolezza che è proprio per questa via dell’obbedienza che andranno a Dio. 3 Dunque, dopo aver dato l’assoluta precedenza al comando dell’abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini privati, 4 per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani con la massima carità e premura. 5 Se qualcuno dà prova di un carattere litigioso sia debitamente corretto. 6 Se poi un monaco viene comunque rimproverato dall’abate o da qualsiasi anziano per un qualunque motivo 7 o si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi riguardi, 8 si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e rimanga così per riparare, finché la benedizione dell’altro non sani quel lieve dissenso. 9 Se qualcuno si rifiutasse altezzosamente di farlo, sia sottoposto a un castigo corporale e, se si ostina in questo atteggiamento di ribellione, sia scacciato dal monastero.

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Approfondimenti

1-5: Obbedienza reciproca tra i fratelli Quante volte e in quanti modi SB ha parlato già dell'obbedienza! Soprattutto nel Prologo, nei cc. 5, 7 e 68 ne ha trattato e vi ha insistito in mille maniere: veramente in essa egli assomma praticamente tutta l'ascesi monastica. Sembrerebbe che non ci sia nulla da aggiungere. Ed invece ecco qui un altro capitolo, con un taglio in parte diverso. È stato notato che i monaci lungo la Regola appaiono come semplici discepoli sotto la direzione e il magistero dell'abate e dei suoi collaboratori. Dal c. 63 in poi possiamo notare un'atmosfera diversa: tutti sono responsabili dell'educazione dei fanciulli oblati (RB 63,9; 70,4); nel c. 71 si parla poi di obbedienza reciproca. Praticamente si nota un'evoluzione della figura del monaco nella mente di SB: i monaci non sono semplici scolari, ma persone adulte, mature e che debbono essere considerate come tali.

Ancora un'altra osservazione: si apre un altro aspetto dell'obbedienza. All'abate, vicario di Cristo, si obbedisce perché manifesta la volontà di Dio, quindi il monaco è sicuro così di realizzare ciò che Dio gli chiede; nel c. 71 l'obbedienza reciproca che si inculca prescinde dal contenuto oggettivo: è un bene comune, il cammino per andare a Dio. La frase è diventata una delle sentenze più sintetiche e luminose della Regola: scientes per hanc oboedientiae viam se ituros ad Deum (persuasi che per questa via dell'obbedienza andranno a Dio, v.2). Anche S. Basilio (Reg. 13; 64) e Cassiano parlano di obbedienza reciproca. Anzi Cassiano dedica la Coll. 16 all'obbedienza reciproca senza distinzione di gradi.

Questa obbedienza ha pertanto un valore in se stessa, in quanto implica l'imitazione di Cristo (cf. tutta la dottrine sull'obbedienza nella RB, soprattutto nel c. 7 sull'umiltà); ma al tempo stesso è una manifestazione di carità, di amore fraterno, un vincolo nuovo tra i monaci, i quali debbono obbedirsi con ogni carità e sollecitudine (v. 4), cercare non quello che è il proprio tornaconto, ma quello degli altri. Tale genere di obbedienza potrebbe causare confusione nella comunità e SB, sempre preoccupato della pace e dell'ordine del cenobio stabilisce una certa gerarchia in questa obbedienza reciproca (vv. 3-5): obbedienza ai comandi dell'abate e dei suoi collaboratori, quindi obbedienza dei fratelli l'un l'altro, tenendo conto dell'ingresso in monastero (questo è il senso di “anziano”; vedremo poi che nel capitolo seguente si pralerà di gara nell'obbedirsi a vicenda, senza più distinzione tra anziani e giovani (cf RB 72,6).

In senso generale, come riflessione per noi oggi su questo capitolo della Regola, sarà bene richiamarci tutti a ciò che si direbbe oggi rispetto reciproco della personalità di ciascuno, aiuto vicendevole, disponibilità l'uno verso l'altro: è una legge ineludibile del cenobitismo benedettino, un modo di vivere sempre e comunque l'oboedientae bonum (il bene dell'obbedienza)!

6-9: Contegno dinanzi alle riprensioni SB passa a parlare dell'atteggiamento di fronte alla riprensione. Per conservare la pace e l'armonia nella comunità, il S. Patriarca dà ai più anziani il “diritto-dovere” di correggere gli altri fratelli verbalmente (la scomunica e le altre pene sono riservate all'abate, cf RB 70,2) e vuole nei monaci tanta umiltà e docilità che sappiano accettare e chiedere scusa (vv. 6-8); anzi appare fin troppo severo per chi fosse così pieno di orgoglio da rifiutare un atto di sottomissione e di umiltà (v. 9). È senza dubbio un rimedio drastico per mantenere la pace e l'armonia in comunità di uomini rudi e violenti, quali erano gli immediati destinatari della Regola.

Ciò che deve essere valido per noi oggi è questo senso dell'importanza della comunione fraterna che appare in SB: malintesi, rivalità, dispute, certe “guerre fredde”, quel vivere quasi da estranei in comunità..., sono cose che possono succedere nei monasteri: chiarirsi l'un l'atro i motivi di certe tensioni, chiedersi scusa per ristabilire la serenità, sono valori perenni che vanno conservati a costo di qualunque sacrificio.

Tratto da: APPUNTI SULLA REGOLA DI S. BENEDETTO – di D. Lorenzo Sena, OSB. Silv.


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