📖Un capitolo al giorno📚

DIARIO DI LETTURA DAL 25 DICEMBRE 2022

La misericordia di Dio 1Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. 2Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. 3Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?». 5Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all’ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino. 7Ma il giorno dopo, allo spuntare dell’alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. 8Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d’oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere». 9Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». 10Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! 11E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

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Approfondimenti

La misericordia di Dio 4,1-11 La storia sembrerebbe conclusa: la parola profetica è giunta infine a Ninive, la città s'è convertita e Dio l'ha perdonata. Ma che cosa fa Giona? E lui infatti il personaggio centrale del libro. Tramite la sua reazione alla salvezza di Ninive egli interpella la comunità giudaica contemporanea ed ogni futuro lettore. Quest'ultimo capitolo è costituito essenzialmente da un dibattito fra i due attori rimasti in scena: Dio e Giona; l'oggetto di tale dibattito è l'atteggiamento misericordioso di Dio nei confronti della città, anzi è la stessa concezione di Dio (cfr. v. 2).

L'articolazione del capitolo è semplice.

In una prima scena (vv. 1-4) Giona e Dio parlano in Ninive; sono preponderanti le parole di Giona, dalle quali emerge un netto allontanamento d'animo da questa città, mentre Dio lo invita alla riflessione con una breve domanda terminale (v. 4).

Nella seconda scena (vv. 5-8) non c'è dialogo verbale – infatti le parole del v. 8b sono un augurio che Giona indirizza a se stesso –, bensì d'azione: al precedente allontanamento psicologico di Giona corrisponde ora la sua uscita dalla città e la costruzione di un riparo di frasche; di rimando segue l'azione di Dio, che fa crescere una pianta di ricino e che manda un verme a roderla e un vento a essiccarla.

Nella terza scena (vv. 9-11) riappare il dialogo, questa volta però dominato dalla voce di Dio! Egli lo apre con la medesima domanda con cui aveva terminato la prima tornata (v. 4) e lo chiude con una nuova lunga domanda (vv. 10-11), che costituisce allo stesso tempo la conclusione del libro.

v. 1. Come la piena di un fiume, pare che tutto il male, avvenuto o minacciato, si sia riversato ora su Giona. Ciò corrisponde letterariamente ad una forte espressione verbale ebraica, costituita da un verbo che significa «provocare del male» e dal complemento oggetto interno «male», sottolineato ancora dall'aggettivo «grande». La traduzione più vicina suona: «questo però provocò in Giona un grandissimo male». E il perdono accordato a Ninive che provoca nel profeta tutto ciò! Di che cosa si tratta? Per la settima volta ritorna questo termine «male», che qualifica la malizia di Ninive (1,2), la sciagura in mare (1,7.8), la malvagia condotta dei Niniviti (3, 8.10a) e infine il male minacciato da Dio alla città (3, 10b). E tutto questo male che il profeta ritiene si sia abbattuto su di lui, e se prima era Dio ad essere ardente di collera (v. 9), ora lo è Giona.

v. 2. Più che di preghiera, si tratta di uno sfogo! Con un ritorno narrativo alla scena iniziale del libro, Giona chiarisce il motivo vero della sua fuga: fugge non perché ignaro, come i marinai (cfr. «forse»: v. 1,6) o come i Niniviti (cfr. «Chi sa..», v. 3,9), ma perché perfettamente consapevole; la sua non è semplicemente una fuga da Dio, quanto una fuga dal Dio di Israele, quale s'è rivelato soprattutto nella teofania sinaitica (cfr. Es 34,6), un Dio cioé misericordioso, clemente, longanime e di amore. Il comune denominatore di questi epiteti divini è dato dall'amore misericordioso e perdonante, di gran lunga preponderante rispetto alla sua giustizia punitrice. Ai quattro titoli precedenti l'autore di Giona aggiunge, come già Gl 2,13, il “pentimento” benevolo di Dio di fronte al castigo minacciato; mentre in Gioele però è riferito all'atteggiamento di Dio nei confronti di Gerusalemme, qui è riferito al suo atteggiamento verso Ninive. Ma è proprio tale istanza teologica che Giona rifiuta, come se Dio dovesse avere due volti, uno per Israele e uno per i pagani! Infatti questa confessione su Dio risuona sulle labbra Giona fredda ed intellettuale, quasi una formula liturgica ripetuta, ma non accolta nella vita.

vv. 3-4. L'incomprensione di questo Dio spinge il profeta ad invocare una seconda volta (cfr. 1,12) la morte, come già un tempo gli Israeliti prima del miracolo del mare (Es 14,12) ed Elia nella sua fuga da Gezabele (1Re 19,4); mentre pero i primi erano realmente di fronte al pericolo della morte e il secondo di fronte al fallimento della sua missione profetica, qui Giona è di fronte al successo della propria predicazione! L'ironia non può essere maggiore. Nonostante tutta la sua sicurezza esteriore Giona conosce davvero Dio? Con una domanda semplice, ma assai pertinente (v. 4), il Signore vuole arrivare al cuore stesso del profeta.

vv. 5-8. Nel contesto attuale della narrazione l'uscita di Giona dalla città – nell'ordine cronologico essa potè avvenire anche subito dopo l'annuncio di 3,4 – è la risposta alla domanda di Dio (v. 4) e anche il simbolo di quel rifiuto di condividere coi Niniviti il medesimo amore misericordioso di Dio, già espresso verbalmente nei vv. 2-3. Come già sulla nave aveva cercato un ripostiglio ben recondito, così qui la capanna di frasche rappresenta nuovamente la scelta di un egoismo esasperato, sordo ad ogni solidarietà umana. Agisce Giona? Agisce Dio, anzi pare quasi che si diverta servendosi della sua signoria sulla natura (pianta di ricino, verme, vento), come già al c. 2 con l'invio del grosso pesce. In realtà Dio non vuole indispettire il suo profeta, bensì condurlo a capire esistenzialmente quanto sia gioioso (cfr. «grande gioia», v. 6) per l'uomo sperimentare l'ombra benefica di Dio – è lui infatti la vera ombra dell'uomo (cfr. Sal 17,8; 36,8; 63,8 ecc.) – e all'opposto quanto sia inutile una vita lontana dalla sua presenza, inutile fino al punto di invocare la morte.

vv. 9-11. A questo punto Giona può riascoltare la precedente domanda di Dio. Pur essendo materialmente uguale alla prima, essa suona diversa, perché nel frattempo s'è venuta caricando di significato grazie alla parabola della pianta di ricino. Il profeta ha provato un grande dispiacere, giungendo sino all'invocazione della morte, perché Dio ha fatto seccare quella piccola pianta di ricino; come potrebbe Giona rallegrarsi per il castigo inviato a Ninive? E positivamente: se Dio deve prendersi cura ed aver pietà di Giona rimasto senza ombra, non dovrebbe a maggior ragione prendersi cura e aver pietà di una città immensa come Ninive? Come in Gioele alla confessione dell'amore misericordioso di Dio (2,13) segue l'invocazione perché egli abbia pietà di Gerusalemme (2,17), così qui nella domanda finale di Dio non risuona implicito per Giona, dopo aver confessato soltanto intellettualmente l'amore misericordioso divino (4,2b), l'invito ad invocare da Dio questa pietà? Sì, perché soltanto così Dio potrà arrivare finalmente al cuore del profeta.

Il libro, che s'era aperto con una parola di Dio rivolta a Giona, si chiude ancora su una parola di Dio indirizzata al profeta. Si tratta di una domanda che non riceve più la risposta di Giona. Ma Giona siamo noi! Questa domanda è rivolta a noi, perché non ci lasciamo sopraffare dalla tristezza del fratello maggiore, ma possiamo gridare col padre della parabola: «bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Giona – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Peredicazione di Giona 1Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: 2«Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e annuncia loro quanto ti dico». 3Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino. 4Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». 5I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli. 6Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere. 7Per ordine del re e dei suoi grandi fu poi proclamato a Ninive questo decreto: «Uomini e animali, armenti e greggi non gustino nulla, non pascolino, non bevano acqua. 8Uomini e animali si coprano di sacco, e Dio sia invocato con tutte le forze; ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. 9Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga il suo ardente sdegno e noi non abbiamo a perire!». 10Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

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Approfondimenti

Peredicazione di Giona 3,1 Questo capitolo riprende, ma in senso inverso, i due movimenti orizzontale e verticale con cui si era aperto il libro: orizzontalmente Giona non fugge più verso Tarsis, ma, ubbidiente alla nuova chiamata di Dio, che equivale poi alla prima (cfr. 1,1-2), si reca finalmente a Ninive. È Dio – e la duplice ripetizione dell'espressione «parola del Signore» lo sottolinea – il vero autore di questa missione a Ninive. Una volta raggiunta Ninive, la narrazione si snoda lungo un movimento verticale, di ascesa, avente per oggetto i Niniviti. Al primo grido del profeta (v. 4; BC = «e predicava») risponde il popolo della città invocando (lett. «gridando») un digiuno e vestendo di sacco (v. 5); questa risposta arriva poi sino al re, il quale a sua volta partecipa vestendosi di sacco (v. 6); infine il movimento raggiunge l'intera amministrazione dello stato tramite il decreto del re e dei suoi ministri, decreto che coinvolge ogni essere vivente, sia uomo che animale, e che diventa un possente grido (BC = «si invochi», v. 8) lanciato a Dio (vv. 7-9). Al culmine di questo movimento ascensionale Dio ascolta il grido dei Niniviti e annulla il castigo minacciato (v. 10). Il movimento ascensionale è segnato dunque, all'inizio come alla fine, dalla presenza di Dio.

Fra le numerose corrispondenze con i due capitoli precedenti due sembrano particolarmente importanti, anzitutto quella fra i Niniviti e i marinai. Graficamente si potrebbe esprimere così: marinai/popolo – capitano/re – nave/città. Come la preghiera dei marinai viene da Dio ascoltata ed essi sono liberati dal pericolo della morte, così la preghiera dei Niniviti è accolta dal Signore; si tratta in entrambi i casi di pagani, sicché nella storia del c. 1 è già prefigurata la storia del c. 3.

Un secondo parallelo emerge invece dal c. 2, in cui si era evidenziata la caduta di Giona e il suo movimento di ascesa fino al ritorno alla presenza di Dio e dunque alla salvezza. Anche Ninive conosce un simile movimento: votata alla distruzione, riemerge fino a ottenere il perdono di Dio. La vicenda di Giona salvato unicamente dalla misericordia di Dio costituisce così il preludio della salvezza di Ninive.

Quanto al Giona del c. 3, egli si colloca in una posizione ambigua rispetto al Giona dei due capitoli precedenti. Da un lato è il profeta ubbidiente, che si reca a Ninive e vi predica; dall'altro, però, dopo questa menzione iniziale egli scompare dalla scena, lasciando una traccia di dubbio nel lettore: è contento Giona della salvezza di Ninive? Spetterà al prossimo capitolo rispondere alla domanda.

vv. 1-3. Vengono riprese dal c. 1,1-2 le parole dell'invio profetico, senza però la motivazione del v. 2b; quanto al messaggio Dio lo comunicherà a suo tempo. Come in una novella l'autore descrive Ninive come «la grande città» (cfr. Gn 10,12), così estesa da richiedere un cammino di tre giorni. Il contrasto con la piccolezza del profeta ebraico non può essere maggiore, e dalla sua parola profetica scaturirà una forza tale da convertire l'intera città.

v. 4. «quaranta giorni»: l'espressione evoca molti passi biblici in particolare il diluvio (Gn 7,4.12.17; 8,6), la teofania sinaitica (Es 24,18; 34,28), il cammino di Elia verso l'Oreb (1Re 19,8). Si tratta di un tempo determinato, fissato da Dio per 1l castigo o per la penitenza o per la grazia. Nel nostro caso il contesto immediato fa pensare a un tempo di castigo, tuttavia la tradizione storico-salvifica lascia aperta la speranza in un tempo di penitenza e di grazia. «sarà distrutta»: ad eccezione di 2Sam 10,3 dove è riferito alla città degli Ammoniti, il verbo nella Bibbia allude sempre alla distruzione di Sodoma e di Gomorra (Gn 19,21.25.29; Dt 29,22; Am 4,11; Ger 20,16; Lam 4,6). Sara dunque inevitabile la distruzione di Ninive oppure, a differenza delle città della Pentapoli, si troveranno in essa almeno dieci giusti (cfr. Gn 18, 22-33)?

v. 5. La risposta dei Niniviti è immediata, credono nella verità della parola profetica e soprattutto emerge quasi incontenibile una fiduciosa speranza in Dio. Questa si esprime nella scelta penitenziale del digiuno e del vestito di sacco, intesi come segno di conversione interiore (cfr. v. 8) e poi in un atteggiamento di preghiera, quale apparirà dal decreto del re (cfr. v. 9). Il coinvolgimento è totale, tocca piccoli e grandi, arriverà al re e ai suoi ministri ed interesserà persino gli animali. Siamo ben lontani dal piccolo numero richiesto per la salvezza di Sodoma e di Gomorra!

v. 6. «notizia»: più che notizia converrebbe tradurre «la parola»; si tratta infatti della parola annunciata dal profeta. Viene spontaneo il confronto col re Ioiakim che getta nel fuoco la parola profetica di Geremia (Ger 36).

vv. 7-8a. Anche gli animali partecipano al giudizio di Dio sugli uomini (cfr. Ger 21,6), perciò vengono talvolta associati ai riti penitenziali (cfr. Gdt 4,10). Qui l'autore sottolinea con particolare vigore questa partecipazione del mondo animale, per evidenziare la completa accoglienza della parola profetica. Ma non è sempre così in Israele, dove un Isaia può amaramente constatare che gli animali sono più attenti alla parola che non gli uomini (1,3).

v. 8b-10. In 8b risuona con forza l'invito pressante e ripetuto di Geremia ad abbandonare la condotta malvagia (18,11; 25,5; 26,3; 35,15; 36,3.7). Il v. 9 chiarisce poi il senso della preghiera del Niniviti, anzitutto attraverso l'interrogativo iniziale: «Chi sa che Dio...?». È il medesimo atteggiamento del capitano della nave, il quale rivolgendosi a Dio usa il «forse» (1,6); questi pagani sanno cioè che Dio è sovranamente libero e che nessun atto di culto o di penitenza potrebbe costituire un titolo di diritto alla salvezza, essendo tale dono gratuito ed esclusivo di Dio. Nello stesso tempo, però, la preghiera dei Niniviti esprime una fiduciosa speranza: se l'uomo torna indietro dal male, anche Dio potrebbe «pentirsi» (BC = «impietosirsi») e tornare indietro dall'ardore della sua collera. Solo una volta questa preghiera era già stata elevata a Dio, là dove Mosè dopo il peccato del vitello d'oro chiedeva a Dio di tornare indietro dall'ardore della sua collera e di pentirsi del male destinato al suo popolo (Es 32,12b). Dio cambia forse atteggiamento quando tratta con i pagani? Non ha egli già salvato i marinai? Non dovrebbe salvare anche i Niniviti? Non aveva già parlato in questo senso Geremia (18,7-8)? La risposta a queste domande non si fa attendere e infatti al v. 10 solennemente si afferma il perdono di Dio a Ninive. Al ritorno dei Niniviti dalla loro condotta malvagia corrisponde la revoca misericordiosa (= di pentimento) da parte di Dio del castigo minacciato; e come il primo non era stato solo a livello di intenzioni, bensì di opere, così il «pentimento» di Dio è avvalorato dalla conferma finale: «e non lo fece». Il v. 10b riprende ancora una volta, quasi letteralmente, il testo di Es 32,14, che a conclusione della preghiera di Mosè così dice: «Allora il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo». La passata esperienza salvifica di Israele diventa ora esperienza salvifica di Ninive! Si attua così la promessa di Ger 18,7-8.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Giona – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Giona nel ventre del pesce – Preghiera 1Ma il Signore dispose che un grosso pesce inghiottisse Giona; Giona restò nel ventre del pesce tre giorni e tre notti. 2Dal ventre del pesce Giona pregò il Signore, suo Dio, 3e disse: «Nella mia angoscia ho invocato il Signore ed egli mi ha risposto; dal profondo degli inferi ho gridato e tu hai ascoltato la mia voce. 4Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, e le correnti mi hanno circondato; tutti i tuoi flutti e le tue onde sopra di me sono passati. 5Io dicevo: “Sono scacciato lontano dai tuoi occhi; eppure tornerò a guardare il tuo santo tempio”. 6Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo. 7Sono sceso alle radici dei monti, la terra ha chiuso le sue spranghe dietro a me per sempre. Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita, Signore, mio Dio. 8Quando in me sentivo venir meno la vita, ho ricordato il Signore. La mia preghiera è giunta fino a te, fino al tuo santo tempio. 9Quelli che servono idoli falsi abbandonano il loro amore. 10Ma io con voce di lode offrirò a te un sacrificio e adempirò il voto che ho fatto; la salvezza viene dal Signore». 11E il Signore parlò al pesce ed esso rigettò Giona sulla spiaggia.

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Approfondimenti

Giona nel ventre del pesce – Preghiera 2,1-11 2,1-11. Terminata la comparsa dei marinai, riappaiono nuovamente in scena i due personaggi chiave del libro: Dio e Giona, come in apertura del libro; tuttavia il Giona presente non è più il profeta che sfida Dio e che spera di sfuggire da una tutela ritenuta opprimente, bensì il profeta gettato in mare, costretto cioè al riconoscimento della signoria di Dio. È Dio in effetti che continua a condurre la storia, come appare dal soggetto dell'azione iniziale (v. 1) e terminale del capitolo (v. 11), ma si tratta di una storia che continua: non sarà la morte l'ultima tappa della fuga di Giona, bensì il grosso pesce, la settima ed ultima tappa della fuga, un tempo cioè di conversione in vista della missione a Ninive. Questo tempo intermedio è occupato dal salmo (vv. 3-10), che costituisce perciò narrativamente e teologicamente l'antifuga, cioè il cammino di ritorno a Dio.

vv. 1-2. L'autore introduce, questa volta dal mondo della natura animale, un nuovo personaggio: un grosso pesce. Esso, più ancora della tempesta della scena precedente, serve non solo ad eccitare enormemente la fantasia di un popolo non marinaro come Israele, ma soprattutto a sottolineare la signoria assoluta di Dio, l'imperscrutabilità delle sue vie e la vanità del tentativo umano di sottrarsi al suo progetto. «tre giorni e tre notti» costituiscono un lasso di tempo relativamente lungo (cfr. 3,3; 1Sam 30,12; Est 4,16; Lc 2,46) ed anticipano già l'annuncio della liberazione, per evidenziare che questa dipende esclusivamente da Dio. Tuttavia la preghiera di Giona non risulta meno importante. Anzitutto risponde alla unanime domanda: che fa il profeta durante questo tempo nel ventre del pesce? Ma specialmente essa serve a proporre, attraverso Giona, alla contemporanea comunità giudaica dell'autore e a ogni futuro lettore, un itinerario di conversione che spezzi il cerchio di un egoismo spirituale vano e pericoloso. Di qui la necessità di dare spazio al v. 2 tramite l'inserzione di un salmo.

vv. 3-10. Il salmo è articolato su due movimenti contrastanti: il discendere e il salire; essi appaiono esplicitamente al centro del salmo (v. 7), ma percorrono tramite i loro simboli tutto il salmo, per ricongiungersi al resto della narrazione. Infatti l'espressione del v. 7 «Sono disceso alle radici dei monti» costituisce il termine estremo di quel lungo movimento di caduta che ha visto Giona scendere progressivamente a Giaffa (1,3), poi sulla nave (1,3), poi ancora nel luogo più riposto della nave (1,5) e infine nell'abisso del mare (2,7). Toccato il fondo della caduta, il profeta ricomincia a risalire verso Dio: è quanto esprime la frase del v. 7b: «Ma tu hai fatto risalire dalla fossa la mia vita». Partendo da questi due verbi chiave il salmo si riempie di simbolismo. Immagini del discendere sono: «gli inferi» (v. 3), la profondità (BC = «abisso», v. 4), «il cuore del mare» (v. 4), «l'abisso» (v. 6), «le radici dei monti» (v. 7), «la fossa» (v. 7). L'immagine del salire è essenzialmente rappresentata dall'espressione «il tuo santo tempio» (vv. 5b.8b); siccome però si tratta del tempio del Signore e al v. 8b «Signore» (cfr. «te») è parallelo a «tempio» (BC = «dimora»), anche le menzioni del Signore evocano il simbolismo del salire (vv. 7b.8a.8b). Il movimento del salmo non è schematico e rigido, bensì segue le articolazioni della vita, dove bene e male si alternano. Dopo aver espresso fin dall'inizio la sua fiducia incondizionata nell'esaudimento divino (v. 3), il salmista rievoca l'amara esperienza della caduta (v. 4), con angoscia si domanda se potrà salvarsi (v. 5), di nuovo ripensa alla situazione di caduta (v. 6); ma quando sembra che tutto sia finito (v. 7a), sorge improvvisa e gratuita la salvezza donata da Dio (v. 7b) e questo movimento di risalita è segnato dalla preghiera del salmista (v. 8), dal suo impegno esistenziale per Dio (v. 9) e dal sacrificio di lode (v. 10).

v. 3. In apertura di salmo risuona enfatico il verbo «ho gridato» (BC = «ho invocato») posto in bocca a Giona. E la prima risposta del profeta all'invito di Dio a gridare (1,2), invito ripreso dal capitano (1, 6) e accolto dai marinai (1, 14), ed è il preludio al compimento della missione in Ninive (3,4: «e gridò»; BC = «e predicava»).

v. 4. «Mi hai gettato». Pur trattandosi di un'altra forma verbale, è una sintesi della teologia del «gettare» presente nel c. 1. Giona riconosce il Signore come il regista vero della sua storia; siamo lontani dal precedente riconoscimento di una signoria soltanto cosmica e astratta (cfr. 1, 9).

v. 5. Risuonano di nuovo le parole del Sal 31,23, come già prima al v. 3b; esse esprimono la profonda nostalgia di Dio da parte dell'uomo. La presenza di Dio, che con tutta naturalezza nel capitolo precedente fa sentire la sua voce al profeta, è qui concepita essenzialmente come presenza cultuale, legata al tempio di Gerusalemme. È qui che l'uomo può trovare e ritrovare con sicurezza Dio.

v. 7b. L'espressione iniziale «Ma tu» sottolinea che la salvezza è opera esclusiva di Dio. Giona sperimenta ora, come già i marinai, la misericordia divina che libera dal pericolo della morte. Non avranno diritto anche i Niniviti a questa misericordia? Il profeta che non sapeva e non voleva pregare ha ritrovato la voce e la piena confidenza in Dio: «Signore mio Dio!». Il versetto seguente insisterà ancora su questa preghiera ritrovata di Giona.

v. 9. «il loro amore»: si tratta di un attributo indicativo di Dio stesso; chi si abbandona agli idoli abbandona il vero bene.

v. 10. A sua insaputa Giona si unisce ora ai marinai per elevare il sacrificio di lode ed offrire voti al Signore. Riconosce che la salvezza viene unicamente dal Signore! Sarà disposto il profeta a riconoscere questo anche a Ninive? Ed è sul termine «Signore» che si chiude il salmo.

v. 11. Riprendendo il tono satirico, il racconto ci mostra ora plasticamente un Giona «vomitato» sull'asciutto. Colui che voleva fuggire fino a Tarsis e poi scendere per sempre negli abissi del mare, si trova ora di nuovo al punto di partenza! Ma la lezione non è stata inutile, Giona ha capito che è impossibile fuggire lontano dal Signore.

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Giona – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Missione di Giona 1Fu rivolta a Giona, figlio di Amittài, questa parola del Signore: 2«Àlzati, va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malvagità è salita fino a me». 3Giona invece si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore.

Rifiuto della missione 4Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e vi fu in mare una tempesta così grande che la nave stava per sfasciarsi. 5I marinai, impauriti, invocarono ciascuno il proprio dio e gettarono in mare quanto avevano sulla nave per alleggerirla. Intanto Giona, sceso nel luogo più in basso della nave, si era coricato e dormiva profondamente. 6Gli si avvicinò il capo dell’equipaggio e gli disse: «Che cosa fai così addormentato? Àlzati, invoca il tuo Dio! Forse Dio si darà pensiero di noi e non periremo». 7Quindi dissero fra di loro: «Venite, tiriamo a sorte per sapere chi ci abbia causato questa sciagura». Tirarono a sorte e la sorte cadde su Giona. 8Gli domandarono: «Spiegaci dunque chi sia la causa di questa sciagura. Qual è il tuo mestiere? Da dove vieni? Qual è il tuo paese? A quale popolo appartieni?». 9Egli rispose: «Sono Ebreo e venero il Signore, Dio del cielo, che ha fatto il mare e la terra». 10Quegli uomini furono presi da grande timore e gli domandarono: «Che cosa hai fatto?». Infatti erano venuti a sapere che egli fuggiva lontano dal Signore, perché lo aveva loro raccontato. 11Essi gli dissero: «Che cosa dobbiamo fare di te perché si calmi il mare, che è contro di noi?». Infatti il mare infuriava sempre più. 12Egli disse loro: «Prendetemi e gettatemi in mare e si calmerà il mare che ora è contro di voi, perché io so che questa grande tempesta vi ha colto per causa mia». 13Quegli uomini cercavano a forza di remi di raggiungere la spiaggia, ma non ci riuscivano, perché il mare andava sempre più infuriandosi contro di loro. 14Allora implorarono il Signore e dissero: «Signore, fa’ che noi non periamo a causa della vita di quest’uomo e non imputarci il sangue innocente, poiché tu, Signore, agisci secondo il tuo volere». 15Presero Giona e lo gettarono in mare e il mare placò la sua furia. 16Quegli uomini ebbero un grande timore del Signore, offrirono sacrifici al Signore e gli fecero promesse.

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Approfondimenti

Missione di Giona 1,1-3 L'inizio del libro è brusco ed insieme drammatico; infatti, senza titolo o prologo il lettore è immediatamente confrontato con una scena dove si oppongono due protagonisti: Dio e un uomo, Giona. Le storie di vocazione conoscono certo le obiezioni del profeta o le sue riserve (cfr. per es. Es 4,1-17; Ger 1,6), ma nessuna riporta un rifiuto così netto e immediato. E non c'è bisogno di titolo, perché è la stessa possibilità dell'uomo o di Israele di essere antiprofeta che costituisce il vero titolo del libro, titolo che interpella la coscienza ed esige una risposta. La drammaticità di questa scena è letterariamente espressa dall'opposizione delle due espressioni che includono l'unità: «parola del Signore» (v. 1) – «lontano dal Signore» (v. 3). La parola del Signore si pone sin dall'inizio come protagonista e soggetto vero della storia; lungo la narrazione assumerà volti diversi: la tempesta, la parola del capitano della nave, il silenzio dei tre giorni nel ventre del pesce, la storia del ricino; ma sarà sempre essa ad interpellare il profeta. L'assolutezza di questa parola si esprime negli imperativi del v. 2: «alzati», «va'», «grida» (BC = «proclama»). Il rifiuto di Giona è altrettanto assoluto: si alza sì (BC = «si mise in cammino»), ma per fuggire; va sì, ma a Tarsis; il tutto senza dire una parola! Inizia così la fuga del profeta da Dio, fuga che si esprime in due movimenti, uno orizzontale e uno verticale. Chiamato ad andare a Ninive, Giona si dirige a Tarsis, all'estremità opposta occidentale allora conosciuta, non lontano dall'attuale Gibilterra. La triplice menzione della città ne sottolinea il significato simbolico: non soltanto essa rappresenta l'anti-Ninive geografica, ma pure il paese della ricchezza mineraria (cfr. Ger 10,9; Ez 27,12), dove perciò non si sente la parola di Dio (Is 66,19) e si è «lontani dal Signore» (nota la duplice ripetizione dell'espressione al v. 3). Il secondo è un movimento di discesa-degradazione, che porterà Giona via via giù in fondo al mare: chiamato ad elevarsi fino a Dio per ascoltarne la voce, egli comincia a scendere verso il basso: dapprima scende a Giaffa, poi scende su una nave (letteralmente: «... vi scese per partire con loro verso Tarsis»). Giaffa è la prima tappa della sua fuga; Tarsis è la seconda tappa (progettata). Riuscirà Giona nella sua fuga?

Rifiuto della missione 1,4-16 Alla domanda precedente risponde questa nuova scena sulla nave. Essa si apre con Dio che scatena (letteralmente: «getta») una terribile tempesta (v. 4); i marinai pieni di paura gettano a loro volta in mare zavorra e merci (v. 5), ma non basta. Dovranno gettare Giona stesso, allora soltanto il mare si calmerà (v. 15) e la loro paura diventerà timore del Signore (v. 16). La soluzione del dramma sta nella confessione di Giona, che infatti occupa il centro della scena (v. 9). Se il dramma appare evidente, non meno vera è l'ironia del narratore: il profeta che rifiuta di recarsi a Ninive per timore di una predicazione che conduca al pentimento, si imbatte, precisamente durante la sua fuga, in una Ninive galleggiante, i cui marinai troveranno la conversione proprio grazie al suo rifiuto!

v. 4. Essendo Giona sordo allo spirito (letteralmente: «vento») profetico, Dio scatena un altro spirito, un vento di tempesta, di fronte al quale il profeta non potrà più nascondersi!

v. 5. Alla preghiera di paura e all'azione affannosa dei marinai si contrappone la totale passività del passeggero ebreo. Pur essendo lui il vero peso della nave e il destinatario della tempesta, egli continua la sua fuga da Dio. Scende ancora e questa volta nel luogo più riposto della nave, per non udire Dio che ora gli parla attraverso la natura; il ripostiglio nascosto e profondo è la terza tappa della fuga da Dio. Ma tutto ciò non basta ancora ad evitare l'interpellazione di Dio, per cui Giona decide di non pensare e cade in un sonno profondo; non si tratta di un semplice dormire, bensì di un letargo, di un preludio alla morte da parte di uno che rifiuta la responsabilità della propria vocazione. È questa la quarta tappa della fuga di Giona.

v. 6. Le parole di invio da parte di Dio, non udite o equivocate, risuonano ora chiaramente sulla bocca del capitano: alzati, grida (cfr. v. 2). Sebbene in modo ancora un po' ambiguo, il Dio di Giona comincia ad entrare nell'orizzonte di fede di questi marinai, che lottano per la salvezza. Per la medesima salvezza pregheranno e agiranno gli abitanti di Ninive (cfr. 3,9), dei quali i marinai prefigurano già l'istanza della conversione e della fede nel vero Dio; non a torto la tradizione interpretativa giudaica ha visto in quei marinai i rappresentanti delle 70 nazioni pagane. Ma Giona, invitato a invocare il proprio Dio, tace; il suo silenzio caparbio e ostinato è un ulteriore allontanamento: la quinta tappa della fuga del profeta.

v. 8. La serie di cinque domande, che i marinai pongono al profeta, al di là del contesto immediato delle sorti cadute su di lui, è l'espressione narrativa di una domanda presente fin dall'inizio e che è venuta via via crescendo: chi è questo Giona a cui Dio affida la missione profetica? E soprattutto: chi è questo Giona che osa opporsi così frontalmente a Dio?

v. 9. Finalmente una parola di Giona, che finora s'è chiuso in un mutismo assoluto! Si presenta anzitutto come un Ebreo, titolo che invita a pensarlo come rappresentante del popolo ebreo. Effettivamente è alla contemporanea comunità giudaica che attraverso questa novella intende rivolgersi l'autore, per scuoterla dal suo torpore e dalla sua chiusura nazionalistica. Però non si riconosce o non vuole ancora riconoscersi come profeta. Di qui l'insufficienza di tale confessione, insufficienza pure presente nella presentazione del suo Dio. Questo Dio infatti è soltanto un Dio dai tratti cosmici, che non entra ancora in un rapporto personale con gli uomini. Non sappiamo se, all'invito da parte del capitano di pregare, Giona abbia risposto o no; di fatto questa sua confessione non è una preghiera, ma solo un riconoscimento parziale ed intellettuale di Dio.

v. 10. La confessione di Giona, e in particolare la menzione del Signore, fa percepire ai marinai in tutta la sua gravità il significato di questa fuga lontano dal Signore. Narrativamente la domanda: «Che cosa hai fatto?» esprime un movimento di allontanamento rispetto al profeta. Positivamente emerge nei marinai un sentimento di «grande timore»; esso non proviene più dall'ignoranza degenerata in panico (cfr. v. 5), né da un semplice riconoscimento impersonale come quello di Giona (cfr. v. 9), ma dall'accettazione, sia pure ancora iniziale, di questo Dio che si manifesta nella tempesta e al quale l'uomo non può fuggire.

vv. 11-13. Due movimenti di segno opposto si delineano: Giona che chiede d'essere gettato in mare, l'equipaggio che cerca disperatamente di guadagnare la terraferma. Con la sua richiesta il profeta vuole disgiungersi da quegli uomini e delimita un nuovo spazio; si offre solo al mare, per liberarne i compagni. Nelle sue parole emerge la presa di coscienza della verità dei fatti: è lui il vero peso da gettare in mare! Però non c'è spazio né per una confessione di colpa, né per una preghiera, né per una domanda circa la volontà di Dio. Prorompe un unico desiderio: la morte! È questa la sesta tappa, ritenuta definitiva, della fuga del profeta da Dio. D'altra parte il tentativo dei marinai di raggiungere la terraferma, simbolo della salvezza in contrapposizione al mare, simbolo della morte, si rivela inutile, perché è impossibile remare contro JHWH. La ripetuta menzione di un infuriare sempre più violento del mare (cfr. vv. 5.11.13) indica proprio questo. Giona arriverà sì alla terraferma, ma solo quando JHWH vorrà.

vv. 14-15. Come al v. 5 i marinai all'azione uniscono la preghiera, così qui, accanto al tentativo generoso di riportare la nave alla costa, compare la preghiera. E essenzialmente una invocazione di salvezza, non più affidata all'interesse del profeta ebreo (cfr. v. 6), bensì elevata da loro stessi a danno dello stesso profeta. In questa preghiera risuona la lingua dei salmi (cfr. 115,3; 135,6), ma sulle labbra di pagani che riconoscono in tutto l'accaduto, e quindi anche nell'inevitabile sacrificio di Giona, l'esecuzione della volontà di Dio. Così il profeta viene gettato in mare: è la conseguenza e lo scopo a cui mirava il gesto iniziale di Dio, che «gettava» sul mare la tempesta (v. 4). Il segno, infatti, è dato dal sopravvenire immediato della bonaccia.

v. 16. Il versetto finale non dice nulla di Giona; apparentemente egli ha raggiunto il suo scopo di fuggire da Dio per sempre nel regno dei morti. L'attenzione è invece rivolta ai pagani di questa Ninive galleggiante, che pagani non sono più. Ancora una volta ritorna il termine «timore», ma ora è accompagnato per la prima volta dalla specificazione «del Signore», è l'espressione che nel linguaggio biblico indica un rapporto di fiducia e di obbedienza in JHWH (cfr. Gn 22,12; Es 20,20; Sal 111,10). Concretamente questo riconoscimento di JHWH si esprime con i sacrifici, verosimilmente sacrifici di ringraziamento per lo scampato pericolo, e con i voti, cioè con la promessa di una vita consona alla nuova fede in JHWH. Ciò che Giona aveva voluto evitare col suo rifiuto di recarsi a Ninive, si è ora avverato proprio durante e mediante la sua fuga! Tutto questo, perché è JHWH il vero protagonista della storia, che con lui si apre (cfr. v. 4) e con lui si chiude (cfr. v. 16).

(cf. MICHELANGELO PRIOTTO, Giona – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Titolo e prologo 1Visione di Abdia. Così dice il Signore Dio per Edom: Udimmo un messaggio da parte del Signore, un messaggero è stato inviato fra le nazioni: «Alzatevi, marciamo contro Edom in battaglia!».

GIUDIZIO SU EDOM

Annuncio del castigo 2«Ecco, ti faccio piccolo fra le nazioni, tu sei molto spregevole. 3La superbia del tuo cuore ti ha ingannato, tu che abiti nelle caverne delle rocce, delle alture fai la tua dimora e dici in cuor tuo: “Chi potrà gettarmi a terra?”. 4Anche se, come l'aquila, ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi fra le stelle, di lassù ti farò precipitare». Oracolo del Signore.

Descrizione del castigo 5Se entrassero da te ladri o predoni di notte, come sarebbe finita per te! Non ruberebbero quanto basta loro? Se vendemmiatori venissero da te, non ti lascerebbero forse appena qualche grappolo? 6Come è stato perquisito Esaù! Come sono stati scovati i suoi tesori nascosti! 7Ti hanno cacciato fino alla frontiera, tutti i tuoi alleati ti hanno ingannato, i tuoi amici ti hanno vinto, quelli che mangiavano il tuo pane ti hanno teso tranelli: in lui non c’è senno! 8«In quel giorno – oracolo del Signore – non disperderò forse i saggi da Edom e l’intelligenza dal monte di Esaù? 9Saranno terrorizzati i tuoi prodi, o Teman, e sarà sterminato ogni uomo dal monte di Esaù. 10A causa della violenza contro Giacobbe, tuo fratello, la vergogna ti coprirà e sarai sterminato per sempre. 11Anche se tu stavi in disparte, quando gli stranieri ne deportavano le ricchezze, quando i forestieri entravano per le sue porte e si spartivano a sorte Gerusalemme, ti sei comportato proprio come uno di loro».

Ammonimento profetico 12Non guardare con gioia al giorno di tuo fratello, al giorno della sua sventura. Non gioire dei figli di Giuda nel giorno della loro rovina. Non spalancare la bocca nel giorno della loro angoscia. 13Non varcare la porta del mio popolo nel giorno della sua sventura, non guardare con compiacenza la sua calamità; non stendere la mano sui suoi beni nel giorno della sua sventura. 14Non appostarti ai crocicchi delle strade per massacrare i suoi fuggiaschi; non fare mercato dei suoi superstiti nel giorno dell’angoscia.

IL GIORNO DEL SIGNORE

15Perché è vicino il giorno del Signore contro tutte le nazioni. Come hai fatto tu, così a te sarà fatto; ciò che hai fatto agli altri, ricadrà sul tuo capo. 16Poiché come avete bevuto sul mio monte santo, così berranno tutte le nazioni senza fine, berranno e tracanneranno, e saranno come se non fossero mai state. 17Ma sul monte Sion vi saranno superstiti e sarà un luogo santo, e la casa di Giacobbe possederà i suoi possessori. 18La casa di Giacobbe sarà un fuoco e la casa di Giuseppe una fiamma, la casa di Esaù sarà come paglia: la bruceranno e la consumeranno, non scamperà nessuno della casa di Esaù, poiché il Signore ha parlato.

CONQUISTE DI ISRAELE

19Quelli del Negheb possederanno il monte di Esaù e quelli della Sefela la terra dei Filistei; possederanno il territorio di Èfraim e di Samaria e Beniamino possederà il Gàlaad. 20Gli esuli di questo esercito dei figli d’Israele possederanno Canaan fino a Sarepta e gli esuli di Gerusalemme, che sono in Sefarad, possederanno le città del Negheb. 21Saliranno vittoriosi sul monte di Sion, per governare il monte di Esaù, e il regno sarà del Signore.

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Approfondimenti

Con i suoi 21 versetti, il libro del profeta Abdia è il più corto dell’Antico Testamento. Non abbiamo informazioni a riguardo del suo autore, a parte il suo nome che significa “servitore (o adoratore) dell’Eterno”. Nell’antico Testamento, sono menzionate oltre dieci persone che portano questo nome, ma il profeta non è accostabile a nessuna di esse. Per questo fatto è difficile datare questo scritto. Il libro del profeta Abdia, dai tempi più antichi, occupa un posto sicuro e incontestato nel canone dell’Antico Testamento ebraico e della Bibbia.

Titolo e prologo 1 1. Il titolo consiste di soli due termini, ciò che costituisce un caso unico nei libri profetici. «Visione»: parola tecnica che indica il contenuto del messaggio ricevuto da Dio anche sotto forma di audizione (cfr. Is 2,1; 13,1; 30,10). Il nome Abdia ricorre ancora una decina di volte nell'AT (cfr. 1Re 18,3; Esd 8,9, ecc.). La frase «Così dice il Signore Dio» non è seguita direttamente da un oracolo divino, per cui da alcuni esegeti viene spostata all'inizio del v. 2. «Edom» è una tribù semitica imparentata con Israele; essa occupava la regione montagnosa situata tra il Mar Morto e il golfo di Agaba sul Mar Rosso. L'inimicizia tra Edom e Israele, che rimontava alle origini (cfr. Gn 25,22ss.29-34; 27,41), si è manifestata in occasione del passaggio di Israele verso la terra promessa (cfr. Nm 20,14-21) ed è scoppiata violenta durante la distruzione di Gerusalemme nel 587 a.C. (cfr. Ez. 35,6; Lam 4,21; Gl 4,19; Sal 137,7). L'oracolo divino contiene un appello alle nazioni (che sono probabilmente i paesi vicini, quali Ammon, Moab e le tribù arabe) perché muovano guerra a Edom (cfr. Ger 49,14). «Udimmo» (i LXX hanno il singolare) si riferisce ai membri della corte celeste o meglio ai contemporanei del profeta.

GIUDIZIO SU EDOM 2-14 Il brano è un'unità letteraria redazionale contenente accuse e annunci di castigo contro Edom. La punizione è formulata da Dio stesso (vv. 2-4) e viene descritta in forma ironica di lamentazione (vv. 5-7). Al secondo annuncio di castigo (vv. 8-11) segue un ammonimento profetico (vv. 12-14).

Annuncio del castigo 2-4 Mediante un oracolo simile a una dichiarazione di guerra il Signore proclama l'umiliazione di Edom, piccolo paese tra gli altri popoli, ma arrogante e fiero della sua posizione geografica.

V. 2. Dio agisce secondo un principio dialettico, precipitando nell'abisso gli orgogliosi ed elevando gli umili (cfr. 1Sam 2,3-8; Is 2,6-18; 3,16ss.; 14,29s.; Sof 3,1-13).

v. 3. Viene descritta in modo i poetico la superbia di Edom, fondata sul sentimento della propria sicurezza e sulla fiducia riposta nella posizione imprendibile della sua capitale (cfr. Ger 49,16; 50,31; Ez 7,10). I «crepacci rocciosi» alludono probabilmente alla città principale di Petra (Sela) e a tutto il paese costituito dal massiccio montagnoso dello Seir, ricco di grotte e fortificato alle frontiere settentrionale e meridionale. L'espressione oratoria dell'orgoglio di Edom («Chi potrà gettarmi a terra») si ritrova in Is 14,13s.

v. 4. Nello stile dell'oracolo viene utilizzata l'immagine della caduta dell'aquila, il gigante dei rapaci (cfr. Ez 17,7), celebre per la robustezza delle sue ali, l'audacia e la rapidità del suo volo (cfr. Ger 49,16; 51,53; Nm 24,21, Ab 2,9).

Descrizione del castigo 5-11 Edom sarà saccheggiato e deportato (vvb 5-6), tradito dai suoi alleati (v. 7), privato dei suoi «saggi» e dei suoi «prodi» (vv. 8-9). La colpa di Edom è di aver compiuto violenze a danno del proprio fratello Giacobbe, e di aver partecipato al saccheggio di Gerusalemme (vv. 10-11).

v. 5. Con due immagini, quella dei ladri notturni che asportano tutto, lasciando dietro qualcosa di poco conto, e quella della vendemmia della vigna (cfr. Ger 49,9; Is 17,6; 24,13; Mic 7,1), viene descritta ironicamente la gravità dell'umiliazione subita da Edom, cioè la sua totale distruzione.

v. 6. Le due esclamazioni alludono all'estensione del disastro subito da Esaù, che è un altro nome di Edom (cfr. Ger 49,10; Is 14,12.15). Le grotte inaccessibili del paese non hanno protetto gli oggetti preziosi e i viveri ivi nascosti (cfr. Gdc 6,2.11).

v. 7. Gli antichi alleati, cioè le tribù nomadi con le quali Edom aveva collaborato nel commercio (cfr. Is 42,11), hanno fatto voltafaccia, cacciando l'amico dal suo territorio, onde prenderne il posto. Così Edom divenne fuggitivo e schiavo (cfr. Gdc 11,3): «mangiare il pane» significa intrattenere rapporti di amicizia e intimità (cfr. Sal 41,10). Probabilmente l'ultimo stico del v. introduce il v. seguente.

v. 8. Per meglio assicurare la rovina di Edom il Signore annulla tutta la sapienza politica e diplomatica e la bravura militare di cui il paese era fiero (cfr. Ger 49,7; Bar 3,22s.; Gb 2,11; 15,18; Prv 30,1; 31,1). «in quel giorno»: formula profetica che introduce il giudizio del Signore (cfr. Is 27,1s.; Ger 39,16s.; Gio 4,1; Zc 14,9). «il monte di Esaù» è il massiccio centrale del territorio di Edom, chiamato Seir (cfr. Gn 36,7.9; Dt 2,5; Ez 35,15).

v. 9. Il fatto che i valorosi difensori del paese siano obbligati a rinunciare al combattimento, è la causa della deportazione e dello spopolamento della regione. «Teman» può indicare la città o la regione situata nella parte settentrionale di Edom; qui però sembra indicare tutto il paese (cfr. Ger 49,7.20; Am 1,12; Ab 3,3).

v. 10. Edom è colpevole del più efferato crimine, quello del fratricidio. «Giacobbe tuo fratello» indica qui Israele, il popolo discendente da Giacobbe e perciò appartenente alla stessa stirpe di Esaù (cfr. Gn 25,22-28; 35,9s.). Più particolarmente il termine designa il paese di Giuda, contro il quale si esercitò la violenza di Edom (cfr. v. 18; Gl 4,19). La «vergogna» è una specie di potenza mortale che paralizza completamente l'uomo e che perciò equivale alla morte.

v. 11. Quando Gerusalemme fu distrutta dai Babilonesi, Edom, anziché prestare aiuto, si tenne in disparte e partecipò al saccheggio della città (cfr. Lam 4,22; Ez 35,5.12; 25,12; Sal 137,7). «entrare per le porte» significa riportare vittoria. Si «gettavano le sorti» per distribuire i beni materiali degli abitanti vinti e sottomessi (cfr. Gl 4,3; Na 3,10).

Ammonimento profetico 12-14 Il profeta si trasporta col pensiero al momento dell'occupazione di Gerusalemme da parte dei Babilonesi e con una finzione letteraria invita Edom ad astenersi da tutte le violenze che ha commesso. Mediante otto imperativi negativi, che mettono in luce la gioia maligna di Edom (v. 12), la sua avidità (v. 13) e crudeltà (v. 14), vengono esposte in un impressionante crescendo le colpe, che si sarebbero dovute evitare. Per otto volte viene ripetuta la frase «il giorno di tuo fratello», «della sventura», «della rovina», «dell'angoscia», alludendo al momento della distruzione di Gerusalemme e del tempio del Signore.

v. 12. «Spalancare la bocca» significa pronunciare frizzi e parole ironiche all'indirizzo della città distrutta (cfr. Ez 15,13; Sal 35,21; 81,11; Is 57,4).

v. 13. La «soglia del mio popolo» è Gerusalemme, la capitale del popolo di Dio.

v. 14. Si allude al fatto increscioso che gli Edomiti consegnarono all'esercito babilonese i fuggiaschi israeliti di Gerusalemme che si erano rifugiati nel loro territorio.

IL GIORNO DEL SIGNORE 15-18 Il castigo finale di Edom è incluso nel giudizio che Dio porterà sulle nazioni (v. 15a). In modo ideale e immaginario il Signore annuncia agli Israeliti che tutti i loro nemici saranno sconfitti (v. 16); Sion oppressa diventerà il luogo della salvezza e il potere passerà nelle sue mani (v. 17), mentre Edom sarà distrutto per sempre (v. 18), Lo stile è laborioso e il pensiero assume dei toni apocalittici.

v. 15a. «il giorno del Signore» è il momento della grande rivelazione di Dio, che fa giustizia nel mondo inaugurando il suo regno (cfr, Am 5,18; Gl 1,5; 2,1s; Sof 1,14ss; Ger 25,15; Ml 3,17).

v. 15b. La legge del taglione viene applicata a Edom come a Babilonia (cfr. Ger 50, 15.29; Gio 4,4.7) e ai nemici di Gerusalemme (cfr. Lam 3,64; Gl 4,4.7). La severa punizione di Edom si giustifica con ragioni giuridiche e teologiche.

v. 16. «avete bevuto», si sottintende: la coppa della sofferenza (cfr. Ger 25,15.27s.,49,12; Ez 23,31-34, Ab 2,16; Sal 60,5; 75,9). Tutti i nemici di Israele saranno annientati in modo così radicale, che scomparirà anche il loro ricordo.

v. 17. La salvezza è destinata ai superstiti di Israele, cioè ai membri del popolo eletto, sopravvissuti alla catastrofe (cfr. Gl 3,5). Non sono esclusi i pagani che prodigiosamente sfuggono al massacro, «la casa di Giacobbe» indica tutto il paese di Giuda, i cui abitanti conquisteranno le regioni appartenenti alle nazioni nemiche. Il «monte Sion» diventa di nuovo il luogo della dimora del Signore, in cui si pratica il culto legittimo (cfr. Gl 4,18-21).

v. 18. «La casa di Giacobbe» designa il territorio di Giuda nel quale sorge il monte Sion, mentre «la casa di Giuseppe» indica il regno del Nord (cfr. Gl 4,19; Am 5,6; Zc 10,6). I due regni riuniti nell'epoca finale provocheranno la rovina totale e assoluta di Edom. Le immagini del fuoco, della fiamma e della paglia vengono usate per descrivere una sconfitta militare e specialmente la distruzione degli empi (cfr. Es 11,13-16; Os 2,2; Ger 31,18; Ez 37,15-22).

CONQUISTE DI ISRAELE 19-21 Questi vv. in prosa, probabilmente aggiunti al libretto di Abdia, suppongono il ritorno degli esuli da Babilonia e presentano il programma di conquiste territoriali compiute dagli abitanti dei distretti giudaici in tutte le direzioni (vv. 19-20). L'ultimo v. presenta con linguaggio liturgico il regno universale di Dio (v. 21). Il testo presenta delle difficoltà testuali e l'interpretazione è controversa.

v. 19. Il «Negheb», situato a sud della Palestina, è il territorio che confina con Edom. La «Sefela» abbraccia la zona pianeggiante situata tra il Mediterraneo e la montagna. Il «territorio di Efraim e di Samaria» comprende la parte centrale e montagnosa del paese. Il «Galaad» si trova in Transgiordania. Le conquiste si fanno in direzione dei quattro punti cardinali (cfr. Gn 28,14), a partire dalle regioni meridionali per concludere con quelle settentrionali.

v. 20. «Canaan» indica la regione fenicia. «Zarefta» si trova nella Fenicia sulla costa del Mediterraneo (cfr. 1Re 1,8ss.) a sud di Sidone. «Sefarad» è probabilmente Sardi, città della Licia in Asia Minore. Questo nome ha dato origine al termine «Sefardim», che indica gli Ebrei di Spagna e dell'Africa settentrionale.

v. 21. Tutti coloro che soffrirono da parte di Edom e ora proclamano la sua caduta, e quindi la sua servile condizione di vassallaggio, salgono in processione al monte Sion, dal quale reggono il paese occupato (ctr. Sal 2,10; 72,1s.) in nome del Signore, re dell'universo. L'ultimo stico rappresenta il tipico grido di trionfo dell'escatologia giudaica (cfr. Sal 22,29; 103,19; 145,11ss.).

(cf. STEFANO VIRGULIN, Abdia – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La quinta visione 1Vidi il Signore che stava sopra l’altare e diceva: «Colpisci con forza i capitelli e siano scossi gli architravi, falli cadere sulla testa di tutti e io ucciderò il resto con la spada; nessuno di loro riuscirà a fuggire, nessuno di loro scamperà. 2Anche se si rifugiassero negli inferi, di là li prenderà la mia mano; se salissero al cielo, di là li tirerò giù; 3se si nascondessero in cima al Carmelo, là li scoverò e li prenderò; se si occultassero al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; 4se andassero in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli. Io volgerò il mio sguardo su di loro in male e non in bene».

Terza dossologia 5Il Signore, Dio degli eserciti, colpisce la terra ed essa vacilla e sono in lutto tutti i suoi abitanti; essa si solleva tutta come il Nilo e si abbassa come il Nilo d’Egitto. 6Egli costruisce nei cieli il suo palazzo e fonda la sua volta sulla terra; egli chiama a raccolta le acque del mare e le riversa sulla terra. Signore è il suo nome.

Elezione e giudizio 7«Non siete voi per me come gli Etiopi, figli d’Israele? Oracolo del Signore. Non sono io che ho fatto uscire Israele dal paese d’Egitto, i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir? 8Ecco, lo sguardo del Signore Dio è rivolto contro il regno peccatore: io lo sterminerò dalla terra, ma non sterminerò del tutto la casa di Giacobbe. Oracolo del Signore. 9Ecco, infatti, io darò ordini e scuoterò, fra tutti i popoli, la casa d’Israele come si scuote il setaccio e non cade un sassolino per terra. 10Di spada periranno tutti i peccatori del mio popolo, essi che dicevano: “Non si avvicinerà, non giungerà fino a noi la sventura”.

La salvezza futura 11In quel giorno rialzerò la capanna di Davide, che è cadente; ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai tempi antichi, 12perché conquistino il resto di Edom e tutte le nazioni sulle quali è stato invocato il mio nome. Oracolo del Signore, che farà tutto questo. 13Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – in cui chi ara s’incontrerà con chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme; i monti stilleranno il vino nuovo e le colline si scioglieranno. 14Muterò le sorti del mio popolo Israele, ricostruiranno le città devastate e vi abiteranno, pianteranno vigne e ne berranno il vino, coltiveranno giardini e ne mangeranno il frutto. 15Li pianterò nella loro terra e non saranno mai divelti da quel suolo che io ho dato loro», dice il Signore, tuo Dio.

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Approfondimenti

La quinta visione 9,1-4 9, 1-4. A un comando rivolto al profeta (v. 1) segue una dichiarazione di JHWH stilizzata in cinque condizioni completate con sette verbi di azione divina, che sottolineano il disastro generale cui nessuno può sottrarsi (vv. 1b-4). Il testo sembra alterato, ma il senso della visione non ammette dubbi.

V. 1. L'altare non è localizzato, ma probabilmente si tratta del santuario di Betel. JHWH appare sopra l'altare, probabilmente in mezzo al fumo degli olocausti (cfr. Gdc 13,19s.). I capitelli della colonna alludono a un'area sacra in cui è radunato il popolo. Il tempio crolla uccidendo i presenti; gli altri sono vittime della guerra.

v. 2. Le immagini riferite nei vv. 2-4 sembrano derivate dalla tradizione sapienziale, che insiste sull'onnipresenza e onnipotenza divine (cfr. Ger 23,23s.; Sal 139,7-12); «gli inferi» sono il soggiorno dei morti situato sotto terra (Is 5,14; 14,9ss.; 1Sam 18,11-14).

v. 3. Dio può intervenire nei luoghi più impervi per scovare i fuggitivi e condurli davanti al suo tribunale; «la vetta del Carmelo» era coperta di foreste e fornita di grotte; «il serpente» personifica la potenza ostile del mare (cfr. Is 27,1; Gb 26,13), che qui obbedisce docilmente agli ordini del Signore.

v. 4. La personificazione della «spada» è una spietata raffigurazione del castigo, presentato sotto la figura di una guerra atroce. Nella quinta visione Dio appare come un guerriero vittorioso munito di spada, che annienta il suo popolo (Am 4,10; 7,9; 9,1; Ger 47,6s.). In questa campagna non viene risparmiato nemmeno il tempio, che cade in frantumi. Ogni scampo viene escluso, perché il Signore va a scovare i rifugiati in ogni angolo del cielo, delle montagne e degli inferi. Egli è presente dappertutto, essendo non solamente il Dio dei popoli e della storia, ma anche il Dio degli spazi cosmici.

Terza dossologia 9,5-6 Questa strofa di inno (cfr. 4,12-13; 5,8-9), che sembra fuori contesto, esalta il potere cosmico di Dio; si riscontra un certo nesso con i versetti precedenti della quinta visione (vv. 2-4).

v. 5. Dio si manifesta con tratti catastrofici: terremoti, lampi, moria (ctr. Mic 1,3-4; Ez. 38,19-20; Sal 18,15-16; 144,5).

v. 6. Questo stesso Dio è l'architetto del suo palazzo, che si trova nel cielo (Sal 104,3.13; Gb 22,14). Il firmamento è concepito come una volta che riposa sulle estremità della terra (Gb 22,14; Prv 8,27).

Elezione e giudizio 9,7-10 A un oracolo polemico riguardante l'elezione di Israele (v. 7) fa seguito una gravissima minaccia di sterminio del regno colpevole (v. 8), che però non sarà totale, ma raggiungerà solamente i peccatori (vv. 9-10). Alcuni studiosi considerano come tardivi questi vv. a causa del loro contenuto particolare.

v. 7. Mediante due domande retoriche il profeta demolisce l'orgogliosa sicurezza di Israele fondata sulla elezione divina; «gli Etiopi», lett. «Cusciti», sono un popolo camita rinomato per le sue leggendarie ricchezze (cfr. Gn 10,6; Is 20,3; 43,3; Ez 30,4). È un popolo lontano, estraneo all'alleanza. L'oracolo afferma che davanti a JHWH Israele non ha maggiori meriti del popolo più straniero della terra. Dio dirige la storia anche degli altri popoli: ha fatto migrare i Filistei da Creta («Caftor») e i Siriani (Aramei) dalla Mesopotamia; «Kir» si identifica con Ur (cfr. Dt 2,23; Gn 47,4; 2Re 16,9). Mediante audaci paragoni si afferma che Israele non è l'unico beneficiario dell'azione divina, perciò non deve inorgoglirsi della sua condizione di popolo dell'alleanza (2,9ss.; 3,2; 7,8.15).

v. 8. Il v. non ha un nesso diretto con il contesto. La prima parte, che sottolinea il castigo, conclude bene l'insegnamento delle ultime tre visioni. La seconda parte contiene l'annuncio della salvezza di un resto (cfr. 5, 15).

v. 9. Versetto ambiguo che può contenere una minaccia o una promessa; «il setaccio» può essere quello del muratore che vuole ottenere della sabbia (Sir 27,4) o quello del mugnaio. Generalmente è un'immagine tradizionale del giudizio (Is 30,28). Ma si potrebbe intendere anche della separazione dei pii dagli infedeli in Israele. La condanna sarebbe ristretta a un gruppo particolare di Israeliti. Malgrado le minacce oratorie di distruzione totale (2,13-16; 5,16s.27; 7,8s.; 8,1-3.14; 9,1-4), Amos intravede la salvezza di una parte di Israele (3,12; 5,3.15).

v. 10. La condanna concerne solamente coloro che speravano di sfuggire alla disgrazia, non prestando fede alla predicazione di Amos. La pericope sottolinea due attributi divini: JHWH è il Dio di tutti i popoli, non solamente di Israele (cfr. 1,2-2,16); egli non coinvolge tutti indistintamente nel giudizio e nella condanna, ma solamente i peccatori, mentre è propizio a coloro che ascoltano la sua parola annunciata dal profeta.

La salvezza futura 9,11-15 Questo brano finale, diverso dagli altri per forma, contenuto e genere letterario e datato probabilmente dall'epoca dell'esilio, contiene la promessa della restaurazione del regno davidico (vv. 11-12), l'assicurazione di una prosperità paradisiaca (vv. 13-14) e la conferma del possesso definitivo della patria ritrovata (v. 15). La proclamazione del disastro è incorporata in Amos nella proclamazione della salvezza escatologica.

v. 11. «In quel giorno»; termine vago e solenne che si riferisce al futuro; «la capanna di Davide» è il regno davidico nella sua unità, comprendente Israele e Giuda e la dominazione sui paesi vicini. Ora questo regno è sparito sotto i colpi dei nemici ed è ridotto a uno stato lamentevole paragonabile a una capanna crollata. Viene annunciata la sua ricomposizione come agli inizi (cfr. Mic 7,14; Is 51,9; Ml 3,4).

v. 12. Edom è citato (quale nemico acerrimo di Israele (cfr. 1,11; Abd 9s.). Saranno riconquistati i paesi sottomessi da Davide; la storia è concepita come una ripetizione del passato. Dio aveva segnato col suo nome, cioè aveva preso possesso e garantito la proprietà delle nazioni vicine di Israele sottomesse al dominio di Davide (cfr. 2Sam 12,28). I v. 11s. sono citati in modo accomodatizio in At 15,16s.

v. 13. Immagini di straordinaria fecondità dei lavori agricoli. Il suolo è prodigiosamente fertile, venendo sospeso il ritmo periodico della vegetazione. I monti e le colline subiscono una meravigliosa trasformazione (cfr. Sal 27,16; 65,13). Al lavoro umano viene tolta la condanna seguita al peccato primordiale (Gn 3,19). Queste immagini, probabilmente tradizionali, si uniranno ad altre nella letteratura profetica (Os 2,20.23ss.; Is 11,6-9; 30,25; Gl 4,18) e assumeranno un fantastico sviluppo nelle apocalissi giudaiche.

vv. 14-15. Il ritorno dall'esilio è accompagnato dalle immagini relative alla pace e alla felicità (Os 14,8; Is 65,21s.; Ger 31,5). Israele è paragonato a una pianta, che non sarà più sradicata dalla Palestina (Os 2,25; Ger 24,6; 32,41; 42,10; 45,4). Ci sarà una nuova alleanza, evocata con le espressioni «mio popolo» (v. 14) e «tuo Dio» (v. 15).

(cf. STEFANO VIRGULIN, Amos – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La quarta visione 1Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: era un canestro di frutta matura. 2Egli domandò: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un canestro di frutta matura». Il Signore mi disse: «È maturata la fine per il mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. 3In quel giorno i canti del tempio diventeranno lamenti. Oracolo del Signore Dio. Numerosi i cadaveri, gettati dovunque. Silenzio!

Oracolo contro gli sfruttatori 4Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, 5voi che dite: “Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false, 6per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano”». 7Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere. 8Non trema forse per questo la terra, sono in lutto tutti i suoi abitanti, si solleva tutta come il Nilo, si agita e si abbassa come il Nilo d’Egitto? 9In quel giorno – oracolo del Signore Dio – farò tramontare il sole a mezzogiorno e oscurerò la terra in pieno giorno! 10Cambierò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento: farò vestire ad ogni fianco il sacco, farò radere tutte le teste: ne farò come un lutto per un figlio unico e la sua fine sarà come un giorno d’amarezza. 11Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore». 12Allora andranno errando da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signore, ma non la troveranno. 13In quel giorno verranno meno per la sete le belle fanciulle e i giovani. 14Quelli che giurano per il peccato di Samaria e dicono: «Viva il tuo Dio, Dan!», oppure: «Viva la via sacra per Bersabea!», cadranno senza più rialzarsi!

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Approfondimenti

La quarta visione 8,1-3 Per la forma e la sentenza finale (v. 3), che sembra un'aggiunta, il brano è simile a quello della terza visione. Si annuncia in modo simbolico il tempo maturo per il giudizio.

v. 1. La visione non sfrutta il senso simbolico degli oggetti, ma gioca su un'assonanza verbale; «canestro di frutta matura»: lett. «un canestro d'estate». Accostando le parole qāîs (estate e frutta d'estate) e qēs (fine), il Signore dimostra la gravità della situazione del popolo, giunto alla consumazione.

v. 2. «È maturata»: viene usato il perfetto profetico, che sta per il futuro.

v. 3. Il tempio potrebbe designare il santuario di Betel (cfr. 5,5.21). Il numero dei morti rende impossibile il seppellimento e i cadaveri imbrattano tutto il paese. Davanti a questo spettacolo si rimane attoniti e senza parole.

Oracolo contro gli sfruttatori 8,4-14 Unità redazionale comprendente rimproveri e minacce contro i rapaci mercanti (vv. 4-8), la descrizione del «giorno del Signore» (vv. 9-10), della fame della parola di Dio (vv. 11-12) e l'annuncio della rovina degli apostati (vv. 13-14). Diversi temi sono ripresi dai capitoli precedenti e alcuni oracoli sono introdotti con la formula «in quel giorno» (vv. 9.13) o «verranno giorni» (v. 11).

8,4-8. Lunga interpellazione, nella quale vengono citate le parole degli sfruttatori (vv. 4-6), seguita da una solenne decisione di JHWH (v. 7) e da una conclusione del profeta che riporta probabilmente alcune righe di un inno sconosciuto (v. 8).

v. 4. Per l'ultima volta l'oracolo comincia con «ascoltate» (cfr. 3,1.13; 4,1; 5,1). I commercianti sono accusati di truffa, usura e disonestà; «gli umili del paese» sono i più ridotti alla miseria dai soprusi dei ricchi.

v. 5. Il novilunio e il sabato imponevano la sospensione delle attività lucrative, il che per i commercianti era una insopportabile restrizione (cfr. Os 2,13; Is 1,13s.; 1Sam 20,5.24; Lv 23,24); «le misure»: lett. «efa», equivalente a 38 litri (cfr. Gn 18,6; Es 16,36; «siclo», una unità che serve a pesare i lingotti di moneta (cfr. 2Re 7,1).

v. 6. I trafficanti intendono ridurre il povero in schiavitù a causa di un debito insignificante.

v. 7. Terzo giuramento nel libro di Amos; «il vanto di Giacobbe» può indicare la fierezza del popolo (cfr. 6,8), o la maestà divina manifestatasi con le promesse fatte a Giacobbe (1Sam 15,29), o la terra santa (Sal 47,5). La formula del giuramento è ambigua.

v. 8. Probabile citazione di un inno che descrive le conseguenze di un terremoto (cfr. 9,5). Lo strano paragone poetico relativo alle crescite e regressi del Nilo sottolinea il carattere inesorabile del disastro che accompagnerà il giudizio.

vv. 9-10. L'oracolo, messo in bocca a JHWH e introdotto con una formula che diventerà tradizionale (v. 9), descrive con caratteri escatologici il «giorno del Signore». L'eclissi di sole (v. 9) che getta tutti nella paura (cfr. 5,18; Is 13,10; Gl 3,4; 4,15) è simbolo della morte. Il vestire di sacco, la rasatura generale (evidente iperbole) e la lamentazione delle piangenti (v. 10) sono tipiche manifestazioni di lutto (cfr. Gn 37,34; Ger 4,8; Am 5,16; 8,3). Il cordoglio per l'unigenito assume una particolare gravità, perché questa morte preannuncia l'estinzione della discendenza, il che è una somma disgrazia per l'Israelita (cfr. Ger 6,26; Zc 12,10). Questo v. è parzialmente citato in Tb 2,6.

8,11-12. Introdotto con una formula che diventerà tradizionale, l'oracolo annuncia come castigo una fame e sete spirituale generalizzate, che non si estingueranno, perché il profetismo verrà meno.

v. 11. Si suppone che la parola di Dio annunciata dai profeti sia necessaria al popolo come il nutrimento quotidiano. E la prima volta che nella letteratura profetica compare la minaccia della sparizione della profezia (cfr. Os 5,6; Mic 3,4; Ez 7,26; Ger 11,11; Prv 1,28).

v. 12. Il silenzio di Dio e della sua parola è il più terribile dei castighi (cfr. Dt 8,3; Ct 5,6). I due mari sono il Mar Morto e il Mediterraneo.

8,13-14. Descrizione generale del giudizio a causa dell'idolatria praticata nei santuari nazionali. Vengono citate le parole degli accusati (cfr. 8,4ss.). Il testo appare come una spiegazione tardiva di 5,2.

v. 13. Il binomio «belle fanciulle» e «giovani» indica la totalità della popolazione valida (cfr. Dt 32,25; Is 23,4; Ger 31,13; 51,22; Sal 148,12; Lam 1,18; 2,21). La sete è quella fisica e metaforica insieme (cfr. v. 12). Le formule di giuramento (v. 14) dimostrano la pratica del culto degli dei cananei nei diversi santuari; «il peccato di Samaria» può indicare la rappresentazione sacrilega di JHWH nel santuario di Betel (cfr. 1Re 12,29; Os 8,5s.) o un palo sacro rappresentante una divinità femminile (cfr. 1Re 16,33). A Dan si venerava il vitello sacro (cfr. 1Re 12,30); «il tuo diletto» sembra essere il titolo di una divinità del santuario patriarcale del Sud. Le varie divinità cananee sono designate con soprannomi o eufemismi.

(cf. STEFANO VIRGULIN, Amos – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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IL CICLO DELLE VISIONI

Le tre visioni del giudizio 1Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: quando cominciava a germogliare la seconda erba, quella che spunta dopo la falciatura per il re, egli formava uno sciame di cavallette. 2Quando quelle stavano per finire di divorare l’erba della regione, io dissi: «Signore Dio, perdona! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». 3Il Signore allora si ravvide: «Questo non avverrà», disse il Signore. 4Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore Dio chiamava a una lite per mezzo del fuoco che consumava il grande abisso e divorava la campagna. 5Io dissi: «Signore Dio, desisti! Come potrà resistere Giacobbe? È tanto piccolo». 6Il Signore allora si ravvide: «Neanche questo avverrà», disse il Signore Dio. 7Ecco ciò che mi fece vedere il Signore Dio: il Signore stava sopra un muro tirato a piombo e con un filo a piombo in mano. 8Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Amos?». Io risposi: «Un filo a piombo». Il Signore mi disse: «Io pongo un filo a piombo in mezzo al mio popolo, Israele; non gli perdonerò più. 9Saranno demolite le alture d’Isacco e saranno ridotti in rovina i santuari d’Israele, quando io mi leverò con la spada contro la casa di Geroboamo».

Amos e Amasia 10Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboamo, re d’Israele: «Amos congiura contro di te, in mezzo alla casa d’Israele; il paese non può sopportare le sue parole, 11poiché così dice Amos: “Di spada morirà Geroboamo, e Israele sarà condotto in esilio lontano dalla sua terra”». 12Amasia disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritirati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, 13ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». 14Amos rispose ad Amasia e disse: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. 15Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse: Va’, profetizza al mio popolo Israele. 16Ora ascolta la parola del Signore: Tu dici: “Non profetizzare contro Israele, non parlare contro la casa d’Isacco”. 17Ebbene, dice il Signore: “Tua moglie diventerà una prostituta nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà divisa con la corda in più proprietà; tu morirai in terra impura e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra”».

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Approfondimenti

IL CICLO DELLE VISIONI 7,1-9,10 La terza parte del libro comprende cinque visioni narrate da Amos in prosa e in prima persona, formanti un ciclo unitario. Le visioni sono disposte secondo un ordine progressivo; le prime quattro sono abbinate a causa di una certa rassomiglianza formale (vv. 1-9; 8,1-3: cavallette, siccità, guerra, frutti maturi), mentre la quinta si distacca dalle prime, essendo JHWH non l'autore, ma l'oggetto della visione (9,1-4). Tra le visioni sono intercalati una narrazione biografica (7,7-17), una dossologia (9,5-6) e alcuni oracoli che richiamano i cc. 3-6 (8,4-14; 9,7-10). Il tema comune delle visioni è la rivelazione del giudizio divino che pende su Israele. Viene così ripreso e sviluppato il tema dei cc. 3-6. Nelle prime due visioni Amos intercede per il popolo onde evitare il castigo (7,1-3.4-6); nelle altre due l'annuncio della calamità non può essere evitato (7,7-8; 8,1-3), mentre nella quinta il disastro appare nella sua tragica realizzazione (9,1-4). Non è possibile stabilire se le visioni ebbero luogo poco prima o dopo la vocazione profetica propriamente detta (cfr. 3,8; 7,15). Le prime tre precedono l'inizio dell'attività pubblica di Amos, poiché nei suoi oracoli non si fa mai menzione dell'intercessione profetica in favore del popolo.

Le tre visioni del giudizio 7,1-9 Le visioni delle cavallette, della siccità e del piombino presentano la stessa forma stilistica: descrizione della visione, in cui appare una figura, grido del profeta e decisione del Signore. E possibile che si tratti di apparizioni interne, che avvengono in sogno o in estasi, ma non si può escludere che si tratti anche di un fatto o di un oggetto appartenente alla vita corrente, che diventa segno di una realtà teologica nascosta. Le visioni rassomigliano alle azioni simboliche. Caratteristico è il modo immediato e concreto col quale JHWH agisce come protagonista e interlocutore.

v. 1. La formula introduttiva, autobiografica e identica per le prime quattro visioni (cfr. vv. 1.4.7; 8,1), insiste sull'origine divina del fatto. Il flagello delle cavallette è frequente in Oriente soprattutto sul finire della primavera (cfr. Gl 1). Il re aveva diritto al primo taglio dell'erba per i suoi cavalli (cfr. 1Re 5,6; 9,19; 10,26-29; 2Cr 1,14ss.); poi ognuno poteva pascolare il suo gregge. Un volo di cavallette in gennaio-febbraio significava la fame per il paese.

v. 2. Amos riconosce nel flagello il segno della collera divina e intercede per il popolo debole e piccolo rimettendosi completamente alla grazia di Dio. Il profeta, oltre ad annunciare la parola ispirata, ha la missione di intervenire presso Dio in favore del popolo (cfr. Nm 11,2; 21,7; Gdc 5,16ss.; Ger 14,7-12; 1Re 18,42). La domanda di perdono suppone il pentimento del popolo.

v. 3. Il pentimento di Dio (cfr. anche i vv. 6.8) – questo è il significato letterale del verbo ebraico tradotto dalla BC con «si impietosì» – è un antropopatismo che mette in rilievo il fatto che Dio è libero di sopprimere gli effetti del peccato, grazie alla sua misericordia, senza pertanto annullare la gravità della condanna (Gn 6,6; Es 32,14; Ger 18,8; Gl 2,13s.; Gio 3,9). Nei suoi disegni segreti ed eterni Dio ha incluso anche la libertà di perdonare (cfr. Ger 18,8). È indicativo il fatto che Dio si lascia commuovere dalla piccolezza dell'uomo, mentre punisce l'orgoglio e la presunzione (cfr. 6,8).

vv. 4-6. La seconda visione riguardante la siccità contiene dei motivi mitologici e tende verso l'allegoria. Il fuoco che dissecca il grande abisso, cioè l'oceano sotterraneo sul quale galleggia la terra (Ger 7,11; 44,25) e che è la riserva delle sorgenti e dei fiumi e poi si mette a disseccare anche la campagna, è una rappresentazione visiva della siccità provocata dal vento del deserto. Al v. 5 Amos chiede l'interruzione del flagello, non il perdono. La situazione si aggrava.

vv. 7-9. Il dialogo iniziato dal Signore spiega la visione del piombino che si conclude in forma di oracolo (v. 9). C'è un contrasto con le due visioni precedenti; Amos non interviene più, la pazienza di Dio è esaurita e inizia il tempo del giudizio.

v. 7. Il piombino potrebbe designare lo stagno, materiale molto ricercato per la preparazione delle armi, ovvero un termine tecnico che indica lo strumento che serve per la costruzione di un edificio o per misurare l'inclinazione di un muro che minaccia rovina, come nel nostro versetto (cfr. Is 28,17; 30,13; 34,11; Ez 13,10; Lam 2,8; 2Re 21,13).

v. 8. Il significato simbolico del piombino dimostra che è imminente il pericolo, poiché il risultato della perizia fatta da Dio sul popolo è negativo; oppure si può intendere come l'immediata distruzione di Israele dovuta allo strumento che Dio tiene in mano. Fuori metafora si annuncia l'invasione del paese da parte dell'Assiria.

v. 9. Oracolo che sembra indipendente dal contesto e annuncia la soppressione dei santuari e della casa regnante; «le alture di Isacco» sono i luoghi di culto che si trovavano generalmente sui colli (cfr. 1Re 14,23; 2Re 17,9-10; Ger 2,20; 3,6). Questo è l'unico testo in cui si parla direttamente della dinastia di Geroboamo. Né l'altare né il trono rappresentano una garanzia di salvezza di fronte al giudizio che viene.

In parecchi oracoli del profeta Amos, Dio appare come un giudice implacabile e un vendicatore che colpisce senza misericordia le trasgressioni della legge. Nelle prime due visioni del c. 7, invece, Dio è presentato come colui che si pente e che ritira le decisioni punitive già prese contro il suo popolo (cfr. Gn 6,6; Es 32,12; Ger 18,8.10). Si tratta di un antropomorfismo che mette in rilievo il fatto che i castighi sono sempre condizionali, che possono essere evitati, quando il popolo si converte, ovvero per la sola grazia divina. Dio si lascia commuovere dalla miseria e dalla piccolezza degli uomini e perdona passando sopra alle disastrose conseguenze del peccato. Vengono così armonizzati due aspetti della condotta divina che sembrano inconciliabili: la giustizia e la misericordia.

Amos e Amasia 7,10-17 Racconto biografico circostanziato dell'attività profetica di Amos, redatto in prosa da un testimone dell'evento, indipendente dal contesto. Il sacerdote Amasia denuncia Amos alla polizia reale (vv. 10-11); segue un dialogo tra Amasia (vv. 12-13) e Amos (vv. 14-17) con due dichiarazioni del profeta (vv. 11.16s.). Abbondano le antitesi, le ripetizioni e le allitterazioni; lo stile è conciso, talvolta lapidario; dominano gli interventi orali.

v. 10. Amasia, capo del clero addetto al santuario nazionale di Betel, è in stretto rapporto con l'amministrazione regia, essendo stato designato dal re a questo ufficio (cfr. 1Re 12,32). Il verbo «congiurare» allude ai colpi di stato cruenti, che periodicamente hanno infestato il regno del Nord (1Re 15,27; 16,9; 2Re 9,14), I profeti si erano immischiati in simili complotti e avevano fatto precipitare la crisi (Achia, Elia, Eliseo: 1Re 11,29ss.; 2Re 9). Amos è considerato come un nemico dello stato, del quale mette in pericolo la sicurezza.

v. 11. Le parole di Amos (cfr. v. 7,9) vengono interpretate in modo forzato. La morte di Geroboamo non è presentata come una punizione divina, ma come una semplice disgrazia. In questo modo Amasia misconosce il vero significato dell'oracolo di Amos dipingendo il profeta come un perturbatore politico, che bisogna sorvegliare e sopprimere. Sono taciuti gli aspetti più essenziali e religiosi della predicazione di Amos, come la denuncia dei peccati e l'invito alla conversione.

v. 12. Con stile incisivo e diretto, che proviene dall'autorità concessagli dal re, Amasia ordina ad Amos di lasciare il paese. Riconosce che Amos è un «veggente», cioè un profeta vero (cfr. 2Sam 24,11; 2Re 17,13, Is 29,10), che ha ricevuto delle visioni da parte di Dio (cfr. 1,1), perciò aveva il diritto di esercitare l'attività profetica e di mantenersi con i doni che gli venivano offerti dai fedeli che lo consultavano (cfr. 1Sam 9,6s.; 2Re 5,15ss.). Solamente che essendo nato in Giuda, non aveva il diritto di predicare nel regno del Nord. Il santuario nazionale non doveva servire da tribuna a un agitatore politico.

vv. 14-15. In modo categorico e preciso, mediante frasi brevi e antitesi incisive Amos risponde che il suo ministero a Betel non può essere contestato senza ledere i diritti assoluti di JHWH sul suo popolo. Il v. 14 è formato da tre brevi sentenze nominali, il cui verbo può essere inteso al presente o al passato. Nel primo caso «profeta» (in ebraico nabi) designa un professionista, che predica per interesse, e «figlio di profeta» è colui che appartiene alle confraternite profetiche, esistenti presso i santuari (cfr. 1Sam 10,10; 1Re 20,35; 2Re 2,3); negando queste qualifiche al presente e insistendo sul suo mestiere di pastore, Amos legittima il proprio intervento mediante l'ordine del Signore. Nel secondo caso Amos nega di aver svolto nel passato una funzione profetica o di aver aderito a un circolo profetico; per confermare ciò ricorda di essere stato pecoraio e raccoglitore di sicomori; è stato chiamato direttamente dal Signore e destinato al suo servizio. Doveva fare il profeta in Israele, cioè nel regno del Nord, perché anche questo popolo appartiene a Dio e non al re o al sacerdote. Per questo Amos non è un intruso nel territorio di Geroboamo.

vv. 16-17. Oracolo di fattura classica comprendente il motivo, la formula di introduzione e la sentenza. Il v. 16 riprende i termini del v. 11. Il castigo suppone l'occupazione nemica e la distruzione delle proprietà tra i conquistatori. La sorte di Amasia sarà la peggiore che possa toccare a un sacerdote; sarà privato della moglie, zimbello dei nemici, dei figli uccisi in guerra; perderà il suo patrimonio e sarà sepolto in terra straniera consacrata agli idoli (cfr. Os 9,2; Ez 4,16). La scomunica colpirà anche la sua morte, quasi una maledizione totale, che si avventa su di lui. Anche gli altri abitanti del paese saranno deportati.

Lo scontro tra Amasia e Amos a Betel è un testo capitale per comprendere la missione del profeta. Egli deriva la sua autorità unicamente da Dio che lo invia, per cui le autorità civili e religiose non hanno il diritto di opporsi alla sua predicazione. Il vero profeta è libero, non condizionato dalle circostanze politiche. La sua parola si identifica con la volontà di Dio. Come Amos, molti profeti dovranno affrontare le stesse contestazioni e subire gli stessi tentativi di soffocare la loro voce. I rapporti tra profezia e monarchia assunsero spesso nella storia d'Israele degli aspetti drammatici.

(cf. STEFANO VIRGULIN, Amos – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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La falsa sicurezza e l'esilio 1Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria! Questi notabili della prima tra le nazioni, ai quali si rivolge la casa d’Israele! 2Andate a vedere la città di Calne, da lì andate a Camat, la grande, e scendete a Gat dei Filistei: siete voi forse migliori di quei regni o il loro territorio è più grande del vostro? 3Voi credete di ritardare il giorno fatale e invece affrettate il regno della violenza. 4Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli cresciuti nella stalla. 5Canterellano al suono dell’arpa, come Davide improvvisano su strumenti musicali; 6bevono il vino in larghe coppe e si ungono con gli unguenti più raffinati, ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano. 7Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati e cesserà l’orgia dei dissoluti. 8Ha giurato il Signore Dio, per se stesso! Oracolo del Signore, Dio degli eserciti. «Detesto l’orgoglio di Giacobbe, odio i suoi palazzi, consegnerò al nemico la città e quanto contiene». 9Se sopravvivranno in una sola casa dieci uomini, anch’essi moriranno. 10Lo prenderà il suo parente e chi prepara il rogo, per portare via le ossa dalla casa; dirà a chi è in fondo alla casa: «C’è ancora qualcuno con te?». L’altro risponderà: «No». Ed egli dirà: «Silenzio!», perché non si pronunci il nome del Signore. 11Poiché ecco: il Signore comanda di fare a pezzi la casa grande, e quella piccola di ridurla in frantumi. 12Corrono forse i cavalli sulla roccia e si ara il mare con i buoi? Poiché voi cambiate il diritto in veleno e il frutto della giustizia in assenzio. 13Voi vi compiacete di Lodebàr dicendo: «Non abbiamo forse conquistato Karnàim con la nostra forza?». 14«Ora, ecco, io susciterò contro di voi, casa d’Israele – oracolo del Signore, Dio degli eserciti –, un popolo che vi opprimerà dall’ingresso di Camat fino al torrente dell’Araba».

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Approfondimenti

La falsa sicurezza e l'esilio 6,1-14 Il gruppo degli oracoli di questo capitolo fa parte della terza invettiva introdotta con la parola d'ordine «guai» (6,1). I vv. 1-7 contengono un esteso attacco contro la vita lussuriosa dei notabili di Samaria, seguito dall'annuncio del castigo (v. 7). La descrizione del lusso, delle gozzoviglie e dell'irresponsabilità della classe dirigente è unica nell'AT. Due altre invettive che svolgono il tema del peccato e della rovina, si leggono nei vv. 8-11.12-14. I frammenti letterari non sono bene coordinati e collegati tra loro, ad esempio nel v. 8 parla direttamente il Signore, mentre nel v. 11 si descrive il suo intervento.

v. 1. La minaccia è rivolta ai capi di Samaria e di Sion (forse Sion è un'aggiunta posteriore); «la prima delle nazioni» è una formula ironica, che suppone l'orgogliosa sicurezza dei capi del regno del Nord dopo le vittorie di Geroboamo II (cfr. 2Re 14,25). I Giudei del sud rendono omaggio, cercano consiglio e chiedono giustizia ai notabili del regno del Nord.

v. 2. Versetto difficile, considerato da alcuni autori come una glossa, perché le città menzionate furono distrutte dopo l'epoca di Amos; «Calne» si trova in Siria a nord di Aleppo e fu occupata dagli Assiri nel738 a.C.; «Camat», occupata nel 720 a.C. si trova sul fiume Oronte in Siria; «Gat», che sta per tutta la Filistea, fu presa dagli Assiri nel 711 a.C. Il versetto può essere interpretato in due sensi: come un'interpellazione rivolta ai capi di Samaria, che inquieti dovrebbero fare il paragone tra la loro capitale e le città una volta prospere ed ora distrutte, ovvero come una citazione delle considerazioni che i capi facevano ai loro visitatori; essi palesavano la propria sicurezza politica, poiché la situazione di Israele e di Giuda era più brillante di quella delle città della Siria e della Filistea e il loro territorio era più popolato.

v. 3. Gli illusi capi sono attaccati direttamente, sia perché dichiarano inesistente il pericolo dell'invasione assira, sia perché la scongiurano mediante un nuovo impulso dato al culto e ai banchetti sacri.

6,4-6. Brillante descrizione del lusso e dei bagordi dell'alta società: mobili intarsiati (cfr. 3,15), alto consumo di carne, impensabile in un'epoca di generale sottoalimentazione, una vita di ozio passata in conviti e orge.

v. 4. I letti incrostati di avorio furono trovati a Arslan Tash nel nord della Siria a est di Carchemis. Lo sdraiarsi sui divani era un'imitazione della moda straniera. Gli agnelli del gregge sono quelli che hanno la carne tenera, perché nutriti di solo latte (cfr. Ger 46,21).

v. 5. In modo ironico i canti improvvisati e gli strumenti musicali inventati sono paragonati a quelli di Davide, considerato come il cantore e il suonatore per eccellenza (cfr. 1Cr 23,5; Ne 12,36).

v. 6. Le grandi coppe servivano alle libazioni liturgiche (cfr. 1Re 7,40; 2Re 25,15; Zc 14,20) e l'uso degli unguenti era indice di festa (Is 61,3; Sal 23,5; Qo 9,8). «Giuseppe» sta per gli abitanti del regno del Nord (cfr. 5,6.15).

v. 7. Il castigo comporta l'esilio e la cessazione dei conviti.

6,8-14. La condanna viene affermata in maniera globale (v. 8), poi viene specificata mediante piccoli quadri a partire dall'immagine della peste (vv. 9-10b). Non vale invocare il nome di Dio (v. 10c), poiché la rovina è ineluttabile (v. 11). Due paragoni illustrano l'assurdità di certe azioni (v. 12). Viene ancora ripetuta l'accusa (v. 13) e la condanna (v. 14).

v. 8. Solenne formula di giuramento, per cui Dio assume un impegno assoluto ingaggiando il proprio onore personale (cfr. Ger 51,14; Ez 10,18); «l'orgoglio di Giacobbe» è l'autosufficienza degli abitanti, che comporta il disprezzo della legge del Signore; «la città» può indicare la capitale Samaria o l'insieme delle città del regno.

v. 9. Il testo presenta delle difficoltà, come anche quello del v. 10. Si suppone una moria generale provocata da una pestilenza. Se anche dieci persone cercano rifugio in una casa, periranno. La popolazione è quasi sterminata.

v. 10. Viene descritta una scena misteriosa e suggestiva. I fuggitivi ritornano in città per cercare gli eventuali sopravvissuti e prelevare i cadaveri; ma è invano che vengono rovistate fino in fondo le case. Il breve dialogo sottolinea che non c'è nessun sopravvissuto e che un silenzio di morte regna sulle macerie. La situazione è così grave che sarebbe vano invocare il nome di Dio, poiché è lui la causa della catastrofe. E questo uno dei passi più lugubri della profezia di Amos. La pazienza di Dio ha un limite, oltre il quale non c'è che distruzione e silenzio di morte; «chi prepara il rogo»: la frase potrebbe indicare anche il rito della cremazione, ritenuto come una profanazione in Israele (cfr. 1Sam 31,12).

v. 11. Si suppone un terremoto, che sconvolge le abitazioni.

v. 12. La piccola parabola della follia viene espressa con due interrogazioni retoriche di tenore sapienziale e riguardanti due paragoni tratti dall'esperienza popolare. Infatti i cavalli corrono sulla sabbia, non sulle rocce, e i buoi sono aggiogati per lavorare la terra, non le acque. Tale è l'assurdità e l'illogicità dell'amministrazione della giustizia trasformata in strumento di corruzione e di morte (cfr. 5,7ss.).

v. 13. Il versetto contiene una mordace accusa della forza militare; «Lo-de-bar» (= non c'è nulla) è una località della Transgiordania conquistata dal re Geroboamo II o da Ioas (cfr. 2Sam 9,4; 17,27; 2Re 13,25; 14,25), come anche «Karnaim» (le due corna). Il primo nome indica ciò che è derisorio in tale conquista, mentre il secondo sottolinea la potenza vittoriosa. Queste conquiste tendono a far nascere nella nazione sentimenti di orgoglio, che l'oracolo descrive citando le parole del popolo.

v. 14. L'occupazione assira si estenderà dalla città dell'Oronte («Camat») fino al sud del Mar Morto nella depressione giordanica.

(cf. STEFANO VIRGULIN, Amos – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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Lamentazione su Israele 1Ascoltate questa parola, questo lamento che io elevo su di voi, o casa d’Israele! 2È caduta, non si alzerà più, la vergine d’Israele; è stesa al suolo, nessuno la fa rialzare. 3Poiché così dice il Signore Dio: «La città che mandava in guerra mille uomini resterà con cento, e la città che ne mandava cento per la casa d’Israele, resterà con dieci».

La ricerca del Signore 4Poiché così dice il Signore alla casa d’Israele: «Cercate me e vivrete! 5Non cercate Betel, non andate a Gàlgala, non passate a Bersabea, perché Gàlgala andrà certo in esilio e Betel sarà ridotta al nulla». 6Cercate il Signore e vivrete, altrimenti egli, come un fuoco, brucerà la casa di Giuseppe, la divorerà e nessuno spegnerà Betel! 7Essi trasformano il diritto in assenzio e gettano a terra la giustizia.

Seconda dossologia 8Colui che ha fatto le Pleiadi e Orione, cambia il buio in chiarore del mattino e il giorno nell’oscurità della notte, colui che chiama a raccolta le acque del mare e le riversa sulla terra, Signore è il suo nome. 9Egli fa cadere la rovina sull’uomo potente e fa giungere la devastazione sulle fortezze.

Minacce ed esortazione 10Essi odiano chi fa giuste accuse in tribunale e detestano chi testimonia secondo verità. 11Poiché voi schiacciate l’indigente e gli estorcete una parte del grano, voi che avete costruito case in pietra squadrata, non le abiterete; voi che avete innalzato vigne deliziose, non ne berrete il vino. 12So infatti quanto numerosi sono i vostri misfatti, quanto enormi i vostri peccati. Essi sono ostili verso il giusto, prendono compensi illeciti e respingono i poveri nel tribunale. 13Perciò il prudente in questo tempo tacerà, perché sarà un tempo di calamità. 14Cercate il bene e non il male, se volete vivere, e solo così il Signore, Dio degli eserciti, sarà con voi, come voi dite. 15Odiate il male e amate il bene e ristabilite nei tribunali il diritto; forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe.

Il giorno del Signore 16Perciò così dice il Signore, Dio degli eserciti, il Signore: «In tutte le piazze vi sarà lamento, in tutte le strade si dirà: “Ohimè! ohimè!”. Si chiameranno i contadini a fare il lutto e quelli che conoscono la nenia a fare il lamento. 17In tutte le vigne vi sarà lamento, quando io passerò in mezzo a te», dice il Signore. 18Guai a coloro che attendono il giorno del Signore! Che cosa sarà per voi il giorno del Signore? Tenebre e non luce! 19Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; come quando entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde. 20Non sarà forse tenebra, non luce, il giorno del Signore? Oscurità, senza splendore alcuno?

Il culto autentico 21«Io detesto, respingo le vostre feste solenni e non gradisco le vostre riunioni sacre; 22anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco le vostre offerte, e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo. 23Lontano da me il frastuono dei vostri canti: il suono delle vostre arpe non posso sentirlo! 24Piuttosto come le acque scorra il diritto e la giustizia come un torrente perenne. 25Mi avete forse presentato sacrifici e offerte nel deserto per quarant’anni, o Israeliti? 26Voi avete innalzato Siccut come vostro re e Chiion come vostro idolo, e Stella come vostra divinità: tutte cose fatte da voi. 27Ora, io vi manderò in esilio al di là di Damasco», dice il Signore, il cui nome è Dio degli eserciti.

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Approfondimenti

Lamentazione su Israele 5,1-3 Ha inizio con questo brano una nuova collezione di detti, che comprende tutto il c. 5. Vi sono raccolti frammenti di vario contenuto, divisi in due serie di detti, di cui la prima è introdotta con la parola «ascoltate» (vv. 1-17) e la seconda con la parola «guai» (vv. 18-27). Vari sono i generi letterari utilizzati: lamentazione (vv. 1-3), oracolo di salvezza (vv. 4-6), minacce (vv. 7.10-12), esortazione (vv. 14-15), descrizione (vv. 18-20), istruzione (vv. 21-27).

I vv. 1-3 sono un appassionata elegia sulla rovina di Israele comprendente un'introduzione (v. 1), l'annuncio propriamente detto espresso con il perfetto profetico (v. 2) e la conferma divina (v. 3). È probabile che Amos abbia pronunciato queste parole durante una solenne celebrazione festiva in un santuario.

v. 2. Viene espresso in modo stilisticamente perfetto il dramma che colpirà Israele abbandonato, senza che nessuno gli venga in aiuto; «la vergine d'Israele»: è la prima volta nell'AT che la nazione israelitica viene presentata come una donna in giovane età che non ha conosciuto le gioie della vita coniugale, il che era considerato una duplice disgrazia. La stessa espressione sarà ripresa in Ger 18,13; 31,4.21. In altri passi la nazione è chiamata semplicemente «vergine» (Ger 18,13; 31,4.21), «figlia» (Is 1,8; 10,32).

  1. Versetto in prosa, in cui Dio annuncia la sparizione di Israele come popolo e come stato. Ciò che rimane dell'esercito è una realtà irrisoria. Il tema del resto acquista un significato negativo. La certezza della rovina, che è già motivo di lutto, dovrebbe indurre Israele a ritornare al suo Dio.

La ricerca del Signore 5,4-7 Accorata esortazione piuttosto inusuale in Amos, comprendente due agili ed eleganti strofette (vv. 4-5 e 6) sotto forma di torah sacerdotale; in essa viene formulato uno dei grandi ideali religiosi del profeta: la religione pura e interiore che è sorgente di vita. Il tema enunciato direttamente da JHWH (vv. 4s.) è concluso in terza persona con l'aggiunta di una minaccia (v. 6). Il v. 7 è un frammento apparentemente isolato, che tratta dei giudici iniqui, e probabilmente è connesso con il brano dei vv. 10-13. Questo passo mostra che il giudizio punitivo non è ineluttabile e rimane sempre la possibilità di sopravvivere.

v. 4. «Cercare il Signore» è un termine tecnico che indica la consultazione della volontà di Dio per mezzo della sorte o dell'interpretazione della legge data dai sacerdoti (cfr. Dt 12,5; Sal 24,6). In questo caso però a frase significa sforzarsi di conoscere e praticare la volontà di Dio, in patrticolare di esercitare la giustizia (cfr. Is 55,6; Sal 105,4; 1Cr 16,1); «vivere» indica sfuggire all'imminente castigo e godere la felicità che viene da Dio (cfr. Dt 30, 155.).

v. 5. La vera ricerca di Dio implica l'esclusione dei pellegrinaggi ai santuari nazioni, anche a, quello di Bersabea, che si trovava nel deserto del Negheb, in territorio giudaico, ed era connesso con la memoria dei patriarchi, soprattutto Isacco (Gn 21,21-34; 26, 23ss.). Ad esso accorrevano anche i pellegrini del regno del Nord. Alla fine del v. c'è un gioco di parole fondato sull'assonanza dei nomi simili a Galgala e sul contrasto tra «casa di Dio» (Betel) e «casa di iniquità» (Bet-Aven) (cfr. Os 4,15).

v. 6. Il profeta Amos commenta la parola di Dio aggiungendo una minaccia. Dio è identificato con il fuoco che divora il regno del Nord e i suoi santuari (cfr. Os 8,14; Is 10,17; Ger 4,4; 21,12).

v. 7. Degne di nota sono le due immagini poetiche: il «diritto» è cambiato in veleno, letteralmente «in assenzio», che è spesso simbolo della morte (cfr. Ger 9,14; 23,15; Prv 5,4; Lam 3,19) e la «giustizia», degna di sedere in trono come regina, è trattata come una schiava vilipesa (cfr. Is 47,1s.).

Seconda dossologia 5,8-9 L'inno non presenta un nesso logico con il contesto. Dio viene esaltato come creatore del mondo stellare e delle acque, come colui che dirige la storia e le sorti degli uomini.

v. 8. «le Pleiadi e Orione» sono due costellazioni particolarmente luminose, che si trovano associate in Is 13,10 e Gb 9,9; 38,31. Peraltro l'interpretazione dei relativi termini ebraici è incerta.

v. 9. Anche il testo di questo versetto non è sicuro, per cui è di difficile interpretazione; «le fortezze e le cittadelle» designano probabilmente i potenti che saranno castigati.

Minacce ed esortazione 5,10-15 Tre frammenti di oracoli riguardanti la giustizia amministrativa (vv. 10-12) e conclusi con una sentenza sapienziale (v. 13) sono seguiti da un brano esortatorio che sviluppa il tema della vera religiosità (vv. 14-15), ispirandosi ai vv. 4s. Probabilmente si suppone una disputa tra il profeta e il popolo, che riteneva Dio presente in mezzo ai suoi, a giudicare dalla florida situazione materiale della società.

v. 10. «la porta» è la piazza situata all'entrata della città, dove veniva amministrata la giustizia. Il giudice retto e il testo verace sono fatti bersaglio dell'odio degli iniqui.

v. 11. Viene denunciata l'estorsione praticata dai proprietari delle terre, che sottraggono ai fittavoli i prodotti agricoli necessari alla sussistenza; «la pietra squadrata» era il costoso materiale con il quale si costruivano templi e palazzi reali (cfr. 1Re 5,31; 6,36; 7,9.11s.).

v. 13. Il versetto è una conclusione fatta dal profeta, relativa all'accusa contenuta nel versetto precedente. Il silenzio è provocato dall'attesa del castigo.

v. 15. I verbi «odiare» e «amare» sottolineano la profonda conformazione del pensiero e del sentimento alla condotta morale. Del regno del Nord colpevole e impenitente sopravvivrà un modesto numero di fedeli, dopo i castighi già inflitti (4,6-11) o che verranno inflitti da Dio (5,3). È la prima volta nei libri profetici che si parla del «resto», partecipe della salvezza. Si tratta però di un'eventualità che dipende dalla libera volontà di Dio, non di una certezza, come si afferma nella profezia di Isaia.

I vv. 5, 4-7 e 14-15 contengono un'elevata dottrina morale e religiosa. La ricerca di JHWH identificata con il ripudio del culto sincretistico praticato nei santuari e con l'osservanza dei precetti del Signore viene immedesimata con l'amore del bene e l'odio del male, cioè con una condotta moralmente retta, la cui principale espressione è la pratica della giustizia nei tribunali. Questa è solamente un aspetto della giustizia sociale, sulla quale insiste il profeta (cfr. 2,6ss.; 4,1; 5,7.12; 8,4-8). Non si tratta solamente di non commettere il male, ma di rigettarlo e aborrirlo, e di desiderare e prediligere il bene. La conseguenza della ricerca di Dio è il possesso della «vita». Il senso immediato della vita è forse la sopravvivenza del popolo di fronte alla catastrofe politica che sembra imminente. Però la promessa della vita è commentata da due formule di contenuto spirituale. In 5,14b si garantisce l'attiva presenza di JHWH in mezzo ai suoi, secondo il principio dell'alleanza (cfr. Gs 1,17; Nm 14,43; 23,21; Dt 2,7; 20,4; 31,6ss.; 1Re 8,57; Is 7,14; 8,8.10). In 5,15 la promessa riveste la forma dubitativa della manifestazione della misericordia divina; si vuole sottolineare che il Dio dell'alleanza decide da solo, se crede, di fare grazia a una parte del popolo.

Il giorno del Signore 5,16-20 Supposto anticipatamente l'esecuzione del giudizio con le sue terribili conseguenze, viene elevato un canto funebre che riguarda gli agricoltori e i vignaiuoli (vv. 16s.). Segue, introdotto con un «guai», il celebre brano concernente il giorno del Signore, interpretato in senso negativo, in quanto si identifica con il castigo di Dio eseguito secondo giustizia (vv. 18ss.)

v. 16. «Ah! ah!» è un elemento tipico dell'elegia funebre. Il disastro è tale che non basterà la popolazione del paese per fare il cordoglio (8,10; Ger 9,9-20).

v. 17. Il passaggio del Signore richiama alla mente la decima piaga dell'Egitto (Es 12,12.23), però la natura di questo transito punitivo rimane nel vago.

v. 18. Il verbo «attendere» indica talvolta un desiderio vano (cfr. Prv 13,4.21.26; Qo 6,2) e disordinato (Dt 5,21; 2Sam 23,15; 1Cr 11,17; Ger 17,16); il «giorno del Signore» è il tempo in cui Dio manifesta la sua potenza salvifica o punitiva. Il profeta respinge implicitamente come illusoria, l'attesa di un intervento divino incondizionato a favore di Israele; «tenebre» è sinonimo di rovina, mentre «luce» indica salvezza e gioia.

v. 19. Le immagini dei tre animali (leone, orso e serpente) illustrano la vera indole del «giorno del Signore», che comporta una situazione senza sbocco dovuta all'inevitabilità del giudizio (cfr. 2,13-16; 3,14; 9,1-4).

v. 20. L'interrogazione retorica fa inclusione con il v. 18, che viene ripreso e ampliato.

Il culto autentico 5,21-27 Questo brano, che rappresenta un tutto omogeneo nello stile di un insegnamento sacerdotale o profetico, è introdotto senza formula. Contiene una violenta requisitoria contro il culto formalistico (vv. 21s.), un'esortazione (vv. 23s.), una duplice domanda retorica (vv. 25s.) e una sentenza di condanna (v. 27). In forma polemica viene espresso il pensiero di Dio sulla vita cultuale del popolo eletto.

v. 21. «non gradisco»: lett. «non posso respirare»; è un'allusione all'antica credenza mitica, secondo la quale gli dei fiutavano l'odore dei sacrifici (cfr. Gn 8,21; Es 29,41; 30,38). Dio aborrisce le cerimonie liturgiche delle grandi feste, che comportavano processioni e danze (cfr. 8,10; 1Re 12,32s.; Gdc 21,19).

v. 22. I tre tipi di sacrifici menzionati olocausti (Gn 22,3; Lv), doni, cioè varie offerte di cereali (Gs 1,13; 1Sam 2,17) e i sacrifici di comunione (Lv 3; Is 24,5) comprendono tutto il sistema sacrificale israelitico.

v. 23. Dio rigetta anche le preghiere e i canti, considerati come un volgare fracasso (cfr. 1Sam 4,14).

v. 24. Bella esortazione pratica che sottolinea la necessità di rispondere alle esigenze della solidarietà sociale (= diritto, giustizia) che regolano il regime dell'alleanza, invece di praticare un culto lussuoso e formalistico.

v. 25. I vv. 25s. presentano delle difficoltà testuali e non è escluso che siano delle addizioni posteriori. Il significato del v. 25 è discusso. Probabilmente si afferma che durante i 40 anni di permanenza nel deserto del Sinai, Israele era completamente dipendente dai doni che Dio gli procurava, non avendo nulla da offrirgli. Non si asserisce che il culto nel deserto era esonerato da ogni sacrificio, ma che era semplice e sincero in contrasto con i sontuosi riti del momento.

v. 26. Alcuni autori spiegano il versetto in senso rituale facendo riferimento alle processioni con gli oggetti sacri, al baldacchino, al marciapiede, simboli del trono regale di JHWH; altri studiosi interpretano «Siccut» e «Chion» come nomi di divinità assire. Il culto di Israele verrebbe ironicamente identificato con quello dei pagani.

v. 27. Il luogo della deportazione è indicato in modo vago, però è sottintesa l'Assiria.

(cf. STEFANO VIRGULIN, Amos – in: La Bibbia Piemme, Casale Monferrato, 1995)


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