Transit

Il blog di Alessandra Corubolo e Daniele Mattioli (on-line, in varie forme, dal 2005.)

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(AI)

Intro. Più passano i giorni, più gli #USA e #Trump nicchiano, più le cose si ingarbugliano, più appare chiaro che l’attacco di Israele all’Iran ha solo nominalmente lo scopo di distruggere una ipotetica potenza nucleare. E’ tutt’altro. E, sicuramente, non sarà questa guerra a distruggere un regime teocratico sanguinario e opprimente. Anzi, forse riuscirà a renderlo più determinato nella sua opera di annichilimento dei diritti civili ed umani. Tutte cose che a #Netanyahu non interessano. A lui serve la poltrona e serve il sangue dei mussulmani, che si sa che a Occidente plaudono a chi si fa carico, finalmente, di queste cose (chissà le risate di Powell…).

Il recente attacco israeliano all’Iran – definito “Operation Rising Lion” – non può essere interpretato come un’operazione umanitaria finalizzata alla liberazione degli iraniani da un regime inumano, bensì come una mossa strategica di Benjamin Netanyahu per ampliare l’influenza e lo spazio geopolitico di Israele nella regione. Numerosi analisti evidenziano come l’obiettivo di Tel Aviv non sia la democratizzazione dell’Iran, ma piuttosto una forma di espansionismo politico-militare. Il “Financial Times” ha chiarito che, pur annichilendo elementi dell’apparato militare iraniano, l’azione di Israele non compromette il regime in sé, che acquisisce semmai una narrazione di resistenza e legittimità interna. In un articolo comparso su The Guardian, si sottolinea che l’offensiva “crudele ma strategica” può al contrario rafforzare l’unità nazionale iraniana e consolidare la leadership, invece di disgregarla.

Ma è l’analisi geopolitica a offrire chiavi interpretative più nette: secondo l’ISPI, l’operazione fornisce a Netanyahu strumenti politici interni ed esterni per consolidare il consenso e sfruttare la narrativa della sicurezza nazionale. In una analisi dell’Habtoor Research Centre, si legge che Tel Aviv ha orchestrato l’attenzione dei media e dei governi occidentali per ottenere sostegno diplomatico e militare, mentre la minaccia iraniana serve a distogliere l’attenzione dalle criticità domestiche.

“New Yorker” fa notare come l’attacco non sia frutto di un’escalation incontrollata: Netanyahu lo avrebbe voluto da tempo, per perseguire ambizioni ben precise, agendo appena Washington è apparsa debole o distratta. In realtà, mentre la narrazione ufficiale descrive queste operazioni come risposte a minacce imminenti – in particolare al rischio nucleare – molti commentatori ricordano come l’Iran non stesse effettivamente per ottenere la bomba, secondo agenzie internazionali quali AIEA e CIA, dando la misura del pretesto retorico usato da Tel Aviv.

(AI2)

Il rischio politico interno è lampante: fissando Netanyahu come “uomo della sicurezza”, le operazioni militari all’estero possono distogliere l’elettorato dai dossier interni e blindare la sua leadership qualora emergano scandali o critiche. Lo rivelano commentatori israeliani citati dal Guardian, che affermano come tali attacchi “frutto di un Netanyahu che capitalizza su un regime che sta perdendo legittimità e consenso”. Le prove emerse delineano un quadro nitido: l’operazione contro l’Iran non risponde all’urgente esigenza della popolazione iraniana, ma rappresenta per Netanyahu una straordinaria occasione politica di potenziamento internazionale e consolidamento interno. In gioco non vi è affatto un progetto di liberazione, bensì una manovra di influenza, territorio e consenso.

In conclusione. E se avesse delle fialette con del plutonio arricchito da scuotere, “Bibì” avrebbe finito il quadro.

#Blog #Israele #Iran #War #Medioriente #MiddleEast #Opinions #Geopolitica #Opinioni

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Tutte le opinioni qui riportate sono da considerarsi personali. Per eventuali problemi riscontrati con i testi, si prega di scrivere a: corubomatt@gmail.com

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(PF)

Nota: questo sarà un post noioso, ma, a volte, le aride cifre fotografano nitidamente le situazioni, anche quelle molto grandi, anche quelle che dentro hanno milioni di persone. D’altro canto sono certo che chiunque vorrà leggere queste righe sa comprendere benissimo numeri e percentuali. Altrimenti sarebbe un guaio.

Nel corso del 2024, l’Italia ha registrato un aggravamento significativo sia della #povertà assoluta sia di quella relativa, alla luce di dati ufficiali e referti della società civile. Secondo l’ultimo rapporto ISTAT e della “Caritas”, la quota di persone in condizione di povertà assoluta ha raggiunto il 9,7 %, pari a circa 5,6–5,7 milioni di individui, corrispondente a circa 2,2 milioni di famiglie. Lo stesso rapporto segnala come la povertà assoluta, benché stabile tra il 2022 e il 2023, risulti al livello più elevato dell’ultimo decennio, con una progressione costante dal 2014 (dal 6,9 % al 9,7 %) per quanto riguarda le persone.

Sul versante della povertà relativa, si evidenzia un ulteriore peggioramento: nel 2023 le famiglie colpite dal fenomeno superavano i 2,8 milioni (10,6 %) e le persone in difficoltà ammontavano a 8,4 milioni (14,5 %). Parallelamente, l’Eurostat stima che nel 2024 il 23,1 % degli italiani – circa 13,5 milioni – viva in condizioni di rischio di povertà o esclusione sociale, con aumenti particolarmente allarmanti per quanto riguarda i minori e le persone over 60.

A questi numeri drammatici si accompagna la crescita del fenomeno dei “Working poor”: in Italia il 21 % dei lavoratori percepisce un reddito insufficiente per condurre una vita dignitosa, con una situazione che colpisce in modo particolarmente intenso le classi operaie (tra le quali la povertà assoluta ha superato il 16,5 %) e i 35-54enni, oltre il 30 % dei quali non riesce a evitare uno stato di indigenza.

(PF2)

Tale contesto si dispiega in un quadro di politiche pubbliche inadeguate: le misure statali di contrasto alla povertà — dal “reddito di inclusione” alla spesa sociale — risultano insufficienti e, in molti casi, inefficaci. Nonostante il “Reddito di cittadinanza” abbia avuto un impatto importante, ben il 56 % delle persone povere non lo ha percepito, per cause che vanno dai problemi di residenza alla burocrazia. Le politiche di welfare restano lacunose e non affrontano adeguatamente la questione del “lavoro povero”, né investono in una rete di protezione robusta per le famiglie vulnerabili.

Questa fragilità sociale si inserisce in un contesto europeo che appare sempre più orientato verso la militarizzazione. Il “ReArm Europe – Readiness 2030”, lanciato a marzo 2025 dalla Commissione UE, punta a mobilitare fino a 800 miliardi di euro in spese per la difesa, tra aumenti delle spese nazionali, fondi comuni e prestiti SAFE da 150 miliardi, con la possibilità di dirottare risorse dai fondi di coesione e sostenibilità. Secondo le ultime stime, per colmare il gap militare si dovrebbe arrivare a investire fino al 5 % del PIL, una cifra che in Francia, Regno Unito e in molti altri Paesi corrisponde all’intero ammontare delle loro politiche di welfare e di protezione sociale. Analisti economici sottolineano che una simile quantità di risorse sarà sottratta a capitoli cruciali per combattere la povertà, rafforzare l’istruzione, la sanità e l’inclusione sociale, aumentando di conseguenza le disuguaglianze e l’emarginazione delle fasce più deboli.

La convergenza tra crisi del reddito, insufficienza delle politiche sociali e spinta europea verso spese militari aggressive aggrava la condizione dei più deboli. Se non si rivedono le priorità — affiancando politiche attive per il lavoro, la dignità universale del reddito e un welfare veramente inclusivo — il rischio è quello di lasciare milioni di cittadini italiani ed europei in una situazione di esclusione sempre più profonda.

Ma, forse, è proprio questo lo scopo ultimo di tutta questa sequela di mancanze, di tutti i soldi che non andranno ad aiutare le persone, soprattutto quelle povere, emarginate, fastidiose: la loro eliminazione. Se non fisica (almeno lo spero), almeno dalla vita pubblica, dalla società. Relegare coloro che non possono più permettersi la dignità sarebbe un ottimo viatico alla dittatura totale del liberismo, dell’effimero, del domani concesso solo a chi i soldi li ha e non viene disturbato da Governi sempre più distanti da una minima idea di democrazia. Se il futuro deve ancora essere scritto, non può diventare così. Non dovrebbe permetterlo nessuno, mai.

#Blog #Italia #ReArmEurope #UE #Società #Povertà #Society #Poverty #Opinioni #Opinions

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(168)

(IR)

Nota: Lo so, non è da me farla così lunga, ma in un mondo che impazzisce forse un pochino di squilibrio ce lo metto anche io. La verità è che la #Pace è davvero impossibile. Almeno così sembra. Il che rende, fondamentalmente, questo uno sfogo. Ci vuole pazienza.

La notte tra il 12 e il 13 giugno 2025 ha visto l'ennesima escalation del conflitto mediorientale, quando #Israele ha lanciato un massiccio attacco aereo contro l' #Iran, mirato principalmente alle strutture nucleari e militari di Teheran. Le forze israeliane hanno colpito siti sensibili, distruggendo laboratori e centri di ricerca, nonché eliminando alcuni tra i principali comandanti delle Guardie della Rivoluzione, l'élite militare iraniana. Un colpo che ha scatenato una serie di reazioni internazionali. L'Iran, come prevedibile, ha replicato con una serie di droni che hanno tentato di colpire obiettivi strategici in Israele, gettando il paese in una nuova spirale di violenza.

Le parole di #DonaldTrump, che ha immediatamente espresso un sostegno incondizionato all'azione israeliana, hanno ulteriormente polarizzato il dibattito internazionale. Trump ha minacciato l'Iran con nuove offensive se non avesse accettato un accordo sul nucleare, aggiungendo così un ulteriore strato di complessità alla già tesa situazione geopolitica. L’appoggio degli Stati Uniti alla politica aggressiva di Israele sembra segnare il punto di non ritorno di un conflitto che ha radici profonde, alimentato da ideologie contrapposte e da interessi strategici divergenti.

Politicamente, l'attacco israeliano ha reso evidente l'intensificarsi della guerra a bassa intensità tra le potenze regionali. Israele, con la sua operazione “Leone Ascendente”, ha voluto chiarire una volta per tutte che non tollererà il programma nucleare iraniano, ritenuto una minaccia per la propria sicurezza nazionale. Questo attacco ha avuto l'effetto di indebolire momentaneamente l'Iran, uccidendo alcuni dei suoi strateghi più esperti e decimando parte delle sue capacità operative. Tuttavia, la risposta dell'Iran non si è fatta attendere: il lancio di droni ha avuto il chiaro intento di far capire a Israele che ogni azione avrà una controparte, anche se le capacità belliche di Teheran, pur impressionanti, non possono in alcun modo paragonarsi alla potenza di fuoco israeliana.

Le implicazioni politiche per il Medio Oriente sono incalcolabili. L'Iran ha immediatamente mobilitato le sue milizie alleate in Siria, Libano e Iraq, preparando il terreno per una possibile guerra per procura che potrebbe estendersi ben oltre i confini dei due paesi coinvolti. In questo scenario, la comunità internazionale rischia di assistere a una polarizzazione crescente, con i paesi arabi che, pur condannando l’aggressione israeliana, non sembrano disposti a schierarsi apertamente a favore di Teheran, temendo le ripercussioni di un allineamento troppo esplicito.

(IR2)

Moralmente, invece, l'attacco israeliano solleva interrogativi inquietanti sulla legittimità di un'azione preventiva, soprattutto quando si considera che l'Iran ha sempre sostenuto di non avere intenzioni belliche dirette contro Israele. Sebbene Israele possa giustificare il suo intervento come una misura di difesa preventiva, non si può ignorare la violazione della sovranità iraniana e il fatto che l’attacco possa generare un'ulteriore spirale di violenza e vendetta. La morte di alti ufficiali iraniani e scienziati nucleari potrebbe, inoltre, rafforzare la narrativa del martirio e alimentare il risentimento tra la popolazione iraniana, creando un ulteriore fossato tra l'Iran e l'Occidente.

Da un punto di vista etico, sorge anche la questione dell’equilibrio delle forze: mentre gli Stati Uniti e Israele vedono la sicurezza come una priorità assoluta, l'Iran non può fare a meno di difendere ciò che considera un diritto sovrano, ossia la propria capacità di autodefinirsi come potenza regionale. La domanda che sorge spontanea è quindi se la logica della deterrenza, che ha caratterizzato la guerra fredda, possa essere applicata efficacemente in un contesto così volatile e intrinsecamente pericoloso.

L'operazione ha accentuato le divisioni interne in Iran, dove il regime potrebbe trovarsi a fronteggiare un'ondata di proteste interne. La crisi economica che affligge Teheran, le sanzioni internazionali e il crescente malcontento popolare potrebbero minare ulteriormente la stabilità del governo. Tuttavia, un sentimento di orgoglio nazionale potrebbe temporaneamente consolidare il consenso interno contro l'invasore straniero, come spesso accade in contesti bellici.

In Europa, la situazione appare delicata. L'Unione Europea, da sempre promotrice di un approccio diplomatico e pacifico, si trova ora a dover navigare tra due fuochi: la necessità di mantenere relazioni economiche con l'Iran, e l'alleanza con Israele, che rappresenta uno dei suoi principali partner strategici. La Francia e la Germania hanno condannato l'escalation, chiedendo una de-escalation immediata, ma non sono riuscite a offrire una soluzione concreta. L'Italia, pur allineata in linea di principio con le posizioni europee, ha adottato un tono più cauto, sottolineando la necessità di una mediazione internazionale urgente per evitare che il conflitto degeneri in una guerra totale.

Il nostro stato si è trovato a giocare un ruolo delicato nel bilanciare il proprio supporto a Israele con l’esigenza di non alienarsi la cooperazione iraniana. Sebbene il governo italiano abbia espresso una condanna per l'aggressione israeliana, si è anche preoccupato delle implicazioni a lungo termine di una rottura totale tra l'Iran e l'Occidente. L'Italia, infatti, è da sempre favorevole a un approccio diplomatico per risolvere la crisi nucleare iraniana, e un’escalation militare potrebbe compromettere gli sforzi compiuti negli anni passati per stabilire un dialogo.

L’Unione Europea, nel suo insieme, ha rilasciato dichiarazioni ufficiali invocando una “de-escalation immediata”, ma la divisione tra i membri più favorevoli a un duro confronto (come la Polonia) e quelli più favorevoli a un negoziato (come l’Italia e la Spagna) è ormai palese. Il rischio è che l'Europa, incapace di adottare una linea unitaria, finisca per essere marginalizzata in un conflitto che potrebbe ridisegnare gli equilibri di potere nell'intera regione mediorientale.

L'attacco israeliano all'Iran ha profondamente scosso gli assetti geopolitici internazionali, mettendo in luce non solo le fragilità politiche e sociali dei protagonisti del conflitto, ma anche la difficoltà di una comunità internazionale a trovare un punto di mediazione efficace. Le conseguenze politiche, morali e sociali di questa nuova escalation sono ancora in divenire, ma una cosa è certa: l'Europa e l'Italia dovranno affrontare con urgenza la necessità di rinnovare i propri approcci diplomatici, se vogliono evitare che il conflitto si trasformi in una guerra su scala globale. La strada verso una stabilizzazione del Medio Oriente sembra sempre più incerta e tortuosa, e l'unica speranza risiede nel ritorno al dialogo e alla cooperazione internazionale.

#Blog #Iran #Israele #Medioriente #War #Guerra #Opinioni #Politica #Politics

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(167)

(MR)

Nel cuore impenetrabile della giungla malese, dodici intrepidi avventurieri affrontano un viaggio estremo, tra fango, sudore e liane, alla ricerca di un montepremi da dividersi alla fine del percorso. Ma non sono esploratori, non sono ex militari, e no, nemmeno boy scout. Sono... professionisti digitali. O qualcosa del genere.

I loro titoli? Un tripudio di inglesismi, abbreviazioni e parole che, messe insieme, sembrano generate da un algoritmo ubriaco: content creator, consulente creativo, digital strategist, autore di contenuti web, project manager di progetti fluidi (ma quali?). Alcuni sono “ex manager”, che non si capisce bene se vuol dire che hanno lasciato la scrivania o se è la scrivania ad aver lasciato loro.

Li vediamo marciare tra le zanzare e i serpenti come se dovessero raggiungere il Wi-Fi più vicino, mentre il sudore scioglie l’ultima traccia di ceretta alle sopracciglia e i loro zaini sembrano contenere più prodotti skincare che strumenti di sopravvivenza. Il vero pericolo, però, non è la natura selvaggia: sono le tentazioni.

Ad ogni bivio, una nuova prova morale: una bistecca tomahawk da 240 euro, una suite con aria condizionata e minibar, un massaggio balinese a otto mani. Se uno di loro cede – e, spoiler: cedono spesso – il montepremi si riduce. Tutti si indignano, ma poi, alla tentazione successiva, cambiano idea. Perché rinunciare a una Jacuzzi in mezzo alla giungla solo per lasciare agli altri qualche euro in più?

(MR2)

E qui sorge spontanea una domanda: se questi sono i lavori del futuro, noi che ci svegliavamo alle sette per timbrare il cartellino abbiamo sbagliato tutto? Forse. Ma resta il dubbio: cosa fanno, esattamente, queste persone?

Uno dice: “Creo contenuti emozionali per il web”. Che potrebbe voler dire scrivere una poesia, girare un reel con la nonna, o semplicemente filmarsi mentre beve un cappuccino con lo sguardo assorto. Un altro è “strategic planner esperienziale”, cioè, se abbiamo capito bene, organizza eventi dove la gente si sente ispirata a investire in sé stessa. Un terzo “ha lasciato la finanza per seguire il cuore”, e oggi racconta la propria trasformazione interiore tramite podcast. Spoiler: la finanza sembra sentirsi benissimo anche senza di lui.

Certo, i tempi cambiano, e non tutti devono sapere riparare un tubo o accendere un fuoco con due sassi. Ma in certi momenti – tipo quando piove da tre giorni e bisogna costruire un riparo – l’assenza di skill pratiche diventa più evidente del fard sbavato sulle guance. E la giungla, quella vera, non fa sconti ai CEO di sé stessi.

Alla fine, mentre il montepremi si assottiglia e le prove si moltiplicano, resta solo una certezza: nella giungla digitale di oggi, l’unica vera sopravvivenza è farsi notare. Anche se l’unica cosa che si è costruita, finora, è un profilo LinkedIn pieno di parole che non significano nulla.

#Blog #TV #Opinioni #SocialMedia #Reality

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(166)

(S)

Un'espressione letta in un articolo mi ha colpito in modo particolare: “L'omertosa apatia del piccolo trambusto quotidiano.” Felicissima intuizione linguistica che riesce a racchiudere in sé uno dei crismi su cui poggia la fertile e vigorosa baldanza del liberismo nostrano, quello che toglie i diritti ai lavoratori e non solo abolendo leggi, ma riducendo il mondo del lavoro, anche quello operaio (ci sono, ci sono: non fate finta di niente) a mera paccottiglia senza valore, neanche umano.

E' quel sentire assai comune che porta alla coltivazione del famoso orticello, che con la staccionata lascia fuori tutti i ragionamenti non adatti alla crescita del proprio benessere, della propria fetta intoccabile di piccoli e spesso inutili “privilegi”. Che, di solito, si formano sulla cenere dei diritti negati ad altri. Ma stando al di là della staccionata, sono chiacchiericcio confuso. Una brezza leggera.

E' l'oltre, la pigrizia di chi sta con il sedere al caldo (o che pensa di averlo coperto) e che può, tranquillamente, silenziosamente, fregarsene di vertenze durissime e dei dannati che sperano in un esito che restituisca un po’ di fiato. Questo sono i lavoratori dei gioielli da preservare della “cultura” del lavoro, della tradizione più autentica e genuina della laboriosità illuminata della parte sana del Paese. Peccato che, come in ogni famiglia, le magagne ci sono, ed enormi.

(S1)

Questo è un corollario. L'Italia vive su questa “omertosa apatia“: possiamo dire che si regge sulle spallucce, quel gesto del corpo che sta a significare “Che me ne frega?”. Sì, ovviamente sono dalla parte di chi ha problemi, sono sinceramente preoccupato dalla condizione di milioni di concittadini costretti praticamente alla povertà pur lavorando e mi indigno fortemente (come se questo cambiasse qualcosa per qualcuno, ma non mi limito.)

Però, fermi: cinque minuti, in pausa caffè. Stasera apericena e c'è la partita in TV (a pagamento). Nessuno è innocente, in un gioco al massacro che vede soccombere giornalmente centinaia di famiglie: nella cosiddetta “società del benessere”, del “Ci sarà chi se ne preoccupa”, di coloro che sanno cosa devono fare gli altri, ma che personalmente ha le mani legate e lo sguardo basso da partecipazione emotiva spinta e sincera.

In piazza, davanti alle fabbriche, a mandare messaggi forti, mettendoci il corpo, la faccia, la pelle possono scendere sempre gli altri di cui sopra. Bravi, ma senza fare troppo casino, che ci si infastidisce. Ben attenti e ribadire che c'è chi deve risolvere le cose: a modino, con quella pragmatica calma che non dia noia al superiore, che certe discorsi non si fanno. Noi si sta bene, ce lo siamo guadagnato.

In Friulano si direbbe “Lasse stà” (lascia stare). E' la resa incondizionata al complice modus operandi di tutta quella genia imprenditoriale che scrive i “Codici etici” delle aziende e poi chiama la questura, che accorre prontamente, se ritiene che qualche manganellata al posto giusto sia un metodo meno aulico, ma più efficace di far filare le cose nella maniera corretta. Che, guarda caso, è sempre e solo la loro.

Tanto, parliamoci chiaro: sono molti di più quelli cui non frega nulla. E si sa che la maggioranza è ben salda e protetta. Dal 2022 poi...

#Lavoro #Diritti #Italia #Opinioni

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(165)

(ODM)

Guardarsi l’ombelico, sui #socialmedia è diventata una delle dinamiche comunicative più evidenti e problematiche del nostro tempo. Si manifesta come una continua conferma del proprio punto di vista all’interno di comunità digitali omogenee, dove gli utenti si confrontano quasi esclusivamente con contenuti che rispecchiano le loro convinzioni. Questo fenomeno crea un effetto di “eco chamber” (camera dell’eco), termine coniato per descrivere gli ambienti chiusi in cui le opinioni vengono amplificate e rafforzate dal continuo rimando tra soggetti che condividono idee simili.

La dinamica ha conseguenze profonde sulla qualità del dibattito pubblico, in particolare su temi complessi e controversi come la politica, l’ambiente, i diritti civili o la scienza. L’autoreferenzialità riduce la possibilità di confronto, impedisce l’incontro con punti di vista differenti e genera una polarizzazione che ostacola l’approfondimento. I social media, in teoria, dovrebbero essere strumenti potenti per la condivisione della conoscenza e la promozione del dialogo, ma nella pratica spesso si trasformano in spazi di conferma identitaria, dove l’obiettivo principale è ottenere consenso e visibilità piuttosto che interrogarsi, dubitare o cambiare opinione.

(ODM2)

Secondo Eli Pariser, autore del saggio “The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You” (2021), gli algoritmi che regolano le piattaforme digitali personalizzano i contenuti che vediamo in base ai nostri comportamenti precedenti. Questo porta a una selezione automatica delle informazioni che rafforza la nostra visione del mondo e riduce l’esposizione a fonti alternative o critiche. E’ una bolla filtrante, dove ogni contenuto che entra è già stato pre-selezionato per piacere, non per stimolare il pensiero critico.

Il problema, dunque, non è solo sociale o culturale, ma anche strutturale: le stesse piattaforme sono progettate per massimizzare il tempo di permanenza degli utenti, non per favorire il confronto aperto. In questo contesto, l’autoreferenzialità diventa una forma di autodifesa e, al tempo stesso, di auto-promozione. Gli utenti non cercano un dialogo autentico, ma piuttosto la legittimazione della propria identità e delle proprie idee. Questo spiega perché spesso gli argomenti più seri vengano affrontati con superficialità o, peggio, strumentalizzati per ottenere like e approvazione.

Un altro contributo utile alla riflessione è quello di Sherry Turkle, psicologa e sociologa del MIT, nel suo libro “Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age” (2015). Turkle sostiene che la comunicazione mediata da schermo impoverisce la qualità del dialogo e porta a evitare i confronti più complessi, quelli che richiedono tempo, empatia e disponibilità all’ascolto.

Essere autoreferenziali rappresenta una piccola sfida per la democrazia e per la crescita culturale collettiva. Per andare oltre, è necessario sviluppare una nuova alfabetizzazione digitale, che insegni non solo a usare le piattaforme, ma anche a riconoscere i propri bias, a cercare attivamente il dissenso e ad apprezzare la complessità. Solo così i social potranno diventare davvero strumenti di apertura e non semplici specchi narcisistici.

E dato che tutti, prima o poi, ce la suoniamo solo per sentirci bene, più benvoluti, più apprezzati forse è il momento per cambiare musica.

#Blog #SocialMedia #Opinioni #Società

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(164)

(LGD)

Nel suo film del 2007 “La giusta distanza”, Carlo Mazzacurati narra la vicenda di un giovane apprendista giornalista, che non riesce, in merito ad un fatto di cronaca, a mantenere la “giusta distanza” dai fatti, come gli ha suggerito il suo mentore. Ovvero non riesce ad approfondire abbastanza quel che accade per averne una visione imparziale, il più possibile corretta e scevra da opinioni ed idee personali: quello che, nella teoria, ogni giornalista dovrebbe tendere a fare nel suo mestiere.

In Italia può essere portato ad esempio di come questo modo di operare sia, nei fatti, ignorato del tutto o quasi. Da parte di molte testate giornalistiche e di TG d'ogni canale è è un muoversi nelle direzioni più disparate: dapprima per rimanere “sul pezzo” e, passata la fase di picco a livello di notizia, per estendere all'infinito una serie di tematiche, perlopiù allarmiste e con un alto tasso di sensazionalismo, fino a coprire intere giornate di trasmissione.

E' anche un po' il limite, per esempio, dei canali “All News”, dove per ventiquattro ore al giorno si trasmette ogni sorta di dettaglio, di accadimento, di vocio per coprire la giornata intera. Reiterando all'infinito le stesse cose (non può accadere qualcosa di clamoroso ogni ora), si finisce con il “caricare” la notizia fino allo spasimo, spesso inserendo note di colore che rendono la narrazione volutamente altisonante, pervasiva, angosciante. Una estremizzazione indotta per mantenere attento lo spettatore.

(LGD2)

Chiaramente è una maniera d'operare affatto corretta e per quanto giornalisti ed opinionisti lo neghino, appare abbastanza chiaro che è un mare in cui a loro piace nuotare. Possiamo comprendere che sia più semplice fare così che mantenere quella distanza di cui sopra: si rischia, magari, la noia o una maniera troppo blanda di porgere le notizie e molte persone amano, inconsciamente o meno, il clamore e la chiacchiera, a discapito di coloro che, invece, vorrebbero leggere o sentire semplicemente ciò che è successo, senza fronzoli.

D'altro canto ognuno può essere un amplificatore dei fatti: basta un account su “Facebook” o su “X” dove riprendere e commentare ogni cosa venga detta, magari distorcendo ulteriormente le cose, caricandole con opinioni personali (cui si ha diritto) e facendo rimbalzare tutto ovunque. Una sorta di cerchio infinito in cui la sconfitta è l'informazione di qualità, quella cui dovrebbero sempre ambire tutti. Sarebbe un freno per un mondo già sovraccarico di input, dove siamo “bombardati” senza sosta, senza tregua di cose che ci sentiamo obbligati a seguire.

Un corto circuito permanente d'attenzione e di sovraccarico mediatico. E come ogni cosa portata all'eccesso, è un danno. Cui, temo, non si possa più porre rimedio, se non con la volontà personale di distaccarsi da questa narrazione sbilanciata, reinserendo nel proprio modo di informarsi una quanto mai necessaria dose di distacco e di ragionamento. Cose difficili da fare, faticose, ma non impossibili.

#Blog #Opinioni #Media #News #Informazione

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(163)

(X)

“X” non è più un #socialmedia. Ci sono voluti molti mesi dopo la fine di “Twitter” e l’acquisizione da parte di #Musk. Per arrivarci è stato necessario sopportare una campagna elettorale americana (di cui ci si potrebbe tranquillamente fregare) e la rielezione di uno come #Trump. Vedere il “paron del vapore” scodinzolare affettuoso con il nuovo Presidente, in compagnia di tutti gli altri miliardari della ex “Silicon Valley”, è stato il terzo ed ultimo atto della parabola discendente di questa piattaforma. Durante i mesi che hanno preceduto le urne, Musk ha donato soldi e fango a piene mani: tutto pur di compiacere un anziano “tycoon”, pregiudicato, scapestrato, ignorante e razzista. Non deve essere parso vero al fabbricante d’auto quando un tale soggetto, eletto da milioni di fenomeni uguali a lui, lo ha chiamato addirittura a far parte del governo. Sembra un film di quelli per la TV, sciatto e con una sceneggiatura ridicola.

(X1)

Eppure è così. Trump vuole ridare il diritto di parola, che nessuno ha mai tolto, all’America e un megafono come il social di Musk è lì, pronto e praticamente gratis. Via i controlli sulle fake news, via le restrizioni al linguaggio volgare, sessista e offensivo, via le moderazioni sulle vagonate di scemenze che scrive la gente: avanti con la libertà totale di insulto, con i contenuti pornografici e con un algoritmo talmente invasivo da diventare il vero gestore del tutto.

Quando “#Twitter” cambiò nome e dirigenza, molti se ne andarono perché non vedevano più quel social che avevano imparato ad usare (e amare?), quello vero, quello iniziale. Ancora più utenti resistettero, eroici, alle prime avvisaglie di disfacimento, arrivate con la personalità strabordante e cafona di Musk. Ma dopo il Novembre del 2024 tantissime persone hanno veramente raggiunto il limite di sopportazione ed hanno abbandonato la nave, che da allora batte decisamente la bandiera del “Non c’è nessun controllo.”

Dapprima gente famosa, poi moltissimi giornali, tanti attivisti e tante ONG hanno chiuso i loro account, seguiti dai profili della gente “comune”, stanca di continuare ad essere offesa, di non trovare più i post degli amici e di non uscire mai e poi mai sulla TL. Ormai conti, se l’algoritmo decide che sei utile allo sforzo propagandistico del vate o se, al contrario, sei talmente offensivo e razzista da veicolare un traffico importante. Il resto non serve a nulla: ci si illude per qualche giorno, magari con riscontri che appaiono gratificanti, per poi tornare a scrivere quasi solo per se stessi.

(X2)

Portiamo noi come esempio. Abbiamo perso più di trecento follower nel giro di tre mesi, ed eravamo a quota 7000: ogni giorno continua una lenta emorragia, che a volte si ferma e la rotta si inverte, ma non dura mai. I post sono visti al massimo 500 volte: le interazioni sono praticamente nulle e i commenti raramente raggiungono la decina. Questi sono gli aridi numeri, che, comunque, sono relativi. Non siamo su “X” per la fama e la gloria (magari i soldi…), ma per veicolare la nostra opinione su cose che riteniamo importanti. Anche per cazzeggiare, ovvio: è lo scopo esiziale di un social.

La cosa che fa propendere per la chiusura è che non si riesce ad interagire più. A parte fare decine di post al giorno per uscire, prerogativa di quegli sfigati degli influencer o di chi non ha altri impegni, dovresti commentare ogni tre secondi da qualche parte per avere un minimo di contraddittorio. Ma non era questo lo scopo dei social? Non era discutere, confrontarsi, anche incazzarsi? Se una formula matematica si mette contro questa cosa, il social non è più quello per cui è stato pensato: è solo un enorme frullatore di cose, alcune validissime, la maggior parte pessime, in cui si gira a vuoto senza alcun approdo. Ci ripetiamo: alcuni continuano bellamente a fare “numeri” enormi, ma sono sempre gli stessi e la maggior parte è schierata decisamente con Musk e il suo enorme conflitto di interessi.

Il tempo scorre sempre e solo in avanti (l'abbiamo già detto) e perderne troppo in rete è abbastanza stupido. Poi, per amor del cielo, ognuno è libero di fare e dire ciò che gli pare, ma davvero ha ancora senso stare su “X”? Non apriamo il capitolo delle alternative, perché resta nel campo delle scelte personali e proporre un social più di un altro è veramente assurdo. Però è arrivato il momento, anche per noi (Ale è silente da molti mesi, ma l’account è il suo), di dire “Stop.”

“X” è diventato politica e quella che a noi non piace, quella di una nazione che vediamo allo sbando, sempre più arrogante, cinica, spietata, esattamente come i suoi rappresentanti. E’ il covo di una informazione fatta di dichiarazioni rocambolesche, di gesti plateali, di offese continue a chi non si allinea, di razzismo evidente, di violenza verbale e non, di sdoganamento dell’inutile a sfavore della profondità.

Basterebbe questo a rendere la nostra decisione dovuta. Aggiungiamo anche che il fatto di non leggere mai le persone che abbiamo a cuore (ve lo ricordate, sì, l’algoritmo?), quelle a cui ci siamo affezionati e che stimiamo, rende tutto più frustrante. Ecco, è per loro che siamo rimasti finora: per quelle risposte, per le loro domande, per le nostre domande, per il sostenerci nei nostri ideali e nelle tante utopie. Mancheranno, tanto, ma proprio per la coerenza che dovrebbe sempre muovere le azioni di tutti, dobbiamo andarcene.

Le vie del web sono infinite. Magari percorrendone una meno battuta ci si ritroverà.

[Alessandra & Daniele]

#SocialMedia #X #Blog #Personal #Opinioni #Opinion

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(162)

CF)

[Poche considerazioni sulla tregua in Palestina.]

Il ministro di estrema destra #BezalelSmotrich afferma che approverà l'accordo sul cessate il fuoco a #Gaza e rimarrà al governo solo se #Netanyahu prometterà di “...riprendere i combattimenti per distruggere Hamas dopo la prima fase dell'intesa.” La tregua appena firmata vacilla sotto le voci di un di disallineamento su alcuni punti da parte di Hamas e, nel contempo, da dichiarazioni come questa. Netanyahu mantiene alta la tensione dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, che tutto questo è una concessione benevola alla #Palestina: in questi quindici mesi ha dimostrato, con azioni feroci e senza pietà, qual è il potenziale dell'IDF. La linea tracciata per il 19 Gennaio viene ancora superata dai continui bombardamenti su ciò che resta di Gaza e su #Jenin, in un delirio di onnipotenza bellica che rare volte si è visto negli ultimi anni. Come sempre, la popolazione inerme, stremata, affamata, umiliata da centinaia di giorni di massacri ed illusioni non sembra meritare di essere salvata. Se la tregua reggerà, la speranza di tutte le persone che hanno ancora un briciolo di umanità è quella che i 600 camion giornalieri di aiuti divengano anche di più. Però sappiamo che i governi occidentali, con pochissime eccezioni, non guardano a Gaza come a un obiettivo umanitario prioritario. Il fatto stesso che il 28 Gennaio Israele potrebbe rendere “UNWRA” un nemico ufficiale dello Stato dovrebbe restituire il senso di abbandono verso questa terra che nessuno si è premurato di contrastare. Questa “guerra”, in cui c'è un solo esercito e che ha mietuto decine di migliaia di vittime innocenti (sì, lo sono: non possono essere tutti terroristi) è un altro specchio di legno per le coscienze dell'Occidente. Gli #USA hanno tergiversato, concedendo, come sempre, un appoggio molto militare a #Israele, sempre nel nome di una democrazia come la loro, di invasione e sopraffazione. Trump inizia il suo mandato vantandosi di questo “successo” nella sua solita maniera, ovvero quella di un uomo rozzo ed arrogante, che dice chiaramente che il domani a Gaza sarà sotto il controllo armato di Israele. Con loro anche il Libano e chissà cosa altro. L' Europa, fiera di se stessa solo sotto le bandiere delle riunioni a Bruxelles, continua con la sua ignavia, per dire poco. In realtà non ha mai preso posizione contro il massacro dei Palestinesi, rifiutando di crescere come unione, solo per non disturbare la narrazione zeppa di retorica e pietismo di uno Stato che ha sacrificato milioni di vite sotto la peggiore dittatura della storia. Lo stesso stato che, ora, di fronte ad un mondo volutamente distaccato sta perpetrando una altra ecatombe, come se non avesse imparato nulla.

Ad oggi qui siamo, perennemente indecisi moralmente, sicuramente colpevoli di non aver fatto abbastanza affinché non ci fosse il 7 Ottobre e il suo disastroso seguito. Un “Cessate il fuoco” non basta, a questa gente che ha visto distruggere, decenni fa, la sua indipendenza. E non basterà allo sato di Israele, che sta scivolando verso una spaccatura interna che nessun premier, tantomeno Netanyahu, potrà bloccare.

Ci affidiamo, al solito, alla speranza di un buon senso che è scomparso ormai da molto negli avvenimenti del Medioriente. E' tutto quello che abbiamo, adesso.

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(161)

(R)

Abbiamo fatto talmente tanti propositi, buoni o meno, che ormai è inutile continuare. Come disse il più geniale dei quattro “La vita è quella cosa che accade mentre sei intento a fare altro”. E questa frase va bene per tutti, dal primo all'ultimo. Che, poi, le persone non si devono numerare, non si dovrebbe fare una classifica in cui qualcuno vale più di un altro. Una persona ha valore in sé, non per il suo status, per la sua “classe”, per i soldi che ha o che non ha, per il suo essere considerato qualcuno. Che, poi, “... è proprio obbligatorio essere qualcuno?”, citando un personaggio di fantasia, ma che la sapeva lunga. Essendomi giocato tutte le citazioni fino al 2025 è meglio procedere.

Tolti i propositi, restano i bilanci. Sono anche più insidiosi, perché incitano ad una riflessione, sempre ammesso che vi siano stati degli obiettivi da raggiungere. Un modo per disfarsi di eventuali calcoli a somma zero della propria esistenza fino al 31 Dicembre 2024, è quello di provare a capire come sia andato il nostro paese, quello che – perlomeno – siamo riusciti a guardare, sentire, commentare fino ad oggi. E’ più semplice e permette un bel po’ di ipocrisia e di sproloqui di parte.

Che dire, se non che quest’anno, per l’Italia, patria molto parca di soddisfazioni (eliminiamo dal contesto lo sport, per piacere), ma fonte pressoché inesauribile di ansie e di disfunzioni a tutti i livelli, è stato pessimo? Per par condicio devo scrivere che quelli prima della Meloni erano praticamente la stessa cosa: non c’entra – non del tutto – l’attuale governo, che pure ha fatto e sta facendo sfracelli e non è un complimento. Loro accampano la scusa di aver ereditato i disastri dagli anni passati, quelli prima da quelli prima e via così fino a Romolo e Remo. Poi basta, che c’erano altri di cui non ricordiamo un nome uno.

Probabilmente è il fatto che l’età avanza, gli occhi sono sempre più malandati e la pigrizia non ha diete da fare, ma le cose, là fuori, sembrano più scure, più sfrangiate, più vaghe seppur in tempi di sapienza da “Wikipedia”. C’è quel vago sentore di marcio che accompagna molti accadimenti politici, che ben si somma con la pochezza e la sciatteria di una “classe dirigente” imborghesita male, malissimo. Rialzano la testa anche coloro che non ne avrebbero diritto, depositari di vecchie glorie rattoppate, di miasmi patriottici mal gestiti e peggio compresi.

(R2)

Il tutto sdoganato da un impoverimento culturale che fa sì che la misura più profonda del sapere sia quella di un pozzanghera. Acqua sporca di rimando, da citazione googlata, da ansia da prestazione per un like, per mille o diecimila approvazioni, per concedere all’illusione di contare quasi tutto ciò che abbiamo, soprattutto il tempo, una delle poche cose che vale moltissimo, ma che viene sperperato come se – davvero- non ci fosse un domani. Come l’acqua, che davvero non c’è, o come i disastri del clima che, invece, abbondano e continueranno a moltiplicarsi.

Ma perché sia tutto perfetto, un quadro deliziosamente completo fin nei dettagli, ammazziamo centinaia di migliaia di nostri simili (simili in tutto, ma proprio tutto) con metodi tradizionali e collaudati, o con nuove invenzioni apocalittiche. Tanto siamo troppi e la denatalità è un problema: come sbattere su un muro a trecento all’ora, ma lamentandosi del colore dei mattoni. Il tutto, sia detto, allegramente, che certezze ce ne sono: il calcio, la pausa caffè e gli altri, tutti coglioni.

Mentre ci mangiano gli stipendi, facendoli decrescere per distinguerci dagli altri (orgoglio italiano), ci mandano a curare anche un taglietto fatto con la carta dal professorone a casa sua, e provvediamo ad arredargliela con la parcella. Lo stesso che poi, in uno slancio di benevolenza falsa come i suoi denti, si mischia al popolino nelle corsie di ospedali sempre più modello “quarto mondo”, regni del rischio non calcolato, delle pareti piene di muffa e dei nomi di santi sempre più ridicoli nella loro inutilità.

Ma la barca va, magari fino in Albania, navigando di bolina e sconfiggendo la fastidiosa ritrosia di alcuni italiani a buttare i soldi dalla finestra, che almeno avvertissero, così ci mettiamo sotto. E’ essenziale rifornire l’ego delle masse votanti, dandogli molto circenses e poco panem: a stomaco vuoto si è accondiscendenti, educati e servili come da manuale. Perciò liberi di manifestare, ma a favore: quelli che non si allineano li mettiamo in quelle galere dove muoiono centinaia di persone all’anno, come in un film fatto male, ma molto realistico.

E senza sembrare troppo cattivi, l’assoluzione di uno che potrebbe fare poco, in qualsiasi campo, ma fa il ministro, non è altro che la riprova che il gattopardo non è un animale in via di estinzione: si riproduce in cattività con molta frequenza e tutti i morti nei nostri mari non lo riguardano. Si nutre del razzismo, della bassa intelligenza e della stupidità. Tutte cose che abbondano, in Italia.

Il 2024 è anno bisesto, quindi funesto: lo dicono tutti, perciò è vero, ci hanno fatto i meme. Accogliamo il 2025 che sarà meglio. Ma perché è difficile fare peggio o solamente perché su “X” ancora non hanno fatto l’oroscopo? Stiamo tranquilli. Sedati, rincoglioniti, italiani.

“Recitando un rosario di ambizioni meschine di millenarie paure di inesauribili astuzie Coltivando tranquilla l'orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta come una malattia come una sfortuna come un'anestesia come un'abitudine.”

(“Smisurata preghiera”, di Fabrizio de Andrè e Ivano Fossati, 1996).

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