Di dati, commenti ed analisi al voto di ieri ne potete trovare a migliaia ovunque. Non servono di certo le nostre. Quelle che seguono sono solo considerazioni personali, se volete più astratte, ma non per questo meno sentite.
La retorica dei vincitori, come quella dei vinti, sarà il nocciolo comunicativo nelle ore a venire. Tralasciando il fatto che i dati sono impietosi, si continua a perdere di vista (e da molti anni, ormai) il vero centro della questione politica in questo paese, ovvero quella di uscire da una continua emergenza di valori e priorità. Se pur è noto che ciò che dovrebbe muovere chi sceglie l'agone pubblico è un reale interesse per i bisogni della nazione e della sua popolazione, si tende a definire più marcatamente una distinzione tra necessità reali e percepite. Fuori dalla stagnante ipocrisia dei palazzi non ci si sporca oggettivamente le mani: sembra esistere un popolo, una massa di persone cui dedicarsi, ma che non ha una definizione.
Non possono esistere necessità secondarie per milioni di persone cui sono erosi diritti e dignità a favore della visione acclarata di un'Italia che desidera vivere ben al di sopra delle sue possibilità. Certo, nei discorsi, nelle comparsate in televisione, sui disgraziati post di “Facebook” sembra il contrario. Basterebbe, però, fare uno sforzo in più per superare queste barriere dialettiche e di immagine per ricordarsi di tutti coloro che non hanno certezze, ma che masticano precarietà e delusione ogni giorno. La barca fa acqua ovunque: nelle cabine più costose si ha il diritto di non pensare, dato che non è obbligatorio avere empatia con nessuno.
Quello che la politica ha smarrito è l'ideale democratico (*) dell'avversione all'appiattimento, alla comodità. Riforme e controriforme mancano il bersaglio, costrette, ingabbiate da opportunismo e finanche atteggiamenti realmente delinquenziali. Ammorbiditi dalla nostra famosa indole del “...lascia perdere” tutti questi sbalzi, questi scivoloni finiscono nell'abnorme mucchio delle possibilità perdute, che contrasta con quello ancora maggiore di una deriva morale ed economica raccapricciante. E dato che la morale non è unica, per fortuna, quella migliore resta quella della sopraffazione. Una dittature, come scrivevo, non la bella democrazia da fatine.
Rivendicare un primato che esclude qualcuno (chiunque) è un fallo in partenza, da espulsione, non da ammonizione. Errore in cui sono caduti tutti coloro che hanno provato a essere realmente politici, realmente al di sopra di se stessi, al servizio di una comunità vasta come quella di uno Stato. Non si impara da questo abbaglio: la luce è talmente forte che non si distingue nulla. Le persone stesse che votano avrebbero tutto da guadagnare a ricominciare a pensare che non si esce da questo disastro da soli, che non esistono politici che possono realmente cambiare tutto. Solo ed unicamente una coscienza di nuovo libera da costrizioni materiali e da pressioni perbeniste (soprattutto cattoliche) potrà riaprire la porta ad un cambiamento tangibile.
Insomma, per essere banali, non dipende solo da quei due pezzi di carta con una “x”. Anzi, forse quella è la cosa più semplice. Dipende sempre e solo da noi, come singole parti di un tutto che non può più permettersi di esistere come vuota sintassi, ma che deve assolutamente divenire moto reale, pratica quotidiana, pensiero forte. Dipende da quanto vogliamo che il tempo che ci è concesso sia fruttuoso e non semplicemente speso ad aspettare il meno peggio, aggrovigliati su se stessi, senza alcuna prospettiva. Una elezione passa, come ogni cosa di questo mondo. A meno di non credere nell'immortalità è meglio rimboccarsi le maniche e lasciare una traccia di intelligenza per coloro che verranno.
(A&D)
(*): tenete conto che il termine “democrazia” evoca scenari ipotetici e perfetti, quando la realtà è quella di infiniti toni di grigio che sfumano dittature velate.
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