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duemiladieci

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A tre anni di distanza da “The Boxer” è uscito “Hight Violet”, quinto disco dei The National, band originaria di Cincinnati. Il disco pur senza particolari originalità è senz’altro tra i più ascoltabili di questo ultimo periodo.

La particolarità del suono “The National” è la bella voce baritonale di Matt Berninger che attraverso il suo modo di cantare ha creato un marchio di forza appiccicato al gruppo. “High Violet” è un disco molto piacevole, e volendo inquadrarlo in qualche stile sonoro, per quanto non sia facile, nel loro sound riecheggia un misto di New wave con qualche spruzzatina di folk il tutto innaffiato da un buonissimo easy-rock.

Tutte le undici canzoni del disco sono di buona fattura, non ci sono quindi momenti di “stanca” e l’album si fa ascoltare dall’inizio alla fine. Ascoltandolo e riascoltandolo molte volte e in situazioni diverse, la cosa che si evidenzia è la peculiarità del suono che sembra appartenere effettivamente alla realtà del momento.

Notturni e per certi versi introspettivi sono la colonna sonora che accompagnano i giorni nostri. Nei poco più di quarantacinque minuti di “High Violet” l’aria che si respira non è certamente di rivoluzione musicale anzi, qui si parla di conservazione musicale più che altro. Le loro canzoni sono lo specchio dei tempi che viviamo, appartengono al sociale odierno, come dire: così è.

Il fatto è che, pur senza grande originalità, i brani che creano gli sanno fare bene, eccome, e alla fine musicalmente parlando questo fa la differenza. Il disco è superbo, il suono è affascinante, e ascolto dopo ascolto entra nell’epidermide, scaturendo sensazioni e vibrazioni profonde. Bravo e bravi.

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Bello il titolo e ancor più bello il disco di Peter Wolf “Midnight Souvenirs“.

Non si può certamente dire che il nostro sessantaquattrenne cantautore non abbia rispettato il motto di “pochi ma buoni” perché infatti nei venticinque anni di carriera musicale la sua produzione discografica non ha riempito i scaffali dei negozi di dischi e neanche le tasche della sue case discografiche. Ha inciso infatti solo sette album, l’ultimo “Sleepless” risale a otto anni fa ed è considerato tra i primi 500 album di tutti i tempi per la rivista Rolling Stones.

Il comun denominatore delle quattordici canzoni che compongono l’album è la semplicità. I brani in effetti non sono particolarmente elaborati o tecnicamente innovativi anzi, per la loro struttura a volte sembrano un po’ “easy” come dire “di facile ascolto”. Ed è proprio questo che aumenta il valore artistico dell’album: creare facili canzoni senza per questo scadere nelle canzonette commerciali e superficiali. La mancanza di “appariscenza” ha frenato parecchio la scalata dei suoi dischi nelle classifiche di vendita anche se Wolf, pur consapevole, non me è mai stato interessato.

Wolf è un tradizionalista, un rock roll vecchio romantico, appartiene alla classe dei suoi coetanei Dylan e Springsteen e se il confronto sembra azzardato, visto che la maggior parte delle persone nemmeno lo conoscono, non lo è certo per i cultori della buona musica. Molto probabilmente la sua poco popolarità è sempre stata dovuta ad un eccesso di onestà e di integrità, fattori che poco vanno d’accordo col show business.

Le canzoni di “Midnight Souvenirs“, scivolano via una ad una nel cd player, senza noia, ognuna con una propria “vita”, con una propria storia e una propria struttura. I brani sono variopinti e passano per atmosfere emozionali senza fronzoli, toccando stili musicali diversi. La maturità e l’esperienza di Wolf è palpabile e la si sente nella voce, nei testi e nelle sonorità. Probabilmente nemmeno questo disco scalerà le classifiche dei dischi più venduti, di sicuro però, suonerà parecchio nelle nostre playlist.

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E’ noto che Peter Gabriel sia piuttosto parco nella produzione musicale, infatti l’ultima sua incisione risale a otto anni fa. Dopo quattro album intitolati con i numeri: 1, 2, 3 e 4 e altri tre con le sillabe: So, Us e Up, questo è il primo disco che ha un nome più comune: Scratch My Back che, non a caso, è un album di cover, quindi canzoni di altri musicisti. Gli stessi musicisti sono stati chiamati poi in causa per contraccambiare “il progetto” incidendo delle canzoni sue.

Un album di cover fatto da Gabriel è però cosa diversa. I dodici brani presenti nel disco vengono completamente stravolti e arrangiati in maniera quasi irriconoscibile; pianoforte e archi sono il comun denominatore.

Il disco che necessità di un ascolto non superficiale, fa però sentire subito la sua profondità. Ogni brano che Gabriel prende in considerazione viene sviscerato, scarnificato, pulito fino all’osso. Con attenzione ad ogni minimo particolare, ogni canzone viene rivisitata, estrapolata dalla sua originale collocazione e portata in alti emisferi.

Passiamo al contenuto.

Le dodici canzoni del disco fanno parte alcune del passato ed altre di un recente appena trascorso, ma tutte sembrano scorrere in un binario appena costruito appositamente per loro, come se facessero parte di un treno dove Gabriel guida la motrice e i vagoni sono le canzoni tutte legate tra loro ma ognuna diversa.

Il primo brano è Heroes di David Bowie, canzone che non ha bisogno di presentazione quant’è conosciuta. Gabriel, minimizzandola, riducendola al massimo, con l’uso degli archi e alla sua voce unica, la fa sua. Grande partenza che ci fa ben sperare. Anche The Boy in the Bubble di Paul Simon viene spogliata dal suo originale suono “africano” e prende delle somiglianze oniriche, altro grande brano. Mirrorball degli Elbow, band inglese, viene romanzata a ‘mo di colonna sonora. Il brano si mantiene collegato agli altri due “vagoni” e prosegue nel “binario” immaginario sopra descritto. Con Flume di Bon Iver, giovane cantautore statunitense, c’è un leggero assopimento, niente di grave, anzi, il livello musicale si mantiene sempre sopra la media. E’ con Listening Wind dei Talking Heads che Gabriel ci riporta di nuovo in corsa. Il brano è magico, l’atmosfera che si respira è unica. Grande canzone. Si passa alla sesta canzone del disco ed è sempre ottima musica, il brano di Lou Reed è The Power of the Heart ed è tra i top del disco. Nel brano riecheggia l’anima di Reed ma Gabriel se ne appropria volontariamente come una gemma da incastonare. My Body is a Cage degli Arcade Fire è forse tra i brani che preferisco. Gabriel regala la sua interpretazione con un occhio di riguardo per questo gruppo. Il brano è intriso di pathos e allo stesso tempo raggiunge punte di alta interpretazione musicale e vocale. The Book of love dei Magnetic Fields è il brano di punta del disco, quello che per così dire tira nelle radio. Il brano è indubbiamente bello e ben costruito, orecchiabile al punto giusto senza guastare i padiglioni auricolari. Le prossime due canzoni: I think it’s goig to rain today di Randy Newman e Après Moi di Regina Spektor (bello il suo ultimo disco: Far, del 2009) rallentano un po’ la corsa di questo ipotetico treno, non drasticamente però. I due brani vengono “introspettati” da Gabriel, vengono portate alla luce quelle emozioni tenute nascoste quasi per pudore dai due originali autori. Siamo alla fine con le ultime due canzoni: Philadelphia di Neil Young e Street Spirit dei Radiohead. Sono forse i due brani più difficili dell’intero disco e come tali vanno ascoltati diverse volte per scoprirne le varie sfumature. Rivoltati fino a farne uscire le sonorità tipicamente “Gabrielliane”, in queste due canzoni più che nelle altre dieci, Gabriel ci mette tanto impegno da renderle uniche e splendide, quanto lo sanno fare i musicisti originali.

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